Rassegna 2021

Rassegna 2023, 2022 e 2021: gli articoli più importanti dell'anno


Autore: Alma Chiettini 15 dic, 2023
Cass. Civile, Sez. Unite, 11 dicembre 2023, n. 34452 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, finalmente, dopo un persistente contrasto interno alla Sezione tributaria, si sono pronunciate sulla vexata quaestio della corretta distinzione tra crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti. In questa rubrica già si è dato conto della sentenza della V sezione n. 34445 del 2021 , la quale affermava che aveva “senso logico-giuridico” la distinzione - in passato però disconosciuta - tra “credito non spettante e/o non utilizzabile” e “credito inesistente”. Successivamente, tuttavia, tale nuovo orientamento era stato disatteso con la pronuncia n. 25436 del 2022 ma poi condiviso dalla pronuncia n. 5243 del 2023. E ora l’articolata sentenza qui segnalata ha argomentatamente approvato “il nuovo approccio ermeneutico”. La Corte di legittimità ha verificato l’oggetto differente e i caratteri distintivi delle due fattispecie ed è giunta ad affermare che la distinzione, “recepita positivamente”, si ricava non solo dal dato letterale delle norme ma anche dai criteri di coerenza e di razionalità del sistema nonché dalle finalità obiettive perseguite dal legislatore. A) - La nozione di credito d’imposta inesistente è contenuta nell’ art. 27, commi da 16 a 20, del d.l. n. 185 del 2008 e, a seguito della modifica operata con il d.lgs. n. 158 del 2015, nell’ art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 , il quale “ha solo confermato e precisato quanto già desumibiledall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008” puntualizzando che “il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e tale inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli c.d. automatizzati”, con la specificazione che “l’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti - quello strutturale interno correlato al singolo credito e quello strutturale esterno di portata generale - per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività”; il credito va dunque considerato inesistente, e per l’accertamento della condotta di indebita compensazione si applica il termine lungo di otto anni (di cui all’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008), quando: --- le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere; qui la sentenza enuclea alcune ipotesi, fra le quali le più radicali riguardano il caso in cui la fattispecie che fonda il credito d’imposta non sia mai venuta a esistenza e i casi di crediti generati da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti; --- sono assenti le condizioni essenziali , formali o sostanziali, previste dal legislatore; qui la sentenza presenta un utile elenco esemplificativo dei parametri strutturali, di carattere generale, che portano a ritenere inesistente un credito di imposta, ossia individua gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva (talvolta l’istanza del contribuente, oppure la previsione di obblighi di facere e/o di non facere , oppure l’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive) e, per converso, anche gli elementi con carattere meramente accessorio (quali l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore) i quali non incidono sulla “non inesistenza” del credito; --- quanto alla condizione del mancato riscontro formale , essa ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata. Da questa ricostruzione dell’istituto deriva che se sussiste il primo requisito (mancanza del presupposto costitutivo) ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda non crediti inesistenti ma crediti non spettanti . B) - La nozione di crediti d’imposta non spettanti (che assume, pertanto, “rilevanza residuale”) è considerata dall’ art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 471 del 1997 , che punisce l’utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta in misura superiore a quella spettante, o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti; inoltre, in assenza di uno dei due requisiti citati al comma 5 dello stesso art. 13 e sopra menzionati (il presupposto costitutivo «e» l’oggettivo riscontro con controlli c.d. automatizzati) il credito non può qualificarsi come inesistente. Per il suo accertamento vale l’ordinario termine stabilito dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale distinzione influisce sul regime sanzionatorio applicabile: l’indebita compensazione di crediti non spettanti è soggetta alla sanzione del 30% dei crediti stessi, a fronte della sanzione dal 100% al 200% (e del 200% per l’art. 17, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008) prevista in caso di crediti inesistenti. In conclusione le Sezioni Unite hanno formulato il seguente principio di diritto : « in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 ovvero dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 qualora ratione temporis applicabile ».
Autore: a cura di Roberto Lombardi 04 dic, 2023
Sentenza del TAR Campania, Sez. III, n. 5817 del 2023 IL CASO E LA DECISIONE A Napoli, la società titolare del marchio Scaturchio (marchio molto noto localmente nel settore alimentare) ha provato ad aprire un nuovo locale in via San Gregorio Armeno , ovvero la famosissima "via dei presepi", dopo avere ottenuto il parere favorevole della Soprintendenza competente. Tuttavia, la segnalazione certificata di inizio attività - SCIA ‐ è stata ritenuta inefficace dal Comune partenopeo, con conseguente inibizione dell'esercizio dell’attività stessa, sulla base di nuove disposizioni comunali nel frattempo intervenute. La motivazione sarebbe consistita nel fatto che via San Gregorio Armeno costituisce, come contesto viario, un unicum in cui non possono essere svolte attività che non siano quella artigianale legata all'arte presepiale, e ciò al fine di tutelare il patrimonio artistico, culturale, monumentale e architettonico in un’area considerata e protetta dall’ UNESCO come “buffer zone” (zona cuscinetto). D'altra parte, la società interessata all'apertura di un nuovo punto vendita alimentare con il marchio Scaturchio si era nel frattempo persuasa che la sua iniziativa rientrasse nel regime transitorio della nuova disciplina applicativa del divieto. Secondo tale regime erano da ritenersi esclusi dal divieto stesso le nuove aperture per le quali, alla data di entrata in vigore della norma ostativa, risultava in corso di svolgimento l' attività preparatoria di investimento preordinata all'apertura stessa. Su questi presupposti, la società colpita dall'inefficacia della SCIA presentata ha impugnato la nota comunale a sé sfavorevole dinanzi al Tar per la Campania, ritenendo da un lato di rientrare nel regime transitorio (e che tale regime si applichi anche a via San Gregorio Armeno), e, dall'altro, più in generale, che un punto vendita Scaturchio, in quanto marchio storico, non sarebbe incompatibile - per il valore espresso in termini di tutela - con l'unicità del contesto cittadino della “via dei presepi”, dovendosi in senso contrario considerare come irragionevole e sintomatica di disparità di trattamento una soluzione che avesse escluso soltanto questa via (e non anche, ad esempio le vie limitrofe) da una tutela "temperata" dalla necessità di garantire alle realtà commerciali che già avevano investito in nuovi contesti territoriali l'apertura di attività, anche se non strettamente correlate con l'arte presepiale. Il Tribunale di primo grado, con decisione non sospesa nelle more dal Consiglio di Stato, ha respinto tuttavia il ricorso, stabilendo che a San Gregorio Armeno, anche in virtù della tutela rafforzata e parametrata alla vocazione di artigianato tradizionale della strada, non si applica la disciplina transitoria invocata dalla ricorrente. In altre parole, secondo il Giudice partenopeo, la disposizione specifica su San Gregorio Armeno avrebbe introdotto un divieto assoluto di apertura di nuove attività che non fossero quelle tipiche del posto (vale a dire: arte presepiale). Né avrebbe rilievo, rispetto all'esito del giudizio di legittimità, il fatto che la proposta originaria del Comune alla Giunta regionale era nel senso di escludere dall'applicazione dei divieti tutte le aperture di nuove attività con investimento già avviato alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, senza ulteriori distinzioni. A questo riguardo, il TAR ha precisato che la disamina del testo finale - e non della bozza di proposta – rendeva evidente che il Comune avesse dettato per via San Gregorio Armeno una disciplina che esclude ogni attività diversa da quella di produzione e/o vendita di pastori dell'artigianato presepiale, senza consentire alcun eccezione, nell'esercizio di una discrezionalità legittima, anche in riferimento alla particolare tutela richiesta dalla Soprintendenza proprio in ordine a San Gregorio Armeno, quale sito esemplificativo della necessità di protezione rafforzata. D'altra parte, sempre secondo il Giudice di primo grado, se la Regione avesse ritenuto di opporre un contrario avviso alla proposta del Comune, non avrebbe reso l'intesa incondizionata su tale proposta. In ultimo, avere imposto una tutela rafforzata ed esclusiva di un'unica particolarissima strada non è da considerarsi irragionevole, in quanto eccezione ad una regola che prevede invece, e in linea di massima, il contemperamento massimo della tutela del bene culturale-strada e delle iniziative imprenditoriali che con esso interagiscono. DISCREZIONALITA’ E PROPORZIONALITA’ Nel caso esaminato dal Tar Campania, sede di Napoli, al di là dell’interpretazione della disciplina specifica attuata dal Comune partenopeo e del perimetro derogatorio contenuto nel regime transitorio di tale disciplina, vengono in rilievo alcuni profili direttamente confinanti con la tematica della proporzionalità dell’ agere pubblico. Tale criterio si pone infatti come limite della discrezionalità amministrativa , quando, oltre al vaglio della migliore scelta da operare, l’ente pubblico si deve confrontare anche con il minore sacrificio possibile del soggetto privato su cui quella scelta va a impattare. D’altra parte, è incontestabile che via San Gregorio Armeno rappresenti una strada unica al mondo, e la stessa parte ricorrente non ha sostanzialmente potuto confutare detta inequivocabile circostanza se non sostenendo che anche il marchio “Scaturchio” sarebbe un marchio storico, degno a sua volta di una tutela preferenziale. Il Giudice di primo grado ha peraltro escluso un’equiparazione tra le due situazioni, o comunque una compatibilità tra le stesse, in quanto Scaturchio è un marchio attinente al settore alimentare e non ha diretta attinenza con l’arte presepiale. Occorre dunque domandarsi, in chiave critica – ma il profilo è stato scarsamente approfondito nelle difese di parte ricorrente –, se sarebbe stata possibile una lettura unitaria delle disposizioni esaminate dal TAR, nel momento in cui erano chiarissime, tali disposizione, nel contemperare le esigenze di preservazione di moltissimi quartieri di Napoli, “ oggetto, da anni, per ragioni essenzialmente turistiche, di proliferazione incontrollata di attività a carattere esclusivamente commerciale e lucrativo, che tendono a far scomparire i locali e le attività storiche e tradizionali ”, con la tutela delle attività commerciali stesse e finalizzate al turismo. In particolare, la domanda a cui forse non è stata data risposta in sentenza è la seguente: può il Comune vanificare gli investimenti già programmati e (in parte) effettuati, per lo svolgimento di attività alimentari e di somministrazione di alimenti e bevande in determinati siti (musei, librerie, stazioni, strade storiche, etc.) senza una motivazione rafforzata e una verifica in concreto della compatibilità delle attività frutto di investimenti con la particolare caratterizzazione del sito stesso? E qualora ciò fosse pure possibile per la straordinaria valenza storica e culturale dell’ambiente cittadino da preservare, quali sono i limiti entro cui il fine desiderato (tutela al massimo livello possibile) può essere perseguito? Viene in particolare rilievo, a questo proposito, il principio di proporzionalità in senso stretto , secondo cui non si deve imporre ai privati un onere eccessivo rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere. Sotto questo limitato profilo, non pare che inserire all’interno di una sede viaria storica un marchio alimentare, anch’esso storico, scalfisca sensibilmente l’obiettivo di tutela perseguito – laddove ci sia la possibilità materiale di innestare nel circuito urbano di riferimento mezzi e attività -, mentre discorso diverso e più delicato sarebbe inferire da una possibile concorrenza indiretta sul posto il danneggiamento dell’attività tutelata e, ancor di più, un ulteriore aumento di caos e traffico pedonale nei periodi “critici”, circostanza, quest’ultima, che dovrebbe essere affrontata, peraltro, con gli ordinari “strumenti di contenimento” a disposizione della polizia locale.
Autore: a cura di Paolo Nasini 02 dic, 2023
Tribunale di Como, sez. II, 12 settembre 2023, n. 972, est. Nicoletta Riva IL CASO Il giudizio è stato instaurato dalla società Banca Farmafactoring Spa nei confronti del Comune di Lambrugo per sentire accertare e dichiarare il diritto della predetta ad ottenere il pagamento da parte del Comune di Lambrugo di una serie di crediti, dei quali la prima era divenuta cessionaria. Il Tribunale ha accolto la domanda, condannando il Comune al pagamento di euro 36.370,10, oltre interessi di mora come contrattualmente dovuti fino al saldo. La questione rilevante che il Tribunale ha dovuto affrontare concerne l ’efficacia della cessione del credito oggetto del giudizio e la legittimazione attiva dell’attrice ad agire nei confronti del Comune, quale debitore ceduto. Secondo quanto sostenuto dal Comune, infatti, dalla lettura in combinato disposto dell' art. 69 della legge sulla Contabilità di Stato (R.D. n. 2440 del 1923) e dell' art. 9, l. n. 2248 del 1865, All. E , il trasferimento di un diritto di credito vantato nei confronti della P.A, oltre a richiedere la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata (art. 69 R.D. 2440/1923), necessiterebbe anche dell' accettazione dell'amministrazione e, dunque, nel caso di specie, del Comune di Lambrugo, il quale ha invece eccepito non solo di non aver mai espresso tale giudizio favorevole, ma, in aggiunta, di aver rifiutato la cessione del credito oggetto del procedimento in questione. LA SOLUZIONE Il Tribunale, in punto di fatto, ha rilevato come il documento allegato dal Comune convenuto non esprimesse in modo chiaro ed evidente il rifiuto dello stesso alla cessione del credito, ma che, al contrario, occorreva un percorso interpretativo piuttosto elaborato e difficoltoso perché si potesse affermare la sussistenza di un rifiuto della predetta cessione del credito. Sul piano strettamente giuridico, invece, il Tribunale ha affermato che la regola dettata dall’art. 69 R.D. 2440/1923 (oltre che l'applicazione della legge n. 2248 del 1865) non riguarda le cessioni di crediti vantati nei confronti di enti pubblici locali , come nel caso del Comune resistente, tale normativa essendo riservata alla sola Amministrazione Statale. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che ‹‹ l'art. 69 del r.d. n. 2440 del 1923 - che richiede, per l'efficacia della cessione del credito di un privato nei confronti della P.A., che detta cessione risulti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata da notaio e che il relativo atto sia notificato nelle forme di legge - è norma eccezionale che riguarda la sola amministrazione statale ed è pertanto insuscettibile di applicazione analogica o estensiva con riguardo ad amministrazioni diverse, sicché esso non si applica neppure nei confronti delle aziende sanitarie locali che, sin dalla loro istituzione, sono enti pubblici estranei al novero delle amministrazioni statali ›› (Cass. Civ, Sez. 3, ord. 21 luglio 2017, n. 30658). Il Tribunale, quindi, ha riconosciuto la piena efficacia della cessione del credito prodotta da parte attrice, quest’ultima essendo legittimata attiva ad agire nei confronti del Comune debitore ceduto. Nel merito, poi, il Tribunale, applicando le regole generali dell' inadempimento contrattuale - secondo cui, mentre il creditore può limitarsi a provare la fonte del proprio diritto, a carico del debitore grava l'onere di provare i fatti estintivi, modificati e impeditivi della pretesa -. ha ritenuto che le anomalie nell'erogazione delle forniture che la società cedente doveva garantire all'ente convenuto, così come documentate da quest'ultimo, non fossero sufficientemente dimostrate, non essendo soddisfacente ai fini dimostrativi la sola allegazione di una relazione di parte redatta dal responsabile del Servizio del Comune di Lambrugo, con la quale viene sottolineato che la cedente non ha fornito il servizio contrattualmente statuito. Il Tribunale ha infine ritenuto non accoglibile l’eccezione del Comune anche in ordine alle anomalie di servizio e all'ammontare del credito.
Autore: a cura di Vittorio Russo, avvocato e consulente parlamentare 02 nov, 2023
PREMESSA Agli albori della nuova legislatura è stato presentato il disegno di Legge costituzionale n. 13 , che prevedeva un solo articolo destinato a modificare l’ articolo 33 della Costituzione , con l’aggiunta, in coda al testo vigente, di una importante affermazione sul riconoscimento del valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico, da parte della Repubblica, dell’attività sportiva in tutte le sue forme. Con tale disegno è stata confermata la volontà - già espressa nella passata legislatura e non concretizzatasi per la fine anticipata di essa - di affidare esplicitamente allo Stato il compito di promuovere e diffondere lo sport nella sua specificità, quale essenziale strumento formativo e di crescita individuale. Il 13 ottobre 2022 il disegno di legge è stato presentato alla Presidenza del Senato, il 14 novembre 2022 è stato assegnato alla Commissione Affari Costituzionali e il 12 dicembre successivo l'esame è stato concluso con il passaggio del testo all'Aula per la votazione. Il 13 dicembre 2022 l'Aula del Senato ha approvato in prima lettura con 145 favorevoli, 0 contrari e 4 astenuti il testo di modifica dell'art. 33 della Costituzione. Arriviamo dunque al 20 settembre 2023, data storica per lo Sport italiano . Con la seconda e ultima deliberazione da parte della Camera dei Deputati, è terminato l’iter legislativo per l’approvazione del disegno di legge costituzionale che inserisce lo sport in Costituzione. La Camera ha approvato all’unanimità la modifica all’art. 33 della Costituzione, introducendo il seguente nuovo comma: « La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme ». Si tratta di un percorso normativo e istituzionale che parte da lontano e di cui si darà conto più avanti. Certamente, si può considerare il tentativo di mettere al centro dei nostri pilastri ordinamentali lo sport nella sua accezione più ampia, riconoscendolo come importante strumento formativo d’integrazione sociale e di diffusione di valori universali positivi, oltre che veicolo di inclusione, partecipazione e aggregazione sociale. [1] Non è un caso che il precetto vada ad inserirsi tra norme costituzionali in materia di salute e in materia di istruzione, accanto a cultura e arte, a dimostrazione della stretta correlazione dello sport con la concezione più moderna di benessere psicofisico integrale della persona. Occorrerà adesso vedere quali e quante conseguenze avrà nell'immediato e nel lungo termine questa riforma - che resta comunque una modifica costituzionale "di contorno" -; da mera dichiarazione di principio la norma programmatica dovrà necessariamente trasformarsi in un forte stimolo per il Legislatore di promuovere attivamente l'attività sportiva (ad esempio valorizzando lo sport nelle scuole e rendendolo accessibile ad alti livelli anche alle categorie sociali più povere), anche per evitare che aumenti il contenzioso nei Tribunali per questioni di legittimità costituzionale su leggi in ambito sportivo, nell'ipotesi in cui il principio dello sport come pratica educativa appaia non rispettato. STORIA E FILOSOFIA DELLO SPORT Ma la prima domanda che occorre porsi è questa: cosa significa l’espressione “attività sportiva”? Cos’è essenzialmente lo sport? Molti studiosi si sono messi alla prova negli ultimi decenni per cercare di comprendere sostanzialmente come è possibile pervenire ad una definizione unitaria o quanto meno oggettiva del termine sport, le sue funzioni sociali ed il suo impatto emotivo-formativo sul progresso generale. Mettersi alla prova significa esplorare spazi mai percorsi, ambiti di speculazione mai oltrepassati, terreni di riflessione poco battuti. Quindi, fino a poco tempo fa si discuteva di una materia che tutti (o quasi) conoscono, che tanti praticano, ma sfuggente dal punto di vista dell'origine ontologica e dunque pure della sua classificazione o caratterizzazione giuridica. In soccorso di chi si è posto " la questione irrisolta dell'esegesi (anche normativa) dello sport " sono giunti, per vie accidentali, innumerevoli trattati di psicologia cognitiva, pedagogia e di biologia evoluzionistica che hanno aiutato enormemente a capirlo e a delineare un quadro concettuale più o meno solido su che cosa intendiamo nella universalità dei casi, quando parliamo dello sport e dei suoi presupposti sociologici. Ma se ci poniamo degli interrogativi sulla base esplicativa dei principi sociali, non possiamo fare a meno di porci delle domande di diritto e delle sue fonti “abiogenetiche”. L'identificazione dello sport come attività che coinvolga le abilità umane basilari fisiche e mentali - esercitandole con costanza per migliorare ed usarle in maniera più proficua - permette di tracciarne un collegamento storico con lo sviluppo dell' intelligenza umana . Già per le civiltà primordiali, l'attività fisica, sia pur priva dei connotati agonistici che l'avrebbero caratterizzata in seguito, era un modo pratico ed utile per approfondire la conoscenza della natura ed applicare una maggiore padronanza su di essa. Il secolare avanzamento civile ha permesso via via la razionalizzazione e dunque la "normalizzazione" di tali manifestazioni fisiologiche istintuali umane. Infine, la contestuale regolamentazione ne ha concluso il processo naturale d'utilizzo, tanto da farne un meccanismo pubblico adattabile a diversi scopi od obiettivi. Si pensi ad esempio alle potenzialità correlate al fatto che la diffusione della pratica sportiva nella maggioranza delle società contemporanee sia indice dell'importanza che la stessa assume in senso educazionale-sociale, ma anche economico-politico, fino al punto da contribuire a cementare la cultura "imperante" di un popolo intero, legandosi indissolubilmente ai "cardini storici collettivi" che la contraddistinguono; forgiare una disciplina che concorra ad affermare la forza identitaria, "interna ed esterna" di uno Stato, serve a definire i confini, con volontà didattiche e talvolta anche con finalità legislative, politiche ed etiche, del c.d. "sport nazionale", appunto. Emblematico il caso dei gloriosi Springboks del rugby per il Sudafrica. Esaminiamone le basi gnoseologiche attraverso l'analisi di una materia che solo da poco suscita la curiosità intellettuale dei ricercatori: la filosofia e la storia dello sport. Una disciplina che indaga il complesso e variegato universo sportivo, cercando di analizzare le implicazioni metafisiche, etico-morali, antropologico-filosofiche, pedagogico-educative e socio-politiche dello sport, inteso come attività antropologica positivistica. Anche se la filosofia dello sport è un settore di studio giovane e ancora in fase di evoluzione, il legame tra sport e filosofia è molto antico e profondo ed è sancito dal comune luogo di origine. L’antica Grecia, infatti, otre ad essere stata il teatro del passaggio decisivo dal mythos al logos, è stata protagonista anche dell’istituzionalizzazione dello sport agonistico, ospitando i Giochi Olimpici antichi fin dal 776 a.C.. Il rapporto tra sport e filosofia non si riduce, però, semplicisticamente alla condivisione del contesto storico di origine, ma affonda le radici nei principi cardine della civiltà greca: l’uguaglianza e la libertà. Proprio per questo possiamo azzardare che la filosofia classica è nata con lo sport; vale a dire con quella cultura “agonale” del dialogo e del confronto equo tra pari che ispirava le antiche competizioni greche. Proprio tra gli antichi filosofi greci possiamo trovare le prime considerazioni di carattere filosofico intorno all’attività fisica, lodata principalmente per il suo grande potenziale educativo e per la sua capacità di favorire uno sviluppo armonico della persona, come conferma questo passo della Repubblica di Platone: « Dopo la musica i giovani vanno formati con la ginnastica […] Bisogna dunque che anche con questa siano accuratamente allevati per tutta la vita, cominciando fin da bambini ». Il barone Pierre De Coubertin era un pedagogista ed uno storico francese, che recepì il mito di Olimpia , integrandolo nel suo progetto educativo universalistico. « Riformatore sociale, mosso da aspirazioni pedagogiche, De Coubertin ha affidato le sue speranze allo sport. Esso gli è parso la scuola delle nazioni moderne ». Il pensatore francese propose di ristrutturare la società e promuovere l’interazione tra paesi e culture diverse attraverso lo sport, elemento innovativo e contemporaneamente antico, trovando ispirazione nel modello greco. De Coubertin, consapevole della vocazione universale, multiculturale ed educativa dello sport, aveva l’obiettivo di allontanarlo da una concezione particolaristica, locale, strumentale, e renderlo occasione di incontro e confronto tra realtà eterogenee e lontane. Il nucleo concettuale dell’Olimpismo è riassunto nella Carta Olimpica , documento ufficiale pubblicato per la prima volta nel 1908 dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che era stato fondato da De Coubertin nel 1894. La Carta Olimpica, oltre a contenere il regolamento per l’organizzazione dei Giochi Olimpici e l’ordinamento del governo del CIO, presenta i principi fondamentali del movimento, che riassumono l’insieme di teorie e riflessioni che prendono il nome di “filosofia dell’Olimpismo”. Il Movimento Olimpico proponeva di « mettere ovunque lo sport a servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, per favorire l’avvento di una società pacifica », dove regnino la pace, la collaborazione, il rispetto reciproco e l’accoglienza delle diversità. Nella Carta Olimpica è esplicitamente affermato che la « pratica dello sport è un diritto dell’uomo » e, dunque, la partecipazione alle competizioni, spazi privilegiati di incontro e di dialogo, ma anche occasioni di festa e di condivisione, deve essere garantita a tutti. L’ Olimpismo ha unito i valori dello sport a quelli della solidarietà, del dialogo, della pace e dell’integrazione, ponendo lo sport stesso come strumento privilegiato per la formazione fisica, morale e sociale. Le riflessioni elaborate in seno al Movimento Olimpico, in particolare quelle relative al ruolo dello sport nella vita individuale e sociale, al dilettantismo, all’atteggiamento agonistico, ai valori che devono animare le competizioni, rappresentano un presupposto irrinunciabile per un qualsiasi tentativo di ricerca in ambito filosofico-sportivo. L’Olimpismo, infatti, non presenta una struttura teorica coerente e sistematica, e proprio per la sua propensione ad inglobare elementi diversi è stato definito eclettico . Lo sforzo di conciliare molteplici sistemi, alcuni apparentemente contraddittori, può generare critiche, ma, forse, proprio la flessibilità filosofica dell’Olimpismo può spiegare il duraturo successo dei Giochi Olimpici su scala planetaria. Dunque, i Giochi Olimpici moderni hanno favorito e accelerato il processo di diffusione e affermazione dello sport, anche a livello popolare, e proprio il passaggio da attività elitaria a fenomeno di massa è stato l’evento che ha fornito l’occasione alla critica per una sfida intellettuale. L’evoluzione dello sport e la sua eccezionale diffusione a livello mondiale, avvenuta tra XIX e XX secolo, hanno stimolato l’interesse degli intellettuali nei confronti della pratica sportiva, sia nella sua dimensione ludico-ricreativa e pedagogico-formativa, sia nella sua declinazione agonistica (dilettantistica, amatoriale e professionistica). Le prime riflessioni intorno allo sport sono arrivate da pensatori appartenenti a diversi settori disciplinari, come quello pedagogico, sociologico e storico, e, in particolare, si sono sviluppate nel contesto della tradizione analitica anglosassone di matrice nordeuropea e nordamericana e nell’ambito della riflessione ermeneutico fenomenologica tedesca. [2] In questo clima culturale, si creano i presupposti per l’elaborazione della filosofia dello sport, la cui nascita si fa coincidere con la pubblicazione, nel 1969, dell’opera di Paul Weiss, Sport: A philosophic Inquiry . Weiss, professore di Filosofia all’università di Yale, è stato uno dei primi pensatori contemporanei a sottolineare la necessità di una riflessione filosofica intorno allo sport e a contribuire alla diffusione di questa “nuova” disciplina. Weiss, infatti, è stato anche il primo presidente della International Association for the Philosophy of Sport ( IAPS ), fondata nel 1972 . Le riflessioni di Weiss intorno alle tematiche sportive hanno contribuito a dare quasi immediata credibilità allo studio filosofico dello sport, ponendo le basi per le maggiori linee di ricerca: la definizione di sport, il rapporto tra mente e corpo, le potenzialità formativo-pedagogiche dell’attività sportiva, la relazione tra dilettantismo e agonismo e il ruolo delle donne nello sport. L’istituzione della IAPS è stata seguita dalla nascita del Journal of the Philosophy of Sport nel 1974, nonché dalla fondazione delle prime due società nazionali di ricerca della materia: la Japanese Society for Philosophy of Sport and Physical Education , nel 1978, e la British Philosophy of Sport Association nel 2002. Grazie alle iniziative e all’impegno della IAPS, la filosofia dello sport è stata inserita nei programmi di studio di diverse facoltà di Scienze Motorie, soprattutto in Università nordamericane e inglesi, e ha avuto una grande diffusione. Nonostante ciò, la filosofia dello Sport non ha raggiunto ancora una vera e propria autonomia e non è riuscita a sganciarsi dall’influenza di altre discipline, in particolare dalla pedagogia, che anzi tende a inglobarla nuovamente nel suo ambito. La IAPS è il nucleo centrale di questo processo, protagonista dell’organizzazione di conferenze e meeting in Nord America e in Europa, primi fra tutti l’ International Congress on Sport Science and Physical Education e il Congresso Mondiale di Filosofia dello sport . Alla fine degli anni Ottanta risalgono, invece, le prime opere atte a sistematizzare la disciplina e i vari ambiti di ricerca, soprattutto con l’obiettivo di fornire una guida introduttiva agli studenti. [3] Negli studi condotti in ambito politico-sportivo si colloca l’analisi di problemi sociali e educativi come la discriminazione, la pace, il dialogo interculturale, il rapporto tra uomo e ambiente, i principi della solidarietà, della reciproca comprensione e del fair play . L’ambito etico è senza dubbio la sfera di studio privilegiata dagli studiosi di filosofia dello sport, che si concentrano su questioni come il doping, l’inganno, la violenza, il rischio dell’abuso di nuove tecnologie (bioetica). In questo campo di ricerca devono essere discussi i confini tra legalità e moralità nello sport; gli effetti e le conseguenze di pratiche illecite/immorali sia sulle persone sia sullo sport stesso; la validità dei fini e degli obiettivi; la delimitazione delle responsabilità delle varie figure coinvolte; la valutazione del rischio di traumi e infortuni. L’ etica dello sport si occupa, inoltre, di analizzare le implicazioni economiche dell’attività sportiva, ormai coinvolta nel processo si mercificazione che interessa i vari ambiti della società contemporanea. In tale contesto, l’essenza dello sport è stata snaturata dalla spasmodica ricerca della prestazione e dei record disumani, inquadrata in un’ottica del profitto ottenibile con ogni mezzo. Infine, un tema a metà strada tra la dimensione socio-politica e la dimensione etico-morale è sicuramente quello relativo all’educazione, dato il potenziale pedagogico riconosciuto allo sport, difficile da gestire e preservare dalle contaminazioni del professionismo e della ricerca esasperata del risultato. Di fronte alle questioni poste dalla pratica sportiva è evidente la necessità di un ripensamento dello sport, di uno sforzo di comprensione, che parta dalle discipline umanistiche (ed in particolare dalla filosofia), volto alla ricerca del valore umano dello sport. Se nel contesto accademico anglosassone e americano, la filosofia dello sport sembra essere in continuo sviluppo, in altre realtà accademiche l’evoluzione di questa disciplina è molto lenta e faticosa, se non addirittura completamente bloccato. [4] D’altra parte, un dialogo tra sport e filosofia non è solo possibile ed auspicabile, ma assolutamente necessario per osservare lo sport da una prospettiva diversa e fornire un’interpretazione razionale di un fenomeno unico e travolgente, ma sempre più a servizio della realtà economica e commerciale. ORGANIZZAZIONE SPORTIVA E ORDINAMENTO. RIFLESSIONI CONCLUSIVE Sotto l'aspetto istituzionale, e dunque quello giuridico-legislativo, l'organizzazione sportiva internazionale è una costruzione articolata e complessa dove si intersecano e si intrecciano le competenze dei soggetti che la compongono, i quali, comunque, perseguono fini propri. La caratteristica originale che contraddistingue tutta la costruzione è quella che vuole gli organi direttivi, ai diversi livelli, 'eletti' dai propri amministrati e non piuttosto 'nominati' da potentati politici o da lobby economiche. Altra peculiarità, rispetto ad altre strutture extranazionali (ONU, UNESCO, OMS, FAO ecc.), riguarda l'assoluta mancanza di sovvenzioni per gli organismi sportivi internazionali. Questi devono procurarsi i mezzi per operare e realizzare i compiti istituzionali tramite i ritorni economici della propria attività, i cui principali flussi viaggiano sul doppio binario delle sponsorizzazioni e delle concessioni televisive. L' organizzazione sportiva internazionale può essere paragonata a un edificio piramidale, il cui vertice è rappresentato dal Comitato olimpico internazionale . A partire da questo, scendendo, si hanno i Comitati organizzatori dei Giochi Olimpici, i Comitati olimpici nazionali, le Federazioni sportive internazionali, le Federazioni sportive nazionali, le Società sportive e infine la solida base costituita dagli atleti (a fianco dei quali operano i tecnici e i giudici). L'insieme di tutti questi soggetti costituisce il Movimento Olimpico. Secondo quanto previsto dalla Carta Olimpica (la completa raccolta dei principi cui devono conformarsi tutti gli aderenti e la cui ultima versione è stata elaborata nel corso della Sessione del CIO tenutasi l'11 dicembre 1999), l'obiettivo principale che il Movimento Olimpico persegue è la costruzione di un mondo migliore, " educando i giovani alla pratica sportiva senza discriminazione e nel segno dell'ideale olimpico che pretende amicizia, solidarietà e fair play ". In base a tali dettami, l'olimpismo può essere definito come una filosofia di vita, in grado di esaltare, combinandole, le migliori qualità del corpo, della volontà e dello spirito. Per di più, esso pretende di essere 'internazionale e democratico' rifiutando ogni forma di disparità o di preclusione, sia tra le diverse discipline sportive sia tra i singoli praticanti. [5] All'universo sportivo che non fa riferimento al Movimento Olimpico appartiene lo sport di squadra statunitense di matrice professionistica (quello di natura olimpica si inquadra, di norma, nell'ambito delle high schools e delle università). Si tratta di un fenomeno del tutto particolare che, pur muovendo grandi interessi sportivi ed economici, resta per lo più racchiuso entro i confini nazionali degli Stati Uniti. Organizzato con ferree logiche di mercato (gli stipendi ai giocatori non superano in nessun caso il 55% del fatturato, vale a dire ammontano a circa il 10-15% in meno di quanto percepiscono i calciatori professionisti europei) e sostenuto da un larghissimo favore popolare, gode di enormi profitti derivanti, per lo più, dai diritti delle riprese televisive e dalla commercializzazione dei marchi. [6] Ben più arretrata è l'organizzazione dello sport italiano invece, che attualmente, in attesa di una 'Legge-quadro' di riordino generale della materia, annunciata da decenni da governi di ogni tendenza ma mai concretamente perseguita, vede ancora il CONI in posizione di centralità rispetto alle altre realtà che agiscono nel microcosmo sportivo nazionale: Federazioni sportive, enti di promozione, enti locali, scuola, forze armate ecc.. La struttura si configura dunque come una costruzione virtuale al vertice della quale opera il CONI, mentre la base è costituita dalle circa 70.000 società sportive. In posizione mediana si pongono le Federazioni nazionali che fungono da raccordo fra CONI e società sportive. Non è quindi sorprendente che proprio sul CONI si siano appuntate, a più riprese, le attenzioni del legislatore, a partire dal 16 febbraio 1942, quando venne decretata la legge istitutiva dell'organismo ( Legge 426/42 ), che ne definiva i compiti e ne sanciva l'ordinamento quale 'Federazione delle Federazioni sportive', concentrando in esso tutta l'attività sportiva italiana, a qualunque livello e titolo svolta (anche se il regolamento di attuazione sarebbe stato emanato più di quarant'anni dopo, con il d.p.r. n. 157 del 28 marzo 1986 ). Nel merito, la legge imponeva al CONI di " incrementare e proteggere l'olimpismo e lo sport dilettantistico, nonché di incoraggiare e sviluppare l'educazione fisica, morale e culturale della gioventù del paese per migliorarne il carattere, la salute e il senso civico ". Negli ultimi anni della sua trentennale gestione, il CONI subì però gli effetti frenanti della Legge. n. 70 del 20 marzo 1975 che lo inserì quale 'ente preposto ad attività sportive' nel riordino del Parastato , inceppandone la funzionalità amministrativa, sino ad allora caratterizzata da notevole dinamismo e autonomia (si ricordino, al riguardo, le due edizioni dei Giochi Olimpici di Cortina del 1956 e di Roma del 1960, organizzate quasi integralmente a carico del CONI e con il ricorso a modesti contributi pubblici). Di fatto, l'ingresso del CONI nel comparto parastatale innescò una spirale di successive riforme e di parziali interventi legislativi che, alla lunga, hanno finito con il modificare il quadro originario, riducendo progressivamente la capacità imprenditoriale dell'intero settore sportivo. Malgrado le notevoli disponibilità prodotte dal Totocalcio negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, per il CONI e le Federazioni i tempi nuovi imponevano esigenze di ammodernamento, purtroppo disattese dai vertici che si sono avvicendati nel corso degli anni. Tra le opportunità mancate, al primo posto figura l'improvvida cessione, avvenuta nel 1996, del concorso Enalotto (la cui gestione era stata inizialmente affidata al CONI), trasformato da altri soggetti nel ricchissimo SuperEnalotto, con un disastroso effetto boomerang sugli stessi concorsi Totocalcio. Le trasformazioni in atto nella pratica sportiva, pur con gli squilibri tra sport olimpico e sport professionistico, imponevano comunque un riordino della intera materia che, mancata dagli 'sportivi', venne affrettatamente imposta dai 'politici' con una riforma legislativa che si può ritenere non ancora conclusa. Il primo atto è stato il Decreto Legislativo del 23 luglio 1999, n. 242 , emanato dal ministro Melandri, che abrogava la legge del 1942. Nelle intenzioni del legislatore esso avrebbe dovuto dare attuazione al riordino del CONI, introducendo nelle 'stanze' del potere sportivo una consistente rappresentanza dei tecnici e degli atleti, in quota non inferiore al 30% dei componenti dei consigli di amministrazione delle Federazioni e dello stesso CONI. Nello stesso tempo, i presidenti delle Federazioni, cui era stata da sempre affidata la gestione collegiale del CONI, venivano allontanati dagli organi direttivi. In buona sostanza, il provvedimento, se non avviò a soluzione i problemi dell'intera organizzazione, produsse l'effetto deleterio di tranciare di netto il legame che per novant'anni e con successo aveva caratterizzato il rapporto tra CONI e Federazioni. [7] Come atto conclusivo, il CONI si vedeva costretto a elaborare un nuovo Statuto (predisposto il 26 gennaio 2000 dalla riunione n. 166 del suo Consiglio nazionale), approvato con d.m. del 19 aprile 2000 e in via definitiva con d.m. del 28 dicembre 2000. In base al dettato di riordino, gli organi centrali del CONI (che durano in carica quattro anni) sono attualmente: Consiglio Nazionale, Giunta Nazionale, Presidente, Segretario Generale, Comitato nazionale dello sport per tutti, Collegio dei revisori dei conti. Completano la struttura gli organi periferici, che sono i 20 Comitati Regionali, i 104 Comitati Provinciali e i Fiduciari locali. Dopo il d.l. n. 242, un successivo intervento legislativo ( d.l. 8 luglio 2002, n. 138 , emanato dal ministro dell'Economia e delle Finanze Tremonti), ha affiancato al CONI una società per azioni ‒ 'CONI Servizi spa' ‒ con il compito di gestire tutte le sue attività economiche: impianti, immobili, personale ecc.. Di competenza del CONI 'pubblico' restano i compiti conformi ai principi dell'ordinamento sportivo internazionale: preparazione olimpica, indirizzo e controllo delle Federazioni, diffusione della pratica sportiva, prevenzione e repressione del doping. Nello stesso tempo è stata decisa la ridefinizione, a partire dal 1° luglio 2003, anche degli scenari economici: la gestione dei concorsi Totocalcio e assimilati passò dal CONI all'Agenzia dei Monopoli dello stesso Ministero dell'Economia, il quale contribuirà al finanziamento con una quota parte degli incassi, da stabilire secondo appositi 'piani industriali', il primo dei quali predisposto dal CONI per il triennio 2003-2005. Il vento del cambiamento in atto ha investito anche gli organismi di base dello sport nazionale: le società, sia professionistiche (quelle di calcio in prima fila) sia dilettantistiche. Per il settore professionistico (già interessato dalla l. n. 91 del 23 marzo 1981) un primo intervento è stato l'emanazione della L. 18 novembre 1996, n. 586 , che sanciva il 'fine di lucro' per le società sportive professionistiche, consentendo loro di trasformarsi in società di capitali. Da tale provvedimento dovevano principalmente trarre vantaggi (anche tramite la possibile quotazione in borsa) i 38 club calcistici di serie A e B, ma i possibili effetti sono stati vanificati da una dissennata gestione economica che, malgrado un aumento esponenziale delle risorse provenienti dalle TV, ha creato in otto anni un indebitamento collettivo superiore a 1.300 milioni di euro, così elevato da convincere il Parlamento ad approvare, nel febbraio 2003, un decreto che consentiva alle stesse società di rateizzare in 10 anni di bilancio la svalutazione del proprio patrimonio. Ma tutto questo susseguirsi di norme che facevano gli interessi "di quella o questa bottega" mancavano di una "visione" più complessa, più profonda; mancava in particolare un riconoscimento legislativo ordinamentale che rappresentasse sintesi e peso valoriale specifico in termini di principi culturali intoccabili ed immodificabili. L'attuale maggioranza ha inteso disciplinare finalmente l'annosa questione giuridico-culturale. Sulla base di un assunto di principio che ha trovato largo consenso parlamentare, che si è erto su tale pilone concettuale: " Lo sport in tutte le sue forme, praticato a livello agonistico e dilettantistico, rappresenta un importante strumento formativo d’integrazione sociale e di dialogo culturale, nonché un volano per la diffusione di valori fondamentali quali la lealtà, l’impegno, lo spirito di squadra e il sacrificio. La diffusione della pratica sportiva nel mondo contemporaneo è il segno evidente dell’importanza che lo sport ha assunto anche da un punto di vista civile, sociale e culturale. " Per anni nella Costituzione italiana l’unico riferimento allo sport è stato posto all’ articolo 117 comma 3 , che inseriva l’Ordinamento Sportivo (già presente nella legislazione ordinaria) tra le materie di legislazione concorrente . La Costituzione non annoverava però alcun riferimento specifico all’attività sportivo-agonistica o allo sport in generale. L’idea di inserire lo sport all’interno della nostra Carta Costituzionale arriva tuttavia da lontano. Già nel 2009 (XVI legislatura), con la proposta di legge dell’on. Di Centa (campionessa olimpica) come prima firmataria, si sottopose il tema all’attenzione delle Camere. Successivamente, sia durante la XVII che la XVIII legislatura, sono state presentate delle proposte di legge col medesimo intento, senza riuscire a scalfire il fortino armato dell'indifferenza alla "istituzionalizzazione" dello sport, che bombardava sistematicamente la necessità o quanto meno l'importanza dell'intervento in Costituzione. Possiamo certamente dire che lo Sport in Costituzione rappresenta la prima tappa di un percorso che concentra, in poche parole, un significato profondo e un valore inestimabile, che possiamo sintetizzare nell'auspicio dello ‘ sport per tutti e di tutti ’, parte delle indispensabili ‘difese immunitarie sociali’ e importante contributo per migliorare la qualità della vita delle persone e delle comunità. Dentro questa sintesi c'è tutta la forza programmatica delle attività che dobbiamo svolgere, a ogni livello e nel rispetto dei ruoli, per trovare un equilibrio tra la soddisfazione delle vittorie, che spesso rappresentano l'unico metro di valutazione dell'efficienza del sistema sportivo, e l'allargamento della base dei praticanti e, comunque, l'aumento del beneficio di fare attività motoria, di promuovere la cultura del movimento, che invece nel nostro Paese non è stata ancora pienamente garantita. La Costituzione da oggi riconosce il valore e determina un diritto in astratto indispensabile, ma sarà responsabilità precipua della classe dirigente, quella politica, ma anche quella sportiva, trasformare il riconoscimento del valore in un diritto sostanziale, da garantire a tutti, partendo dalle persone più in difficoltà e dalle periferie urbane e sociali. Dunque, la norma di rango costituzionale in questo caso ha reso corpo materiale non strumentalizzabile, ha obiettivizzato in concezione "assoluta" la definizione di sport. In tutta sostanza, ha sanato un vulnus , ha coperto un vacuum iuris più che una vacatio . Ne ha rafforzato i connotati, ne ha solidificato i confini, ne ha cristallizzato le ambizioni e gli orizzonti. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. L'auspicio è che tale fonte normativa, ancorandolo, assicurandolo a bene giuridico di misura costituzionale, serva a tutelarlo, a proteggerlo da una cultura dell'antisportività dilagante nel nostro Paese, spesso sostenuta da presunti professionisti della materia. Ma questa è un'altra storia, che merita un approfondimento a parte. [1] A livello europeo la normativa è sempre più protesa a dare rilevanza allo sport, strumento di contrasto di tutte le forme di esclusione sociale, riconoscendo un’intima connessione tra sport e diritti sociali, cioè quei diritti che sono di interesse della collettività. In questo senso è orientato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea che, all’articolo 165, afferma che « L’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa » e, con la sua azione, mira tral’altro a « sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi » [2] Lo storico olandese Johan Huizinga è stato uno dei primi pensatori ad affrontare questo argomento nella celeberrima opera Homo Ludens e si è interrogato sulla natura della relazione esistente tra gioco e sport. In un capitolo, intitolato Gioco e gara come funzioni creatrici di cultura, Huizinga analizza il rapporto tra sport e gara, tra gioco e agon , chiedendosi in prima istanza se la competizione possa essere considerata un gioco e, dopo aver risposto affermativamente a tale interrogativo, si concentra sulle caratteristiche dell’agon, categoria nella quale rientrano anche i giochi sportivi. Vent’anni dopo, anche il sociologo francese Roger Caillois, nell’opera I giochi e gli uomini, include lo sport nella sua classificazione delle pratiche ludiche, confermando l’esistenza di un rapporto molto stretto tra gioco e sport. Nel 1967 viene pubblicato dal filosofo Bernard Suits l’articolo What Is a Game? , seguito nel 1988 da The Tricky Triad : Games, Play and Sport, dove l’autore analizza più da vicino i punti di contatto tra gioco e sport, delineando i contorni della pratica sportiva agonistica e non. Sempre nel 1967 Howard Slusher collega la riflessione sul fenomeno sportivo all’Esistenzialismo nel testo Man, Sport and Existenc e, fornendo alla filosofia dello sport uno strumento determinante per lo sviluppo successivo: gli approcci fenomenologico ed esistenzialista saranno tra i più usati dai pensatori dediti alle ricerche sullo sport. [3] A tale proposito occorre citare il contributo dato dal testo di William J. Morgan e Klaus Meier, Philosophic Inquiry in Sport. , pubblicato nel 1988. Da questi studi emergono tre settori principali della filosofia dello sport: metafisico, politico ed etico. L’obiettivo fondamentale delle ricerche metafisiche è stabilire quali sono il senso e il ruolo dello sport nell’esistenza umana, soprattutto in quanto attività ludica e agonistica. Alla riflessione metafisica appartengono anche la questione relativa alle regole, che avranno un risvolto importantissimo in ambito morale e sociale; la complessa questione mente-corpo; il rapporto tra sport e arte. [4] In Italia, per esempio, nonostante la presenza del Professor Emanuele Isidori, che è uno dei più importanti filosofi dello sport a livello mondiale, le ricerche e gli studi in questo ambito non sono molto sviluppati. Come afferma lo stesso Isidori, la ricerca filosofico-sportiva in Italia è stata rallentata in primo luogo dalla presenza di una tradizione idealistica fortemente improntata all'apoteosi del particulare , che ha contribuito a creare un clima di diffidenza verso i temi della corporeità e della pratica sportiva; in seconda istanza, dall’assenza di un approccio scientifico allo sport in ambito accademico, dato che la facoltà di Scienze motorie in Italia è stata istituita nel 1998, mentre nel resto d’Europa già esistevano dei curricula universitari specializzati nello sport. [5] Il CIO fu fondato alla Sorbona nel corso del Congrès International Athlétique de Paris , in programma dal 16 al 23 giugno 1894. Al congresso presero parte una decina di membri del comitato promotore e 78 delegati in rappresentanza di 37 organismi sportivi, in massima parte francesi. Gli stranieri, provenienti da otto paesi, non furono più di una ventina. Tra loro figurava il trentaquattrenne conte napoletano Ferdinando Lucchesi Palli (1860-1922), un diplomatico che si trovava a Parigi come viceconsole del Regno e che divenne il primo membro italiano del CIO, anche se non restò in carica più di tre mesi: tanto bastò, tuttavia, a fare dell'Italia uno dei paesi fondatori dell'organismo internazionale. [6] Gli sport coinvolti sono i quattro più seguiti dall'americano medio: la pallacanestro (organizzato nella National basket association), lo hockey su ghiaccio (nella National hockey league), il baseball (nella Major league baseball) e il football americano (nella National football league). I criteri sportivi sono più o meno analoghi. Le squadre vengono ammesse nelle Leghe in base a severi parametri che privilegiano sostanzialmente la solidità economica. Non ci sono retrocessioni e l'acquisto dei giocatori risponde a precise regole tendenti a non sfavorire i club meno ricchi e, di conseguenza, a mantenere un sostanziale equilibrio sportivo. Lo svolgimento dei campionati, considerata la dimensione del paese, si articola in sezioni geografiche ( conferences o divisions ) con finali nazionali disputate con il sistema dei play-off. I club appartengono di norma a importanti imperi economici. Un parametro significativo per comprendere l'entità finanziaria posta in gioco è fornito dagli stipendi annui percepiti dai migliori giocatori di basket, quasi mai inferiori ai 20 milioni di dollari. [7] Il decreto era stato emanato in virtù della delega contenuta nell'art. 11 della l. 15 marzo 1997, n. 59 (cosiddetta 'Legge Bassanini'), la quale affidava al governo il compito di riordinare gli enti pubblici operanti in settori diversi, imponendogli di trasformare in associazioni di diritto privato gli enti per il cui funzionamento non appariva necessaria la personalità di diritto pubblico. In tal modo il fenomeno della privatizzazione investiva il comparto pubblico dell'organizzazione sportiva, con la conseguenza di trasformare le Federazioni da organi del CONI in associazioni di diritto privato. Contemporaneamente veniva confermata la personalità giuridica di diritto pubblico del CONI, che passava sotto la vigilanza del Ministero per i Beni e le attività culturali, con la conseguente sottrazione delle funzioni di vigilanza sullo sport alla Presidenza del Consiglio dei ministri. A seguito di tale trasformazione il CONI poteva definirsi ente pubblico costituito da 'persone giuridiche private'.
Autore: a cura di Alma Chiettini 23 ott, 2023
(Commento a Corte Costituzionale 17 ottobre 2023, n. 190) La Corte di Cassazione civile, Sez. Unite, con sentenza del 6 settembre 2022, n. 26283 - già commentata nella Sezione Tributario di questo sito -, aveva dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 3 bis del d.l. n. 146 del 2021 , con cui è stato inserito il comma 4 bis nell’art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973, e affermato che la novella si applicava anche ai processi pendenti. La predetta norma ha prescritto che « l’estratto di ruolo non è impugnabile » e che «il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, … oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici, … o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione». La questione della legittimità costituzionale del comma 4 bis dell’art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973 è comunque arrivata alla Corte costituzionale (grazie a ordinanze della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Napoli e del Giudice di pace di Napoli), che si è pronunciata con la sentenza che si va qui a commentare. Si tratta di un pronuncia che, pure non avendo dichiarato l'illegittimità della norma, ha evidenziato l'inesorabile intreccio che nel nostro Paese esiste tra storture del sistema tributario e restrizioni del diritto alla difesa. I giudici rimettenti avevano ipotizzato la violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. poiché, a seguito della novella, la tutela giurisdizionale del contribuente dinanzi al giudice tributario sarebbe “diversa (e deteriore) laddove sia competente il G.T. rispetto alla tutela accordata innanzi al G.O. per le medesime ipotesi e per le medesime ragioni”, posto che in caso di opposizione ex art. 615 c.p.c. la tutela è esperibile immediatamente, indipendentemente dalla notifica di un ulteriore atto, e sine die . Ancora, la violazione del principio di uguaglianza sarebbe desumibile dal fatto che le ipotesi stabilite dalla norma riguardano solo tre dei pregiudizi legati ai rapporti del contribuente con la pubblica amministrazione, mentre resterebbero irragionevolmente escluse ipotesi di altri possibili pregiudizi. Sarebbe inoltre sussistita la violazione dei parametri di cui agli artt. 24 e 113 Cost. , sia perché la drastica riduzione delle ipotesi di tutela immediata comporterebbe un vulnus al diritto di difesa del contribuente, sia perché resterebbero sprovvisti di tutela pregiudizi diversi da quelli relativi a rapporti con la pubblica amministrazione. È stata dedotta anche la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. in quanto l’applicazione della norma censurata ai giudizi pendenti, mutando radicalmente l’esito del processo in corso, comporterebbe, oltre alla compromissione del diritto di agire in giudizio e della parità delle parti, anche la lesione dei principi di ragionevolezza, dell’affidamento dei contribuenti, della coerenza e della certezza dell’ordinamento e del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario. Occorre premettere che tutte le questioni sono state dichiarate inammissibili, sia per ragioni di rito (difetto di motivazione sulla rilevanza), sia, soprattutto, perché il rimedio al vulnus riscontrato richiederebbe un intervento normativo di sistema riservato al legislatore. Ma la lettura della sentenza è utile perché (punto 10 e ss. della parte dispositiva) riepiloga la storia del peculiare istituto dell’ impugnazione degli estratti di ruolo , condividendo le osservazioni della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria del 30 giugno 2021 che aveva evidenziato come “ l’introdotta possibilità (nel 2015), di impugnare la cartella di pagamento che si ritenga invalidamente notificata e di cui il contribuente sia venuto a conoscenza dall’estratto di ruolo (che ne afferma la valida notifica), scontrandosi con le gravi inefficienze del sistema italiano della riscossione, ha condotto all’enorme proliferazione di controversie strumentali di impugnazione degli estratti di ruolo radicate dai debitori iscritti a ruolo, con un aumento esponenziale delle cause innanzi alle Commissioni tributarie, ai Giudici di pace e, più in generale, alla Magistratura ordinaria per far valere, spesso pretestuosamente, ogni sorta d’eccezione avverso cartelle notificate anche molti anni prima, senza che l’Agente della riscossione si fosse attivato in alcun modo per il recupero delle pretese ad esse sottese, e perfino nei casi in cui vi avesse rinunciato, anche nell’esercizio dell’autotutela ”. E si riconosce che è vero che il legislatore è intervenuto limitando la possibilità di impugnare direttamente il ruolo, ma che è altresì vero che nell’ultimo anno la massa dei ricorsi si è notevolmente ridotta, come ha affermato la difesa erariale. Tuttavia, afferma la Corte, “ è indubbio che a tale esito si è giunti incidendo sull’ampiezza della tutela giurisdizionale ”: con ciò condividendo le ragioni (pertanto non manifestamente irragionevoli) volte a sostenere che il “bisogno” di tutela giurisdizionale può manifestarsi in situazioni diverse, e fondate, da quelle considerate nella norma censurata, per esempio nel caso di cessione di azienda, quando l’esistenza di un considerevole debito fiscale non contestato e non contestabile può incidere sul valore di cessione; oppure nell’ipotesi di contraenti privati che necessitano di verifiche circa le pendenze fiscali delle potenziali controparti. Nondimeno, tale “bisogno” di tutela giurisdizionale anticipata è causato dalla “ patologica situazione della singolare esistenza di un magazzino di entrate non riscosse pari ad oltre mille miliardi di euro e che, secondo gli ultimi dati, comprende più di 170 milioni di cartelle, di cui il 60 per cento notificate prima del 2015, dove risultano quindi affastellate cartelle che, seppur evidentemente prescritte, incombono sul contribuente e ne possono compromettere la credibilità fiscale ”. Sul punto la Corte ricorda di aver già rimarcato che “una riscossione ordinata e tempestivamente controllabile delle entrate è elemento indefettibile di una corretta elaborazione e gestione del bilancio, inteso come bene pubblico funzionale alla valorizzazione della democrazia rappresentativa, mentre meccanismi comportanti una lunghissima dilazione temporale sono difficilmente compatibili con la sua fisiologica dinamica”. La Corte considera, in via decisiva, che “ l’abuso di quanti approfittano della vulnerabilità del sistema non può in via sistematica comprimere il bisogno di tutela anticipata dei soggetti (fossero anche pochi) che legittimamente lo invocano ”. Ma soggiunge, realisticamente, che “il rimedio alla situazione che si è prodotta per effetto della norma censurata coinvolge profili rimessi – quanto alle forme e alle modalità – alla discrezionalità del legislatore e non spetta alla Corte”. Più nello specifico, la Corte segnala che si potrebbe “estendere la possibilità della tutela anticipata a fattispecie ulteriori”, ma pure “agire in radice, ovvero sulle patologie che ancora permangono nel sistema italiano della riscossione”. Occorre, in definitiva, “un intervento normativo di sistema, implicante scelte di fondo tra opzioni tutte rientranti nella discrezionalità del legislatore”. La Corte conclude formulando “il pressante auspicio” che il Governo dia efficace attuazione ai princìpi e criteri direttivi per la revisione del sistema nazionale della riscossione contenuti nella delega conferitagli dall’art. 18 della legge 9 agosto 2023, n. 111, a salvaguardia del pieno adempimento del dovere tributario in quanto “ preordinato al finanziamento del sistema dei diritti costituzionali, i quali richiedono ingenti quantità di risorse per divenire effettivi ”. La parola torna, a questo punto, al Legislatore.
Autore: di Silvana Bini 16 ott, 2023
Premessa (a cura di Roberto Lombardi) In un contesto, quello dei magistrati amministrativi, a volte caratterizzato – anche in relazione al livello di esperienza e di preparazione acquisito - da una febbrile rincorsa all'incarico di prestigio al di fuori delle aule di Tribunale, la libertà di insegnare, di fatto preclusa ai cugini dell'ordinaria, è stata a lungo considerata una prerogativa assoluta e non rinunciabile né limitabile. Accanto ai grandi corsi che si sono via via affiancati a quello di uno dei pionieri dell’insegnamento, il famoso giudice Galli - il quale si era peraltro dovuto dimettere dalla magistratura ordinaria per potere continuare la sua lucrosa attività extraistituzionale -, si sono via via sviluppate anche delle più modeste (nei numeri) scuole di preparazione ai concorsi (alcune "artigianali" ed altre gestite da colossi dell'editoria), in cui si sono alternati e sono tuttora al timone dei magistrati amministrativi con la vocazione dell'insegnamento. Le differenze però restano, pur in un contesto in cui l'autorizzazione a svolgere le docenze commissionate o auto-gestite erano uguali per tutti. Sono differenze di popolarità, di immagine, di autorevolezza, di risultati e, perché no, anche di profitto. Si va dal giudice che tiene un corso di prestigio a casa per pochi eletti, al neo-magistrato che ottiene una docenza annuale per motivi di “vicinanza” ad altri colleghi già inseriti nel sistema, passando per il nome di grido (quasi sempre importanti consiglieri di Stato, ma non mancano significative eccezioni nei TAR), fino ad arrivare a soggetti che rappresentano e gestiscono essi stessi in piena autonomia il corso, pur se la docenza è formalmente conferita da un ente privato. Ed è un mondo, quello delle lezioni concorsuali tenute dai magistrati amministrativi, che, oltre a lambire - seppure con ritorni di successo e di profitto molto più modesti - quello universitario, si completa e si autoalimenta con il fruttuoso mercato dei libri di testo. In un a volte incomprensibile testa-coda formativo, l'acquisto del manuale del magistrato che tiene il corso è indispensabile ma non sufficiente per vincere il concorso, perché i segreti della preparazione, quelli veri e irrinunciabili, sono conoscibili soltanto distillando fino all'ultima goccia il contenuto del corso. Ed è solo in quella sede che il magistrato amministrativo - lui che di concorsi ne ha superati, tanti e importanti - proferirà la parolina decisiva, darà la dritta estrema. Curioso pensare che, magari, qualche decennio fa, qualcuno di quegli stessi giudici-professori che oggi ritengono irrinunciabile, per farcela, seguire un corso (possibilmente il proprio), avevano superato gli stessi concorsi a mani nude , "soltanto" con l'approfondimento di norme e manuali, a schiena curva sulla più modesta delle scrivanie. Il 19 luglio di quest’anno qualcosa però è cambiato, dietro le quinte dei corsi gestiti dai magistrati amministrativi. Il nuovo Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa – organo di autogoverno di TAR e Consiglio di Stato rinnovato per quattro anni a partire dal maggio 2023 – ha imposto una stretta sugli incarichi di docenza conferiti da enti privati, mirando a garantire in modo inequivocabile che corso e magistrato da lui tenuto non si identifichino. Ma se il senso profondo dell’intervento sulla disciplina interna (di natura autorizzatoria ) è chiaro – nell’ottica di una drastica riduzione della possibilità che il magistrato amministrativo possa diventare un primo attore nella formazione post-universitaria, magari a discapito della qualità e dell’immagine del suo lavoro di giudice -, non sempre le singole disposizioni di una disciplina così innovativa e così rivoluzionaria sono immediatamente in grado di raggiungere in modo coerente e organico quell’obiettivo così ambizioso, giusto o sbagliato che sia. E c’è più di una possibilità che contestazioni svolte in sede giudiziaria mettano in crisi singole disposizioni che, una volta avulse dal complessivo disegno riformatore, possono essere tacciate, ad una lettura spietata e giuridicamente oggettiva, di “invasione” nell’equilibrio della libera concorrenza tra gli enti di formazione o nella stessa libertà di autodeterminazione economica della società conferente, tramite il perseguimento di finalità non pienamente rispondenti alla tutela del prestigio della magistratura e/o della funzione del magistrato. Di certo, il giudice eventualmente adito dovrà districarsi tra interessi paralleli e non sempre coincidenti di società conferente e giudice a cui viene conferito l’incarico di docenza, ricercando nelle norme contestate, in un esercizio per la verità non semplicissimo, la ratio giustificatrice e il collegamento con un interesse sensibile da proteggere, laddove, se è chiaro che nel caso del magistrato amministrativo vi è una tendenziale subordinazione, nei limiti dell’eccesso di potere, alle regole discrezionali dell’organo di autogoverno – trattandosi di materia, quella degli incarichi fuori dall'esercizio delle funzioni, nella disponibilità astratta di tale organo [1] -, è altrettanto chiaro che l’ente privato dovrebbe subire soltanto di riflesso, e non in via diretta, ingerenze di disciplina secondaria nella sua attività. Dopo decenni di sostanziale deregulation e l’inversione di tendenza causata dall’imbarazzo creato dal caso Bellomo [2] , la vera difficoltà sarà nel trovare il giusto punto di equilibrio tra accessorietà del ruolo di insegnante rispetto a quello di giudice – la funzione istituzionale resta infatti necessariamente il cuore pulsante della importante carica giudiziaria raggiunta –, e possibilità per gli studenti di avere una chance in più, seguendo il corso tenuto da un preparatore brillante e superqualificato , di vincere il concorso. La nuova disciplina sugli incarichi di docenza: prospettive e presupposti di Silvana Bini 1.La nuova disciplina Le domande sulla opportunità dell’attività di insegnamento e sulla compatibilità con la funzione di magistrato sono tante, forse troppe per riuscire ad avere una risposta unica, soprattutto a fronte della diversità e della poliedricità dell’attività formativa post-universitaria. Si hanno infatti docenze sporadiche, in collaborazione con l’Università e le Fondazioni Forensi, docenze di qualche giornata nelle scuole private di preparazione ai diversi concorsi pubblici, ovvero corsi veri e propri, di durata anche di un anno, prevalentemente di preparazione per il concorso di magistratura. Il nuovo Cpga, nella seduta del 19 luglio 2023, ha ritenuto di affrontare subito la questione-docenze, con plurime finalità: evitare la figura del magistrato/imprenditore, garantire la qualità delle docenze, permettere un controllo effettivo sull’attività di docenza. In base alla disciplina di base, così come modificata dalla delibera n. 50 dello scorso luglio, si possono distinguere tre ambiti. I primi due ambiti sono l’ attività libera e la c.d. docenza domestica . [3] Il terzo, e anche il più significativo in termini di incidenza su di esso della nuova normativa, è l’ambito dell’ insegnamento organizzato da una società . L’ art. 18 della delibera del CPGA , contenente i criteri generali di insegnamento, già prevedeva la possibilità per i magistrati di svolgere attività di insegnamento a seguito di incarico attribuito da una struttura privata, di sicuro affidamento e serietà, la quale svolga professionalmente un’attività di formazione scientifica e culturale. Il magistrato cui è conferito l’incarico deve richiedere l’autorizzazione dell’Organo di autogoverno e tale autorizzazione ha efficacia annuale ed è rinnovabile. Vi era già il divieto espresso di far pubblicità in ordine ai nominativi dei magistrati che effettuano le docenze, fatta eccezione per i direttori scientifici dei corsi. All’atto della prima richiesta di autorizzazione, va prodotto lo statuto della società o dell’associazione ospitante unitamente all’indicazione dei nominativi dei componenti dei rispettivi organi direttivi; nel caso di rinnovo dell’istanza di autorizzazione il magistrato deve dichiarare che non sono intervenute modificazioni nella composizione soggettiva degli organi direttivi o altrimenti comunicare i mutamenti intervenuti. A seguito dello svolgimento dell’attività e per i successivi cinque anni è fatto divieto di presiedere e partecipare a commissioni di concorso attinenti ai corsi di preparazione stessi. Era già previsto il limite per le lezioni frontali di 40 giorni di docenza, intesi come giorni di calendario non frazionabili e onnicomprensivi di tutte le attività di docenza La nuova disciplina (art 2 della delibera 19.7.23, che modifica l’art 18), ha introdotto un obbligo per il magistrato di presentare ogni sei mesi, al Consiglio di Presidenza una relazione, nella quale espone le attività svolte con riferimento all'attività autorizzata e, in particolare, indicando le giornate e le ore di lezione svolte ed il numero di elaborati che eventualmente abbia corretto, oltre ai compensi eventualmente percepiti a qualsiasi titolo dalla società o dall'ente conferente, anche a titolo di diritti d'autore. La maggiore novità è rappresentata dal numero massimo di soggetti che possono partecipare al corso , indicato in 150 persone, incluso chi segue la lezione da remoto, con qualunque modalità telematica, ed escluso chi partecipa a titolo gratuito. Rispetto a questo profilo, la delibera “rafforza” l’art 22 ter, nella previsione di permettere a chi ha difficoltà economiche di partecipare ai corsi. Infatti si prevede che l'ente privato conferente deve consentire, nella misura di almeno un quarto degli iscritti che eccedono il numero di quaranta, la partecipazione di studenti i cui nuclei familiari abbiano i requisiti reddituali per l'esenzione totale dal pagamento delle tasse universitarie, ai quali va accordata una quota di iscrizione non superiore ad un terzo di quella ordinaria; in tal caso il Consiglio di Presidenza può valutare se il numero degli allievi può essere incrementato, fino ad un massimo di venticinque persone, anch'essi ammessi al pagamento di una quota di partecipazione non superiore ad un terzo rispetto a quella ordinaria. Viene confermato il limite delle 40 giornate, con alcune precisazioni: in questo limite vanno computate tutte le attività espletate dal magistrato in relazione al corso, ivi, incluse a titolo esemplificativo gli "open days" per illustrare le caratteristiche del corso, le "spiegazioni delle tracce" sorteggiate al concorso, le "full immersions" e ogni altra iniziativa analoga. All'interno di ciascuna giornata l'impegno didattico complessivo del magistrato, come risultante dal calendario divulgato, non può essere superiore a cinque ore , anche non continuative, di mattina o di pomeriggio. Nel rispetto del limite complessivo di 40 giorni e di orario, è consentita l' attività di correzione degli elaborati redatti da coloro che frequentano il corso, in tal caso presumendosi ad ogni effetto che consiste in cinque ore il tempo necessario per correggere diciotto elaborati. L'attività di insegnamento può riguardare anche due corsi di preparazione a differenti concorsi pubblici, purché venga precisato nell’istanza di autorizzazione e sempre nel rispetto del limite di giorni. Sono introdotte nuove disposizioni in materia di incompatibilità : l'autorizzazione allo svolgimento di incarichi relativi a corsi di preparazione a concorsi pubblici non può essere rilasciata al magistrato che sia stato già autorizzato a svolgere un incarico di insegnamento in un corso di laurea o post lauream presso una università pubblica o privata. Ciò non vale per la c.d. didattica universitaria integrativa, prestata in modo occasionale per non più di sei incontri annuali presso la medesima Università, e all'insegnamento presso le scuole di specializzazione per le professioni legali. Una nuova disciplina di incompatibilità riguarda i componenti dell'Ufficio Studi o dell'Ufficio del Massimario: l’incarico di componente dell’Ufficio Studi o del Massimario non può essere conferito a chi abbia ottenuto una autorizzazione prevista dall'art. 18, primo comma, lettere c) e d) (incarichi da società o c.d. docenza domestica), per tutta la durata di quest'ultima. Questo vale anche per chi da componente dell'Ufficio Studi o dell'Ufficio del Massimario chiede un incarico di docenza; in tal caso è provista la decadenza dall’Ufficio studi o dal Massimario. Sempre in via innovativa, la delibera definisce la nozione di “quota di partecipazione al corso”: il compenso originariamente concordato tra il singolo iscritto e l'ente privato conferente per la frequenza del corso, anche se tenuto insieme ad altri docenti. La quota di partecipazione è omnicomprensiva di ogni attività connessa al corso, quali, a titolo esemplificativo, la correzione dei compiti e lo svolgimento di lezioni ulteriori rispetto a quelle indicate nel calendario originario per `full immersion', summer school , lezioni di aggiornamento comunque denominate. E’ fatto divieto al magistrato di svolgere attività di mero tutoraggio , cioè l'attività volta a fornire risposte dirette agli studenti nelle cd. aree riservate dei siti o con modalità analoghe che consentano il contatto diretto con gli studenti; mentre è fatta salva la possibilità di fornire ai corsisti, nell'ambito delle lezioni, consigli sul metodo di studio e sui testi. E’ consentita la mera correzione degli elaborati , qualora nella istanza sia specificato quale sia il docente che svolga le lezioni. La delibera affronta anche il problema del sistema di collegamento da remoto: in tal caso nell'istanza di autorizzazione deve essere indicato se sia prevista la registrazione della lezione , la quale può essere diffusa gratuitamente ai soli studenti già iscritti al corso e con modalità informatiche che ne impediscano la diffusione a terzi. Per garantire la qualità dell’insegnamento, è previsto, come causa di non autorizzabilità, l’ipotesi in cui la quota di partecipazione al corso sia irragionevole e incongrua in rapporto alla specifica offerta formativa e a qualsiasi altra circostanza rilevante. Fermo restando l’obbligo del magistrato di dichiarazioni sugli emolumenti, sull’inesistenza di rapporti di coniugio, di convivenza, o di rapporti derivanti da unioni civili o da vincoli fiduciari, di parentela entro il sesto grado e di affinità entro il quarto grado con i responsabili della gestione del corso, con gli organi di direzione e amministrazione dell’organismo, o che comunque controllino tali organismi, per interposta persona fisica o giuridica, vengono così delineati i contenuti della richiesta di autorizzazione : il magistrato dovrà indicare la materia o le materie insegnate, la città dove le lezioni sono svolte, il calendario delle lezioni, il numero dei giorni e delle ore complessivamente impiegati, i nominativi degli eventuali altri docenti impegnati nel medesimo corso di preparazione, il nominativo di chi corregge gli elaborati, i compensi relativi all'insegnamento stesso, specificando se i compensi sono stati concordati in misura. fissa e invariabile con l'ente privato conferente, o se è previsto il loro incremento in considerazione del numero degli iscritti. Vi è anche obbligo di comunicare eventuali cambiamenti del calendario. Sono stati precisati i divieti, con la riformulazione dell’ art. 21 . Il magistrato non deve svolgere iniziative pubblicitarie di alcun tipo, attraverso siti internet, social network, locandine, manifesti o altri strumenti di divulgazione telematici e analogici. Deve l'utilizzo della sua immagine, della sua voce o del suo nome a fini di promozione pubblicitaria, prima dell'inizio del corso, durante il suo svolgimento e dopo il suo termine. La società conferente non può utilizzare in nessun modo, anche nei propri siti internet e social network, l'immagine, la voce o il nome del magistrato. Resta ferma la possibilità di comunicare individualmente agli interessati che ne facciano richiesta chi sia stato indicato come docente del corso, anche con la trasmissione del relativo calendario delle lezioni, sempreché il magistrato abbia già ottenuto la relativa autorizzazione. Per la prima volta sono inoltre tipizzate nell’ art. 18 bis le ipotesi di sospensione e revoca dell’autorizzazione . Spicca l’ipotesi della divulgazione da parte dell’ente conferente delle date di svolgimento delle prove di altre informazioni riservate relative allo svolgimento di un concorso, ancor prima che vi sia stata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale o sugli altri canali ufficiali di un'Amministrazione che ha indetto un concorso. L’ente conferente non può effettuare pubblicità comparative di qualunque tipo e, in particolare, non può indicare la percentuale dei corsisti che hanno superato le prove, né utilizzare l’immagine, la voce o il nome del magistrato per promuovere il corso, con il proprio sito internet, pagina facebook , instagram o altri social comunque denominati, o con messaggi audio o video di qualsiasi forma, o con trasmissione di email o di manifesti, volantini o altre modalità. All'ente privato conferente è infine inibito di porre in vendita le registrazioni delle lezioni. Come evidente, sono tutte ipotesi di violazione del terzo (ente privato conferente), che però ricadono negativamente sull’autorizzazione ad insegnare ottenuta dal magistrato. E’ stato infine introdotto un controllo a campione del Cpga, con sorteggio di un numero di magistrati pari a un quinto di quelli autorizzati a detti incarichi. Il controllo riguarda almeno un magistrato sorteggiato tra coloro che hanno dichiarato di percepire non meno di 40.000 € annui. In materia di controllo un’ulteriore novità è l’introduzione della facoltà del Segretariato di chiedere in ogni tempo, al magistrato e alla società di fornire elementi sull’attività. 2. Riflessioni conclusive La disciplina degli incarichi extra giurisdizionali dei giudici amministrativi è sempre stata una materia scottante. Da un lato l’attività di consulenza, il fenomeno delle porte girevoli, dall’altro, l’insegnamento, sono i due ambiti che danno la possibilità di un reddito “parallelo”. Oggi si sta affiancando anche la realtà dei collegi consultivi tecnici. [4] Sulle docenze, oltre al numero di corsi e di scuole di preparazione diffuse capillarmente e pronte a “offrire sempre di più”, è a tratti imbarazzante che il Consiglio di Presidenza dedichi le proprie sedute prevalentemente alle autorizzazioni. Ciò potrebbe anche essere letto positivamente: l’attività giurisdizionale cammina da sola, va tutto bene. Ma forse una maggiore attenzione a quanto avviene nelle sedi giudiziarie (tutte), potrebbe anche migliorare la qualità del servizio. Invece le energie dei componenti del Cpga sono “assorbite” prevalentemente dall’attività parallela. Come emerge ascoltando le dirette del plenum (servizio reso da Radio Radicale), si fa strada la posizione di quanti ritengono che il traguardo della giurisdizione amministrativa non sia poi così “ambito”, (tanto che spesso chi vince anche il concorso per la magistratura contabile, opta per quest’ultima) per cui bisognerebbe salvaguardare “l’attrattiva” della giustizia amministrativa, rappresentata dall’attività di insegnamento e dall’attività di consulenza (nei Ministeri, nelle Autorità e oggi anche quella dei collegi consultivi tecnici). Il “salvaguardare” implicherebbe il non introdurre limiti né eccessivi controlli. Parole vere, ma che ancora generano amarezza in chi crede invece che fare il giudice amministrativo equivalga a svolgere una funzione al servizio delle parti che chiedono giustizia. [1] L'art. 4, comma 1 delle "Norme generali per il conferimento o l’autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi" così recita: " Il conferimento o l’autorizzazione allo svolgimento di qualsiasi incarico è subordinato alla verifica in concreto della compatibilità dell’incarico rispetto all’assenza di pregiudizio per l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato come pure per il prestigio e l’immagine della magistratura amministrativa. ". [2] Per un approfondimento della vicenda giudiziaria che ne è scaturita si veda anche, su questo sito: https://www.primogrado.com/il-giudice-professore-destituzione-e-teoria-del-contagio [3] L’insegnamento domestico è previsto dall’art. 18 lett. d) Si tratta di un insegnamento presso la propria abitazione o strutture all’uopo adibite. La delibera ha inciso nella disciplina, introducendo alcune disposizioni finalizzate a garantire qualità e controllo. Anche per l’insegnamento domestico è necessaria la preventiva autorizzazione, subordinata alla sussistenza dei seguenti requisiti: il divieto di connotazione di attività d’impresa (art. 60 del T.U. n.3/57 del pubblico impiego), per cui il numero degli allievi per corso, di norma non dovrà comunque superare le 60 unità, l’assetto organizzativo e l’eventuale approntamento di strutture logistiche e/o umane; Vi è poi obbligo di rendicontazione annuale sull’impegno profuso e sui relativi compensi. È poi stata introdotta la previsione anche nel caso di insegnamento domestico di consentire la partecipazione nella misura di almeno un quarto degli iscritti che eccedono il numero di quaranta, la partecipazione di studenti i cui nuclei familiari abbiano i requisiti reddituali per l'esenzione totale dal pagamento delle tasse universitarie, la cui quota di iscrizione non può essere superiore ad un terzo di quella ordinaria. Il 2 ter prevede che il Consiglio di Presidenza, qualora il magistrato consenta la partecipazione di studenti a titolo gratuito e, comunque, in relazione al numero dei soggetti che godono della riduzione della quota di cui al precedente comma 2 bis, può valutare se il numero degli allievi, fissato dal precedente punto 4-bis, può essere incrementato, fino ad un massimo di dieci, anch'essi ammessi al pagamento di una quota di partecipazione non superiore ad un terzo rispetto a quella ordinaria. Rimangono poi in vigore il divieto espresso di fare pubblicità sui corsi, con qualsiasi mezzo, incluso Internet e l’obbligo di rendicontazione annuale sull’impegno profuso e sui relativi compensi. Rimane invariato invece l’art. 21 che per l’attività di docenza svolta presso enti pubblici o privati, a titolo oneroso o gratuito, nonché la partecipazione a convegni e seminari, ove svolta in forma non continuativa non richiede alcuna autorizzazione, né presa d’atto, fermo restando il limite complessivo dei compensi di legge. Nel caso di attività libera il magistrato dovrà informarne di volta in volta il Presidente della sezione giurisdizionale o consultiva cui è assegnato, per gli adempimenti di cui al successivo art. 25, nonché, con cadenza semestrale, l’ufficio di segreteria del Consiglio di Presidenza, comunicando a consuntivo il numero di ore in cui è stato impegnato, i compensi eventualmente percepiti e la propria situazione nel deposito dei provvedimenti. [4] Per l'approfondimento della tematica si rinvia all’articolo già pubblicato su questo sito: https://www.primogrado.com/c-erano-una-volta-gli-arbitrati
Autore: a cura di Roberto Lombardi 07 ott, 2023
Il Cairo, gennaio 2016. Una sera come tante un giovane italiano viene trascinato via da quattro individui. Privato per giorni della libertà, il giovane viene seviziato in plurime occasioni, con l’uso di calci, pugni, bastoni e strumenti di tortura affilati. Fratturato in più punti del corpo, il giovane moriva infine per insufficienza respiratoria acuta causata dalle imponenti lesioni di natura traumatica subite. Si chiamava Giulio Regeni. La Procura della Repubblica di Roma si convince, dopo articolate e difficili indagini, che i quattro aggressori fossero quattro alti funzionari della polizia egiziana; ne chiede pertanto il giudizio per sequestro di persona, lesioni aggravate e omicidio doloso . La brutale vicenda ha un ampio risalto in Italia e nel mondo, reclamando giustizia, ma le autorità egiziane non collaborano, nella sostanza, con quelle giudiziarie italiane. Ne deriva una situazione di irreperibilità dei quattro funzionari indagati e una richiesta di rinvio a giudizio degli stessi “in contumacia”. In effetti, nel maggio del 2021, il GUP presso il Tribunale di Roma dichiarava l’ assenza degli imputati e ne disponeva il rinvio a giudizio dinanzi alla Corte di Assise, notificando il relativo decreto agli imputati stessi, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che gli accusati si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento. Ad ottobre dello stesso anno, però, la Corte di Assise accertava a sua volta la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio per mancata costituzione del contraddittorio , in quanto non sarebbero sussistiti, in concreto, i presupposti per dichiarare l’assenza degli imputati. In presenza di una insufficiente prova circa la conoscenza degli atti di accusa da parte dei funzionari egiziani considerati colpevoli, e in assenza della evidenza che tali funzionari abbiano avuto un ruolo nelle determinazioni assunte dal loro Stato di prestare una collaborazione sleale o addirittura di negare tale collaborazione alle autorità giudiziarie italiane, sarebbe sussistente e insanabile il pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati e per il loro diritto ad un equo processo. Ma qual è la norma processuale oggetto di discordia? Secondo il combinato disposto degli artt. 420-bis e 420-quater del codice di procedura penale, per procedere in assenza dell’imputato occorre una situazione di piena conoscenza personale o di comprovato rifiuto della chiamata in giudizio. In altri termini, il Giudice penale che procede deve avere certezza che l’imputato sia a conoscenza dell’udienza da celebrare, ed è previsto un meccanismo riparatorio nel caso in cui l’imputato provi successivamente che la sua assenza era stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. D’altra parte, anche le situazioni pregresse che possono essere considerate indici di conoscenza del processo (dichiarazione od elezione di domicilio, applicazione di misure precautelari o cautelari, nomina di un difensore di fiducia), per essere dimostrative dell’effettiva conoscenza del procedimento, devono avere acquisito un certo grado di effettività . Il parametro da rispettare è innanzitutto l’ art. 6 CEDU , secondo cui un processo può considerarsi equo solo se da parte dell’imputato vi è stata conoscenza effettiva della vocatio in iudicium (ovvero del contenuto dell’accusa e del giorno e luogo della udienza). La Corte d'Assise aveva d'altra parte riconosciuto anche la sistematica inerzia delle Autorità egiziane rispetto alle richieste italiane e la circostanza oggettiva che gli imputati, in qualità di appartenenti, all'epoca dei fatti, ad apparati di polizia governativi, fossero nelle condizioni di conoscenza privilegiata delle fonti informative e delle interlocuzioni tra gli Stati italiano ed egiziano. Orbene, dalla istruttoria conseguita al ritorno agli uffici del GUP degli atti, ai fini di un nuovo rinvio a giudizio, è emersa definitivamente la volontà delle Autorità di governo egiziane e della Procura generale de Il Cairo - che è un organo giudiziario dipendente dal potete esecutivo - di non prestare alcuna collaborazione al Ministero della Giustizia e all’Autorità giudiziaria italiana per il processo a carico dei quattro imputati di sequestro di persona e di omicidio nei confronti di Giulio Regeni. Paradossalmente, il rifiuto di collaborazione è stato argomentato con il principio del bis in idem , in relazione all'archiviazione degli stessi fatti da parte della Procura generale de Il Cairo, che però è il medesimo organo che ha svolto le indagini, procedendo alla suddetta archiviazione senza lo svolgimento di alcun processo. Si è trattato, in altri termini, di un'auto-archiviazione. In punto di diritto, l'attuale normativa del processo in assenza , contenuta nella cosiddetta "riforma Cartabia", è stata introdotta per adeguare quella precedente alla giurisprudenza della CEDU e della Corte di cassazione, che avevano escluso ogni possibilità di procedere in assenza in base alla presunzione di conoscenza del procedimento. In tal senso, il nuovo art. 420-bis c.p.p. fa riferimento alla conoscenza effettiva, e non presunta, del procedimento stesso, di modo che va escluso che la volontà di sottrarvisi possa essere desunta dall'ampia risonanza mediatica del fatto, dalle prese di posizione pubbliche nello Stato degli imputati o dalla circostanza che gli interessati abbiano preso parte attivamente alle indagini condotte sul reato a loro stessi contestato. Si tratta infatti di elementi estranei alla specifica volontà di sottrarsi al procedimento penale aperto nei loro confronti. Tuttavia, una volta trovatosi si fronte al vicolo cieco previsto dal nuovo art. 420 quater c.p.p. - così come reso applicabile alla vicenda giudiziaria de qua dall' art. 89 comma 2 del d.lgs. n. 150 del 2022 -, secondo cui, se non è possibile accertare la volontaria sottrazione al processo degli imputati. occorre dichiarare il non doversi procedere per mancata conoscenza del processo, il GUP si è interrogato sulla legittimità costituzionale della nuova disciplina. La conclusione del Giudice investito della questione è stata nel senso che l'attuale impossibilità di celebrare un processo in cui sono contestati fatti di tortura e di omicidio doloso (anche se all'epoca il reato di tortura vero e proprio ancora non esisteva nell'ordinamento interno), in un caso come quello di Regeni, violi diverse norme costituzionali. Innanzitutto, l' art. 24 della Costituzione , con riferimento alla compressione intollerabile del diritto di difesa delle persone offese e dei soggetti danneggiati dal reato. In secondo luogo, vengono in gioco gli artt. 2 e 3 della Costituzione , in relazione alla creazione artificiosa di una immunità non riconosciuta da alcuna norma dell'ordinamento internazionale. Infine, gli artt. 112 e 117 della Costituzione ; il primo, con riguardo all'impossibilità di fatto per il pubblico ministero di esercitare l'azione penale (obbligatoria) nei confronti di cittadini stranieri considerati perseguibili ai sensi della legge processuale; il secondo, in virtù del mancato rispetto del vincolo derivante dalla ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura . Investita a sua volta della questione di costituzionalità, la Corte costituzionale ha quindi dichiarato l'illegittimità della norma censurata, ovvero dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa [1] . Sono subito fioccati i commenti giuridici e meta-giuridici. Accanto al comprensibile plauso della famiglia Regeni e di chi vuole che giustizia sia fatta nei confronti di chi si è reso responsabile di un crimine così odioso, un giurista apprezzato come il prof. Gatta [2] ha pubblicamente parlato di sentenza " ad regenim ", mentre gli avvocati penalisti dell' UCPI hanno di fatto criticato la scelta della Corte, etichettandola espressamente come fonte di limitazione di una precisa garanzia che l'ordinamento pone a presidio del giusto processo, la quale non potrebbe essere controbilanciata con le prerogative della persona offesa. Si teme, in altri termini, un effetto di "abbassamento" delle garanzie dell'imputato, con l'estensione dell'eccezione individuata dalla Corte costituzionale ad altri casi di mancata partecipazione al processo. Orbene, è chiaro che la risposta della Corte costituzionale è una risposta eccezionale ad una situazione eccezionale, dove la cooperazione leale tra Stati si è fermata per volontà unilaterale di uno di essi. Né ha molto senso rifarsi alla necessità di riservare alla politica e alle relazioni internazionali la risoluzione dei problemi di cooperazione tra Stati, quando la logica è quella di far prevalere il principio della forza, nei casi di convenienza dell'apparato governativo di turno. E tuttavia, è l'interpretazione in sé della norma in questione - quella secondo cui l'imputato che si nasconde deve partecipare "a tutti i costi" al processo, quanto meno tramite conoscenza effettiva di accusa, luogo e data di udienza - a lasciare perplessi. In uno Stato di diritto persona offesa e reo dovrebbero essere sullo stesso piano, dal punto di vista del giusto processo. La peculiarità della posizione della vittima, quando è anche fisicamente "palpabile", è che diventa lo stesso Stato il suo rappresentante di fatto, mentre un ulteriore difensore ne tutela la posizione sotto il profilo risarcitorio, adiuvando con le sue (limitate) prerogative l'attività del pubblico ministero. Se questo è il presupposto di fondo, evitare il processo all'imputato - perché è di questo che si tratta -, soltanto poiché lo stesso si sottrae, più o meno consapevolmente, ad ogni forma di notificazione e di reperibilità, può costituire in alcuni casi una mortificazione e un vulnus insanabile al sistema stesso del giusto processo. Il processo, prima ancora di essere giusto, deve esserci. Altrimenti viene meno ogni forma di credibilità del sistema giudiziario. Si parla di onere di diligenza in capo a chi è sospettato di avere commesso reati e più in generale di onere di diligenza tout court . Fin dove arriva e fino a che punto è esigibile quest'onere? Quanto rispetto deve avere il presunto criminale nei confronti di chi è già stato vittima una volta, prima del processo? Ricominciamo dall'inizio, e dimentichiamoci per un attimo che l'omicidio Regeni è stato commesso a Il Cairo. Dimentichiamoci proprio che la vittima si chiamava Regeni. Quattro individui rapiscono, imprigionano e riempiono di botte e legnate un altro individuo fino ad ucciderlo. Una morte lenta e terribile. Le indagini portano all'identificazione dei quattro aggressori, il pubblico ministero formula un capo di accusa e un giudice dice che ci deve essere un processo per provare la responsabilità degli accusati. Ma costoro nel frattempo spariscono dai radar o comunque non sono più rintracciabili sul pianeta Terra, non importa per colpa di chi. Siamo proprio sicuri che tanto basta ad impedire alla giustizia di fare il suo corso? È un giusto processo o la negazione stessa della giustizia sostanziale? Quando la forma prevale in modo assoluto sul merito delle vicende umane, senza se e senza ma, forse occorre chiedersi se la giustizia è ancora amministrata in nome del popolo. [3] [1] https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20230927165042.pdf [2] Consigliere per le libere professioni della ministra Marta Cartabia con incarico conferito con d.m. 22 febbraio 2021 [3] La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 della Costituzione)
Autore: di Francesco Tallaro 14 set, 2023
(Rielaborazione della relazione orale pronunciata nel corso dell’incontro di studi su Riforme legislative ed efficienza del processo, organizzato dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato a Catanzaro il 23 giugno 2023) Accanto alla riconosciuta capacità del giudice amministrativo di soddisfare elevati standard di efficienza ed effettività della tutela nella risoluzione di controversie amministrative, vi deve essere la consapevolezza, da parte di tutti gli operatori della Giustizia Amministrativa – magistrati, avvocati del libero Foro e delle Amministrazioni pubbliche, personale amministrativo –, che solo una costante opera di aggiornamento culturale può consentire di continuare ad assicurare ai cittadini un servizio di elevata qualità, in un contesto storico che è connotato da un impetuoso cambiamento. Invero, i pubblici poteri – e, di conseguenza, il sistema della Giustizia Amministrativa in sede di sindacato sull’operato di questi – sono già alle prese con le sfide che derivano dal progresso degli strumenti tecnologici. Alla mente viene, in particolare, l’ampliamento delle possibilità di fare ricorso a processi decisionali automatizzati, sia attraverso l’uso – ormai definibile “classico” - di algoritmi predeterminati, sia sfruttando le possibilità fornite dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), connotati dalla capacità di autoapprendimento (il machine learning ; ancor di più, il deep learning ), e dunque capaci di giungere a decisioni percorrendo vie che il programmatore non aveva già in origine predeterminato. Non meno importanti sono poi gli elementi di novità che si profilano nel contesto economico, dominato - allo stato - dall’impellente necessità per le amministrazioni di dare attuazione al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, più suggestivamente denominato in ambiente dell’Unione europea come NextGenerationEU . D’altra parte, i tempi che viviamo sono altresì caratterizzati dalla riscoperta delle reciproche interferenze tra il perseguimento dello sviluppo economico e le esigenze di sicurezza nazionale, accentuate sia dall’invasione dell’Ucraina da parte delle forze militari russe, sia dalla crisi dei rapporti tra la Cina da un lato e degli Stati Uniti e i loro alleati dall’altro; interferenze che, a titolo di esempio, inducono sempre più spesso i governi ad introdurre e, quindi, ad esercitare il c.d. golden power [1] . Né va sottovalutata l’emersione, nel tessuto sociale, di nuove pretese e nuovi interessi, che poi ricercano tutela in giudizio. Tali complesse sfide necessitano non solo e non tanto della continua revisione delle strutture giuridiche che regolano i fenomeni sociali e i contrasti che li possono caratterizzare; ma, soprattutto, dell’adeguamento culturale degli operatori giuridici, in primis di coloro che intervengono nel momento di crisi delle capacità di mediazione degli interessi da parte dell’amministrazione, e dunque di contenzioso d’innanzi al giudice amministrativo. D'altro canto, resta necessario riflettere sull’ecosistema processuale amministrativo, individuando quali siano gli elementi che, sino ad ora, hanno consentito di rendere un buon servizio. Ciò, non solo al fine di consentirne la conservazione a fronte delle perenni pretese riformatrici del legislatore; ma anche per offrirli alla riflessione degli operatori degli altri sistemi processuali, come possibili elementi utili al miglioramento dell’efficienza delle altre giurisdizioni. Va, però, sgombrato il campo da un possibile equivoco. Il modello processuale amministrativo non è tout court esportabile negli altri ambiti del diritto. Esso, infatti, presenta degli elementi strutturali – non tanto del processo in sé, quanto delle modalità di intervento del giudice nel flusso dell’esercizio del potere amministrativo – che sono del tutto peculiari. Innanzitutto, va evidenziato come l’ambito di contenzioso su cui il giudice amministrativo interviene sia estremamente ridotto. Sul piano numerico, certamente, giacché negli ultimi anni le sopravvenienze medie d’innanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali sono state di meno di 49.000 affari per anno [2] , a fronte di sopravvenienze civili nei soli Tribunali di oltre 1.850.000 affari per anno [3] , con un rapporto di 1 su 37 [4] . Sul piano qualitativo, in maniera ancora più marcata: il giudice amministrativo si occupa esclusivamente delle controversie che sorgono quando il cittadino si rapporta l’esercizio di poteri pubblici [5] , mentre il giudice ordinario deve fronteggiare la conflittualità che si produce nei più disparati ambiti della vita di relazione, dal concepimento alla morte, passando dalla formazione e dalla possibile disgregazione della famiglia, dall’acquisto di beni e servizi, alla loro sorte dopo la morte del titolare; e deve giudicare dei reati che in tali varie e multiformi realtà vengono commessi. In secondo luogo, meritano di essere sottolineati i profili di specificità che caratterizzano da un lato l’intervento del giudice amministrativo nella realtà, dall’altra l’operato del giudice civile e del giudice penale. Costoro, quanto meno nei gradi di merito, hanno il compito di svolgere attività istruttoria per accertare il fatto controverso, assai raramente vertendo – la controversia portata all’attenzione dell’Autorità giudiziaria – su questioni di puro diritto. E, accertato il fatto, individuata la legge applicabile, ne fanno applicazione, ponendo fine alla res litigiosa o accertando definitivamente la penale responsabilità di un soggetto rispetto a un fatto qualificato come reato. In sostanza, pongono definitivamente conclusione, quanto meno sul piano giuridico, alla vicenda umana sottoposta alla loro attenzione. Al contrario, l’intervento del giudice amministrativo si pone come una parentesi tra l’azione amministrativa precedente e quella successiva [6] . In sostanza, l’intervento del giudice amministrativo si pone a un livello in cui l’amministrazione ha già istruito l’affare, selezionando i fatti ritenuti rilevanti per l’esercizio del potere pubblico. Il giudice, pur disponendo dell’accesso al fatto, attraverso un completo ventaglio di poteri istruttori, in realtà spesso non necessita di accertare quale sia la realtà fattuale su cui si innesta l’esercizio di poteri pubblicistici, ma – più modestamente – di valutare se l’attività, anche istruttoria, compiuta dall’amministrazione sia stata corretta e completa. Infatti, il difetto di istruttoria è elemento sintomatico del vizio dell’eccesso di potere, che conduce all’annullamento del provvedimento amministrativo, così soddisfacendo pienamente, in molti casi, l’interesse soggettivo che ha indotto il ricorrente a sollecitare l’intervento del giudice amministrativo, senza la necessità di approfondire quale sia la realtà fattuale. A valle di ciò, la pronuncia del giudice amministrativo è di regola seguita dal rinnovato esercizio del potere amministrativo, pur conformato dai rilievi contenuti nelle pronunce giurisdizionali. Quindi, sarà l’amministrazione, con un proprio provvedimento, a dare un definitivo assetto agli interessi in gioco. Si tratta di un modus operandi così interiorizzato, che addirittura il legislatore, nel disciplinare l’azione risarcitoria avanzata nei confronti dell’amministrazione davanti al giudice amministrativo, ha previsto, art. 34, comma 4 c.p.a. che il giudice, anziché liquidare il danno, possa limitarsi a stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione debitrice debba proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se il processo amministrativo non è, per ragioni strutturali, modello universalmente utilizzabile, esso nondimeno opera in un milieu di elementi culturali che, invece, ben potrebbero arricchire gli altri universi processuali. È dato di evidenza che difese delle parti di buona qualità semplificano l’attività giurisdizionale. Se già i difensori svolgono adeguatamente il compito di selezionare, nel fluire della realtà, i fatti rilevanti per la lite, attribuendo loro un’adeguata veste giuridica, il giudicante potrà concentrare il suo operato nell’individuazione della soluzione giuridicamente corretta. Ebbene, è esperienza comune l’elevata qualità della classe forense che opera d’innanzi alla giurisdizione amministrativa, sia essa del libero Foro ovvero si tratti di avvocature pubbliche. Altrettanto evidente è che i vari attori del processo amministrativo adottano un approccio collaborativo, che agevola la gestione del carico di affari e migliora complessivamente il sistema. Questa collaborazione si è sublimata quando – in piena pandemia da Covid-19 – sono stati redatti e quindi confermati quei protocolli operativi che hanno consentito di continuare ad assicurare ai consociati un adeguato livello di tutela giurisdizionale, nel pieno rispetto del diritto di difesa, pur in un contesto di forte emergenza [7] . La professionalità della classe forense e l’approccio collaborativo sono emersi anche con riferimento a un tema che presenta possibili profili di problematicità, quale i limiti dimensionali agli atti processuali. Infatti, nel contesto del processo civile, l’adozione ai sensi dell’art. 46 disp. att. c.p.c. del decreto del Ministro della Giustizia [8] che li definisce è stata accompagnata da voci fortemente critiche [9] , benché la violazione dei limiti possa comportare soltanto possibili esiti sulla regolamentazione delle spese di lite. Contestazioni altrettanto ferme non si ricordano allorché il Presidente del Consiglio di Stato adottò, ai sensi dell'art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., la disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo [10] , benché il diritto processuale amministrativo consenta addirittura al giudice di omettere l’esame delle questioni contenute nella parte degli atti eccedente i limiti dimensionali, senza che ciò costituisca motivo di impugnazione. Al netto delle differenze su specifici aspetti previste dalle due discipline processuali, può desumersi che gli avvocati amministrativisti abbiano avuto un approccio al tema maggiormente orientato al perseguimento del complessivo miglior funzionamento del sistema di Giustizia amministrativa. Va poi sottolineato, quale elemento che contribuisce a una maggiore efficienza del processo amministrativo, la disciplina sui c.d. carichi esigibili, adottata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa [11] a garanzia della qualità del lavoro giurisdizionale. Come noto, tale regolamentazione prevede che al singolo magistrato amministrativo non possa essere affidato un carico di lavoro che superi dei limiti specificamente determinati. L’affermazione che tale disciplina assicuri maggiore efficienza è controintuitiva: secondo una logica semplicistica, l’aumento del carico di lavoro assegnato ai magistrati dovrebbe comportare un aumento della produttività e, conseguentemente, un aumento dell’efficienza del sistema di Giustizia Amministrativa. Al contrario, è solo garantendo un carico di lavoro non eccessivo che si migliorano, al contempo, la qualità media delle pronunzie e l’efficienza del sistema. Infatti, decisioni più ponderate producono orientamenti giurisprudenziali più stabili nel tempo, che guidano le scelte processuali delle parti, scoraggiano le liti temerarie e le resistenze pretestuose. D’altra parte, non si deve dimenticare che le sentenze del giudice amministrativo hanno l’intrinseca capacità di conformare l’attività dell’amministrazione pubblica con riferimento alla singola vicenda controversa, e, più in generale, di orientare le scelte dei pubblici poteri. Non è dunque azzardata la conclusione per cui il tasso di litigiosità è inversamente proporzionale alla qualità delle decisioni del giudice amministrativo, sicché il concentrare gli sforzi sul miglioramento qualitativo del servizio-giustizia ha effetti benefici anche a livello di efficienza quantitativa. Nella stessa ottica, e cioè di migliorare l’efficienza del sistema di giustizia migliorando la prevedibilità delle decisioni giurisdizionali [12] , sì da orientare la condotta dei consociati, non va sottovalutato il tema dell’accessibilità della giurisprudenza. Il panorama, tra i vari plessi giurisdizionali, è vario. La Corte di Cassazione rende disponibili al pubblico le proprie pronunzie a partire dall’anno 2018, ma non c’è una banca dati pubblica delle sentenze di merito civili e penali. Per quanto riguarda il solo processo civile, esiste una banca dati di giurisprudenza interna all’applicativo Consolle del Magistrato , ma essa, accessibile ai soli magistrati, è alimentata su base sostanzialmente volontaria. Il SIGIT, il Sistema Informativo della Giustizia Tributaria consente ai giudici tributari l’accesso alla giurisprudenza di merito, ma la banca dati non è, allo stato, accessibile al pubblico. Sul sito della Corte dei Conti è disponibile solo una selezione delle pronunce del giudice contabile. Al contrario, tutte le decisioni, non solo del Consiglio di Stato, ma anche dei Tribunali amministrativi regionali, sono rese disponibili per esteso al pubblico, che può giovarsi anche di un semplice motore di ricerca. Dunque, tutti i cittadini e gli operatori giuridici interessati possono facilmente, senza fare ricorso a servizi privati a pagamento, indagare sugli orientamenti del giudice amministrativo, anche quello di primo grado a lui più prossimo, al fine di determinarsi sulla propria condotta. Vi sono, ovviamente, anche alcune caratteristiche della disciplina legislativa del processo amministrativo che contribuiscono al buon funzionamento del sistema e che sarebbero agevolmente esportabili. Innanzitutto, va posto l’accento sulla stabilità della disciplina processuale amministrativa. In disparte i due correttivi al codice del processo amministrativo, il d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, e il d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, l’impianto processuale complessivo, delineato nel 2010, è rimasto inalterato, anche allorché, nel 2016, vi è stata la transizione dal regime cartaceo a quello digitale. Tale stabilità, sorprendente se solo si consideri la bulimia di riforme processuali che ha caratterizzato l’approccio del legislatore al processo civile e al processo penale, ha consentito una rapida stabilizzazione degli orientamenti giurisprudenziali sulle questioni processuali, riducendo i profili di incertezza. Un esame empirico dei repertori di giurisprudenza, infatti, denota che i giudici amministrativi si occupano marginalmente di questioni processuali, salve quelle relative alla giurisdizione, inevitabili in un ordinamento con criteri di riparto così complessi, e quelle che si pongono al crocevia tra diritto sostanziale e diritto processuale, come la legittimazione al ricorso e l’interesse all’azione. Perfino il passaggio epocale al processo telematico non ha alimentato, grazie anche a un approccio sostanzialista condiviso dall’intero plesso giurisdizionale, grandi contrasti giurisprudenziali. Il legislatore, dal canto suo, ha inteso assicurare al giudice amministrativo uno strumentario estremamente flessibile. Si parte da una fase cautelare, che è un vero crocevia nella gestione del processo. Qui il ventaglio di opzioni attribuite al giudice è amplissima: l’atipicità delle misure cautelari gli consente di adottare una misura meramente conservativa, di optare per una misura propulsiva o, addirittura, di concedere, ove ne ricorrano i presupposti, un provvedimento anticipatorio degli effetti della decisione finale; se il contraddittorio è integro, il thema decidendum è definito e non ci sono attività istruttorie da svolgere, il giudice può definire il giudizio con sentenza, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.; anche il tempo processuale è uno strumento cautelare, posto che l’art. 55, comma 10 c.p.a. consente la fissazione in tempi brevi dell’udienza di merito, quando ciò possa soddisfare adeguatamente l’interesse presupposto alla richiesta di tutela cautelare. La flessibilità non viene meno quando si passa dalla fase cautelare a quella a cognizione piena e alla successiva fase esecutiva Infatti, con la sentenza che definisce il giudizio il giudice, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. e), dispone le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza. Quindi, viene anticipata alla fase di cognizione piena la tutela esecutiva. D’altra parte, è noto che il giudizio di ottemperanza di pronunzie del giudice amministrativo apre non di rado parentesi di cognizione, producendo l’effetto di un giudicato a cognizione progressiva [13] . L’idea di fondo, pare di poter concludere, è che “giusto processo regolato dalla legge” significa che è il legislatore a dover fissare le regole processuali, ma non anche che la legge debba azzerare lo spazio di discrezionalità del giudice nella gestione del processo. In altri ambiti processuali, invece, si assiste a un progressivo irrigidimento. Sia sufficiente fare cenno all’abrogazione del rito sommario nel processo civile, previsto dagli artt. 702-bis ss. c.p.a., che consentiva al giudice di procedere «omessa ogni formalità non essenziale per il contraddittorio»: esso è stato sostituito dal rito semplificato, che prevede adempimenti processuali molto più puntuali. L’irrigidimento processuale, invero, si avverte non solo nell’intervento legislativo, ma anche nella prassi: la proliferazione dei protocolli di buona pratica e delle linee guida ingessano, da un lato, la discrezionalità del giudice, mentre dall’altro lato rischiano di frammentare il rito civile in ragione dell’esistenza di una pluralità di micro-codici locali. Anche il processo amministrativo è suscettibile di interventi migliorativi, tra i quali, però, non sembra utile l’introduzione del giudice monocratico, strada percorsa invece prima dalla giustizia civile e, più di recente, dalla giustizia tributaria [14] . La sua introduzione nel processo civile e in quello penale non ha prodotto i risultati sperati in termini di miglioramento dell’efficienza, ed anzi, alimenta il rischio di moltiplicazione delle occasioni di contrasto occulto di giurisprudenza. Piuttosto, si potrebbe immaginare di arricchire lo strumentario processuale amministrativo con un modello di trattazione semplificata, senza comparizione delle parti in camera di consiglio – se non ritenuto necessario dal giudice –, per tutte quelle decisioni accessorie (liquidazione dei compensi agli ausiliari del giudice o ai difensori della parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato, concessione della proroga dei termini per il deposito della consulenza tecnica d’ufficio, sostituzione del Commissario ad acta risposta alla richiesta di chiarimenti formulata dalle parti in sede esecutiva) che oggi impegnano, a volte in maniera numericamente consistente, l’udienza camerale. Interessante, infine, è immaginare una standardizzazione (ovviamente non come contenuti, ma in termini di template , non difformemente da quanto accaduto con i provvedimenti del giudice amministrativo e del giudice tributario) degli atti processuali, attraverso la predisposizione di un software modellatore. Ciò agevolerebbe non solo la lettura degli atti, ma consentirebbe anche la gestione automatizzata degli stessi, in modo da instradare ogni atto processuale verso l’iter processuale che gli è proprio. Così, per esempio, il ricorso contenente un’istanza di abbreviazione dei termini verrebbe inoltrato automaticamente al presidente, mentre potrebbe essere automaticamente fissata l’udienza camerale per i ricorsi corredati da un’istanza cautelare. Questo consentirebbe di liberare preziose risorse amministrative per adibirle ad attività più qualificanti e preziose, quale, per esempio, la composizione di uno stabile ufficio del processo. [1] Il d.l. 15 marzo 2012, n. 21, conv. con mod. con l. 1 maggio 2012, n. 56, attribuisce al Governo poteri speciali nei settori della difesa e della sicurezza nazionale nonché in alcuni ambiti ritenuti di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti, delle comunicazioni (in particolare, le comunicazioni elettroniche a banda larga basati sulla tecnologia 5G), consentendogli l’esercizio del potere di veto o la formulazione di prescrizioni e condizioni alle acquisizioni di posizioni di controllo di imprese ritenute strategiche. [2] Secondo le statistiche allegate alla Relazione di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato, Avv. Luigi Maruotti, e relazione sulla attività della Giustizia amministrativa, anno 2023, le sopravvenienze in primo grado nell’ultimo quinquennio sono state le seguenti: 49.968 nel 2018; 50.874 nel 2019; 42.049 nel 2020; 48.112 nel 2021; 51.576 nel 2022. [3] Secondo i dati statistici riportati nella Relazione sullo stato della giustizia nell’anno 2022, presentata da Primo Presidente della Corte di Cassazione, Piero Curzio, le sopravvenienze nei Tribunali sono state le seguenti: 2.015.188 nel periodo dall’1 luglio 2019 al 30 giugno 2020; 1.853.198 dall’1 luglio 2020 al 30 giugno 2021; 1.683.910 dall’1 luglio 2021 al 30 giugno 2020. [4] Anche la giustizia tributaria riguarda un numero d’affari di gran lunga più elevato. Secondo le appendici statistiche allegate alla Relazione annuale sullo stato del contenzioso tributario, redatta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’anno 2022, nell’ultimo quinquennio la serie dei ricorsi sopravvenuti è la seguente: 153.349 nel 2018; 142.160 nel 2019; 108.650 nel 2020; 77.558 nel 2021; 145.972 nel 2022; con una sopravvenienza media di 125.538 affari per anno. [5] Peraltro, le peculiari regole di riparto dell’ordinamento italiano sottraggono alla cognizione del giudice amministrativo affari che, secondo molte tradizioni giuridiche, appartengono al sindacato del giudice amministrativo, ed in particolare quelli relativi al diritto d’asilo, o comunque alla protezione internazionale, e alle sanzioni amministrative. [6] M. Nigro, Giustizia Amministrativa, Bologna, 1976, 18. [7] Si vedano: a) il Protocollo di intesa tra Consiglio di Stato, Avvocatura Generale dello Stato, Consiglio Nazionale Forense, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Camera Amministrativa Romana, Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti, Società Italiana degli Avvocati Amministrativisti, Organismo Congressuale Forense, Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e Associazione dei Giovani Amministrativisti, per le udienze da remoto ex art. 4 D.L. 28/2020 nel periodo di emergenza Covid-19 del 26 maggio 2020; b) il Protocollo di intesa tra Consiglio di Stato, Avvocatura Generale dello Stato, Consiglio Nazionale Forense, Organismo Congressuale Forense, Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, Camera Amministrativa Romana, Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti, Società Italiana degli Avvocati Amministrativisti, Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e Associazione dei Giovani Amministrativisti, sullo svolgimento delle udienze “in presenza” nel periodo feriale presso le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato del 24 luglio 2020; c) il Protocollo di intesa tra Consiglio di Stato, Avvocatura Generale dello Stato, Consiglio Nazionale Forense, Organismo Congressuale Forense, Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, Camera Amministrativa Romana, Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti, Società Italiana degli Avvocati Amministrativisti, Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e Associazione dei Giovani Amministrativisti, sullo svolgimento delle udienze presso le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana dal 16 settembre al 15 ottobre 2020 del 15 settembre 2020; d) il Protocollo di intesa tra Consiglio di Stato, Avvocatura Generale dello Stato, Consiglio Nazionale Forense, Organismo Congressuale Forense, Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, Camera Amministrativa Romana, Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti, Società Italiana degli Avvocati Amministrativisti, Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e Associazione dei Giovani Amministrativisti, sullo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio “in presenza” presso gli uffici giudiziari della Giustizia amministrativa alla cessazione dello stato di emergenza del 20 luglio 2021; e) il Protocollo di intesa tra Consiglio di Stato, Avvocatura Generale dello Stato, Consiglio Nazionale Forense, Organismo Congressuale Forense, Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, Camera Amministrativa Romana, Unione Nazionale degli Avvocati Amministrativisti, Società Italiana degli Avvocati Amministrativisti, Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e Associazione dei Giovani Amministrativisti, sullo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio “in presenza” presso il Consiglio di Stato e il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana nella fase di superamento dello stato di emergenza per l'epidemia da covid-19 del 10 gennaio 2021. [8] Avvenuta con d.m. 7 agosto 2023, n. 110. [9] Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense, intervistato sull’edizione del 9 giugno 2023 del quotidiano Il Domani (articolo riportato alla pagine Internet https://www.consiglionazionaleforense.it/web/cnf-news/-/24697-193 ) ha dichiarato che il regolamento (all’epoca ancora allo stato di proposta) «non tiene in considerazione il diritto dei nostri assistiti ad una difesa che sia piena. Se io come avvocato ritengo di aver bisogno di un certo spazio per argomentare al meglio la posizione del mio cliente, non può esistere un regolamento che mi impone di usarne di meno». [10] Si veda il decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016. [11] Si veda la Delibera del Consiglio di Presidenza del 18 gennaio 2013, recante Disposizioni per assicurare la qualità, la tempestività e l’efficientamento della giustizia amministrativa. [12] M. Weber, in Die Wirtschaft und die Ordnungen, capitolo VI della seconda parte di Wirtschaft und Gesellschaft, Tubinga, 1921, scrive che l’economia «esige un funzionamento del diritto calcolabile secondo regole razionali». Di interessante lettura è il recente volume a cura di A. Carleo, Calcolabilità giuridica, Bologna, 2017, e, in particolare, il capitolo di N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica. [13] Si veda, da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 8 luglio 2021, n. 5196. [14] L’art. 4-bis d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, introdotto dalla l. 31 agosto 2022, n. 130, prevede ora la competenza del giudice monocratico nelle controversie di valore sino ad € 5.000,00.
Autore: a cura di Paolo Nasini 02 set, 2023
Trib. Bologna, sez. II, 09 marzo 2023, n. 467, est. M. Guernelli IL CASO La società ricorrente ha adito il Tribunale di Bologna, ex artt. 447 e 141 c.p.c. , al fine di riacquistare la disponibilità dell'immobile a destinazione commerciale (capannone industriale) di sua proprietà, occupato a suo dire sine titulo e senza corresponsione di alcuna indennità dalla società convenuta, nonché per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale subito per la mancata disponibilità del bene. A fondamento della richiesta risarcitoria, in particolare, la società ricorrente ha fatto valere l'orientamento giurisprudenziale maggioritario che, in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare, considera il danno “in re ipsa”, ovvero insito nella stessa perdita della disponibilità del bene e nell'impossibilità di conseguirne delle utilità, e basa la valutazione della prova anche sulla presenza di semplici elementi presuntivi del c.d. danno figurativo , quantificato secondo il valore locativo del bene. Parte ricorrente, quindi, ha chiesto il riconoscimento di un'indennità per la perdurante occupazione senza titolo dell'immobile, corrispondente al canone di locazione mensile di Euro 2.100,00, determinato secondo le quotazioni immobiliari della banca dati dell'Agenzia delle Entrate, da calcolare a partire dalla diffida del 19 giugno 2020, e così per 22 mensilità, per un totale di Euro 46.200,00. Ad ulteriore conferma del danno patrimoniale subito per l'indisponibilità dell'immobile, la società ha allegato documentazione dell'avvio di trattative per la vendita dell'immobile stesso, sfociate nella proposta di acquisto formulata da società terza, ma non perfezionate asseritamente a causa del mancato rilascio dell'immobile da parte della società occupante. Si è costituita in giudizio la società resistente, eccependo l’inammissibilità della domanda (non avendo la società ricorrente dato prova del diritto di proprietà dell'immobile conteso), e l’infondatezza della stessa, data l'esistenza di un accordo tra le parti per la concessione a titolo di comodato gratuito del capannone in favore della società medesima da ritenersi terminato solo al momento dell'estinzione del finanziamento originariamente prestato, e comunque idoneo e sufficiente a vincolare le parti a tempo determinato con conseguente esclusione della riconsegna anticipata; inoltre, la società ha eccepito l’infondatezza della domanda risarcitoria anche nel quantum , poiché basata sulla perizia di un perito di parte appositamente incaricato, e la possibilità di ricorrere ad una semplice quantificazione del danno perché ritenuto “in re ipsa” sarebbe stata superata dall'orientamento giurisprudenziale che, escluso che il danno da occupazione possa sussistere in sé per sé, ristabilisce l'onere di prova dell'effettiva entità del danno in capo al presunto danneggiato che agisce per ottenerne il risarcimento. Il Tribunale ha accolto il ricorso condannando la società resistente a rilasciare l'immobile per cui è causa in favore della ricorrente libero da persone e cose, nonché a corrispondere a quest’ultima, a titolo di indennità per l'occupazione senza titolo dell'immobile per cui è causa, la somma di Euro 46.200,00 per il periodo da luglio 2020 ad aprile 2022 compresi, oltre ad Euro 2.100,00 per ogni mese successivo sino alla data dell'effettivo rilascio. LA SOLUZIONE IN DIRITTO Accertata l’occupazione dell’immobile da parte della società resistente, l’esistenza di un comodato immobiliare non sarebbe stato sufficientemente provato e, comunque, non risulterebbe dimostrata né l’apposizione di un termine, né la previsione di un uso lo implicherebbe ex art. 1810 c.c., sì che sarebbe comunque lecito per il preteso comodante richiedere ad nutum la restituzione ai sensi della norma da ultimo citata, come di fatto avvenuto. Di qui l’obbligo della resistenza al rilascio dell’immobile, in quanto occupato in assenza di (prova di) valido titolo, e di cui la ricorrente ha chiesto la restituzione, libero da persone e cose. Per quanto concerne il danno, invece, il Tribunale ha richiamato il recente arresto delle S ezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass civ., Sez. Un., n. 33645 del 2022) , le quali hanno affermato che ‹‹ in caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato. In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, rappresentato dall'impossibilità di concedere il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o di venderlo ad un prezzo più conveniente di quello di mercato. In tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; poiché l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti, l'onere probatorio sorge comunque per i fatti ignoti al danneggiante, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l'evenienza di tali fatti sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto, mediante concessione a terzi dietro corrispettivo, restando, invece, non risarcibile il venir meno della mera facoltà di non uso, quale manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, suscettibile di reintegrazione attraverso la sola tutela reale ››. Applicando i suddetti principi alla fattispecie in esame il Tribunale ha valorizzato il fatto che, a fronte degli elementi dedotti e allegati da parte ricorrente, la società resistente non ha svolto alcuna contestazione oggettiva sull’ an e sul quantum , limitandosi a dedurre la soggettiva inattendibilità degli elementi dedotti per essere il tecnico estensore anche il legale rappresentante di altra società proponente l'acquisto di cui al doc. 6 del ricorrente; peraltro, tale inattendibilità non sarebbe fondata su circostanze concretamente valutabili, ben potendo lo stesso tecnico persona fisica con cui la ricorrente era entrato in contatto per un affare poi sfumato, essere stato poi incaricato di valutare professionalmente un bene di cui già aveva conosciuto come possibile parte contrattuale. La stima di parte prodotta, ampiamente motivata con riferimento all'OMI e ad indagini di mercato della zona, secondo il Tribunale, andava dunque presa in considerazione, comprese le inerenti conclusioni. Il Giudice bolognese, poi, ha affermato che il danno per l'occupazione senza titolo, se non in re ipsa in senso stretto, secondo l'insegnamento della S.C., può tuttavia essere equitativamente determinato partendo da elementi presuntivi quali il c.d danno figurativo (valore locativo del bene) e le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Secondo il Tribunale, in particolare, si può fondatamente ritenere che una società commerciale avente ad oggetto “l'acquisto, la vendita, la permuta, la locazione e l'amministrazione di beni immobili” avrebbe messo a frutto il bene in questione con un canone locatizio almeno di mercato (individuabile in euro 2.100 mensili) o lo avrebbe comunque immesso in commercio, come infatti risulta dalla proposta d'acquisto sfumata.
Autore: a cura di Federico Smerchinich 31 ago, 2023
T.A.R. Lazio Roma, Sez. IV bis, 12/08/2023, n. 13299 IL CASO E LA SOLUZIONE La sentenza in commento riguarda l’impugnazione da parte di un Comune degli atti con cui l’Agenzia per la Coesione Territoriale di Roma (di seguito solo “Agenzia”) non ha ammesso l’ente locale al finanziamento PNRR di progetto per la valorizzazione di beni confiscati, perché detto ente non avrebbe fornito al RUP i chiarimenti richiesti entro i termini fissati. La questione è stata risolta dal TAR Lazio facendo leva sull’interpretazione della normativa in materia di soccorso istruttorio e natura giuridica dei termini, in rapporto con le esigenze dettate dal PNRR. Nello specifico, la vicenda giudiziaria è scaturita dalla pubblicazione a marzo del 2023 della graduatoria in merito all’Avviso pubblico per la presentazione di proposte d’intervento per la selezione di progetti di valorizzazione di beni confiscati da finanziare nell’ambito dei progetti PNRR. Il Comune ricorrente ha partecipato a detto Avviso, ma non è stato ammesso al finanziamento. La non ammissione sarebbe derivata dal fatto che detto Comune non aveva tempestivamente risposto alla richiesta di chiarimenti avanzata dall’Agenzia in sede di soccorso istruttorio . In particolare, secondo l’Agenzia, il Comune non avrebbe fornito entro i termini di legge i chiarimenti in merito alla coincidenza tra i beni oggetto di intervento, il decreto di destinazione e l’atto di trascrizione. Il Comune ha, così, impugnato al TAR Lazio gli atti di della procedura, contestando tra l’altro che il termine di 7 giorni (di cui solo 4 giorni lavorativi) assegnato dall’Agenzia per fornire i chiarimenti non sarebbe stato previsto da alcuna disposizione di legge, non terrebbe conto del caso di specie e che in concreto sarebbe irragionevolmente breve e sproporzionato. Ciò anche considerando che comunque il Comune aveva risposto ai chiarimenti in termini utili a non aggravare il procedimento e che una richiesta di soccorso istruttorio generica e contraddittoria escluderebbe la perentorietà del termine per fornire i chiarimenti. Il TAR, proprio in relazione alle tempistiche di attivazione del soccorso istruttorio, ha accolto l’istanza cautelare ritenendo irragionevolmente esiguo il termine assegnato dall’Agenzia al Comune per rendere i chiarimenti richiesti. Successivamente, in sede di merito, il TAR ha cambiato opinione, rilevando da una parte che l’amministrazione avrebbe potuto escludere il Comune dal finanziamento indipendentemente dall’attivazione del soccorso istruttorio: tale soccorso, quindi, sarebbe stato un atto ulteriore al fine di assicurare la più ampia collaborazione tra le parti. Il TAR sostiene questa tesi partendo dal fatto che le procedure PNRR debbano essere caratterizzate da celerità e speditezza per rispettare gli impegni assunti a livello europeo, nonché facendo leva su quella recente giurisprudenza che esclude l’attivazione del soccorso istruttorio proprio per garantire la veloce conclusione delle procedure PNRR. Dall’altra parte, il TAR, smentendo quanto affermato in sede cautelare, non ha condiviso la censura del Comune in merito alla presunta irragionevole brevità del termine concesso in sede di chiarimenti. In particolare, il TAR ha ritenuto che, anche alla luce delle esigenze di celerità sottese al PNRR, il termine di 7 giorni non sia esiguo, anche alla luce della nuova normativa in materia di contratti pubblici . Infatti, l’ art. 101 del nuovo d.lgs. n. 36/2023 prevede che l’amministrazione, in sede di soccorso istruttorio, possa assegnare un termine non inferiore a 5 giorni e non superiore a 10 giorni per fornire i chiarimenti. Non a caso, il legislatore ha dettato precise preclusioni temporali sia per tutelare i partecipanti, sia per garantire la celerità del procedimento. Il previgente art. 83 comma 9 d.lgs. n. 50/2016 (vigente al momento di svolgimento della selezione in questione) prevedeva solo un termine non superiore a 10 giorni, non indicando preclusioni per i termini inferiori. A tale argomento, il TAR aggiunge alcuni chiarimenti in merito alla natura perentoria del termine assegnato in sede di soccorso istruttorio, con impossibilità per l’amministrazione di acquisire i chiarimenti forniti tardivamente. La tesi della perentorietà nel caso concreto è sostenuta dal TAR sulla base dei seguenti elementi: esigenza di celerità e speditezza nei procedimenti PNRR; l’avvertimento dell’Agenzia sulla non accoglibilità dei chiarimenti forniti tardivamente o in maniera non corretta; necessità di garantire la par condicio tra i concorrenti. Dopo aver ritenuto infondati anche gli altri motivi, il TAR ha dunque respinto il ricorso. RIFLESSIONI DI SISTEMA È a tutti noto l’effetto che il PNRR ed i dettami dell’Europa stanno avendo nei confronti delle procedure amministrative, ora guidate prevalentemente da ragioni di velocità. Come si può notare anche nella sentenza in commento, il TAR ha risolto la questione facendo leva proprio sulla necessità di garantire la celere conclusione del procedimento di finanziamento, a discapito dell’ammissione di un progetto ulteriore (potenzialmente meritevole e qualitativamente importante). Questo è frutto del fatto che, alla luce del PNRR e dell’evoluzione normativa post pandemica, anche le norme in materia di contrattualistica pubblica, o comunque di procedure selettive per finanziamenti, devono essere prioritariamente interpretate alla luce del principio di speditezza dei procedimenti amministrativi. E così, il numero di giorni concesso dall’amministrazione in sede di soccorso istruttorio può essere ritenuto ragionevole se, rientrando nei limiti ammessi dalla normativa, è in linea con le esigenze di velocità del PNRR. Corollario di tale ragionamento è la natura perentoria e non ordinatoria di questi termini, che non possono di regola essere derogati. Si potrebbe concludere che nelle procedure PNRR debba essere sempre preferita l’interpretazione che tutela il veloce raggiungimento dell’obiettivo dettato dal PNRR, piuttosto che quella che estenda la partecipazione alle procedure ad una maggiore platea possibile di interessati. Argomento che può essere generalmente esteso anche alle procedure per l’affidamento di contratti pubblici alla luce del nuovo codice. Questa lettura va di pari passo con i principi che sono espressi nella prima parte del Libro I, titolo I d.lgs. n. 36/2023, con particolare riferimento a quello del risultato (art. 1) e della fiducia (art. 2). Infatti, da una parte il legislatore delegato ha elevato a canone interpretativo primario quello per cui il principio del risultato costituisce attuazione del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficacia, efficienza ed economicità, al fine di perseguire gli interessi dettati dall’Unione Europea, mentre, dall’altra, ha valorizzato la necessità che ogni amministrazione e partecipanti alle procedure contrattualistiche collaborino al fine di consentire il celere raggiungimento del migliore risultato possibile. Alla luce di tali considerazioni, anche gli orientamenti giurisprudenziali e le prassi amministrative orienteranno la loro rotta verso scelte ermeneutiche e pratiche che garantiscano la velocità nell’ottenere il risultato, superando interpretazioni delle norme favorevoli ad ammettere possibilità non strettamente previste dalla normativa. La sentenza in commento dimostra ciò, con l'esclusione, per ragioni di tardività, di chiarimenti che, qualora ritenuti convincenti, avrebbero consentito l'accesso al finanziamento di un altro progetto.
Autore: a cura di Silvana Bini 22 ago, 2023
(Commento al parere n. 960/2023 del 27/06/2023 della prima sezione del Consiglio di Stato) Un recente parere del Consiglio di Stato ha esaminato il caso di in immigrato che aveva chiesto il riconoscimento della cittadinanza italiana ai sensi dell’ art. 9, comma 1, lettera f, della l. 5 febbraio 1992, n. 91 , approfondendo il rapporto tra soglie di reddito necessarie e condizioni soggettive di disabilità e invalidità dei richiedenti e dei componenti il loro nucleo familiare. Il rigetto dell'amministrazione era stato motivato per la presenza di illeciti amministrativi e di notizie di reato: un fermo amministrativo del motoveicolo di sua proprietà per violazione dell’articolo 171 c.d.s..in data 3 agosto 2015 e una segnalazione in data 25 novembre 2002, all’autorità giudiziaria per i reati di cui agli artt. 416 c.p.p , 610 c.p. e 628 c.p. Ulteriore ragione del rigetto l’insufficienza delle capacità reddituali. Il richiedente aveva così proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, lamentando innanzitutto la violazione dell’articolo 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241: l’Amministrazione infatti, avendo ricevuto le controdeduzioni al preavviso di diniego oltre il termine dei 10 giorni assegnato, aveva sostenuto che non sussisteva l’obbligo di esaminare le osservazioni e controdedurre nel provvedimento conclusivo. In sede consultiva, la prima sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto fondata la censura di violazione dell’art. 10 bis L. 241/90, richiamando l’orientamento secondo cui i termini di dieci giorni devono considerarsi ordinatori e non perentori, stante la mancata qualificazione in tal senso contenuta nella legge (T.A.R. Molise, sez. I, 29 aprile 2019, n.144; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 12 dicembre 2018, n. 1800; T.A.R. Toscana, III Sezione, 4 Luglio 2014 n. 1201; T.A.R Lecce, sez. III, 26 luglio 2016, n. 1314). Si è precisato nel parere che “l ’Amministrazione non è vincolata ad attendere la produzione delle controdeduzioni oltre il termine assegnato, ma, se queste vengono prodotte prima dell’emissione del provvedimento conclusivo del procedimento, è tenuta a prenderle in considerazione, esaminando i profili sollevati dal ricorrente ”. Sulla questione la prima sezione ha richiamato una serie di principi pacifici: alla facoltà del privato di rappresentare le proprie considerazioni sulle ragioni ostative prospettate dall'amministrazione con il preavviso di rigetto fa da contraltare l'obbligo per quest'ultima di dar conto, nel provvedimento finale, delle ragioni che l'hanno indotta a discostarsi dalle osservazioni di parte, venendo così in rilievo, da un lato, un obbligo di motivazione specifica e rinforzata e, dall'altro, una limitazione dello jus variandi , per cui in sede di emanazione del provvedimento non possono essere addotte ragioni nuove rispetto a quelle prospettate nel preavviso di rigetto (Consiglio di Stato sez. VI, 27/09/2018, n.5557). Il rispetto del principio del contradditorio non richiede la disamina analitica di ciascun elemento sollevato nelle controdeduzioni, ma che l’Amministrazione confuti le ragioni di illegittimità sia in fatto che in diritto presentate dal ricorrente, soprattutto nella materia in esame: afferma il Giudice che “p er il particolare rigore che caratterizza la concessione di cittadinanza, grava sull’Amministrazione l’obbligo di una completa rappresentazione della realtà tramite un’accurata ed estesa istruttoria, di cui la motivazione del provvedimento deve dare contezza, con trasparenza, coerenza, logicità e comprensibilità al fine di consentire il sindacato di legittimità sull’esercizio della discrezionalità stessa, che, per quanto ampia, non può sconfinare in arbitrio (Consiglio di Stato, Sez. I, parere n. 806/2022; Sez. III, n. 8022/2021) ”. Tuttavia il Collegio non si è limitato a riconoscere la violazione delle garanzie partecipative, ma ha affermato che “l’assenza di esame delle controdeduzioni avrebbe portato a una differente decisione”. Perché? Per affermare questo, vengono esaminate le motivazioni del rigetto, partendo dalle segnalazioni all’autorità giudiziaria. Il ricorrente aveva dimostrato che le segnalazioni all’autorità giudiziaria non avevano avuto seguito, dal momento che egli non sarebbe neppure stato indagato: aveva pagato la sanzione amministrativa, con la precisazione che, come risulta dallo stesso verbale di contestazione, portava il casco, ma questo era slacciato, e che la mancata revisione del veicolo si riferiva ad un ritardo di soli 4 giorni. Dopo aver ricordato che la valutazione è ampiamente discrezionale, il Collegio ha però ribadito che l’Amministrazione “ deve tenere conto non soltanto dei fatti penalmente rilevanti, ma anche dell'area della prevenzione dei reati, con accurati apprezzamenti sulla personalità e la condotta di vita del naturalizzando, al fine di valutare la probabilità che questi possa in futuro arrecare pregiudizio alla sicurezza dello Stato per una mancata piena adesione ai valori fondamentali del nostro ordinamento" (Consiglio di Stato sez. III, 27/02/2019, n.1390). Tale valutazione deve avere necessariamente carattere complessivo; deve, dunque, abbracciare tutti gli elementi utili a dimostrare l’effettivo grado di adesione ai valori fondativi dello Stato (quale forma di aggregazione, anche sulla base di quei valori, della comunità in esso costituitasi). Solo dall’inquadramento in concreto delle singole vicende, anche penalmente rilevanti, che abbiano caratterizzato il vissuto del richiedente entro una cornice più ampia e tale da inglobare l’intero percorso esistenziale, lavorativo, sociale e familiare dell’interessato, antecedente o successivo ai singoli episodi, è possibile apprezzarne compiutamente il peso nella determinazione della scelta sottesa alla presentazione dell’istanza di inclusione nella comunità dei cittadini e del formale riconoscimento dello status civitatis (Cons. Stato, sez. III, 8022/2022)”. Nel caso di specie l’Amministrazione si era limitata a riprodurre i contenuti del rapporto informativo acquisito nel 2016 senza svolgere alcuna verifica ulteriore, mentre avrebbe dovuto verificare lo stato e gli eventuali esiti dei procedimenti penali. L’omessa valutazione delle osservazioni presentate dal richiedente sulle “differenze derivanti dalla disabilità nella capacità di sostentamento, finalizzate a valutare l’idoneità ad adempiere ai doveri di solidarietà civile, economica e sociale, concorre a rendere il provvedimento impugnato illegittimo”. In relazione ai requisiti reddituali , il ricorrente allegava documentazione relativa ai redditi percepiti e quella concernente l’ invalidità , tra cui i verbali della Commissione INPS: il ricorrente, il cui nucleo familiare è composto dal coniuge e da due figli, è stato invalido al 70%, condizione che l’amministrazione non avrebbe considerato. Il Collegio ha allora esaminato la disciplina relativa alle capacità reddituali in materia di cittadinanza (l’art. 9, comma 1, lett. f) della legge n. 91 del 1992, la Circolare del Ministero dell'Interno DLCI K. 60.1 del 5 gennaio 2007), per concludere che detta disciplina non prende in considerazione la condizione di invalidità del richiedente e, quella eventuale, dei membri del nucleo familiare. La scarsa attenzione alla possibile condizione di invalidità emerge anche dal modulo della domanda on line, in quanto tale condizione non viene specificamente indicata. Tuttavia la mancata considerazione della condizione di disabilità da parte della circolare amministrativa che definisce le capacità reddituali non ne comporta la irrilevanza sostanziale, in tema di requisiti; al contrario, ritiene il Consiglio di Stato, è l’Amministrazione a dover tenere comunque conto di tali profili nello svolgimento dell’attività istruttoria, dal momento che le soglie reddituali non costituiscono parametri rigidi. “ In sede di valutazione della istanza per la cittadinanza, la capacità e la incapacità di produrre un reddito non possono prescindere dalle condizioni personali del richiedente ”: questa conclusione è affermata richiamando i principi costituzionali e le norme internazionali recepite nel nostro ordinamento a tutela delle persone con disabilità. I principi costituzionali trovano applicazione per i cittadini e per gli stranieri: ci ricorda la giurisprudenza costituzionale che “i diritti fondamentali ed il principio di eguaglianza costituiscono i pilastri del nostro ordinamento e devono informare l’attività dell’Amministrazione (Corte Cost. 8 maggio 2023, n. 88; 25 febbraio 2011, n. 61; 16 maggio 2008, n. 148). E questo principio è stato recepito nella legislazione ordinaria all’articolo 2, comma 1, d.lgs 25 luglio 1998, n. 286. Viene in gioco non solo il primo comma dell’articolo 3 Costituzione ma anche secondo comma dell’articolo 3 Costituzione, “ applicabile anche agli stranieri, in forza del quale la Repubblica deve porre in essere misure idonee a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Tale disciplina si collega alle disposizioni dell’articolo 2 Costituzione in materia di doveri inderogabili di solidarietà ed al principio di progressività di cui all’articolo 53 della Costituzione ”. Non differenziare i requisiti reddituali in ragione della esistenza di una disabilità configura una violazione del principio di eguaglianza: “ Negare ad una persona con disabilità la concessione della cittadinanza, in ragione della incapacità o limitata capacità di produrre un reddito adeguato al sostentamento della propria famiglia in dipendenza dell’handicap o dell’invalidità da cui è colpito, rappresenta una evidente violazione del principio di eguaglianza ”. Viene poi richiamata la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità , sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e divenuta efficace con legge di ratifica 3 marzo 2009 n. 18: l’articolo 5 della Convenzione recita: “ 1. Gli Stati Parti riconoscono che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge. 2. Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento. 3. Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli. 4. Le misure specifiche che sono necessarie ad accelerare o conseguire de facto l’uguaglianza delle persone con disabilità non costituiscono una discriminazione ai sensi della presente Convenzione .” Nella decisione si esamina un ulteriore aspetto: “ la sussistenza di una disabilità del richiedente non incide solo sul profilo della valutazione delle capacità reddituali, ma dovrebbe informare la valutazione complessiva della integrazione sociale ”. Si afferma che “la condizione di disabilità pone ostacoli ulteriori alla integrazione sociale il cui superamento deve costituire elemento rilevante al fine della valutazione che l’Amministrazione è tenuta a compiere circa l’idoneità del richiedente” e che necessitano di un intervento attivo dello Stato in tutte le sue articolazioni diretto alla rimozione di tali ostacoli, al fine di assicurare il rispetto dei principi di eguaglianza ed ottemperare al divieto di discriminazione, come ricorda la Corte di europea dei diritti dell’uomo che ha elaborato un’interpretazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) secondo la quale “ l’articolo 8 Cedu tutela oltre ai legami familiari in senso proprio, anche il diritto di allacciare e intrattenere legami con i propri simili e con il mondo esterno; dunque, tutti i rapporti sociali instaurati dagli interessati, ivi compresi quelli lavorativi (per eccellenza indicativi di inserimento sociale), nonché la rete di relazioni riconducibili alle comunità nelle quali gli stranieri soggiornanti sul territorio si trovano a vivere, fanno parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi della norma in esame ” (Corte europea diritti dell’uomo Sez. I, Sent., (ud. 22/01/2019) 14-02-2019, n. 57433/15; Ü. c. Paesi Bassi [G.C.], n. 46410/99, § 59, CEDU 2006-XII). Osservazioni finali. Il parere dà applicazione all’orientamento secondo cui le soglie reddituali non costituiscono parametri rigidi, ma vanno correlate alle condizioni in cui i richiedenti si trovano (da ultimo Cons. Stato, sez. III, 5133/2023). Tra queste condizioni, la prima sezione ha ritenuto che un ruolo determinate viene ricoperto dalle condizioni soggettive di disabilità e invalidità dei richiedenti e dei componenti il loro nucleo familiare, alla luce non solo dei principi nazionali di uguaglianza, solidarietà sociale e di progressività, della giurisprudenza comunitaria , ma anche della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e divenuta efficace con legge di ratifica 3 marzo 2009 n. 18. Dalla lettura del parere scaturiscono alcune riflessioni. La materia dell’immigrazione ha risvolti giuridici “interessati e attraenti” pari a materie che qualificano il giudice amministrativo come giudice speciale e giudice dell’economia. Il parere conferma come la materia dell’immigrazione offra profili di studio e di approfondimento, in quanto si inserisce in un contesto di disposizioni internazionali, comunitarie e nazionali, con profili di coordinamento e di integrazione. Una materia che merita quell’attenzione propria di ogni questione in cui sono in gioco aspetti umani e umanitari. Possiamo affermare che esiste un diritto dell’immigrazione, come “settore” del diritto amministrativo. Ne è riprova una interessante pubblicazione dell’Università di Trento, “ IL DIRITTO IN MIGRAZIONE Studi sull’integrazione giuridica degli stranieri a cura di Fulvio Cortese Gracy Pelacani” (Libro in Open Access scaricabile gratuitamente dall’archivio IRIS - Anagrafe della ricerca (https://iris.unitn.it/) pubblicato anche in versione cartacea Editoriale Scientifica – Napoli), che raccoglie “temi e questioni che il migrante straniero incontra allorché intraprende il percorso che lo conduce dal Paese d’origine al luogo in cui finisce per tentare un percorso più o meno intenso di “integrazione”. Nel 2015 è stata stilata L’Agenda europea sulla migrazione ; in quell’occasione la Commissione sottolineava che la «complessità intrinseca del fenomeno migratorio esercita molti e diversi effetti sulla società (…) e richiede molte e diverse risposte». Molte e diverse domande sono rivolte anche nei ricorsi: si tratta di trovare le giuste risposte di giustizia, ricordando che “ Il segreto della giustizia sta sempre in una maggior umanità ” (Calamandrei). Il parere della prima sezione del Consiglio di Stato ne è probabilmente un esempio.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 15 ago, 2023
Nel disegno di legge riguardante " Modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e all’Ordinamento giudiziario " presentato alle Camere dopo l'approvazione dello scorso 15 giugno da parte del Governo - su iniziativa del Ministro Nordio - c'è una sintesi del pensiero dell'attuale esecutivo (rappresentativo peraltro di una larga fetta del ceto politico italiano) sulla nostra magistratura penale. Inadeguata a tratti . Dotata di strumenti appena sufficienti quando si tratta di colpire violenti e disgraziati senza peso , con troppi proiettili nel cilindro della pistola quando l’obiettivo è fermare la corsa di presunti corrotti e corruttori ben inseriti nel sistema. Il diritto (e processo) penale a doppia velocità, che era già nei fatti, diventa adesso istituzionalizzato, nella prospettiva della riforma Nordio . Quattro sono i fondamentali tasselli del disegno di legge, in questo senso: l'abrogazione del reato di abuso di ufficio, l'interrogatorio preventivo dell' arrestando , la competenza collegiale del Giudice che deve disporre la custodia cautelare in carcere, e la limitazione del potere di appello dei p.m.. Quanto al primo aspetto, è evidente che ormai la crociata contro l’ abuso di ufficio conserva un mero profilo ideologico; nella stessa relazione preparatoria al disegno di legge si legge infatti testualmente che le iscrizioni della notizia di reato finiscono in gran parte archiviate, e questo, va ricordato, specie a seguito della riformulazione della fattispecie operata con la riforma del 2020 (*) , ma ci si dimentica, quanto meno, che è ancora avvertita come necessaria una copertura normativa di natura repressiva contro la volontaria violazione del dovere di astensione , quando si ha un interesse confliggente con la parte privata, e che è abbastanza puerile indurre da una grossa sproporzione tra iscrizioni nel registro delle notizie di reato e condanne l’irrilevanza penale di fattispecie dai chiari risvolti illeciti. Al massimo, se ne dovrebbe dedurre che si tratta di un reato molto difficile da provare. Per contro, l’abrogazione del reato di abuso di ufficio ci mette nei guai con l’Unione europea, perché si tratta di determinazione in disarmonia con le costanti raccomandazioni europee, volte a contrastare senza quartiere la corruzione interna negli Stati membri, anche tramite l’individuazione di fattispecie penali di “confine”. L’ interrogatorio preventivo del soggetto per il quale è stata richiesta una misura cautelare personale può segnare invece la fine della segretezza delle indagini in un periodo di tempo in teoria troppo anticipato rispetto all’inizio del dibattimento, specie in procedimenti complessi e con molti indagati aventi diverso spessore criminale. Non si capisce poi perché tale interrogatorio è stato previsto solo per alcune categorie di reato, tra cui, neanche a dirlo, ci sono i temutissimi (da chi?) reati contro la pubblica amministrazione; la norma parte poi da un equivoco di fondo: le esigenze cautelari volte a evitare la reiterazione del delitto o sono sempre indifferibili, e per qualsivoglia illecito penale "grave", o non lo sono mai. Si apre infine la prospettiva tragicomica di un garbato invito a rendere interrogatorio che finisce con le manette al polso. La competenza collegiale del Giudice che dispone la custodia cautelare in carcere è invece qualcosa di semplicemente paradossale, in rapporto agli attuali organici di fatto – ridotti all’osso - della magistratura ordinaria, circostanza non certo emendabile con un piccolo aumento soltanto teorico (la provvista reale è tutta un’altra storia) della platea dei giudici di primo grado. Significa inoltre creare una catena di disagi collettivi e individuali – anche a seguito del fioccare di incompatibilità successive – per i poveri Tribunali con pochi giudici, tanto è vero che la relazione descrittiva del disegno di legge, con disposizione poi riprodotta nel testo, parla della possibilità di “ attingere (…) anche ad altri uffici giudiziari inclusi nella medesima tabella infradistrettuale ”. Vi è infine l’eterno ritorno dell’identico, ovvero l’ impossibilità per il p.m. di impugnare le sentenze di primo grado emesse a seguito di citazione diretta in giudizio. Già bocciata una volta dalla Corte costituzionale per violazione della parità delle armi (*) , la misura torna in formato ridotto ma sempre probabilmente illegittimo, specie considerando che la riforma Cartabia ha nel frattempo allargato la platea dei reati perseguibili con citazione diretta a giudizio. Ma da dove nasce l'ideologia supergarantista a metà sottostante alla riforma? È forse semplicistico ma non lontano dalla verità evidenziare l'impatto sull'evoluzione del sentiment collettivo in materia di giustizia penale che ha avuto la travagliata epopea giudiziaria di Silvio Berlusconi. Le sue vicende penali hanno infatti segnato non solo parte della cronaca giornalistica degli ultimi trent’anni ma anche una fetta non irrilevante di pronunce, che non si sono limitate a scendere nel merito delle singole incriminazioni (anche quando l'esito è stato di prescrizione), ma che hanno anche sviscerato importanti aspetti processuali e sostanziali del diritto penale contemporaneo, mettendone a nudo falle e contraddizioni. Nell’ultima sentenza in ordine di tempo che si è occupata dell’imputato Berlusconi (nell’ambito del cosiddetto processo Ruby-ter ) è stato proprio il Tribunale di Milano – che tanto era stato strumentalmente “attaccato” come nemico del popolo – a mettere la pietra più garantista nella complessiva costruzione giuridica che ha salvato da condanna certa l’ex Presidente del Consiglio (*) . Con la particolarità che la pronuncia in questione ha citato, nell’ incipit delle sue motivazioni, la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite resa sul caso dell’avvocato inglese David Mills, e cioè di quell’imputato per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza che avrebbe favorito a pagamento, in altri tempi e in altri processi, un certo Mr. B. (identificato anche in quel caso con Silvio Berlusconi). Si è chiuso così, idealmente, un percorso giudiziario che è cominciato negli anni ’90, che è finito nel secondo decennio del nuovo millennio, e che ha visto sempre lo stesso protagonista nelle vesti di asserito corruttore non condannato; i Giudici che se ne sono occupati, nel frattempo, si sono affannati per decenni a sviscerare giuridicamente le fattispecie di reato da accertare (con importanti arresti giurisprudenziali), senza però mai arrivare ad una sentenza di merito. Bisognerebbe forse partire proprio da qui per capire cosa non va nella nostra giustizia penale. Ma andiamo con ordine, anche se a ritroso. Nel suo ultimo arresto (sentenza sul caso Ruby-ter, le cui motivazioni sono state depositate il 15 maggio 2023), il Tribunale di Milano ha assolto Berlusconi perché il fatto di corruzione in atti giudiziari , da lui commesso, nell'ipotesi accusatoria, in qualità di parte attiva, tramite generose elargizioni alle testimoni che lo avrebbero potuto “inguaiare”, non era giuridicamente configurabile, per una ragione squisitamente tecnica: prima ancora che fosse fornita in dibattimento la prova dell’accusa sulla falsa testimonianza e corruzione passiva tenute dalle donne che avevano reso dichiarazioni nei precedenti processi ( Ruby-1 e Ruby-bis ), le autorità giudiziarie che si erano occupate di quei casi avevano a disposizione già negli atti dei loro processi indizi su tali fatti di reato, e quindi avrebbero dovuto offrire le opportune garanzie difensive alle dichiaranti, prima di farle parlare. E poiché costoro non avrebbero potuto essere sentite come testimoni “pure”, le elargizioni in loro favore non avrebbero potuto essere considerate frutto di corruzione in atti giudiziari, in assenza della qualificazione giuridica corretta richiesta dalla fattispecie incriminatrice. E’ una motivazione tutta tecnica che segna una vera e propria sconfitta per la macchina della giustizia. Il fatto sostanziale contestato dall’accusa (dazione di denaro per ottenere una condotta faziosa in un giudizio) è stato provato, addirittura prima ancora del relativo processo, ma l’imputazione era tecnicamente sbagliata. E a dirlo sono gli stessi Giudici che avrebbero dovuto decidere sulla base di tale imputazione. Altro che separazione delle carriere. Qui, a carriera unica, ci sono magistrati di primo grado che bacchettano senza mezzi termini altri magistrati. Prima ancora, però, nel 2012, lo stesso Tribunale di Milano aveva illustrato con ancora maggiore evidenza cosa non funzioni in generale nell’odierno processo penale, e, nello specifico, cosa non abbia funzionato nel perseguire un imputato del calibro di Silvio Berlusconi (1) . Il Collegio penale si era ritrovato in mano la patata bollente di dovere emettere sentenza contro l’ex Presidente del Consiglio a prescrizione di reato ormai consumata. Originariamente, e come è normale che sia, Berlusconi era co-imputato con l’avv. David Mills per corruzione in atti giudiziari , in quanto, nella prospettazione dell’accusa, il primo prometteva al secondo una ricompensa, e faceva poi entrare nella disponibilità di Mills unità di fondi di investimento per un valore complessivo di 600.000 dollari, affinché lo stesso Mills lo favorisse, con testimonianze false o reticenti, nei procedimenti penali Arces + altri (corruzione nei confronti di militari della Guardia di Finanza) e All Iberian (falso in bilancio e finanziamento illegale di partiti politici), mentendo in ordine al ruolo di Silvio Berlusconi nella struttura di trust, società offshore e fondi extra bilancio creata dallo stesso Mills alla fine degli anni ’80 e convenzionalmente denominata Fininvest B Group, utilizzata nel corso del tempo per attività illegali e operazioni riservate del Gruppo Fininvest. Ma poi il procedimento a carico di Silvio Berlusconi è stato stralciato e deciso dopo che la Cassazione aveva dichiarato estinto il reato a carico di Mills per prescrizione (Cassazione penale sez. un. - 25/02/2010, n. 15208), e dopo che ben due leggi approvate dal Parlamento, il cosiddetto lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento (2) , avevano provato a fermarlo o, quanto meno, a rallentarlo. I Giudici del Tribunale di Milano ci danno a questo proposito una spiegazione dei motivi per cui si è prescritto anche il reato a carico di Berlusconi, che è bene riportare per esteso, senza ulteriori commenti. “ Premesso che è dovere istituzionale di ogni giudice evitare il decorso della prescrizione pur essendo esso un possibile esito del processo, ancorché patologico, ritiene il Tribunale che il tempo a disposizione di questo collegio per giungere ad una decisione di merito si sia compiuto nel concorso di cause ad esso estranee. Deve, infatti, in primo luogo sottolinearsi la data della notitia criminis - il 2004 - a fronte di fatti accaduti, nell’iniziale prospettazione accusatoria, “fino al 2 febbraio 1998”; la lunghezza delle indagini; il tempo intercorso tra il rinvio a giudizio (decreto del 30 ottobre 2006) e la data della prima udienza (13.3.2007), vale a dire quattro mesi e mezzo dopo; la separazione degli atti a seguito della questione di costituzionalità sollevata dal collegio (...) sul c.d. “Lodo Alfano”. A tale ultimo proposito deve evidenziarsi come la prescrizione fosse problema già presente (…). Problema che la decisione di separare gli atti intervenuta con ordinanza 4.10.2008 – su difforme parere dei difensori di entrambi gli imputati - sembra poi non aver più considerato. Tale scelta, infatti - le cui ragioni, al di là della motivazione formale, restano sinceramente oscure - ha posto una pesantissima ipoteca sul corso del presente processo. Quel dibattimento era infatti al suo volgere quando il 14.10.2008 è stato disposto lo stralcio degli atti nei confronti di Mills. (…) In data 17.2.2009 il Tribunale ha pronunciato la sentenza a carico di Mills, decorsi quasi due anni dall’inizio del processo, lasciando ai giudici che dovevano definire il processo a carico del concorrente necessario il residuo tempo per la definizione di tre gradi di giudizio di, salvo errori, anni 1 mesi 2 e giorni 24 al netto della sospensione della prescrizione per la decisione di costituzionalità del “Lodo Alfano” e considerata quale data di consumazione del reato il 20.2.2000. Ove si consideri che la Suprema Corte a SS.UU. ha ritenuto il reato consumato l’11.11.1999, il tempo a disposizione si è ridotto a meno di 1 anno (salvo errori 351 giorni) ”. Per inciso, la Corte di Cassazione a Sezioni unite, nel processo Mills , pur avendo accertato la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari nella sua forma passiva, in conseguenza della riduzione dei tempi di prescrizione dei fatti di corruzione dovuta alla riforma approvata nel 2005 dal Parlamento, ha statuito “ che alla stregua delle valutazioni dianzi effettuate, risulta verificata la sussistenza degli estremi del reato di corruzione in atti giudiziari ”. Si sono dunque conclusi dopo anni due processi molto importanti in cui è stata accertata nel merito la commissione del reato di corruzione in atti giudiziari per lo stesso fatto, con gli stessi protagonisti e con lo stesso esito processuale: prescrizione. Dopo altri dieci anni, e un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale sollevato dal Parlamento (Presidente del Consiglio in carica: Silvio Berlusconi) - basato, tra l'altro, sul presupposto che Karima El Mahroug in arte Ruby sarebbe potuta essere la figlia del Presidente egiziano Mubarak, di modo che avrebbe errato il GIP a non tenere nella giusta considerazione la questione della «tutela delle relazioni diplomatiche» (3) - , anche la vicenda della corruzione delle testimoni presenti alle “cene eleganti” si è definitivamente chiusa, ancora una volta con una decisione soltanto processuale. Un fallimento su tutta la linea della giustizia vera, quella sostanziale, l’unica attraverso cui possiamo stabilire se un consociato si è posto o meno contro le norme più elementari della corretta convivenza civile. Un fallimento che prescinde dalle sue motivazioni. E adesso che Mr. B. non è più tra di noi? Per quanto tempo ancora la giustizia penale deve pagare il prezzo di una così pesante eredità? Forse i politici che stanno oggi interpretando il ruolo di intransigenti seguaci del supergarantismo a singhiozzo , magari anche per ripagare un debito di riconoscenza politica nei confronti del loro ex capo, dovrebbero sforzarsi di ricordare chi era davvero Silvio Berlusconi e farsi ispirare, ai fini di una maggiore moderazione e ponderazione degli effetti sul sistema delle loro riforme, dalla effettiva filosofia di vita dell'ex Presidente del Consiglio. Ed è probabile che dall'aldilà Silvio, che prima di ogni altra cosa è stato un uomo pragmatico, ironico e francamente individualista, oltre che un dottore in giurisprudenza, direbbe loro di non affannarsi oltre, e di concentrarsi sui problemi reali del Paese, anche perché ormai tutti i suoi reati - veri o inventati che fossero - si sono definitivamente estinti per morte del reo. (1) Tribunale di Milano, Sez. X penale, ud. 25 febbraio 2012 (dep. 14 maggio 2012) (2) L'art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (c.d. lodo Alfano), che aveva previsto la sospensione dei processi penali (anche quelli in corso) nei confronti delle più alte cariche dello Stato - e che aveva inciso direttamente nei dibattimenti in cui era coinvolto il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi -, è stato dichiarato illegittimo con la sentenza n. 262/2009 della Corte costituzionale , la quale ha concluso nel senso che " la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un'evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale ". I commi 3 e 4 dell'art. 1 della legge 7 aprile 2010, n. 51 (legge sul legittimo impedimento), che aveva a sua volta esteso la disciplina del legittimo impedimento di cui al codice di procedura penale enucleando una serie di ipotesi tipiche in favore del Presidente del Consiglio e dei Ministri - andando nuovamente ad incidere direttamente nei dibattimenti in cui era coinvolto il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi -, sono stati dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 23 del 2011, nella misura in cui avevano eliminato per il giudice procedente la possibilità di valutare in concreto l'impedimento attestato dagli interessati; successivamente, la legge è stata abrogata a seguito di referendum tenutosi il 12 e il 13 giugno 2011. Prima ancora, con la sentenza n. 24 del 2004 , la Corte costituzionale aveva ritenuto illegittimo per violazione artt. 3 e 24 della Costituzione anche il c.d. lodo Schifani , che aveva del pari sospeso i procedimenti penali in corso che riguardavano le alte cariche dello Stato, in quanto si trattava di " sospensione (...) generale, automatica e di durata non determinata ", che concerneva " i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica, come risulta chiaro dalla espressa salvezza degli artt. 90 e 96 della Costituzione ". (3) Con sentenza n. 87 del 2012 la Corte costituzionale ha risolto il conflitto stabilendo che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano (e, in sede di prosecuzione del procedimento, al GIP presso lo stesso Tribunale) "avviare, esperire indagini e procedere alla richiesta di giudizio immediato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica per un’ipotesi di reato ritenuto non commesso nell’esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti ai sensi dell’art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione), perché ne fosse investito il Collegio previsto dall’art. 7 di detta legge".
Autore: a cura di Nicola Fenicia 10 lug, 2023
TAR Lombardia, Sezione III, sentenza n. 1159 del 2023 IL CASO I genitori di una minore affetta da disturbo dello spettro autistico hanno chiesto l’accertamento del suo diritto a ricevere dalle Aziende sanitarie convenute il trattamento riabilitativo con metodo ABA per un congruo numero di ore settimanali. Tale trattamento (analisi comportamentale applicata - Applied Behaviour Analysis ) è da ritenersi conforme alla previsione di cui all’ art. 1, comma 7, del d. lgs. n. 502/1992 , in quanto si tratta di prestazione sanitaria per la quale sussistono evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute. Le Linee guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, che l’Istituto superiore di sanità ha provveduto ad aggiornare nell’ottobre 2015, si diffondono, in relazione all’efficacia dei programmi intensivi comportamentali, nell’analizzare le prove scientifiche raggiunte, secondo diverse metodologie di revisioni, e depongono per l’efficacia dell’utilizzo del metodo ABA nel trattamento dei bambini con disturbi dello spettro autistico. D’altra parte, l’ art. 60 del D.P.C.M. del 12 gennaio 2017 , che disciplina l’assistenza sociosanitaria ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo, garantisce “alle persone con disturbi dello spettro autistico, le prestazioni della diagnosi precoce, della cura e del trattamento individualizzato, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche”. In fatto, i ricorrenti, dopo avere ripercorso l’iter di diagnosi della disabilità e il succedersi delle terapie connesse a tale diagnosi, hanno esposto di avere interrotto volontariamente la terapia prescritta dall’ente sanitario pubblico competente per effettuare privatamente terapia comportamentale con metodo A.B.A. in contesto domiciliare, con la frequenza di tre sessioni a settimana di due ore ciascuna. Invero, nell’ambito degli interventi previsti dal sistema sanitario di Regione Lombardia, la famiglia usufruisce della misura B1, in virtù della quale la bambina effettua un intervento volto a potenziare le autonomie in contesto domiciliare, per un totale di 6 ore a settimana, ma non detta terapia con il citato metodo applicativo comportamentale, ragion per cui i ricorrenti hanno chiesto alle Aziende sanitaria competenti o di volere provvedere ad erogare direttamente la terapia A.B.A., o di volere rimborsare le spese sostenute per detta terapia. A fronte di tale richiesta, peraltro, le amministrazioni “compulsate” hanno chiesto la produzione delle dovute prescrizioni pubbliche in ordine alla necessità di effettuazione di tale terapia, con richiesta rimasta inevasa e conseguente giudizio per l’accertamento del diritto reclamato dai ricorrenti. LA DECISIONE Il TAR Milano ha individuato, quale Giudice fornito di giurisdizione, il Giudice ordinario. La premessa del ragionamento muove dalla corretta delimitazione della causa petendi , o petitum sostanziale che dir si voglia. Il diritto di cui è stato chiesto l'accertamento è il diritto della minore disabile all’erogazione di una terapia sanitaria pubblica che possa contrastare efficacemente la disabilità di cui costei è portatrice. Si tratta di una posizione soggettiva che deriva "direttamente dal disposto di cui all’ art. 32 della Costituzione ", e che costituisce "parte integrante del catalogo dei diritti inviolabili che spettano a ciascuno, con l’unica differenza che per affermare tale diritto, nel caso delle persone disabili, occorre tradurlo in una specifica situazione, qual è appunto la disabilità, comunque sempre possibile nella condizione umana" (così il Giudice adito). Si tratta inoltre di un diritto espressamente previsto e tutelato a livello sovranazionale, in quanto la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione europea , all’art. 21, esprime il principio di non discriminazione in ragione degli handicap, e all’art. 26 impegna l’Unione a riconoscere e rispettare “il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. Dalla premessa argomentativa deriva dunque, in rapporto alla pregnanza del diritto da tutelare, che la relativa protezione si traduce nell’apprestamento di servizi essenziali che lo Stato deve garantire senza soluzione di continuità, nell'ambito delle risorse disponibili. E in effetti, nell’ambito dei LEA previsti a livello ordinamentale, così come specificati dalle linee guida in materia di autismo individuate dell’ISS, risulta evidente che soltanto un determinato tipo di terapia e un numero di ore mensile congruo effettuato con tale terapia possono soddisfare il diritto azionato. Il TAR Milano ha ripercorso a questo punto le posizioni assunte nel corso del tempo dalla Corte di Cassazione in punto di giurisdizione. Se fino al 2022 sembrava pacifica la giurisdizione del Giudice ordinario in tema di erogazione di prestazioni sanitarie ascrivibili ai LEA, in considerazione della natura meramente scientifica dei criteri che presiedono alla valutazione finale, e in relazione alla possibilità che la prestazione sanitaria individuata dalla legge come incomprimibile fosse tale da offrire anche soltanto l'opportunità di migliorare le condizioni di integrità psico-fisica della persona bisognosa di cura, con recente ordinanza la Cassazione a Sezioni unite ha individuato nella richiesta di ampliamento (o adozione) di un programma sanitario, a mezzo di una specifica prestazione – e nel successivo giudizio di accertamento del diritto rivendicato –, una controversia appartenente alla giurisdizione del Giudice amministrativo, in quanto verrebbe implicata l’attività discrezionale, sia amministrativa che tecnica, della Azienda sanitaria “compulsata” [1] . In altri termini, l’azione de qua rientrerebbe nel perimetro della giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, ex art. 133, comma 1 lett. c) c.p.a. (“controversie in materia di pubblici servizi”), e la decisione su tale azione spetterebbe al G.A., anche nel caso in cui la causa petendi sia costituita da un diritto soggettivo. Tuttavia, come osserva puntualmente il Giudice adito, la materia dei servizi pubblici non può di per sé “assorbire” tutte le posizioni soggettive che vengono a contatto con i servizi pubblici, ma deve ricomprendere, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale n. 204 del 2004, soltanto le materie che partecipano della medesima natura di quelle che radicano la giurisdizione ordinariamente affidata al G.A., che è contrassegnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità. Non sono cioè sufficienti perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo, secondo la giurisprudenza costituzionale, coerentemente richiamata sul punto dal tribunale adito, “ né il mero fatto che nel contenzioso sia coinvolta la pubblica amministrazione, né il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia ”. Nel caso di specie, peraltro, non si è in presenza di una controversia in materia di predisposizione e attuazione del progetto personalizzato assistenziale individuale a favore del disabile, di cui all’ art. 14 della L. 8 novembre 2000, n. 328 , fattispecie su cui si era formato l’orientamento ripreso dalla Corte di Cassazione nel 2022, ma in presenza di una “ prestazione sanitaria essenziale che deve essere assicurata inderogabilmente al disabile e che sconta soltanto la necessità del previo accertamento, sotto il profilo esclusivamente scientifico-medico, di quale sia la terapia più adatta per colmare il più possibile il gap che preclude al soggetto affetto da autismo il raggiungimento di accettabili condizioni attitudinali nel quotidiano ” (così il Giudice adito). Invero, nell’ipotesi del progetto personalizzato assistenziale individuale a favore del disabile vi è la predisposizione di un progetto individuale che mira all’integrazione sociale, lavorativa e familiare del disabile, ma nei limiti delle risorse disponibili, di modo che nella predisposizione di tale progetto sussiste un potere discrezionale, in capo agli enti pubblici competenti, “che involge la necessità di contemperare, sotto un profilo amministrativo e tecnico, le varie esigenze del disabile, l’obiettivo della piena integrazione e la limitatezza delle risorse disponibili a tali fini”, di modo che, in questo caso, può reggere il parallelo con quanto costantemente statuito in tema di sostegno all’alunno di scuola in situazione di handicap. Con la conseguenza che appare corretto, limitatamente a questa specifica fattispecie, l’assunto secondo cui, ove la controversia verta sulla redazione del progetto individuale o il suo aggiornamento o ne vengano contestati gli esiti (così come avviene in materia di PEI), la giurisdizione è del giudice amministrativo, mentre, ove si lamenti la mancata (o incompleta) attuazione o esecuzione del documento programmatorio, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, posto che solo in quel caso la controversia attiene all’esecuzione del provvedimento redatto dall’amministrazione comunale, d’intesa con l’azienda sanitaria locale, con diritto già pienamente conformato, nella sua articolazione concreta, rispetto alle specifiche necessità della persona. Non sussiste, invece, in caso di contesa sull’ erogazione di prestazione sanitaria essenziale - come precisato dal Giudice adito nella controversia esaminata -, il doppio presupposto necessario della materia dei pubblici servizi e della conservazione da parte dell'amministrazione di un potere discrezionale nell'individuazione della prestazione sanitaria da erogare. Si tratta al contrario della pretesa all'inserimento del paziente in un percorso sanitario che gli offra la cura seguendo le più opportune terapie, secondo parametri di tipo puramente tecnico-scientifico. Tale pretesa trae la sua fonte normativa primaria dall'art. 3 della L. n. 134 del 2015 e dall'art. 60 del d.P..c.m. 12 gennaio 2017, il cui combinato disposto assicura alle persone con disturbi della spettro autistico diagnosi, cura e trattamenti individualizzati mediante l'impiego di metodi e strumenti basato sulle più avanzate evidenze scientifiche. Il Giudice di primo grado conclude la sua disamina con due interessanti osservazioni, una di natura processuale e l'altra di natura sostanziale. Sotto il primo profilo, l’utilizzo della forma processuale dell’ordinanza e non della sentenza da parte della Corte di cassazione, depone per “l’assenza di volontà di modificare l’orientamento fin qui seguito”. Sotto un secondo profilo, secondo il Giudice adito, l’esito della controversia dinanzi al TAR presuppone che, qualora condannata dal Giudice ordinario, l’amministrazione sanitaria si dovrebbe limitare ad individuare da un punto di vista medico scientifico quale sia il trattamento terapeutico più adeguato alla patologia da curare, “in condizioni di parità con la parte che richiede il trattamento”, e senza che la posizione dell’amministrazione goda di alcuna preminenza, posto che la legge “ non le attribuisce una sfera di competenza riservata su questa materia ”. [1] Corte di Cassazione a sezioni unite (ord. n. 1781 del 2022)
Autore: a cura di Silvana Bini 24 giu, 2023
Premessa (a cura di Roberto Lombardi) Due curiose vicende giudiziarie si sono recentemente fatte largo nella narrazione della cronaca locale, in quanto hanno coinvolto il rapporto tra i cittadini e la loro amministrazione territoriale di riferimento. I Giudici aditi hanno dovuto così dare una risposta di giustizia che non solo si è confrontata con le esigenze rivendicate dal privato, ma anche con la concezione di tutela pubblica "collettiva" attualmente vigente, definendone limiti e modalità. A Milano, un giovane che si trovava presso la montagnetta di San Siro/Monte Stella per un evento serale organizzato da alcuni licei di Milano e regolarmente autorizzato dal competente ufficio del Comune, aveva avuto la "cattiva" idea di utilizzare alle due di notte un bagno chimico pubblico. La scelta si era rivelata un errore perché un altro giovane, evidentemente in preda ai fumi dell'alcol, prendeva a calci il bagno chimico, facendolo ribaltare con dentro il malcapitato utilizzatore. In primo grado, il Tribunale di Milano ha condannato il Comune di Milano al risarcimento dei danni subiti dal giovane "ribaltato", quantificandoli in più di 9.000 euro. Dal punto di vista giuridico, il Giudice di primo grado ha argomentato che il mancato ancoraggio del bagno chimico al suolo - bagno che infatti aveva perso stabilità a seguito di sconsiderati calci provenienti dall'esterno della struttura - aveva comportato un fattore di notevole rischio per gli avventori, rischio da ritenersi facilmente prevedibile e intuibile da parte del proprietario e custode della cosa (ovvero il Comune di Milano). Di conseguenza, l'ente pubblico a cui è attribuito il potere/dovere di custodia avrebbe dovuto essere ritenuto responsabile ex art. 2051 c.c. per il comportamento omissivo e negligente mantenuto nel caso di specie. Tale condotta si sarebbe infatti innestata come fattore causale diretto - anche se concorrente con il comportamento violento del "calciatore" - nel creare l'evento lesivo del ribaltamento e tutti i danni ingenerati da tale ribaltamento e patiti dal ribaltato . Il Giudice di seconda istanza non è stato però d'accordo con questa impostazione. Secondo la Corte di Appello di Milano, infatti, non esiste alcuna norma tecnica che imponga all'amministrazione comunale di ancorare i bagni chimici pubblici al suolo, anche perché tali bagni sono, per definizione, dotati di necessaria "mobilità". [1] Ne consegue che la necessità di evitare il rischio di ribaltamento avrebbe dovuto essere considerata fuori dagli obblighi di diligenza del Comune di Milano, e che l'evento esterno che aveva provocato tale ribaltamento (calci di un'altra persona) avrebbe dovuto essere catalogato tra quelle circostanze fortuite tali da escludere la responsabilità di cui all'art. 2051 c.c..; in particolare si è trattato, secondo la Corte di Appello, di un evento, il fatto doloso del terzo , imprevedibile e non evitabile da parte del custode della res , neppure con l'uso della normale diligenza. E in definitiva, dopo i calci e le conseguenti lesioni - e considerando che l'identità del calciatore era rimasta evidentemente ignota - al giovane "ribaltato" è toccato pagarsi anche le spese del giudizio. Oltre al danno la beffa, si direbbe. A Brescia, invece, dei cittadini, molestati non da improvvisati "calciatori" ma da una sistematica attività di "intrattenimento" da strada ad alto volume, hanno avuto ragione a dolersi dell'inerzia dell'amministrazione locale, dopo una complicata vicenda processuale che si va di qui a poche righe a descrivere. Nel complesso, la sensazione che le due vicende lasciano al commentatore è quella di una conflittualità quasi irrisolvibile tra esigenze del cittadino e dovere di protezione del suo ente maggiormente rappresentativo, conflittualità che il diritto prova a comporre con uno strumentario processuale che lascia tutto sommato soddisfatti a metà. Forse basterebbe inserire nella disciplina civilistica sostanziale, per evitare l'insorgere di defatiganti controversie come quelle descritte in questo articolo, una norma che stabilisca un dovere assoluto di protezione dei Comuni nel loro ambito territoriale di riferimento, in presenza di una lesione seria di un diritto fondamentale della persona, e qualora non sia stato possibile per il danneggiato identificare il primo responsabile del comportamento lesivo. Movida, diritto al riposo e limiti del Giudice ordinario di Silvana Bini Alcuni cittadini residenti in una zona centrale del Comune di Brescia, disturbati dalla movida notturna, hanno citato il Comune in questione avanti il Tribunale ordinario, chiedendo che venisse accertata l’intollerabilità delle immissioni provenienti da detta strada comunale e, quindi, condannato il Comune di Brescia, ex art. 844 c.c. , “ alla cessazione immediata delle predette immissioni ovvero alla messa in opera delle necessarie misure per ricondurre alla normale tollerabilità le immissioni medesime ”, nonché al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti. Il Tribunale di primo grado ha accolto le domande risarcitorie ed inibitorie e condannato il Comune “ a far cessare le immissioni di rumore nella proprietà degli attori provenienti da una Via interessata dalla movida, ovvero ad adottare le cautele idonee a riportare dette immissioni entro la soglia della normale tollerabilità, mediante la predisposizione di un servizio di vigilanza, organizzato per tutte le sere dal giovedì alla domenica nei mesi da maggio ad ottobre, con impiego di agenti comunali che si adoperino, entro la mezz’ora successiva alla scadenza dell’orario di chiusura degli esercizi commerciali autorizzati, a far disperdere ed allontanare dalla strada comunale via Fratelli Bandiera le persone che stazionano lungo la stessa ”. Inoltre, il Comune è stato condannato al pagamento della somma di euro 20.000,00, in favore di ciascun attore a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale e della somma di euro 9.049,70, oltre interessi, in favore di un cittadino, a titolo di danno patrimoniale. La Corte d’appello ha peraltro riformato la sentenza di primo grado. Se da un lato è stato confermato che l’art. 844 c.c. trova applicazione anche nei confronti della pubblica amministrazione, i cui provvedimenti non avrebbero il potere di affievolire il diritto alla salute, così da radicare davanti al giudice ordinario la giurisdizione sulle cause in materia, è stato tuttavia esposto, d'altro canto, che “l’utilizzo della strada quale bene di cui l’ente locale è proprietario” non sarebbe avvenuta, “da parte degli avventori dei locali pubblici, nell’ambito di un provvedimento ampliativo concessorio”, costituendo la presenza dei locali “l’occasione per gli assembramenti molesti”, là dove, poi, “ il potere-dovere di intervenire in capo all’ente locale non (poteva) essere riferito a un generico dovere di tutelare la quiete pubblica ma va ancorato a precise disposizioni di legge per non sfociare in attività arbitrarie ”. Quindi, “per configurarsi una responsabilità omissiva”, non era sufficiente il richiamo all’art. 844 c.c., ma sarebbe stato necessario “ ancorare l’obbligo di intervenire a una disposizione di legge che imponga il controllo sull’utilizzo della strada al fine di evitare schiamazzi notturni ”. Questa disposizione di legge non sono le norme del codice della strada (la cui finalità è solo quella della sicurezza della circolazione dei veicoli); non le norme in materia di sicurezza e ordine pubblico (che intestano tali compiti allo Stato e non al l’ente locale, se non per circostanze eccezionali, non ricorrenti nel caso in esame); non l’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, non essendo nella specie “contestato l’uso del potere di regolamentazione degli orari da parte del sindaco, bensì la mancata adozione di provvedimenti concreti per rendere effettiva l’osservanza di ordinanze emesse”, non potendo “configurarsi un obbligo del Comune, e in particolare del Sindaco quale ufficiale di governo, di dare esecuzione coattiva alle proprie ordinanze”. Il Giudice d’appello ha anche rilevato che la titolarità passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio non spettasse al Comune di Brescia, in assenza di norme specifiche che ne imponessero l’obbligo di un puntuale intervento al riguardo (che non si riducesse al mero dovere di assicurare la quiete pubblica) e, per altro verso, ha comunque escluso che le pretese azionate dagli attori potessero radicare un potere del giudice ordinario di determinare le modalità di intervento della P.A., esorbitando le stesse dai limiti interni della giurisdizione ad esso spettante, in forza del combinato disposto degli artt. 113 Cost. e 4 della legge n. 2248/1865 all. E., poiché non era ad esso giudice consentito “di disporre l’effettuazione di un pubblico servizio, arrivando addirittura a dettarne le modalità esecutive, pena la violazione dei principi stessi sul riparto di giurisdizione previsti dall’art. 113 Cost. e dall’art. 4 della legge 2248/1865 all. E”, là dove un “diverso argomentare porterebbe il giudice ordinario semplicemente a sostituirsi all’autorità locale in un caso in cui alcuna norma consente tal sorta di operazione e in violazione del principio costituzionale della separazione dei poteri”. La Corte di Cassazione ha peraltro cassato con rinvio la sentenza di appello. [2] La Suprema Corte ha rilevato innanzi tutto che la tutela del privato che lamenti la lesione del diritto alla salute [costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (art. 32 Cost.)], ma anche del diritto alla vita familiare [convenzionalmente garantito (art. 8 CEDU: cfr., tra le altre, Cass. n. 2611/2017; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 21649/2021)] e della stessa proprietà [che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento (Cass. n. 1636/1999)], cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria), trova fondamento, anche nei confronti della P.A., nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi. Quindi vi è legittimazione passiva del Comune, proprietario della strada da cui provengono le immissioni, quando il privato domanda la tutela del diritto alla salute, del diritto alla vita familiare e della proprietà , perché la PA è comunque tenuta al rispetto del principio del neminem laedere e può, in astratto, essere condannata sia al risarcimento del danno sia ad un facere idoneo a ricondurre le immissioni alla soglia della normale tollerabilità. L’accertamento della responsabilità deve avvenire ai sensi dell’art. 2043 c.c., “per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato”. Secondo la Cassazione, ” anche la domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili, non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dall’art. 4, comma 2, della legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali. La circostanza che il primo giudice avesse predeterminato il facere del Comune convenuto imponendo ad esso taluni comportamenti implicanti l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi – come l’effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative - non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dagli attori, che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati ”. Quindi, la Corte d’Appello del rinvio dovrà nuovamente pronunciarsi sulle domande degli attori alla luce dei principi affermati dalla Cassazione, valutando a fini risarcitori quali regole tecniche o canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni il Comune abbia violato nel caso di specie, e accertando la colpa generica del Comune, esclusa la responsabilità oggettiva. Il Giudice d’appello dovrà infine provvedere, eventualmente, ad ordinare interventi idonei ed esigibili al fine di limitare le immissioni rumorose, escludendosi ovviamente ordini che implichino la determinazione delle modalità di esercizio di poteri discrezionali. La Cassazione ha delimitato il perimetro dei poteri di condanna del giudice ordinario, partendo dal presupposto che si tratta di sede stradale aperta alla circolazione. La giurisdizione spetta al G.O., in quanto il petitum sostanziale della domanda attiene alla tutela del diritto alla salute e alla serenità della vita all’interno della propria abitazione, diritti lesi da immissioni intollerabili, causate indirettamente da una condotta omissiva del Comune, proprietario della strada. La domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dall’art. 4, comma 2, della legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali. La domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dai cittadini a causa delle immissioni acustiche intollerabili, “ non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede soltanto la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato ". Se quindi la domanda di cessazione delle immissioni e quella di risarcimento del danno rientrano nella giurisdizione del G.O., questi però non può imporre l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi (come aveva statuito il giudice di primo grado), ma può imporre alla P.A. di adottare gli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità. [1] Corte di Appello di Milano, Seconda sezione civile, sentenza del 8 marzo 2023, n. R.G. 2241/2022 [2] Corte di Cassazione, sentenza n. 14209 del 23 maggio 2023
Autore: dalla Redazione 27 mag, 2023
Tra le aule della giustizia amministrativa “scorre” un curioso contenzioso che sta generando una sostanziale disparità di vedute tra Giudice di primo grado e Giudice di secondo grado. All’interno di questo dibattito giuridico, si pone un più ampio conflitto tra orientamenti più progressisti e orientamenti più conservatori, in ordine all’accesso nelle forze armate e nelle forze di polizia . Un risalente principio – che si aggancia all’obbligo ordinamentale di maggior decoro che deve serbare il personale in divisa – vuole che i tatuaggi su parti visibili del corpo del militare siano tendenzialmente causa di esclusione nei relativi concorsi. In particolare, non sono normalmente ammessi, secondo i rispettivi bandi di assunzione nei contesti militari, i candidati che abbiano tatuaggi sulla parte inferiore delle gambe (dalla rotula al collo del piede, per intendersi); in altri casi assimilabili (Polizia di Stato), costituiscono causa di inidoneità i tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dalle uniformi utilizzabili nell’ambito del servizio, o comunque i tatuaggi che siano deturpanti, per la loro sede e natura, o indice di personalità abnorme, per il loro contenuto [1]. La rigidità dell’assunto – che oggi va ad incidere sulle possibilità di lavoro di una generazione che spesso e volentieri ha fatto del tatuaggio una imprescindibile forma di espressione della personalità - è stata progressivamente “scardinata” dalla giurisprudenza di primo grado. In particolare, il TAR per il Lazio – che quasi sempre, per motivi di competenza territoriale, si occupa dei ricorsi contro l’esclusione dai concorsi in parola – ha espresso nel tempo un orientamento basato sui seguenti principi: - il tatuaggio non può costituire causa automatica di esclusione dal concorso per non idoneità, essendo necessario che tale alterazione acquisita della cute rivesta carattere “rilevante” e che sia idonea a compromettere il decoro della persona e dell’uniforme, con conseguente onere per l’Amministrazione di specificare, con adeguata motivazione, le ragioni in base alle quali la presenza di un tatuaggio possa assurgere a causa di non idoneità all’arruolamento, avuto riguardo ai precisi parametri di valutazione indicati nella normativa di riferimento; - in tema di concorso a posti di pubblico impiego, il principio generale del favor partecipationis comporta l’obbligo per l’Amministrazione di favorire il massimo accesso, senza introdurre discriminazioni limitative che non trovino riscontro in specifiche cause di esclusione espressamente previste, che comunque non siano conformi ad una seria ratio giustificativa; - conseguentemente, le cause di esclusione da un concorso a posti di pubblico impiego (a cui possono essere parificate quelle di omessa valutazione dei titoli) devono essere interpretate restrittivamente, con divieto di interpretazione analogica; - nell’ottica dell’interpretazione sostanzialista sopra esposta, laddove il tatuaggio non assuma alcuna attitudine deturpante né alcuna idoneità a costituire indice di personalità abnorme, la visibilità del tatuaggio deve presentare una certa evidenza, non potendo lo stesso in alcun modo essere coperto indossando la divisa o in altro modo. Il Consiglio di Stato, però, non la pensa esattamente così. Da un lato, ha affermato che il divieto di accesso ai “tatuati” deve essere ancorato alla possibilità che il tatuaggio stesso sia astrattamente visibile nel corpo del militare che indossi una qualsiasi delle divise di servizio, così facendo derivare l'esclusione dal tipo di divisa indossabile (la donna infatti ha in dotazione anche una divisa con gonna). Dall’altro, ha lasciato intendere che l’incompleta rimozione del tatuaggio, nel momento in cui resti la sagoma dello stesso, non basta a rimuovere l’ostacolo all’accesso. Dall’altro ancora, ha valorizzato, a discapito del principio del favor partecipationis , il principio della par condicio tra candidati e l’inderogabilità delle previsioni del bando in ordine all’ubicazione del tatuaggio "escludente". Quid iuris allora? Intervenute di recente su una questione di carattere ordinamentale – ovvero se l’abnormità di una tesi giuridica sposata dal Giudice amministrativo di ultima istanza costituisca rifiuto di giurisdizione sindacabile in sede di legittimità – le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno lanciato anche un monito sostanziale di cui non si può non tenere conto [2]. Secondo gli Ermellini, occorre fare molta att enzione quando siano in campo valori costituzionalmente e comunitariamente tutelati come il diritto al lavoro e il principio di non discriminazione . Invero, le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema dei diritti fondamentali connessi alla libertà di espressione , di modo che risulta necessaria un’interpretazione delle norme applicabili alle singole fattispecie che non avalli letture restrittive. L’esito discriminatorio è dietro l’angolo, ed è particolarmente evidente nel momento in cui si fa discendere l’ammissione o meno al concorso per entrare nelle forze dell’ordine dal sesso del candidato, in relazione alla diversa divisa da indossare (gonna nel caso delle donne, pantaloni nel caso degli uomini). Con il paradosso che se proprio si vuole rispettare il principio di par condicio e farlo prevalere sulla ragionevolezza e il buon senso delle norme concorsuali, tanto varrebbe allora, provocatoriamente, far indossare anche agli uomini la divisa femminile in sede di valutazione dell’idoneità “fisica”, allo scopo di verificare se l’alterazione della cute autoinflitta (ovvero, il tatuaggio) pregiudichi o meno in assoluto il decoro della futura specifica categoria professionale di appartenenza. [1] Si veda ad esempio quanto dispone il decreto del Ministero dell'Interno 30 giugno 2003, n. 198 [2] Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza n. 8676 del 2023 (commentata sul sito: https://www.primogrado.com/eccesso-di-potere-giurisdizionale-interpretazione-delle-norme-e-rispetto-dei-diritti-fondamentali )
14 mag, 2023
Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza n. 8676 del 2023 (su TAR Lazio, sentenza n. 1700 del 2020/ Consiglio di Stato, sentenze nn. 4386/2021 e 3258/2022) IL GIUDIZIO DI MERITO La Corte di Cassazione ha dovuto decidere sul ricorso proposto da una candidata al concorso per commissario della Polizia di Stato , avverso la sentenza con cui il Consiglio di Stato ha chiuso la vicenda processuale iniziata sul versante della giustizia amministrativa. E’ stato nello specifico contestato il vizio di eccesso di potere giurisdizionale in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato in sede di revocazione di una sua precedente sentenza, per avere operato uno sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione, costituito nell’avere di fatto coniato una nuova norma sul sistema delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato e nell’avere arbitrariamente individuato quali siano i capi di abbigliamento che concorrono a formare la divisa da far indossare in sede di accertamento concorsuale. Nel merito, la candidata in questione, nell’ambito del giudizio di accertamento dei requisiti psico-fisici di partecipazione al concorso, è stata dichiarata non idonea per la presenza sul suo corpo di un tatuaggio “visibile” all’esterno. Invero, il regolamento sui requisiti di idoneità per l’ammissione ai concorsi per l’accesso ai ruoli della Polizia di Stato, adottato con decreto ministeriale 30 giugno 2003, n.198 , all’art. 3, comma 2, prevede che costituiscono causa di non idoneità le imperfezioni indicate nella allegata tabella, tra cui sono compresi i tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme - con riferimento alle uniformi utilizzabili nell’ambito del servizio – o quelli “deturpanti” o comunque “indice di personalità abnorme”. Secondo un orientamento giurisprudenziale, tale visibilità deve presentare una certa evidenza, ovvero deve determinare l’impossibilità del tatuaggio di essere coperto indossando la divisa, posto che in linea generale la presenza di un tatuaggio sulla cute di un aspirante ad un pubblico impiego è di per sé circostanza irrilevante. D’altra parte, anche nell’ambito degli ordinamenti militari o ad essi assimilati, la presenza di un tatuaggio non può costituire causa automatica di esclusione dal concorso per non idoneità, essendo necessario che tale alterazione acquisita della cute rivesta carattere “rilevante” e che sia idonea a compromettere il decoro della persona e dell’uniforme, con conseguente onere per l’Amministrazione di specificare, con adeguata motivazione, le ragioni in base alle quali la presenza di un tatuaggio possa assurgere a causa di non idoneità all’arruolamento. Nella vicenda processuale in esame, il Giudice di primo grado aveva ritenuto illegittima la valutazione di inidoneità proprio in ordine alla visibilità del tatuaggio, in quanto lo stesso era in fase di rimozione, e dunque non avrebbe potuto essere considerato alla stregua di un “tatuaggio”, nella definizione regolamentare di esso. Il TAR per il Lazio aveva concluso dunque nel senso che l’amministrazione non avrebbe potuto procedere all’automatica esclusione dal concorso per la sola presenza nella zona non coperta dall’uniforme di un “tatuaggio”, bensì avrebbe dovuto specificamente “ motivare in che misura - tenuto conto dell’accertata fase di rimozione del tatuaggio - la visibilità fosse tale da determinare l’inidoneità al servizio di Polizia ”. Di diverso avviso era però stato il Giudice di secondo grado. Il Consiglio di Stato, infatti, dopo avere premesso che i requisiti di idoneità ad una selezione pubblica devono essere posseduti entro la data di partecipazione alla selezione stessa e devono essere verificabili nei tempi previsti dal bando, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti, ha affermato che non avesse alcun rilievo il fatto che il tatuaggio fosse stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, che la Commissione medica intervenuta aveva fatto riferimento ad una documentazione fotografica da cui era evidente la presenza del tatuaggio, ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato, e che la disposizione regolamentare in questione (divieto di tatuaggi “visibili”) avrebbe dovuto essere interpretata come riferita alle parti del corpo non coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, quali pantaloni o giacche, con esclusione di valenza “coprente” da parte delle calze, non rilevando dunque che in sede di visita non siano state fatte indossare le calze medesime. Il Consiglio di Stato aveva pertanto respinto in appello il ricorso, riformando in tal senso la decisione del TAR per il Lazio. In sede di revocazione , peraltro, a fronte della prospettazione di un errore di fatto rilevante ai sensi dell’ art. 395, n. 4), c.p.c. , consistente in un errore percettivo nella valutazione dei presupposti di fatto, che sarebbe stato determinato dalla mancata considerazione della – asserita – non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto, sulla base dei precedenti giurisprudenziali espressi su casi simili, il Giudice amministrativo di ultima istanza ha dichiarato il relativo ricorso inammissibile, sulla base delle seguenti argomentazioni: - in termini generali, l’errore revocatorio è sostanzialmente riconducibile ad un “abbaglio dei sensi”, e deve conseguentemente essere immediatamente rilevabile, senza quindi che vi sia la necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; - posto dunque che l’errore revocatorio non deve essere confuso con l’errore che deriva dall’attività valutativa del giudice che abbia dato luogo ad una statuizione anche implicita, non si è in presenza di un errore revocatorio nell’ipotesi di inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di anomalie del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero ancora nel caso in cui la questione sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita; - nel caso di specie, la controversia esaminata in appello aveva avuto ad oggetto la visibilità dei “residui” di un tatuaggio, in seppur avanzata fase di rimozione, ubicato in una parte del corpo visibile con l’uniforme (parte di cute del piede destro) e tale aspetto aveva costituito proprio il punto controverso “centrale” sul quale la sentenza di cui si chiedeva la revocazione aveva avuto modo di esprimersi, in modo peraltro esplicito; - la sentenza non aveva giustamente tenuto conto della perizia di parte sulla visibilità del tatuaggio in base al duplice presupposto della sostanziale irripetibilità degli accertamenti psico-fisici esperiti in sede concorsuale e della necessità che i requisiti di partecipazione debbano essere imprescindibilmente posseduti dai candidati entro la data di partecipazione alla selezione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti. IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE SUL DINIEGO DI GIURISDIZIONE La Corte di Cassazione ha dovuto esaminare la vicenda processuale sotto un duplice profilo, distinguendo da un lato il giudizio di appello dal giudizio revocatorio (ciò che poi alla fine è risultato decisivo ai fini della dichiarazione di inammissibilità del ricorso) e verificando anche in concreto se vi fossero stati, nell’argomentare complessivo del Consiglio di Stato, indici di “rifiuto di giurisdizione” da parte del Giudice amministrativo. Sotto il primo punto di vista, non è sfuggito al Giudice di legittimità che con il proposto ricorso per cassazione la ricorrente aveva in realtà utilizzato l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato in sede di revocazione per articolare censure che miravano a contestare il potere giurisdizionale esercitato, dallo stesso Giudice amministrativo, nella precedente decisione resa in grado di appello. Sull’altro versante, posto che i profili di inammissibilità già evidenziati risultavano decisivi anche con riferimento al secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha approfondito il concetto di omesso sindacato giurisdizionale pieno , anche sotto il profilo istruttorio, sul provvedimento impugnato, con riferimento precipuo alle presunte violazioni del diritto dell’Unione europea e all’asserito rifiuto di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato, in connessione con il necessario rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Secondo i Giudici di legittimità, la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non comporta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione. L’ art. 111 della Costituzione ha infatti stabilito un assetto pluralistico delle giurisdizioni, con sottrazione delle sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) al controllo di legittimità della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofiliachia in favore dei rispettivi organi di vertici delle due giurisdizioni speciali. Tale riserva non può essere scalfita nemmeno quando si denunci la mancata adeguata considerazione dei diritti fondamentali , delle libertà e dei valori in gioco, anche di derivazione europea, quali il diritto al lavoro e il principio di non discriminazione. In effetti, le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali (in particolare la libertà di espressione ) e risulta in astratto indispensabile che il Giudice – anche quello amministrativo – eviti, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare, che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere alle forze dell’ordine. Non può essere certo la diversa divisa femminile – che, in alcuni casi non copre in modo identico ai pantaloni – a determinare la discriminazione tra accesso maschile e accesso femminile. Questo, in astratto. Tuttavia, in concreto, la Corte di Cassazione, nel caso ad essa sottoposto, ha confermato l’orientamento secondo cui è ipotesi estranea al sindacato delle sentenze del Giudice amministrativo per motivi di giurisdizione (e quindi inammissibile) la contestazione di un diniego di giustizia in ultima istanza, derivante dallo “stravolgimento delle norme di riferimento”. In particolare, secondo i Giudici di legittimità, tale insindacabilità, anche se riferita a violazioni del diritto dell’Unione europea, non è in contrasto con gli artt. 52, par. 1 e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea , “ in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti e delle libertà fondamentali ”. Restano dunque denunciabili con il ricorso per cassazione per motivi afferenti alla giurisdizione, le sole ipotesi di difetto relativo di giurisdizione e di difetto assoluto di giurisdizione, il quale ultimo può integrare, a sua volta, il cosiddetto “ sconfinamento ” (il giudice speciale afferma la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa) ovvero il cosiddetto “ arretramento ” (negazione della giurisdizione sul presupposto erroneo che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale). Secondo la Corte di Cassazione – che sposa sul punto un orientamento ormai consolidato -, dunque, l’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile non può mai estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi” o “anomale”.
Autore: a cura di Silvana Bini e Stefano Mielli, Magistrato amministrativo 26 apr, 2023
(I Collegi Consultivi Tecnici: fratelli maggiori o minori degli arbitrati?) “ C’era un tempo, ormai così lontano che in pochi ne serbano ancora il ricordo, in cui i magistrati non aprivano bocca in pubblico e, quando lo facevano, era per tenere dei discorsi in punta di diritto…. ” (da il Caffè di Massimo Gramellini - Corriere della sera 8.2.2023). Era il tempo in cui i magistrati parlavano con le sentenze. Poi c’è stato il tempo in cui i magistrati hanno parlato anche con i lodi arbitrali e in quel tempo (ci collochiamo intorno agli anni 90/2010) l’attività di arbitro era così rilevante che, da più parti, dottrina e politica e un segmento della magistratura stessa, si è cominciato a mettere in discussione l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. “ L'imparzialità e la terzietà del giudice, la metafora «dell'uomo giusto», chiuso nella sua «casa di vetro», non descrivono la realtà fattuale, quella realtà nella quale i magistrati «all'essere» dovranno sostituire il «dover essere», conquistando quella maggiore autorità insita nel fatto che non potranno assumere nessun altro incarico al di fuori delle loro attività giudiziarie ”. Parole frequenti che provenivano dalle aule parlamentari in occasione delle proposte di riforma dell’attività extra giurisdizionale dei magistrati. Gli incarichi extragiudiziari erano definiti “il nervo scoperto dell’indipendenza dei giudici”. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera a firma di Gian Antonio Stella il 13 gennaio 1999, dal titolo eloquente “ E il magistrato torna a regalarsi l’arbitrato ”, viene descritto in poche righe ed efficacemente il fenomeno, con aneddoti e cifre, riferendo una battuta attribuita ad un Consigliere di Stato, secondo cui « Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante ». Non si trattava solo degli arbitrati, ma certamente il dilagare degli arbitrati, dopo morti apparenti e rinascite, ha portato alla Legge Severino e al loro divieto assoluto: la legge n. 190 del 2012 (c.d. legge anticorruzione) ha disposto, all’art. 1, comma 18, che « ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, agli avvocati e procuratori dello Stato e ai componenti delle commissioni tributarie è vietata, pena la decadenza dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti, la partecipazione a collegi arbitrali o l’assunzione di incarico di arbitro unico ». E' trascorso qualche anno e il "decreto semplificazione" del luglio 2020 ha introdotto i Collegi Consultivi Tecnici. [1] Il Collegio Consultivo Tecnico ha la funzione di assistenza per la rapida risoluzione delle controversie, o delle dispute tecniche di ogni natura, suscettibili di insorgere nel corso dell’ esecuzione del contratto di affidamento di lavori diretti alla realizzazione di opere pubbliche, ivi inclusi i lavori di manutenzione straordinaria. Per i lavori sopra soglia l’istituzione del Collegio Consultivo Tecnico è obbligatorio; negli altri casi facoltativo. In base alle linee guida del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili adottate con Decreto 17 gennaio 2022 n. 12, possono essere nominati Presidenti dei Collegi Consultivi Tecnici anche i magistrati ordinari, amministrativi o contabili, con una anzianità nel ruolo, anche mediante cumulo dei periodi di attività svolti in qualifiche diverse. Ma cosa fanno i magistrati nei Collegi Consultivi Tecnici? In primo luogo, ricoprono solo la funzione di Presidente , quindi, si deduce che abbiano un ruolo di coordinamento dei lavori del collegio. Nel caso di Collegi Consultivi Tecnici obbligatori, la finalità istituzionale è quella di affiancare l’intera fase di esecuzione, dall’avvio dei lavori e fino al collaudo degli stessi, per intervenire in tempo reale su tutte le circostanze che possano generare problematiche incidenti sull’esecuzione, emettendo pareri su richiesta (quesiti) delle parti: l’attività si sostanzia dunque in una funzione consultiva. Negli altri casi, la costituzione dei collegi avviene anche “ per risolvere problematiche tecniche o giuridiche di ogni natura suscettibili di insorgere anche nella fase antecedente alla esecuzione del contratto, ivi comprese le determinazioni delle caratteristiche delle opere e le altre clausole e condizioni del bando o dell'invito, nonché la verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, e dei criteri di selezione e di aggiudicazione ”, quindi l’attività consultiva verte su profili propri della fase della gara, fase che rientra nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Si tratta sempre di una attività consultiva , che distingue nettamente l’attività dei collegi consultivi dagli arbitrati: il collegio non dirime una controversia, come negli arbitrati, ma previene e affianca la stazione appaltante nella fase esecutiva, ovvero – nell’ipotesi di collegi consultivi tecnici facoltativi - anche nella fase di stesura di predisposizione del bando e di scelta del contraente. E allora, rispetto ai possibili pregiudizi che hanno giustificato il divieto degli arbitrati per i magistrati, il rischio è forse ancora maggiore: una “commistione” tra magistrato, amministrazione e stazione appaltante, che rischia di tornare al punto di partenza aggirando di fatto la sostanza del divieto posto dal legislatore. Quanto ai criteri di scelta dei magistrati che fanno parte dei Collegi Consultivi Tecnici, nella maggior parte dei casi, costoro sono “autorizzati” dall’organo di autogoverno a svolgere l’incarico, su richiesta della stazione appaltante, scelti in genere di comune accordo anche con l’impresa. In rari casi (si vedano i dati di seguito riportati) l’incarico viene “conferito” dall’organo di autogoverno. Occorre a questo punto chiarire quale sia la differenza tra autorizzazione e conferimento. Nel sistema delle autorizzazioni , oggi prevalente, il Ministro - in questo caso, la stazione appaltante in accordo con l’impresa - presenta una richiesta “nominativa” del magistrato da nominare Presidente del CCT. Quindi le parti scelgono il magistrato, e l’organo di autogoverno lo “autorizza”. Il sistema dei conferimenti , invece, è maggiormente garantista delle esigenze di salvaguardia della terzietà ed imparzialità dei magistrati impegnati in incarichi extra istituzionali. In questo caso, infatti, il Ministero (o la stazione appaltante in accordo con l’impresa) rivolgono una richiesta non nominativa all’organo di autogoverno di un magistrato, che verrà individuato a rotazione, sulla base di un elenco predisposto a seguito di un avviso a cui i magistrati possono aderire. La scelta del magistrato è effettuata dall'organo di autogoverno in base a regole predeterminate, con valutazione di ogni aspetto dell’incarico, anche in termini di eventuali incompatibilità o inopportunità. I collegi consultivi tecnici nella G.A. Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha adottato nella seduta del 20 novembre 2020 la delibera n. 65 del 24 novembre 2020 , per disciplinare l’incarico di Presidente dei Collegi Consultivi Tecnici, unico ruolo che i magistrati amministrativi possono rivestire. Con riferimento all’attività giurisdizionale, la delibera prevede, per i Collegi Consultivi Tecnici sopra soglia, che non possano essere “autorizzati” ad assumere l’incarico i magistrati che hanno fatto parte di collegi che hanno giudicato, nell’anno precedente, controversie nelle quali sia stata parte l’amministrazione interessata o una delle parti del contratto. [2] Per i Collegi Consultivi Tecnici “facoltativi” (art. 6 comma 5) sono incompatibili i magistrati che fanno parte di una sezione giurisdizionale o consultiva specificamente competente a conoscere delle controversie o degli affari della amministrazione interessata all’incarico [3] . Per i Collegi Consultivi Tecnici relativi a lavori sopra soglia possono essere nominati solamente magistrati che abbiano la qualifica di Consigliere. Vi è però il criterio generale, valido per tutti gli incarichi, secondo cui l’incarico non può essere autorizzato o conferito quando l'espletamento dello stesso, tenuto anche conto delle circostanze ambientali, sia suscettibile di determinare una situazione pregiudizievole per l'indipendenza e l'imparzialità del magistrato, o per il prestigio e l'immagine della magistratura amministrativa. Per gli incarichi di Presidente dei Collegi Consultivi Tecnici “conferiti” [4] , anziché autorizzati, in cui la richiesta, come sopra visto, non è nominativa, la scelta deve rispettare il principio di rotazione e deve avvenire mediante sorteggio, fra coloro che hanno manifestato la disponibilità. Dal 2021 al corrente mese di aprile 2023 il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha “autorizzato” circa 50 Presidenze di Collegi consultivi tecnici; non si può dire che sono stati autorizzati più di 50 magistrati, perché spesso lo stesso magistrato è nominato come Presidente di più collegi consuntivi tecnici. Di fatto questi incarichi riguardano una stretta cerchia di magistrati. Nel medesimo periodo, sono stati “conferiti” solamente due incarichi di questo tipo. Una decina di richieste di autorizzazione sono state respinte per incompatibilità; in un caso, dopo la reiezione della richiesta, l’Amministrazione ha presentato domanda di nomina attraverso il conferimento. Non è possibile ad oggi conoscere con esattezza quali siano i compensi per questo tipo di incarichi, perché sono rapportati al valore dell’appalto e all’impegno. E’ certo che nell’ipotesi di Collegio Consultivo Tecnico obbligatorio per i lavori di importo pari alla soglia comunitaria: a) la base di calcolo è € 5.382.000,00; b) il compenso per il Presidente, stabilito dal DM al punto 7.5.1, è maggiorato del 10% rispetto a quello spettante agli altri componenti. Il calcolo è un puro esercizio di matematica, che invitiamo chi ama la materia ad effettuare, visto che le autorizzazioni (il cui elenco viene pubblicato sul sito della Giustizia amministrativa) sono alquanto indefinite. Una parte del compenso è variabile, ma la parte fissa è proporzionata al valore dell'opera, calcolata ai sensi degli articoli 3 e 4 del decreto del Ministero della giustizia 17 giugno 2016, con riferimento alla prestazione di collaudo tecnico-amministrativo, ridotta del 60%. Per la parte eccedente il valore di euro 100.000.000 di lavori si applica la riduzione del 80%. OSSERVAZIONI FINALI Il dubbio a questo punto è se i Collegi Consultivi Tecnici siano i fratelli maggiori o minori degli arbitrati, o siano gli stessi arbitrati riapparsi sotto nuove sembianze. E’ vero che si tratta di istituti strutturalmente differenti, tuttavia permangono tutt’ora tutti i rischi di appannamento dell’immagine della magistratura che hanno condotto il legislatore a porre un divieto assoluto e generalizzato degli arbitrati. Infatti il magistrato non deve solo essere imparziale, indipendente e terzo, ma deve anche apparire tale all’esterno. Chi scrive da sempre crede nella centralità dell’attività giurisdizionale, e ritiene che l’attuale sistema degli incarichi extragiudiziari crea “commistioni”. Tuttavia, oggi il legislatore ha introdotto un “sistema” di questo tipo nell’ambito della disciplina degli appalti. E allora, tenuto anche conto della grave crisi di immagine e credibilità che sta attraversando la magistratura negli ultimi anni, riteniamo che sia necessario adottare scelte radicali, trasparenti e, per quanto possibile, prive di ambiguità, tese a sgombrare il campo da ogni dubbio circa possibili commistioni tra esercizio della giurisdizione e attività extragiurisdizionale, anche rispetto ai Collegi Consultivi Tecnici. Gran parte delle problematiche e delle storture sorte con gli arbitrati, potrebbero essere risolte generalizzando il metodo del “conferimento” dell’incarico di Presidente di Collegio Consultivo Tecnico in luogo del metodo “dell’autorizzazione”, oggi assolutamente prevalente. Sarebbe pertanto necessario in primis introdurre l’obbligatorietà del metodo del conferimento, sensibilizzando anche le stazioni appaltanti e sottoscrivendo appositi protocolli di intesa con i soggetti coinvolti nelle grandi opere. Andrebbero poi rideterminati i criteri di incompatibilità, introducendo regole chiare, rigorose, che non possano essere depotenziate da interpretazioni estensive. Si tratta di una attività extragiurisdizionale, che il legislatore ha ritenuto “eccezionale”. [5] E come tale dovrebbe rimanere. Non esiste un diritto incondizionato del magistrato allo svolgimento dell’attività extraistituzionale, e non è pertanto possibile estendere in via interpretativa i casi in cui è possibile lo svolgimento degli incarichi. L’obbligo del “conferimento”, con il corollario dell’applicazione del principio del sorteggio e di rotazione nell’assegnazione dell’incarico, potrebbero costituire il rimedio per riportare nell’alveo della trasparenza gli incarichi di Presidente dei Collegi Consultivi Tecnici ricoperti dai magistrati, eliminando i rischi di opacità dell’immagine esterna di terzietà ed indipendenza della magistratura, insiti nel sistema dell’autorizzazione, che hanno caratterizzato il periodo in cui erano ammessi gli arbitrati. [1] L' articolo 6 del D.L. 16/07/2020, n. 76 (c.d. Decreto Semplificazioni), convertito con la L. 11/09/2020, n. 120 prevede che per i lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche di importo pari o superiore alle soglie di cui all' articolo 35 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 , è obbligatoria, presso ogni stazione appaltante, la costituzione di un collegio consultivo tecnico, prima dell'avvio dell'esecuzione, o comunque non oltre dieci giorni da tale data, con i compiti previsti dall'articolo 5 nonché di rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell'esecuzione del contratto stesso. L’art 6 comma 5 prevede che "Le stazioni appaltanti, tramite il loro responsabile unico del procedimento, possono costituire un collegio consultivo tecnico formato da tre componenti per risolvere problematiche tecniche o giuridiche di ogni natura suscettibili di insorgere anche nella fase antecedente alla esecuzione del contratto, ivi comprese le determinazioni delle caratteristiche delle opere e le altre clausole e condizioni del bando o dell'invito, nonché la verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, e dei criteri di selezione e di aggiudicazione. In tale caso due componenti sono nominati dalla stazione appaltante e il terzo componente é nominato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per le opere di interesse nazionale, dalle regioni, dalle province autonome di Trento e Bolzano o dalle citta' metropolitane per le opere di interesse locale. Ferma l'eventuale necessità di sostituzione di uno dei componenti designati dalla stazione appaltante con uno di nomina privata, le funzioni di componente del collegio consultivo tecnico nominato ai sensi del presente comma non sono incompatibili con quelle di componente del collegio nominato ai sensi del comma 1". [2] Art. 3 “Non possono assumere l’incarico di componente del collegio consultivo tecnico i magistrati che: "lett. g) per le ipotesi sottoposte al regime dell’autorizzazione abbiano fatto parte di collegi che hanno giudicato, nell’anno precedente, controversie nelle quali sia stata parte l’amministrazione interessata o una delle parti del contratto" . Questa disposizione è stata modificata con delibera del Consiglio di Presidenza n. 3 del 18 gennaio 2021, adottata nella seduta del Plenum del 15 gennaio 2021; il testo originario era il seguente: “ g) abbiano fatto parte di collegi che hanno giudicato, nell’anno precedente, controversie nelle quali sia stata parte l’amministrazione interessata o una delle parti del contratto ”. [3] lett. h): nel caso degli incarichi di cui all’art. 6, comma 5, del decreto legge n. 76/2020 facciano parte di una sezione giurisdizionale o consultiva specificamente competente a conoscere delle controversie o degli affari della amministrazione interessata all’incarico . Anche questa disposizione è stata modificata con delibera del Consiglio di Presidenza n. 3 del 18 gennaio 2021 adottata nella seduta del Plenum del 15 gennaio 2021; il testo originario era il seguente: facciano parte di una sezione giurisdizionale o consultiva specificamente competente a conoscere delle controversie o degli affari della amministrazione interessata all’incarico . [4] l’art 4 “Designazione” stabilisce che in caso di richiesta non nominativa proveniente dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano o dalle città metropolitane, il Consiglio di Presidenza individua il magistrato amministrativo cui conferire l'incarico scegliendolo, nel rispetto del principio di rotazione e mediante sorteggio, fra coloro che hanno manifestato la disponibilità a seguito di periodico interpello. I nominativi dei magistrati amministrativi che hanno manifestato la disponibilità sono inseriti in un apposito elenco. Sono inclusi nell'elenco unicamente i magistrati amministrativi in ruolo al momento dell'interpello. Il sorteggio dei magistrati amministrativi è effettuato nel rispetto del criterio per cui i conferimenti aventi ad oggetto appalti con valore complessivo pari o superiore alle soglie di rilevanza comunitaria possono essere conferiti unicamente ai magistrati amministrativi con qualifica non inferiore a quella di Consigliere. [5] Art. 2 del dpr 418 del 1993: “ Disposizioni generali 1. I magistrati amministrativi non possono ricoprire cariche, né svolgere incarichi, di cui all'art. 1 del presente regolamento, se non nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato o dal presente regolamento ”.
Autore: di Corrado Pascucci, già Presidente di Tribunale e di Commissione tributaria 21 mar, 2023
E’ capitato di sentire in televisione qualche tempo fa una persona, parente della vittima del reato, che, protestando vivacemente contro la richiesta del PM di assoluzione dell’imputato, così si esprimeva: “ avrebbe dovuto guardarmi negli occhi mentre avanzava questa richiesta ”, con ciò offrendo all’opinione pubblica la sua critica radicale e la sua delusione immedicabile alle conclusioni della parte pubblica del processo. Recentemente vi sono stati molteplici episodi, sempre con forte esposizione mediatica, in cui i giudici sono stati sanguinosamente offesi per una sentenza non in linea con le private aspettative di una esemplare sentenza di condanna. Si è fatto strada, insomma, un vero e proprio costume delle persone offese dal reato, talora costituiti in veri e propri comitati di lotta, di accusare tramite i media di denegata giustizia pubblici ministeri che non abbiano coltivato una richiesta di condanna e giudici che abbiano pronunciato sentenza assolutoria nei confronti di non riconosciuti colpevoli, non mancando neppure l’ipotesi di severe censure nel caso in cui, affermata la colpevolezza, sia stata comminata ai condannati una pena non in linea con le personali aspettative di una maggiore severità. Si è venuta, cioè, realizzando, in questi tempi incerti, quello che non pare eccessivo definire “inquinamento processuale da parte offesa”. Per dare conto di questa affermazione, che può sembrare eccentrica sul piano squisitamente giuridico e in certo qual modo suggestiva, corre l’obbligo di chiarire, sia pure in estrema sintesi, cosa è e come funziona il processo penale e il ruolo che in esso svolge la parte offesa. Allorché sia stato commesso un reato, compito dello Stato è individuarne l’autore perché gli venga comminata, ove riconosciuto colpevole, la pena adeguata. Ciò avviene attraverso il processo, che è appunto l’insieme delle regole predeterminate che presiedono al suo funzionamento. Il processo serve, quindi, ad accertare, dapprima, se un reato si sia effettivamente consumato e, poi, se sia stato commesso dall’imputato, che si difende in esso o, se si vuole, tramite esso, dal pericolo di essere condannato ingiustamente. Ma serve anche ad impedire che il riconosciuto colpevole sia raggiunto da una sanzione sproporzionata, oggettivamente o soggettivamente, rispetto al fatto accertato. All’interno del procedimento penale il soggetto titolare dell’interesse ad ottenere la condanna del colpevole alla sanzione penale prevista dall’ordinamento giuridico, pur quando si tratti di reati procedibili a querela di parte, è il PM, che rappresenta per l’appunto l’interesse generale dello Stato all’attuazione del diritto penale sostanziale o, a voler essere più semplici, alla repressione del commesso reato. La persona offesa dal reato, la vittima del reato , è sì anch’egli “soggetto” del “procedimento”, in quanto titolare in fase investigativa di poteri sollecitatori e di controllo dell’attività dell’autorità inquirente, nonché di taluni diritti informativi e partecipativi. Ma la qualità di “parte del processo” vero e proprio le è riconosciuta solamente se in esso si sia costituita parte civile . Una parte solamente “eventuale”, dunque, finalizzata ad ottenere, in caso di riconosciuta colpevolezza dell’imputato, la sua condanna al risarcimento dei danni materiali e non. “Eventuale”, giacché potrebbe percorrere la strada alternativa di non costituirsi nel processo penale e di dare inizio invece in altra sede ad una causa civile. Tutto ciò per dire che, invece, la materia riguardante la “colpevolezza” o meno dell’imputato, così come la “quantità” della pena da irrogargli, è estranea del tutto ai poteri e ai diritti della parte offesa. Tale materia, ripetesi, è demandata esclusivamente al Giudice, il quale, all’esito del processo, decide dapprima se l’imputato sia effettivamente colpevole del reato contestatogli e, successivamente, in caso affermativo, quantifica la pena alla luce di circostanze oggettive e soggettive, non mancando, nel caso in cui vi sia stata costituzione di parte civile e richiesta di risarcimento dei danni, di decidere anche su tale domanda. Alla luce di quanto detto emerge con piena evidenza, nei casi portati sopra all’attenzione, un’incursione per così dire sgrammaticata delle parti offese dentro (ma in realtà fuori dal) processo. E ciò perché, ove la sentenza assolutoria fosse segnata effettivamente da errori conoscitivi e/o valutativi, la vittima del reato o la persona danneggiata dallo stesso avrebbe il rimedio di impugnarla ai soli effetti della responsabilità civile, per ottenere cioè, nel superiore grado di giudizio, in riforma di quanto deciso dal primo giudice, la condanna dell’imputato alle restituzioni e al risarcimento dei danni. L’ impugnazione della sentenza di proscioglimento ai fini penali, al fine cioè di ottenere la condanna dell’imputato alla giusta sanzione prevista dall’ordinamento giuridico pertiene, invece, alla esclusiva competenza del PM, e cioè della parte pubblica del processo, che peraltro deve preventivamente valutare, prima di attivare il gravame, se i giudici siano a suo avviso effettivamente incorsi in errori di qualche tipo. Quest’ultimi, ove riconosciuti in sede di controllo operato da un giudice differente da quello che ha emesso il provvedimento, saranno conseguentemente emendati. E dunque, come emerge da quanto finora detto, le parole sempre più spesso utilizzate nell’immediatezza della lettura di un dispositivo dalla parte offesa per stigmatizzare la presunta scorrettezza di una sentenza assolutoria oppure, in caso di condanna, l’inadeguatezza della pena irrogata, si pongono, se non contro, di sicuro al di fuori del corretto circuito processuale disegnato dal codice. Al di fuori, giacché, sia pure non direttamente influenti su quel processo specifico, esse danno vita ad una sorta di rumore di fondo che fornisce alimento a una sfiducia collettiva nei confronti, non del singolo giudicante, ma, ciò che è più grave, del giudizio stesso, come se esso fosse di per sé stesso inadeguato a ristabilire il diritto violato, come se fosse inesorabilmente attraversato da mali di natura varia che gli impediscono di pervenire a quella che si ritiene essere lo scopo del processo penale e del processo in genere, e cioè la ”Giustizia”. Sul concetto di giustizia bisogna intanto intendersi. Il processo, qualunque processo, non tende alla “Giustizia”, e indicarla come un obiettivo è solamente un dire di carattere retorico. Il processo, che per definizione si celebra dopo, tende a ricostruire fatti per l’appunto accaduti prima, e peraltro non con lo scopo di perseguire astrattamente una verità da spendere sul piano storico-generale, ma con l’obiettivo, più modesto ma non per questo meno essenziale, di verificare se quanto sia occorso in un dato tempo e spazio costituisca reato, cosicché, in caso di risposta positiva, colui che si è accertato che l’abbia commesso oltre ogni ragionevole dubbio sia sottoposto alla giusta sanzione. Non sempre si è in grado di ricostruire compiutamente un fatto commesso in passato, non sempre la complessità dell’accaduto può essere ricondotta ai confini rigorosi della fattispecie penale contestata, non sempre la condotta antigiuridica è riferibile ad un soggetto oltre ogni ragionevole dubbio, non sempre vi è il dolo o la colpa richieste dalla norma per la punibilità di un fatto. Bisogna rendersi conto che il processo non serve a validare acriticamente il postulato accusatorio ma, al contrario, a valutarne, attraverso un rigoroso e disciplinato percorso, la consistenza e l’attendibilità, consapevoli che tra gli esiti possibili vi è (naturalmente) anche quello che l’imputato venga mandato assolto perché non si sono raggiunte prove sufficienti per ritenerlo colpevole. Anche sulla quantità della pena irrogata non è utile che vi siano critiche diverse da quelle che possano essere apprezzate solo sul piano strettamente giuridico, giacché la, per certi versi inevitabile, distanza tra il diritto del condannato alla giusta sanzione e l’aspettativa della parte offesa di non vedere il colpevole condannato a pena che non gli appaia adeguata alla sua personale percezione della gravità del fatto commesso, non può che essere colmata dal prudente e ragionato e motivato porsi in ascolto del giudicante delle ragioni dell’uno e dell’altro. Si diceva sopra del rumore di fondo provocato da non meditate contestazioni delle parti offese di taluni esiti giudiziari assolutori. Tale rumore diviene vero e proprio frastuono quando, fosse anche per umana solidarietà con la o le vittime del reato, viene a crearsi e ad alimentarsi un clima pubblico di attesa se non di vera pressione verso un esito colpevolista del giudizio, il cui eventuale venir meno per ragioni intrinseche al processo viene letto come la solita deludente, se non addirittura connivente, risposta di uno Stato incapace di offrire adeguate ed efficaci soluzioni riparatorie ai crimini perpetrati. Si tratta, come è evidente, di una lettura deformata della realtà, interna a una visione pessimisticamente ed inutilmente complottista di essa. I reati vanno senza dubbio perseguiti, l’offesa al bene giuridico deve essere riparata e il danno risarcito. Ma non c’è altro modo civile di ottenere questi risultati che tramite un giusto processo nel contraddittorio delle parti, l’unico strumento, per imperfetto che sia, che la società, qualsiasi società, abbia a disposizione per colmare le ferite di una grave infrazione alla legge. E se di giusto processo non può che trattarsi, allora bisogna noi tutti essere disposti ad accettare, sopportandone il peso, che la verità processuale , esito rigoroso di assunzione di prove regolamentate non superabili, possa talora essere o solamente sembrare diversa da quella che venga coltivata dalla vittima del reato o anche collettivamente, per ragioni che si possono umanamente condividere, come verità assoluta indebitamente negata.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 17 mar, 2023
Sul nostro pianeta sensibilità individuale, senso di appartenenza alla collettività e rispetto delle regole non sempre vanno a braccetto. Ci sono però alcuni Paesi, tra cui senz’altro l’Italia, in cui il cattivo esempio viene dato anche dalle Istituzioni. Un caso è l'ormai annosa querelle sul regime delle cosiddette concessioni balneari . Pur essendo un tema sviscerato a fondo da molti fini giuristi e la cui perfetta comprensione presuppone un'adeguata preparazione su norme e principi ordinamentali, la questione di fondo è semplicissima: rispettare o meno la nostra appartenenza all''Unione europea e i vincoli che ne conseguono. Tutto è cominciato con la direttiva UE n. 2006/123 (meglio nota come direttiva Bolkestein ) , anche se già in precedenza i Giudici amministrativi avevano affermato l’applicabilità alle concessioni demaniali dei principi della concorrenza e della “contendibilità” a mezzo gara. Secondo l’ art. 12 di questa direttiva, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri sono obbligati ad applicare una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. A seguito di tale procedura, le autorizzazioni devono essere rilasciate per una durata limitata, anche se adeguata al tipo di attività, e non si può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. Questa norma, applicata alle concessioni “balneari” – che sono le concessioni che hanno ad oggetto il demanio marittimo pubblico (in particolare, lido del mare e spiaggia) -, esclude dunque, almeno teoricamente, che tali concessioni possano essere lasciate in mano agli stessi soggetti per un tempo indeterminato, senza una reale apertura del mercato concorrenziale di riferimento. Sembrava un approdo interpretativo acquisito nell’ordinamento interno, specie a seguito della sentenza del 14 luglio 2016 resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (c.d. Promoimpresa ), secondo cui l’articolo 12 sopra citato, in quanto relativo ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una misura nazionale che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati. Il nostro Legislatore non è stato però d’accordo con tale interpretazione, nonostante la partita avrebbe dovuto essere considerata chiusa, in virtù dell’adesione dell’Italia all’Unione europea, con ciò che ne consegue in tema di vincoli derivanti da tale adesione. La legge nazionale (in particolare l’ art. 1, commi 682 e 683 della legge n. 145 del 2018 , con disposizione successivamente confermata dall’art. 182, comma 2 del d.l. n. 34 del 2020) ha infatti disposto la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali già rilasciate a seguito di una procedura amministrativa attivata anteriormente al 31 dicembre 2009. Abbastanza paradossale la motivazione addotta per superare l’obbligo derivante dalla nostra appartenenza all’Unione europea: “ Al fine di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese, e tutelare l'occupazione e il reddito delle imprese in grave crisi per i danni subiti dai cambiamenti climatici e dai conseguenti eventi calamitosi straordinari ”. Il Consiglio di Stato deve però decidere secondo diritto e non poteva fare buon viso a cattivo gioco, dal momento che la giurisprudenza amministrativa e la Corte di Cassazione avevano disapplicato costantemente la norma sulla proroga e la Commissione europea aveva avviato l’ennesima procedura di infrazione contro lo Stato italiano. Con le Adunanze plenarie n. 17 e 18 del 2021 , così, il massimo organo di Giustizia amministrativa ha riassunto i termini della questione giuridica e stabilito un percorso temporale finito il quale avrebbe dovuto finalmente scriversi la parola “fine” al rinnovo automatico delle concessioni. Dal punto di vista del diritto applicabile alla fattispecie esaminata, il Consiglio di Stato ha dovuto sostanzialmente replicare, rispetto all’applicazione o meno dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, a due ordini di obiezioni: il primo, volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa (requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale); il secondo, che entra in contrasto frontale con la sentenza del giudice europeo, volto ad escludere a priori la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi, nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva. Posto che nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative l' interesse transfrontaliero è stato ritenuto certo, perché si mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali (da valutare unitariamente e non in modo frammentato), costituente uno dei patrimoni naturalistici più rinomati e attrattivi del mondo, le due argomentazioni sono state "smontate" dal Consiglio di Stato con i seguenti argomenti. In primis , il Giudice amministrativo ha evidenziato che l'effetto economico del provvedimento di concessione del bene pubblico, nella misura in cui si traduce nell'attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un'attività economica, si traduce di per sé in una fattispecie che procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti, come tali in grado di incidere sensibilmente sull'aspetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione di servizi. Ne consegue che la qualificazione giuridica formale di concessione e non di autorizzazione propria del nostro diritto interno non cambia la natura sostanziale della concessione predetta, che dunque rappresenta un'autorizzazione di servizi ricompresa nell'ambito applicativo dell'art. 12 della direttiva Bolkestein . Quanto poi alla contestata mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale, il Consiglio di Stato ha respinto l'obiezione sul presupposto che il demanio marittimo nazionale ha già un elevato livello di occupazione - in molte Regioni pari al massimo della percentuale concedibile - e che dunque le aree eventualmente a disposizione di nuovi operatori sono caratterizzate da una notevole scarsità, di modi che il regime di proroga previsto dal legislatore (fino al 2033) era certamente in grado di creare una barriera all'ingresso di nuovi operatori, in contrasto con gli obiettivi di liberalizzazione avuti di mira dalla direttiva. D’altra parte, non possono esservi dubbi sul carattere immediatamente esecutivo di tale direttiva, anche perché tale carattere è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia nella citata sentenza Promoimpresa , oltre che da una copiosa giurisprudenza nazionale che ad essa ha fatto seguito. Né è stata ritenuta dotata di senso logico la prospettata distinzione, nell’ambito delle norme U.E. direttamente applicabili, fra i regolamenti, da un lato, e le direttive self-executing , dall’altro – al fine di ritenere solo le prime e non le seconde in grado di produrre l’obbligo di non applicazione in capo alla P.A. –, perché tale distinzione si tradurrebbe nel parziale disconoscimento dell’ effetto utile delle stesse direttive autoesecutive e nella artificiosa creazione di una categoria di norme direttamente applicabili (nei rapporti verticali) solo da parte del giudice e non da parte dell’amministrazione procedente. Con l’ulteriore paradosso di un amministratore costretto ad adottare un provvedimento illegittimo, che sarà poi sicuramente annullato dal Giudice. Ne consegue che, a differenza di quello che ha sostenuto (in verità, in modo del tutto isolato) il Tar Lecce, il dovere di non applicazione della legge nazionale contrastante con il diritto eurounitario fa capo non soltanto al Giudice ma anche all'amministratore pubblico, con l'effetto concreto che l'amministrazione titolare del potere di concessione avrebbe dovuto limitarsi ad effettuare un atto ricognitivo negativo sugli effetti della concessione prorogata ex lege , procedendo immediatamente a mettere a gara il bene demaniale, senza tenere cioè in alcun conto la norma statale di proroga. Tuttavia, il Consiglio di Stato, a fronte di un quadro di oggettiva incertezza normativa interna, ha deciso, in modo abbastanza sorprendente, rispetto ai canoni giuridici tradizionali seguiti dal Giudice amministrativo (dove non vi dovrebbe essere spazio, una volta accertata l'illegittimità di norma e atto, per la manipolazione del precetto che ne consegue, al di là dell’ordinario effetto conformativo), di " modulare gli effetti temporali della propria decisione ". In pratica, l’operatività degli effetti della sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è slittata al 31 dicembre 2023 , e ciò al fine dichiarato di assicurare alle amministrazioni un ragionevole lasso di tempo per intraprendere fin da subito le operazioni funzionali all’indizione di procedure di gara, nonché nella consapevolezza degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente sarebbero derivati su una moltitudine di rapporti concessori. " Scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia - o meno - un soggetto subentrante nella concessione " Con l’ulteriore precisazione che “ eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere ”. Campana a morto per la proroga delle concessioni? Niente affatto. Il Parlamento in carica, con un vero e proprio “atto di forza”, ha introdotto, in sede di conversione del cosiddetto decreto milleproroghe per l’anno 2023 (“Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”), alcune norme che hanno di fatto sterilizzato il dictum del Consiglio di Stato (e di tutti gli altri Giudici che fino ad oggi si sono pronunciati), così come recepito nella legge annuale per il mercato e la concorrenza promulgata nell’agosto del 2022. Sono due, in particolare, le norme che appaiono direttamente e frontalmente in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come faticosamente compendiato nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021. La L. n. 14 del 24 febbraio 2023 ha infatti disposto, da un lato, con l’ art. 10-quater, comma 3 , la proroga di un ulteriore anno del termine di scadenza delle concessioni in essere (che la legge n. 118 del 2022 aveva stabilito al 31 dicembre 2024, ma soltanto in caso di difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura selettiva di assegnazione della concessione), e, dall’altro, con l’introduzione del comma 4-bis nell’art. 4 della L. n. 118/2022 , il divieto per gli enti concedenti di procedere all'emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive fino all'adozione dei decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia di tali concessioni. Con la particolarità che il termine per l’adozione di questi decreti legislativi – senza i quali tutto resta com’è – è già scaduto invano, ad oggi. Ricapitolando. Il Consiglio di Stato ha detto che le concessioni demaniali in oggetto scadono senza se e senza ma al 31 dicembre 2023, e ciò a prescindere dalla conclusione entro tale data della doverosa procedura selettiva per l’individuazione di un nuovo concessionario, facendo così già un piccolo favore ai “balneari” ormai da tempo non più in regola, secondo le consolidate regole europee. La legge sulla concorrenza annuale promulgata nel 2022 ha prolungato al 31 dicembre 2024 il termine stabilito dal Consiglio di Stato, in caso di “difficoltà oggettiva” a completare la suddetta procedura selettiva. Il novello Legislatore ha ulteriormente prorogato il termine al 31 dicembre 2025, ma soprattutto ha “congelato” ogni procedura di rinnovo delle concessioni in questione fino a data da destinarsi. Una nuova procedura di infrazione contro l’Italia è certa, e perfino il sempre sobrio Presidente Mattarella ha minacciato di esercitare la facoltà di rinvio alle Camere di cui all’ art. 74 della Costituzione [1] , ma il particolare curioso è che stavolta, insieme alla politica, anche un Giudice territoriale continua a condurre una battaglia solitaria ma tenace contro l’applicazione sui lidi di competenza delle regole europee. Invero, il TAR per la Puglia, sezione staccata di Lecce, dopo avere provato a negare agli amministratori comunali la possibilità di disapplicare le norme interne che prorogavano al 2033 le concessioni balneari in essere (con tesi drasticamente respinta dal Consiglio di Stato proprio nell’Adunanza plenaria n. 18 del 2021), ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea varie questioni pregiudiziali, concernenti la direttiva Bolkestein , con l’ ordinanza 11/5/2022, n. 743 , scrivendo esplicitamente di non condividere ” i presupposti logici, l’argomentare e le conclusioni espressi dalle citate sentenze gemelle ” (ovvero il cuore pulsante delle Adunanze plenarie n. 17 e 18 più volte citate). Tuttavia, nel frattempo, sempre il Consiglio di Stato – che, vale la pena ricordarlo, è il Giudice di appello anche del Tar Lecce ed esprime, con le sue Adunanze plenarie, una tendenziale funzione di garanzia “interna” dell’uniforme interpretazione della legge – ha riformato un’altra sentenza dei Giudici amministrativi salentini in contrasto con i principi espressi dallo stesso Consiglio di Stato in materia di proroga delle concessioni balneari. [2] Si tratta di una pronuncia che ha un particolare valore “simbolico”, perché conferma l’ineluttabilità - almeno secondo il massimo plesso di Giustizia amministrativa - della scadenza delle concessioni in essere una volta decorsa la data del 31 dicembre 2023, nonostante il recentissimo (e contrario) intervento legislativo del Parlamento. Vale la pena riportare in estrema sintesi la vicenda sottostante a quest’ultima pronuncia. E’ una vicenda tipicamente italiana, che sarebbe in sé grottesca, se non fosse drammaticamente impattante sulla nostra credibilità come Paese e sulla nostra lealtà alle Istituzioni europee. Il Comune di Manduria, nel novembre del 2020, dispone di apporre una stampigliatura indicante “”proroga ex lege” in calce ai titoli a suo tempo rilasciati in favore dei concessionari “balneari”. Il riferimento normativo è quello alla Legge 30 dicembre 2018 n. 45, art. 1, commi 682, 683, 684, in combinato disposto con la legge 17 luglio 2020, n. 77 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, utilizzando una facoltà concessale dall’ art. 21 bis, comma 2 della L. 287/90 , chiede l’annullamento del citato atto (di indirizzo) della Giunta comunale di Manduria. Il Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, dopo avere premesso che l’atto impugnato non ha contenuto negoziale e non costituisce provvedimento in senso proprio, essendosi limitato il Comune alla presa d’atto di una volontà e di effetti proposti direttamente dal legislatore nella norma di legge, respinge il ricorso. Il Consiglio di Stato, al contrario, ribalta la decisione del Giudice di primo grado, in quanto, attraverso la contestata delibera, il Comune di Manduria aveva dato concreta attuazione a una disciplina normativa interna contraria all’art. 12 della citata direttiva n. 2006/123/CE (disponendo la proroga delle concessioni “balneari” in essere), il che aveva indubbiamente dato luogo a una lesione concreta e attuale dell'interesse alla libertà di concorrenza e al corretto funzionamento del mercato, di cui l'Autorità Garante è " istituzionalmente portatrice ". In particolare, secondo il Consiglio di Stato, il Comune procedente, anziché orientarsi per l'applicazione del diritto UE, attivando, di conseguenza, le procedure a evidenza pubblica per la riassegnazione delle concessioni scadute, aveva scelto di adeguarsi alla normativa interna, disponendo l’estensione automatica del termine di scadenza delle concessioni in essere. Il Consiglio di Stato accoglie dunque il ricorso di primo grado, annulla l’atto di indirizzo del Comune di Manduria e soggiunge infine “ che, sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato ”. E via al punto di partenza, fino al prossimo escamotage legislativo. Risuonano più che mai attuali, a commento del tragicomico corto-circuito istituzionale nato dalla querelle infinita sulle concessioni marittime italiane, le parole di un verso della celeberrima canzone di Giuni Russo: “ Un'estate al mare/Stile balneare/Con il salvagente/Per paura di affogare ”. [1] https://www.quirinale.it/elementi/80323 [2] Consiglio di Stato, sentenza n. 1192 del 1 marzo 2023
Autore: a cura di Alessio Maria Ciacio, praticante notaio 09 mar, 2023
La SCIA: un breve inquadramento e il contesto operativo La Segnalazione Certificata di Inizio Attività, comunemente nota come S.C.I.A., rappresenta un peculiare strumento del diritto amministrativo che opera in tema di regolazione dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, nonché istituto fortemente influenzato dal fenomeno internazionale che, a partire dai primi anni ‘90 del secolo scorso, offre un modello di deregulation dei mercati, promuovendo una maggiore liberalizzazione delle attività economiche del privato, semplificandone l’aspetto procedimentale. All’interno dei nostri confini, tale percorso si è tradotto nell’adozione di strumenti di effettiva semplificazione e liberalizzazione di attività economiche, e ciò in un'ottica di “sostituzione” del privato all’amministrazione nelle ipotesi in cui quest’ultima debba emanare autorizzazioni, nulla osta, nonché atti di assenso di tipo vincolato: il legislatore, infatti, consente oggi ai privati di poter intraprendere attività oggetto dei provvedimenti vincolati poc’anzi menzionati attraverso semplici autovalutazioni di conformità di cui loro stessi sono responsabili. Tale tendenza si riflette all’interno dell’art. 19 della L. n. 241/1990, norma che disciplina l’istituto che qui è in commento. Scendendo nei dettagli, la Segnalazione certificata di inizio attività si sostanzia in una dichiarazione attraverso cui il privato si antepone alla Pubblica amministrazione nel verificare il possesso dei presupposti e dei requisiti per intraprendere un’attività. L’istituto persegue dunque un intento semplificatorio: snellisce il rapporto che intercorre tra il privato e la Pubblica amministrazione; d’altra parte velocizza il procedimento burocratico laddove l’attività di controllo della P.A. non ha più un carattere preventivo, bensì successivo. Tale innovazione, a ben vedere, non depotenzia il ruolo della P.A. competente: il legislatore mantiene i poteri di controllo sulle attività segnalate dal privato, lasciando all'amministrazione la possibilità di intervenire qualora sussistano profili anomali in relazione alla SCIA. Come anticipato, la norma a cui far riferimento è l’ art. 19 della L. 241/1990 , la quale prevede che gli atti vincolati di assenso dalla stessa richiamati sono sostituiti da una Segnalazione dell’interessato. Un limite all’impiego della Segnalazione è posto dalla stessa norma, nella parte in cui inibisce l’utilizzo della SCIA nei “ casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della giustizia, all'amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria ”. Si tratta di materie che investono interessi pubblici di particolare spessore per cui il legislatore, a monte, preferisce mantenere un pieno e preventivo controllo in capo all’amministrazione. La norma prosegue poi statuendo che l’attività oggetto di S.C.I.A. può essere iniziata sin dalla data di presentazione della stessa Segnalazione all’amministrazione competente, occorrendo comunque che “a monte” il privato corredi la dichiarazione con tutti i documenti e adempimenti che la legge richiede con specifico riferimento alla singola attività. A differenza della normativa previgente, non è più necessario attendere il compimento di un termine: in passato occorreva infatti attendere trenta giorni prima di poter avviare l’attività oggetto della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), potendo l’amministrazione esercitare poteri inibitori nell’ulteriore termine di trenta giorni, che decorrevano dalla comunicazione dell’avvio dell'attività. Pervenuta la segnalazione di inizio di attività, la Pubblica Amministrazione esercita un controllo di competenza rispetto a quanto dichiarato: nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della S.C.I.A (trenta in caso di S.C.I.A edilizia), qualora ravvisi l'insussistenza dei requisiti e dei presupposti necessari all’esercizio dell’attività, ovvero accerti la non conformità tra quanto dichiarato e la situazione reale, essa adotta un provvedimento che inibisce la prosecuzione dell’attività, rimuovendo gli eventuali effetti dannosi conseguenti all’esercizio della stessa; nel caso in cui, invece, le carenze del privato siano suscettibili di regolarizzazione, la P.A. può invitarlo a provvedere entro un termine non inferiore a trenta giorni, prescrivendo le misure da intraprendere per conformare l’attività alla disciplina vigente. Qualora l’interessato non soddisfi l’onere di adeguarsi entro il suddetto termine l’attività intrapresa deve reputarsi vietata. La norma prevede inoltre la possibilità che la Pubblica amministrazione possa esercitare un’ulteriore attività di controllo attraverso le forme, le modalità e i tempi del potere di Autotutela, ex art. 21 nonies L. 241/1990 in tema di annullamento d’ufficio. L’amministrazione, dunque, ha a disposizione un ulteriore potere inibitorio, repressivo e conformativo, che però è esercitabile in presenza delle stringenti condizioni di cui all’art. 21 nonies evocato. Rammentiamo a tal proposito come alla luce della riforma operata dalla Legge n. 124 del 2015 , l’adozione dei provvedimenti inibitori oltre il termine perentorio previsto dal Terzo comma dell’Art. 19 - che, ricordiamo, sono sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, trenta nel caso di S.C.I.A. edilizia - è possibile solo se sussistano ragioni di interesse pubblico diverse dal mero ripristino della legalità violata e solo entro un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi, salvo che la S.C.I.A non sia stata accompagnata da dichiarazioni false o mendaci o ottenuta per effetto di condotte costituenti reato, poiché in tali casi l’amministrazione può intervenire senza limiti di tempo. Tale previsione appare conforme ad una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 49 del 2016), la quale ha sottolineato l’irrinunciabilità di un potere di intervento “a posteriori” secondo il modello generale dell’autotutela. Un rapporto non solo bipolare: la questione della tutela del terzo Per comprendere i caratteri fondamentali dell’istituto della S.C.I.A., occorre evidenziare il suo stretto collegamento al tema della tutela del terzo : l’approccio investe invero un istituto complesso, da cui emerge non solo la relazione che intercorre tra la Pubblica amministrazione e il privato segnalante, ma altresì un rapporto tripolare che vede emergere anche i contrapposti interessi del terzo, il quale, ritenendosi leso dall’attività del primo, coltiva l’aspirazione a impedire l’attività dichiarata (un interesse, dunque, antagonista). La conflittualità che insorge tra segnalante e terzo controinteressato, insieme ai poteri di intervento ex post della pubblica amministrazione, rendono complicata l’individuazione degli strumenti a disposizione del terzo per tutelarsi, e pone l’interrogativo della loro idoneità a garantirgli una tutela effettiva. Il tema solo recentemente ha trovato un punto di approdo, e per la sua comprensione occorre preliminarmente indagare la natura giuridica dell’istituto in esame. Nel tempo sono due le correnti di pensiero che si sono contrapposte: da un lato l’opinione di chi qualificava la S.C.I.A. come un provvedimento a formazione progressiva. I fautori di tale indirizzo consideravano la Segnalazione (in precedenza D.I.A.) come un atto amministrativo che assume consistenza con il susseguirsi, in prima battuta, della Segnalazione da parte del privato, e poi del decorso del tempo utile alla P.A. per esercitare il potere inibitorio. Al pari del silenzio assenso, dunque, spirato il termine per azionare l’attività repressiva si formerebbe un atto tacito a contenuto favorevole al dichiarante che assume caratteri soggettivi e oggettivi propri del provvedimento amministrativo. A sostegno della tesi invocata si sottolineava la collocazione formale dell’istituto all’interno del Capo IV della Legge n. 241 del 1990, intitolato “Semplificazione amministrativa” e, al contempo, la possibilità – da parte della Pubblica Amministrazione – di esercitare i poteri di autotutela previsti dall’art. 19, comma 3 che, coerentemente con l’argomentazione, trovavano giustificazione dalla preesistenza di un provvedimento di primo grado. Da tale configurazione conseguiva che i terzi che si ritenevano lesi dall’atteggiamento inerte assunto dall’amministrazione potevano azionare il rimedio dell’azione di annullamento di cui agli artt. 29 e 41 del d. lgs n. 104/2010 (cd. Codice del Processo Amministrativo). Una tale ricostruzione è stata ritenuta, da un opposto orientamento, come una forzatura del dettato normativo: la S.C.I.A. (ex DIA), infatti, non poteva concretizzare un provvedimento amministrativo a formazione tacita, e se fosse stato configurabile come tale non sarebbe apparso agevole tracciare una linea di demarcazione netta tra S.C.I.A. e silenzio assenso. Alla luce degli elementi critici di tale visione la giurisprudenza ha optato per una diversa interpretazione, qualificando la S.C.I.A. come atto soggettivamente e oggettivamente privato , espressione dell’auto-responsabilità del dichiarante. Il soggetto interessato trae la legittimazione all’esercizio della propria attività non tanto sulla base di un atto originatosi per l’inutile decorso del tempo, ma direttamente della previsione legislativa. Di conseguenza, il terzo che si assume leso dall’inerzia della P.A. per omesso esercizio del potere inibitorio è considerato titolare di un interesse legittimo, dunque legittimato a sollecitare la stessa affinché vengano svolte le opportune verifiche in ordine all’attività intrapresa dal privato. L’intervento del legislatore e i recenti arresti della Corte Costituzionale Il contrasto tra le due tesi sembrava risolto a seguito dell’intervento del legislatore con il d.l. n. 138/2011 (convertito con Legge n. 148/2011), il quale ha modificato l’art. 19, prevedendo espressamente che « la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili », accantonando dunque l’interpretazione della S.C.I.A. quale provvedimento amministrativo a formazione progressiva tacita. Il legislatore ha tratto chiara ispirazione dal precedente orientamento manifestato dal Consiglio di Stato in seno all' Adunanza Plenaria n. 15/2011 , ad avviso del quale la D.I.A. consiste in un atto privato che il soggetto predispone al fine di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge. In realtà, se da un lato il legislatore ha recepito la tesi della natura giuridica di atto privato, d’altra parte si è discostato dall’elaborazione giurisprudenziale con riferimento alle azioni esperibili dal terzo. Il Consiglio di Stato, infatti, nella pronuncia del 2011 attribuiva all'inerzia della P.A., protratta oltre i trenta giorni, il carattere di un provvedimento per silentium attraverso cui la stessa riscontra implicitamente che l'attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide di non impedirne l'inizio o la protrazione. A tal proposito il giudice d’appello, paragonando il silenzio ad un provvedimento tacito di diniego dell'azione inibitoria, devolveva la tutela del terzo all'esperimento di un'azione impugnatoria ex art. 29 del c.p.a; il legislatore, invece, con il d.l. n. 138/2011 ha disatteso in maniera netta questo approccio, introducendo nel comma 6-ter la previsione secondo cui “[...] Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 ”. L’assetto delineato dal legislatore non attribuisce all’inerzia dell’amministrazione il valore di silenzio significativo, ma la configura in termini di silenzio inadempimento, contro cui è possibile esperire esclusivamente l’azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3, d.lgs. 104/2010 . A questo punto, è chiaro che dalla differente qualificazione dell’istituto della S.C.I.A. derivano le diverse tipologie di strumenti sulle quali il terzo può fare affidamento, e discende d’altra parte la diversa consistenza del potere repressivo in capo all’amministrazione. Dall’approccio alla S.C.I.A. quale atto privato deriva che esso non è direttamente impugnabile. Ai sensi dell’ art. 19, comma 6ter , dunque, il terzo pregiudicato da un’attività̀ avviata mediante S.C.I.A. può soltanto “sollecitare” l’amministrazione mediante un’istanza, così che la medesima eserciti i poteri di vigilanza e di controllo. A fronte di un’eventuale inerzia della PA può intraprendere l’azione avverso il silenzio. Tuttavia, occorre sottolineare che, per accedere a tale forma di tutela in maniera proficua, il terzo dovrebbe sin da subito prendere cognizione dell’attività del segnalante, essendo le verifiche espressione di un potere vincolato soggetto al termine breve di 60 giorni (o 30) dalla presentazione della SCIA. Ma questo non sempre accade. In sostanza, il terzo che assume di aver subito un vulnus dalla SCIA, può richiedere tutela in sede giurisdizionale solo a fronte del silenzio maturato sulla diffida che egli ha l’onere di inoltrare per sollecitare l'esercizio delle verifiche dell’autorità preposta. Il terzo non può viceversa agire direttamente nei confronti della SCIA, soprattutto se questa abbia già dispiegato i propri effetti per essere spirato il termine di 60 giorni che il comma 3 dell’art. 19 assegna all’Amministrazione per «adottare motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa». Esaurita la suddetta finestra temporale, la tutela riconosciuta al terzo controinteressato diventa sempre più inconsistente e la sua sollecitazione può riguardare in seconda battuta solo i poteri esercitabili nelle forme dell’“autotutela”, accompagnata da ampi margini di discrezionalità secondo le condizioni poste dall’art. 21-novies della L. n. 241/1990. Su tali questioni dibattute è recentemente intervenuta la Corte costituzionale: con la sentenza n. 45/2019 , infatti, si è espressa su talune questioni di legittimità sollevate dal giudice a quo , concernenti le modalità di impugnazione della SCIA, ritenendole però infondate [1] . In particolare, il giudice rimettente evidenziava come dalla norma non fosse individuabile un termine finale entro cui l’interessato, leso dall’attività a cui la S.C.I.A. si riferisce, potesse sollecitare i poteri di controllo dell’amministrazione. Sul punto la Corte ha sottolineato come in realtà, i termini, nonostante non trovino espressa menzione all’interno del testo normativo, sono desumibili interpretando il contesto di riferimento, coincidendo con i termini entro cui la P.A. può esercitare i propri poteri di controllo, e dunque sessanta giorni, nonché trenta in caso di S.C.I.A. edilizia; in secondo luogo, la Corte ha colto l’occasione per chiarire i differenti strumenti di tutela riconosciuti dall’ordinamento a favore del terzo per contestare la legittimità della SCIA, inserendosi all’interno di un panorama dottrinale e giurisprudenziale disomogeneo, non solo con riferimento ai mezzi di tutela esperibili dal terzo controinteressato, ma anche, come abbiamo visto, con riguardo a un possibile deficit di tutela piena. Nel suo intervento, la Consulta ha avvertito che a disposizione del terzo l’ordinamento predispone diversi strumenti di tutela: anzitutto, come emerge dal disposto dell’art. 19, commi 3 e 6bis, il soggetto controinteressato che si ritiene leso dall’attività oggetto di S.C.I.A. può sollecitare la pubblica amministrazione ad esercitare il potere di verifica e ad emettere un provvedimento inibitorio e di rimozione degli eventuali effetti dannosi. La sollecitazione deve avvenire nei pur stringenti termini di sessanta giorni (trenta nel caso di SCIA edilizia); esaurito detto arco temporale egli può, come già ricordato, chiedere alla pubblica amministrazione di attivare il potere di verifica e di annullamento attraverso le forme, le modalità e i tempi dell’autotutela, ex art. 21 nonies l. 241/1990 in tema di annullamento d’ufficio, anche qui all’interno delle stringenti condizioni previste dalla legge; può, ancora, nelle ipotesi in cui sussistano dichiarazioni false o mendaci da parte del dichiarante, invocare l’esercizio dell’azione repressiva da parte dell’amministrazione prevista dalle norme di settore (senza limiti di tempo); ancora, nel caso in cui la Pubblica amministrazione non abbia esercitato “a monte” il potere di verifica, il privato può comunque intraprendere un’azione risarcitoria nei confronti della stessa, nonché reclamare un’ipotesi di responsabilità del dipendente qualora quest’ultimo non abbia agito con tempestività; da ultimo, la Corte prospetta l’opzione della tutela civilistica, potendo il terzo controinteressato agire nei confronti del privato che ha segnalato all’amministrazione l’inizio dell’attività, per ottenere una riparazione pecuniaria. A conferma della complessità della materia, specie per la presenza di interessi connessi, confliggenti, e in qualche modo meritevoli di tutela, pare utile ricordare come poco prima della decisione appena citata della Consulta, anche il T.A.R. Emilia Romagna, Sez. Parma, avesse avanzato alla Corte talune questioni di legittimità costituzionali, adombrando la violazione del diritto di difesa del terzo controinteressato e la conseguente violazione dell’art. 24 Cost. A differenza del giudice a quo toscano, la cui questione di legittimità è sfociata nella sentenza sopra discussa, e soprattutto contrariamente a quel che poi sarà il contenuto della sentenza della Consulta n. 45/2019, il giudice emiliano riteneva che la violazione del diritto di difesa del controinteressato derivasse proprio dalla previsione di un limite temporale all’esercizio della tutela del terzo, ricavabile dal sistema, che spesso non permetteva la realizzazione di una piena tutela in capo al terzo controinteressato. Nel dettaglio, il giudice a quo sollevava una questione di legittimità fondata sulla considerazione secondo cui, dato atto che il terzo viene a conoscenza della SCIA solo dopo il termine di sessanta, ovvero trenta giorni in caso di SCIA edilizia, egli non può nuovamente sollecitare il potere inibitorio giacché lo stesso si consuma e l’amministrazione non può essere “rimessa in termini”; d’altra parte, colui che ha presentato una SCIA si troverebbe dinanzi ad un contesto instabile, e non potrebbe far affidamento sulla possibile realizzazione dell’attività. Dalla prospettiva del terzo controinteressato, secondo il giudice a quo , emergerebbero allora profili di scarsa tutela: egli non può ottenere specifica soddisfazione del suo interesse legittimo oppositivo presso il giudice amministrativo. Il TAR, infatti, può solo limitarsi ad accertare l’illegittimità dell’attività segnalata ed ordinare alla PA di provvedere al riesame, tenuto conto che l’annullamento in autotutela si concretizza in un potere fortemente discrezionale; d’altra parte, ancora, lo stesso TAR non può giudicare sulla fondatezza della pretesa e condannare l’amministrazione ad emanare un provvedimento specifico. Alla luce di tali ordini di considerazioni, per il TAR Emilia Romagna, Sezione di Parma, una tutela del genere, dove il terzo non può chiedere l’annullamento e neanche un provvedimento specifico, evidenzia a monte una scarsa tutela a suo favore, sicché si configurerebbero dubbi costituzionali circa l’art. 19, comma 6-ter, della L. 241/1990, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., laddove si consente ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di avvalersi esclusivamente dell’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 cpa, e ciò solo dopo aver sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione. La Consulta si è espressa con la sentenza 153/2020 rigettando però la questione sollevata [2] . Nel fare ciò, la Corte ha richiamato la sentenza n. 45 del 2019 – che aveva scrutinato l’art. 19, comma 6 ter, della legge n. 241 del 1990, che appunto costituisce lo strumento di tutela del terzo in caso di inerzia sulla sua istanza di sollecitazione – e ne ha ribadito le conclusioni in ordine alla legittimità della disciplina della SCIA, in quanto essa realizza quell’«equilibrio fra l’interesse del segnalante al consolidamento della propria situazione giuridica e quello dei controinteressati lesi dall’attività segnalata». Considerazioni finali A valle delle recenti pronunce della Corte Costituzionale non può non evidenziarsi come appaiono ancora irrisolte talune criticità proprie della SCIA; esse, a ben guardare, ostacolano la realizzazione di una tutela in favore del controinteressato, che possa considerarsi come piena ed effettiva. Così, il superamento di tali problematiche richiederebbe un intervento normativo capace di garantire l’efficace funzionamento degli strumenti a disposizione dei controinteressati. D’altronde, è la stessa Corte ad avanzare talune riflessioni che danno evidenza di rilevanti lacune in tema di tutela dei terzi di fronte alla SCIA: emerge, infatti, come sia ricorrente il rischio che il terzo ne venga a conoscenza con ritardi patologici ai fini della propria difesa. Sarebbe pertanto utile definire taluni strumenti che consentano ai controinteressati di acquisire una cognizione piena e tempestiva delle segnalazioni presentate, soprattutto alla luce di una fase in cui la pubblica amministrazione si propone di diventare sempre più digitalizzata; un altro punto critico emerge laddove l’inerzia della pubblica amministrazione perduri anche successivamente alla sollecitazione del terzo, arrecando ancora una volta un pregiudizio alla tutela giurisdizionale ex artt. 31 e 117 c.p.a.. Questi, dunque, i temi che emergono. Come visto, la Corte Costituzionale ci consegna l’idea di un sistema che possiede strumenti formalmente idonei a garantire la tutela della posizione giuridica del terzo, ma che nella sostanza richiedono un intervento da parte del legislatore. Il tema, allora, resta oggetto di discussione. La giurisprudenza, anche più recente, continua peraltro nella sua preziosa opera chiarificatrice e di perfezionamento dell’istituto, a testimonianza di un diritto, quello amministrativo, in costante evoluzione. [3] [1] Corte Costituzionale, 13/03/2019, n.45 - Legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 6-ter, l. 7 agosto 1990, n. 241. Non sono fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 6-ter, l. 7 agosto 1990, n. 241, censurato per violazione degli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1 — quest'ultimo in riferimento all'art. 1 del Protocollo addizionale alla Cedu, e all'art. 6, par. 3, del TUE — e comma 2, lett. m), Cost., nella parte in cui non prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica sulla segnalazione certificata d'inizio attività (SCIA) spettanti alla pubblica amministrazione. La previsione di un termine costituisce un requisito essenziale dei poteri di verifica sulla SCIA a tutela dell'affidamento del segnalante, poteri che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, sono quelli previsti dai commi precedenti della medesima norma censurata e sempre vincolati. In particolare, il comma 3 dell'art. 19 attribuisce alla PA un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA, mentre il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono ancora esercitabili secondo la disciplina dell'annullamento in autotutela degli atti illegittimi, che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, deve essere esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi. Il comma 6-bis dell'art. 19 applica questa disciplina anche alla SCIA edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta a trenta giorni. Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell'amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo, il quale però potrà attivare i poteri di verifica dell'amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell'art. 21, comma 1, l. n. 241 del 1990; potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all'amministrazione, ai sensi dell'art. 21, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990, e potrà agire in sede risarcitoria nei confronti della p.a. in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica, oltre che in relazione al fatto giuridico di un'attività che si assuma illecita. Tutto ciò, peraltro, non esclude l'opportunità di un intervento normativo sull'art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell'attività segnalata e, dall'altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell'esercizio del potere da parte dell'amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere (sentt. nn. 150 del 1982, 307 del 2003, 32 del 2009, 115 del 2011, 49 del 2016) . [2] Corte Costituzionale, 20/07/2020, n.153 - S.C.I.A. e tutela dei terzi controinteressati: inammissibili le questioni di legittimità costituzionale. Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 6-ter, l. 7 agosto 1990, n. 241, censurato per violazione degli artt. 3,24,103 e 113 Cost., nella parte in cui impedisce ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di ottenere dal Giudice amministrativo una pronuncia di accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, con conseguente condanna o comunque effetto conformativo all'adozione dei corrispondenti provvedimenti, anche nel caso in cui sia decorso il termine concesso all'amministrazione per azionare il potere inibitorio di cui al comma 3 dell'art. 19 l. n. 241 del 1990. Il fatto che nel caso di specie l'amministrazione, su sollecitazione dei controinteressati, abbia positivamente riscontrato la legittimità delle opere si è tradotto in un diniego che, secondo le regole generali, non poteva che essere impugnato con l'ordinaria azione di annullamento, come infatti è avvenuto. Pertanto, la reale natura dell'azione esercitata comporta che le questioni sollevate, avendo tutte per presupposto un silenzio dell'amministrazione, sono estranee al thema decidendum del giudizio principale e pertanto sono inammissibili per difetto di rilevanza. Le questioni sono inammissibili anche perché l'ordinanza di rimessione ha un petitum incerto e contraddittorio, che oscilla tra una pronuncia caducatoria ed una manipolativa e creativa, in un ambito, quello processuale, notoriamente riservato alla discrezionalità del legislatore (sentt. nn. 45, 239 del 2019, 7 e 21 del 2020; ord. n. 250 del 2019). [3] Di seguito alcune recenti pronunce sulle questioni evocate: ● Consiglio di Stato Sez. IV n. 1737 del 11 marzo 2022 - SCIA e rimedi a tutela del terzo. In materia di rimedi a tutela della posizione di chi si assuma leso dall’attività edilizia posta in essere da altri sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 45 del 13 marzo 2019 vanno privilegiate soluzioni interpretative che evitino un eccessivo sacrificio delle esigenze di tutela di tale soggetto; pertanto, sulla base dell’art. 19, l. 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i., è possibile individuare in capo alla p.a. un duplice ordine di poteri: gli ordinari poteri di vigilanza e inibitori sull’attività avviata dal segnalante, esercitabili nei termini perentori di cui ai commi 3 e 6-bis del predetto articolo, e il potere di autotutela di cui all’articolo 21-nonies, espressamente fatto salvo dal successivo comma 4 ed esercitabile anche dopo la scadenza dei detti termini; a norma del comma 6-ter, il privato interessato può invitare l’amministrazione a esercitare i poteri ordinari entro il termine, e in caso di inerzia attivare i rimedi processuali avverso il silenzio-inadempimento dell’amministrazione, ma ciò non esclude che egli possa, anche dopo la scadenza del termine, sollecitare l’esercizio del potere di autotutela ove ricorrano i presupposti di cui al citato art. 21-nonies. ● Tar Campania - Napoli, Sez. III, 14 gennaio 2021, n. 266 - SCIA e autotutela: la P.A. deve provvedere sull’istanza di annullamento del terzo. Il terzo che si assume leso dalla presentazione di una SCIA non inibita dall’amministrazione comunale, può sollecitare la pubblica amministrazione ad esercitare il potere di verifica e ad emettere provvedimento inibitorio e di rimozione degli eventuali effetti dannosi nei termini di 60 / 30 giorni previsti dalle norme sulla SCIA (ex comma 3 e comma 6-bis – in materia edilizia – dell’articolo 19 della L. 241/1990); ovvero sollecitare la pubblica amministrazione ad esercitare il potere di verifica e di annullamento in autotutela ex articolo 21-novies della L. 241/1990. Ne deriva la piena ammissibilità della presente azione avverso il silenzio dell’amministrazione, dovendosi in tal caso configurare l’esame della istanza di autotutela come doveroso da parte dell’amministrazione. ● T.A.R. Roma, (Lazio) sez. II, 27/05/2021, n.6290 - Sollecitazione del terzo all'attivazione dei poteri di vigilanza sulla SCIA edilizia effettuata dopo la scadenza dei 30 giorni per i controlli ordinari. Quando il terzo sollecita l’attivazione dei poteri di vigilanza sulla SCIA Edilizia dopo la scadenza del termine di 30 giorni assegnato per la realizzazione dei controlli “ordinari” (art. 19, commi 3 e 6-bis, L. 241/1990), l’amministrazione è comunque tenuta a riscontrare l’istanza del privato, e dunque ad azionare i poteri di vigilanza edilizia, nonché quelli repressivo-sanzionatori. Tale verifica, però, è soggetta all’accertamento delle condizionalità previste dall’art. 21-nonies L. 241/1990. Il T.A.R. sopra citato evidenzia che, entro 30 giorni dalla proposizione della S.C.I.A., i poteri della PA si vestono dei caratteri di doverosità e vincolatività; dunque sono pieni. Consegue allora che, laddove sollecitati da eventuali interessati mediante una tempestiva diffida, legittimano l’esperimento di un’azione avverso l’eventuale contegno inerte (ex. art. 31-117 c.p.a.), con contestuale richiesta di accertamento della fondatezza della pretesa e condanna della PA all’adozione dei provvedimenti richiesti (art. 19, comma 3, L. 241/90). Decorsi i 30 giorni, invece, ai sensi del comma 4, art. 19, l. 241/90, “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti” inibitori ovvero repressivo/sanzionatori previsti dal precedente comma 3, previa valutazione dell'esistenza delle condizioni previste per l'esercizio dell'annullamento d'ufficio, di cui all'art. 21-nonies della stessa legge. Detto ciò, allora, laddove la sollecitazione alle verifiche circa la legittimità di una SCIA è sia tardiva, oltre i termini dei 30 (o 60) giorni, il terzo controinteressato, se intende dolersi delle conclusioni cui è giunta l’Amministrazione a valle del procedimento di verifica, è onerato dall’allegazione non solo dei pretesi profili di illegittimità della segnalazione, ma anche della sussistenza di tutti gli altri presupposti legittimanti l'esercizio dei poteri inibitori tardivi. ● T.A.R. Genova, (Liguria) sez. I, 12/05/2021, n. 430 - E’ illegittimo il silenzio della P.A. che non attivi alcun procedimento dopo la presentazione di diffida per le verifiche sulla SCIA edilizia. È illegittimo, per violazione dell'obbligo di provvedere sancito dall'art. 2 della l. n. 241/1990, il comportamento silente dell'Amministrazione che, a fronte della diffida volta a sollecitare l'espletamento delle verifiche sulla SCIA edilizia, formulata oltre lo spirare del termine di trenta giorni, ma entro il termine di diciotto mesi dalla presentazione della stessa, ometta di assolvere all'obbligo di attivazione del procedimento funzionale alla verifica dell'eventuale illegittimità dell'attività edilizia segnalata e dell'esistenza delle condizioni di cui all'art. 21-nonies della l. n. 241/1990. ● Consiglio di Stato, Sez VI, n. 5208/2021 - Sulle conseguenze del controllo tardivo della Scia su Istanza di terzo. I poteri di controllo tardivo sulla SCIA, di cui all’art. 19, comma 4, l. n. 241 del 1990, sollecitati dal terzo, sono doverosi nell’ an , ferma restando la discrezionalità nel quomodo . È noto che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 45 del 2019, non ha accolto la tesi secondo cui la sollecitazione del ‘terzo’ avrebbe ad oggetto solo poteri inibitori, anche se presentata dopo la scadenza del termine perentorio (di cui ai commi 3 o 6-bis dell’art. 19, l. n. 241 del 1990), reputando invece che dopo tale termine il terzo possa sollecitare solo i poteri di autotutela. Alla luce di tale pronuncia, i poteri di controllo sulla SCIA, se attivati tempestivamente (entro i sessanta o trenta giorni dalla segnalazione), sono vincolati, con la conseguenza che l’interessato potrebbe chiedere anche l’accertamento della fondatezza nel merito della pretesa; se attivati invece dopo il decorso del termine ordinario (ed entro i successivi diciotto mesi), sono invece subordinati alla sussistenza delle ‘condizioni’ di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990. La Corte non ha tuttavia precisato se sussista, in capo all’Amministrazione, l’obbligo di avvio e conclusione del procedimento di controllo tardivo sollecitato dal terzo, ferma restando la piena discrezionalità nel quomodo . Depongono nel senso della doverosità (in deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile), sia l’argomento letterale ‒ segnatamente, la differente formulazione dell’art. 21-nonies rispetto all’art. 19, comma 4, l. n. 241 del 1990, il quale ultimo, a differenza del primo, dispone che l’amministrazione «adotta comunque» (e non già semplicemente «può adottare») i provvedimenti repressivi e conformativi (sempre che ricorrano le ‘condizioni’ per l’autotutela) ‒, sia la lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo. Avendo il legislatore optato per silenzio-inadempimento quale unico mezzo di tutela (‘amministrativa’) messo a disposizione del ‘terzo’, ove non sussistesse neppure l’obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, si finirebbe per privare l’istante di ogni tutela effettiva davanti al giudice amministrativo, in contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost. È necessario quindi riconoscere, rispetto alla sollecitazione dei poteri di controllo tardivo, quanto meno l’obbligo dell’amministrazione di fornire una risposta.
02 mar, 2023
Ha fatto recentemente scalpore l’intervento del Governo “a gamba tesa”, con il decreto-legge n. 11 del 16 febbraio 2023 , sulla disciplina relativa alla cessione o sconto in luogo delle detrazioni fiscali introdotta per il cosiddetto “superbonus 110%” e per alcuni altri specifici interventi edilizi (tra cui recupero del patrimonio edilizio, efficienza energetica e recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti, ivi inclusi quelli di sola pulitura o tinteggiatura esterna) dagli artt. 119 e 121 del d.l. n. 34 del 2020 . In poche parole, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha vietato, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione del decreto del 16 febbraio scorso, lo sconto in fattura o comunque la cessione a terzi , in luogo dell'utilizzo diretto della detrazione prevista in materia di bonus edilizi, del credito (d'imposta) spettante per i lavori eseguiti, contemporaneamente impedendo alle amministrazioni pubbliche di rendersi cessionarie di tale credito. Sembra che questo “blocco” repentino avrà effetti pesantissimi sulle famiglie, sulle imprese e su tutta la filiera delle costruzioni. Ma perché allora il Governo è intervenuto così bruscamente su una misura tanto gradita al “popolo edilizio”, e che ha goduto effettivamente, dal 2020 in poi, di una stagione d’oro, incidendo positivamente anche sul PIL? Leggendo il preambolo del decreto-legge n. 11 del 2023, si nota che è stata ritenuta “ la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre ulteriori e più incisive misure per la tutela della finanza pubblica nel settore delle agevolazioni fiscali ed economiche in materia edilizia ”. Tradotto: occorre mettere in sicurezza i conti pubblici, perché nei cassetti fiscali della Agenzia delle Entrate ci sarebbero ben 110 miliardi di euro di crediti di imposta derivanti dai bonus edilizi (importo destinato ad aumentare), pronti ad essere compensati con corrispondenti debiti tributari e previdenziali. Un potenziale disastro per l’erario. Da subito. La circolazione di tali crediti di imposta ha generato inoltre una gigantesca truffa ai danni dello Stato, con l’introduzione di una sorta di moneta parallela non sempre basata su transazioni effettive. Ma facciamo un passo indietro. Tutto è cominciato con il cosiddetto superbonus edilizio . Il superbonus è l’agevolazione fiscale disciplinata dall’articolo 119 del decreto legge n. 34/2020 sopra citato, che consiste in una detrazione del 110% delle spese sostenute a partire dal 1 luglio 2020 per la realizzazione di specifici interventi finalizzati all’efficienza energetica e al consolidamento statico o alla riduzione del rischio sismico degli edifici. Tra gli interventi agevolati rientra anche l’installazione di impianti fotovoltaici e delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici. La legge di bilancio 2022 ha prorogato l’agevolazione, prevedendo scadenze diverse in funzione dei soggetti che sostengono le spese ammesse. In particolare, il superbonus spetta nella misura del 110% per le spese sostenute fino al 31 dicembre 2023, in quella del 70% per le spese sostenute nel 2024 e in quella del 65% per le spese sostenute nel 2025 per i condomini e le persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività di impresa, arte e professione, per gli interventi su edifici composti da due a 4 unità immobiliari distintamente accatastate, anche se posseduti da un unico proprietario o in comproprietà da più persone fisiche. Sono compresi gli interventi effettuati dalle persone fisiche sulle singole unità immobiliari all’interno dello stesso condominio o dello stesso edificio, nonché quelli effettuati su edifici oggetto di demolizione e ricostruzione. La particolarità dell’incentivo sta in due aspetti. Innanzitutto, la detrazione stabilita in partenza è del 110%: lo Stato, cioè, restituisce più di quanto è stato effettivamente speso. In secondo luogo, in alternativa alla detrazione, è stato per lungo tempo possibile beneficiare del superbonus optando o per un contributo anticipato sotto forma di sconto praticato dai fornitori o per la cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante. E' stato probabilmente sulla base di un malinteso presupposto post-pandemico di buona fede, o comunque nella speranza della costruzione di un nuovo patto di lealtà tra cittadino e Stato, che il Governo Conte II, nel suo cosiddetto decreto rilancio (il più volte citato d.l. n. 34 del 2020) aveva deciso di immettere un fiume di denaro pubblico nel settore edilizio, senza preoccuparsi di proteggerlo da chi avesse prima e meglio capito come “mungere” illecitamente lo Stato durante l’emergenza, e senza calcolare l'impatto a regime sui conti pubblici. Come visto, infatti, l’art. 121 del citato decreto-legge aveva disposto che, per tutta una serie di interventi (spese per l’efficienza energetica, recupero o restauro della facciata di edifici esistenti, ecc.), le più che favorevoli detrazioni concesse dallo Stato avrebbero potuto essere fruite dai beneficiari anche tramite un credito d’imposta da cedere ad altri soggetti, senza però stabilire presidi di garanzia (ad es.: visti di conformità) né limitazioni sul numero di cessioni e sulla natura soggettiva dei cessionari. A sua volta, l’art. 122 dello stesso decreto aveva disposto che i beneficiari dei crediti d’imposta introdotti per fronteggiare l’emergenza economica seguita alle misure restrittive dettate dall’emergenza epidemiologica potevano optare per la cessione, anche parziale, di tale credito ad altri soggetti, anche qui senza alcuna regola. Si è innescato così un meccanismo fraudolento su larga scala. Secondo un’indagine della Guardia di Finanza, la truffa era iniziata sfruttando il “bonus locazione” e individuando aziende in crisi o sull’orlo del fallimento che avessero in corso contratti di locazione. I truffatori entravano in queste società per assumerne la guida, ottenevano dall’Agenzia delle Entrate, come previsto dal bonus, l’erogazione del 60% dell’ammontare dell’affitto sotto forma di credito d’imposta e cedevano tale credito a una società compiacente che a sua volta lo rivendeva, ad un valore nominale inferiore, a un’ulteriore società, non necessariamente consapevole del primo illecito. Il credito, una volta “ripulito”, poteva essere utilizzato dall’azienda acquirente come detrazione sulle tasse da pagare. Allargando le maglie della truffa, e sfruttando la complicità di professionisti del settore, i truffatori sparsi per la penisola avevano cominciato a dichiarare lavori di ristrutturazione, a volte anche all’insaputa dei proprietari degli immobili coinvolti, che non erano mai stati eseguiti. Stesso sistema. Acquisizione di credito di imposta sui lavori e cessione, indiscriminata e a catena, di tale credito. Nel linguaggio intercettato degli imbroglioni di turno, i soldi sono diventati panzerotti, e il coronavirus una vittoria al superenalotto, così come fu all’epoca, per gli imprenditori che ci ridevano su, il terremoto che distrusse L’Aquila. Secondo il Direttore dell’Agenzia delle Entrate - Agenzia che per lungo tempo non ha goduto di alcun potere di intervento preventivo sulla cessione di questo tipo di crediti -, il sistema dei bonus edilizi all’italiana aveva generato, nel novembre del 2021, un valore di almeno 4,4 miliardi di crediti d’imposta inesistenti. Il Governo Draghi ha provato a correre ai ripari, dopo un primo intervento volto ad allineare la procedura su visti di conformità e asseverazioni di tutti i bonus edilizi a quella già prevista in materia di superbonus edilizio, mediante il cosiddetto decreto sostegni ter . Tale decreto ( d.l. n. 4 del 27 gennaio 2022 ) aveva infatti stabilito che il beneficiario delle detrazioni fiscali per gli interventi previsti dalla normativa sui bonus poteva ancora optare, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione spettante, per la cessione di un credito d’imposta di pari ammontare ad altri soggetti, ma tale credito non poteva poi successivamente essere nuovamente ceduto, con nullità dei contratti di cessione del credito conclusi in violazione di questo divieto. Ma questo decreto è stato superato in corsa, seppure per un breve periodo, da un ulteriore decreto legge (il n. 13 del 25 febbraio 2022), intervenuto, secondo lo stesso comunicato stampa del 18 febbraio 2022 – visionabile sul sito istituzionale del Governo -, “per sbloccare il processo di cessione del credito dei bonus edilizi che ha subìto un rallentamento a seguito delle indagini in corso”. La disposizione prevedeva che sarebbe stato possibile cedere il credito per tre volte e solo in favore di banche, imprese di assicurazione e intermediari finanziari, e che lo stesso non poteva formare oggetto di cessioni parziali successivamente alla prima comunicazione dell'opzione all'Agenzia delle entrate. A tal fine, era stato introdotto un codice identificativo univoco del credito ceduto per consentire la tracciabilità delle cessioni. Di fatto, era stata autorizzata la possibilità di due ulteriori cessioni del credito, dopo la prima, ma soltanto se effettuate a favore di banche e intermediari autorizzati. Il Ministro dell'Economia e delle Finanze Franco, intervenendo in Parlamento il 3 marzo 2022 ai fini di "informativa del Governo sui bonus edilizi", dopo avere platealmente riconosciuto che il meccanismo introdotto dal Governo Conte II - e a lungo conservato dal Governo Draghi - aveva di fatto creato un mercato dei crediti non regolamentato e trasformato il relativo credito d'imposta in una sorta di titolo circolante, ha testualmente riferito che " il potenziamento delle agevolazioni edilizie e la facilitazione della cessione dei crediti di imposta miravano ad accrescere la qualità e l'efficienza energetica del patrimonio abitativo, e a sostenere il settore delle costruzioni. (...) L'intervento per le cessioni ha tuttavia consentito l'emergere di condizioni particolarmente permeabili a comportamenti illeciti. L'esito delle frodi e il potenziale danno per l'erario derivante dalle false cessioni ha assunto proporzioni estremamente rilevanti (...). La rilevanza e la diffusione delle frodi (...) ha imposto a tutela dei conti dello Stato e dei contribuenti l'attivazione di contromisure volte a contrastare e a prevenire i comportamenti illeciti, e contestualmente a consentire ai cittadini onesti di fruire della misura agevolativa ". Tuttavia, in sede di conversione del decreto-legge n. 4 del 2022, il decreto-legge n. 13 è stato abrogato; la disciplina finale stabilita dalla L. n. 25 del 28 marzo 2022 è stata allora la seguente, nel suo aspetto più rilevante: i soggetti che usufruiscono (o hanno usufruito) delle agevolazioni in materia edilizia tra il 2020 e il 2024 avrebbero potuto optare, in alternativa alla detrazione fiscale, o per uno sconto sul corrispettivo dovuto ai fornitori o per la cessione del credito d’imposta generato dalle agevolazioni stesse; il credito d’imposta scaturito dallo sconto effettuato dai fornitori o direttamente attribuito a chi aveva sostenuto la spesa edilizia avrebbe poi potuto essere ceduto per una sola volta a soggetti terzi (qualsiasi soggetto terzo), e per un massimo di altre due volte a banche e intermediari finanziari autorizzati. La contromisura studiata dal Governo Draghi non è però evidentemente bastata, se poi l’attuale esecutivo è dovuto intervenire ancora una volta, vietando sic et simpliciter sconto in fattura e cessione del credito, e lasciando "vivere" la sola detrazione dall'imponibile fiscale su base pluriennale. La massa di crediti confluita nei cassetti fiscali dell’Agenzia delle Entrate era divenuta ormai insostenibile, nel lungo periodo. Secondo recenti dichiarazioni del Ministro dell'Economia Giorgetti, il rosso nei conti pubblici sul fabbisogno di gennaio e febbraio del corrente anno (i detentori dei crediti di imposta hanno cominciato a non pagare le tasse dovute, portando tali crediti in compensazione) è dovuto in parte all'impatto diretto del debito fiscale contratto dallo Stato per gli incentivi fiscali concessi secondo le modalità "imprudenti" stabilite nel 2020 e in parte al fatto che nell'ultima nota di aggiornamento del documento di economia e finanza era stata sottovalutata la "forza" di utilizzo da parte dei beneficiari dei crediti di imposta acquisiti. Giorgetti ha parlato di "effetto allucinogeno" dei bonus edilizi e contemporaneamente l'ISTAT ha ritoccato al ribasso i dati della crescita del Paese nel 2022 , con un deficit che si attesta all'8% contro le stime governative del 5,6%, precisando che sul nuovo calcolo avrebbero avuto un peso decisivo proprio i famigerati crediti di imposta derivanti dai bonus edilizi. Sull'altro versante, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli strumenti di incentivazione fiscale e in particolare sui crediti di imposta in esame, è stato rivelato che dal novembre 2021 a oggi le investigazioni della guardia di finanza hanno consentito di sottoporre a sequestro preventivo crediti d'imposta inesistenti per oltre 3,7 miliardi di euro. Tali crediti fiscali “falsi” avrebbero indebitamente ridotto debiti fiscali “veri”, con conseguente diminuzione ingiustificata delle entrate erariali. Ma è plausibile che, come sempre accade in questi casi, il numero dei crediti inesistenti non sequestrati - perché non rintracciati o non più rintracciabili - sia almeno il triplo. E adesso? Si dice non senza fondamento che la misura drastica operata dal Governo creerà due rilevanti problemi, al di là delle possibili conseguenze negative sull’indotto edilizio. Innanzitutto, senza cessione del credito i bonus diventano appetibili soltanto per i soggetti molto ricchi (tra quelli che pagano le tasse, ovviamente), perché, per evitare l’ incapienza fiscale , ovvero l’impossibilità di utilizzare tutta la detrazione nel caso di imposta lorda inferiore all'importo della detrazione stessa, servono redditi imponibili alti. In secondo luogo, si aggrava e non di poco la situazione dei crediti incagliati , ovvero di quei crediti bloccati nei cassetti fiscali, in quanto non riescono ad essere ceduti al sistema bancario, che ha nel frattempo raggiunto i limiti di acquisto. D’altra parte, con il varo del decreto legge che, di fatto, ha messo fine a qualsiasi possibilità di cedere i crediti, seppur prevedendo un regime transitorio per chi, in data antecedente il 17 febbraio 2023, ha già avviato i lavori, il blocco previsto dal Governo Meloni ha probabilmente assestato il colpo di grazia su un settore che già da molte settimane risultava in forte affanno. Infatti, a seguito delle tante disposizioni anti frode che sono state emanate nei mesi scorsi, il mercato delle cessioni dei bonus era andato via via rallentando per paura, da parte dei cessionari, di essere, loro malgrado, coinvolti in operazioni fraudolente. Contemporaneamente, la moltiplicazione a dismisura dei lavori edilizi avviati su tutto il territorio nazionale ha saturato, come detto, le capacità di acquisto dei crediti da parte dei principali soggetti acquirenti, ovvero gli intermediari finanziari e bancari. Il decreto legge n. 11 ha cercato di delimitare normativamente il perimetro di responsabilità solidale da parte dei cessionari dei crediti, in modo da dar loro un margine di certezza e, quindi, incoraggiarli a riprendere gli acquisti, ma le misure in esso contenute sono allo stato ritenute insufficienti da parte delle categorie interessate. [1] Continuano invece a brindare tutti coloro che hanno preso soldi dalla cessione di crediti fasulli, perché basati su lavori mai effettuati e anzi quasi sempre costruiti a tavolino e solo “sulla carta”. Si dice che è necessario porre un argine al fenomeno della monetizzazione dei crediti fiscali che si è venuto a creare con la trasformazione degli incentivi fiscali in una sorta di moneta parallela, ma non si indica come sbrogliare la matassa che tale fenomeno ha creato. Di certo, la strada non può essere l’acquisto dei crediti in questione da parte delle pubbliche amministrazioni – come pure ha provato a fare la Regione Sardegna, ad esempio -, possibilità che è stata infatti stroncata sul nascere dalle nuove norme. [2] E’ passato ormai più di un decennio dalla crisi dei mutui subprime americani del 2007 (a cui seguirono il famoso "big short" e una spaventosa recessione planetaria), ma l’insegnamento sui pericoli della cartolarizzazione dei crediti a rischio non è stato evidentemente recepito fino in fondo qui da noi. Quello che tuttavia più stupisce – e che non finirà mai di stupire – è come sia possibile che ancora oggi un amministratore pubblico avalli pratiche così rischiose senza tenere conto degli effetti di tali pratiche sulla spesa collettiva (quella cioè che grava su ciascuno di noi), e senza prevenire con meccanismi di controllo razionali e di buon senso l’avidità dei parassiti dello Stato. [1] L'ANCE (Associazione nazionale costruttori edili) ha fatto rilevare che i "crediti incagliati" ammonterebbero a circa 19 miliardi di euro, e che gli stessi, se non pagati, metteranno a rischio almeno 115 mila cantieri di ristrutturazione di case già avviati, 32 mila imprese e 170 mila lavoratori. [2] E' notizia dell'ultima ora la possibile introduzione, in sede di conversione del decreto-legge n. 11 del 2023, di alcune deroghe che vadano incontro ai soggetti più colpiti dal blocco della cedibilità del credito di imposta quali i cosiddetti "incapienti", e alle situazioni di maggiore interesse sociale ("sismabonus" e interventi su case popolari).
Autore: a cura di Roberto Lombardi 19 feb, 2023
Ci risiamo. Il delitto di abuso di ufficio “deve morire”: i Sindaci sono spaventati e il sistema della giustizia penale è troppo pm-centrico [1] . Perché salvare ancora questo reato? E’ solo un’ipocrisia della politica? Forse no. La Ministra Buongiorno ha suggerito che in realtà l’abrogazione totale dell’abuso di ufficio comporterebbe il rischio della contestazione diretta di un reato più grave, come la corruzione o la turbata libertà degli incanti. Dalla padella alla brace, si direbbe. Con buona pace della sussistenza o meno, in concreto, di una fattispecie di reato perseguibile, di una condotta riprovevole e illegale da parte di chi dovrebbe “ adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore ” ( art. 54 della Costituzione ). D’altra parte, il reato previsto dall' art. 323 del codice penale ha avuto una vita molto travagliata, anche perché posto al confine tra l'illecito penale, l'illecito amministrativo, l'illecito civile e l'illecito disciplinare. Si tratta di una fattispecie incriminatrice che ha sempre "agitato" la politica, e gli amministratori pubblici in generale, per la sua capacità, in un sistema in cui la giustizia penale ha spesso operato un ruolo di supplenza rispetto ai controlli di natura amministrativa sull'esercizio dei pubblici poteri, di andare a colpire in modo generico e indeterminato condotte di "contorno" rispetto alla commissione di altri reati maggiori contro la pubblica amministrazione (in particolare, il reato di corruzione), per i quali non era stata raggiunta nel corso delle indagini preliminari una prova idonea a sostenere l'accusa in giudizio. E’ una fattispecie di reato che dal 1990 in poi è stata modificata ben quattro volte, e che nella sua essenza costituirebbe un precetto di chiusura volto a punire il cattivo uso dell'autorità, qualora tale cattivo uso non sia sfociato di per sé in un altro reato. Prima della riforma del 1997, la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio consisteva in un mero abuso "del suo ufficio" (che nella formulazione precedente era tradotta come abuso "dei poteri inerenti alle sue funzioni", in quanto riferito al solo pubblico ufficiale), con il dolo specifico di volere procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o di volere arrecare ad altri un danno ingiusto. Dopo la riforma del 1997, il reato in esame è stato trasformato da reato di mera condotta a reato di evento e di danno . Quella che era la finalità precipua di volere avvantaggiare o danneggiare è divenuta così un vero e proprio oggetto materiale della condotta, vale a dire l’ "ingiusto vantaggio patrimoniale" o il “danno (patrimoniale o non patrimoniale) ingiusto”, da conseguire “intenzionalmente” (e il cui conseguimento doveva dunque essere anche accertato in giudizio). La condotta di abuso è stata poi maggiormente tipizzata nella "violazione di norme di legge o di regolamento" - così da escludere dall'area dei vizi penalmente rilevanti il vizio di eccesso di potere -, oltre che nell' "omissione di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti". Il Legislatore ha in pratica preteso, tramite una modifica tecnica che in realtà era volta a depotenziare la fattispecie - con il pretesto di maggiormente tipizzarla -, l'accertamento della cosiddetta doppia ingiustizia , consistente, da un lato, nell'ingiustizia della condotta, in quanto connotata da violazione di legge (o di regolamento), e, dall'altro, nell'ingiustizia dell’evento di vantaggio o di danno, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia. Tuttavia, ci ha pensato l’interpretazione giurisprudenziale ad attenuare in qualche modo l'incidenza di tale modificazione sulla punibilità in concreto del reato – conscia che in alternativa sarebbe stato un reato quasi impossibile da realizzare, prima ancora che da dimostrare -, chiarendo che l'intenzionalità del dolo non era esclusa in automatico dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, e riconducendo tra le violazioni di legge anche la violazione dei principi di buon andamento e imparzialità , quali valori fondanti dell'azione della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione, che dunque andava a costituire, sotto questo profilo, l'oggetto della massima violazione di legge perpetrabile. L’affermazione che il requisito della violazione di legge poteva essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della p.a., nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione, faceva così rientrare dalla “finestra” il vizio di eccesso di potere e rendeva contestabile l’abuso classico del funzionario, quello di “potere”. Ecco allora che, dopo una breve parentesi di maggiore severità (con l’adozione della famigerata legge Severino , che, nel dare attuazione alla Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 e alla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 ratificata nel 2012, ha, tra l’altro, inasprito leggermente la cornice edittale del reato, portando la pena massima da tre a quattro anni), il legislatore del 2020 ha cercato di ridimensionare ulteriormente l'operatività della fattispecie, eliminando, da un lato, la violazione di norme secondarie (regolamenti) dall'ambito della condotta punibile, e limitando, dall'altro, le norme di legge rilevanti, ai fini della violazione sanzionabile, alle sole regole cogenti per l'azione amministrativa , specificamente disegnate in termini completi e puntuali, in modo da eliminare dal vaglio del giudice penale l’esercizio distorto della discrezionalità amministrativa. In altri termini, almeno nella nuova visione normativa, quanto più il Legislatore ha lasciato uno spazio di “libertà” al pubblico ufficiale, tanto più l’abuso di ufficio non deve essere contestato, anche se per assurdo risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito. In definitiva, l'abuso di ufficio, così come tratteggiato oggi dalla fattispecie incriminatrice, è lontanissimo dal vecchio e tradizionale "abuso di potere" del funzionario pubblico, ma soprattutto è già un reato in via di estinzione, dal punto di vista della concreta perseguibilità fino a una condanna. Secondo le recenti statistiche ufficiali del Ministero della Giustizia (fonte Il Sole 24 ore) negli ultimi cinque anni i procedimenti penali per abuso di ufficio sono calati quasi del 40%, mentre quelli avviati sono stati definiti dal GIP, per oltre l’85%, con un’archiviazione. Le condanne, all’opposto, sono state, nel 2021, 18 su 513 processi arrivati al dibattimento. Ovvio. Si tratta ormai di un reato molto difficile da dimostrare - con soglie di pena basse (da uno a quattro anni) ed impossibilità conseguente di utilizzare strumenti investigativi efficaci (tipo le intercettazioni) -, che generalmente viene contestato soltanto se si trova il delitto sottostante (corruzione, concussione, turbativa d’asta). Se poi si pensa che con la riforma Cartabia il Pubblico ministero deve presentare al giudice richiesta di archiviazione tutte le volte che gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentano di formulare una “ragionevole previsione di condanna”, il gioco è fatto. Il reato di abuso di ufficio è nella sostanza morto. E tuttavia, pur dopo tanti colpi legislativi subiti nel corso della sua (poco) gloriosa vita, resta ancora temibile la sua stessa formale esistenza, perché l’apertura di un’indagine per abuso di ufficio è ancora oggi, di per sé, un elemento di cronaca giornalistica e di lotta politica contro l’avversario di turno. Il cittadino medio continua infatti a percepire chiaramente il disvalore di condotte che, se pure non porteranno a nulla dal punto di vista dell’accertamento penale, sicuramente possono essere indici di una “mala gestio” della cosa pubblica. Tutto ciò confluisce, sul piano delle conseguenze pratiche, nella cosiddetta “paura della firma”, che, in tesi, paralizzerebbe in particolare l’attività dei Sindaci, i quali invece devono oggi spendere senza esitazioni i (molti) “soldini” del PNRR . Ma nessuno ha il coraggio di eliminarlo definitivamente, questo simulacro di reato, anche per paura di quello che ci direbbe l’Unione europea, posto che trattandosi di un “reato-spia” ci sarebbe un oggettivo indebolimento della lotta alla corruzione. Ed ecco pronta la soluzione di compromesso: eliminare “l’abuso di vantaggio”, che in linea teorica costituisce ancora oggi la fattispecie più aperta , la porta dalla quale possono entrare possibili contestazioni generiche [2] . Come dire: va bene se ti arricchisci illegalmente strumentalizzando la posizione di pubblico ufficiale, basta che non danneggi qualcuno. Una modifica che a prima vista sembra un vero assurdo logico, considerando che è praticamente impossibile trarre un vantaggio da un’attività di abuso di potere senza danneggiare correlativamente qualcuno, fosse anche soltanto la collettività pubblica rappresentata dai contribuenti onesti. Ma tant’è. Nel frattempo, due recenti notizie di cronaca hanno fatto luce su possibili distorsioni contenute all’interno della riforma Cartabia del processo penale, che sembrano andare nel senso di aiutare i più furbi ad alleggerire indebitamente la propria responsabilità penale, piuttosto che aiutare il sistema a funzionare meglio. Tre soggetti arrestati per lesioni aggravate dal metodo mafioso sarebbero stati scarcerati a Palermo, se non fossero stati detenuti per altri motivi. Motivo? La riforma Cartabia ha cancellato la procedibilità di ufficio di questi reati. Il Governo è corso subito ai ripari, o almeno ha dato mostra di farlo [3] , ma è stato giustamente fatto rilevare che l’intervento legislativo sul processo penale nel suo complesso, anche in conseguenza della conversione da procedibilità di ufficio a procedibilità a querela di reati gravi come il sequestro di persona (oltre che della maggior parte delle fattispecie di furto aggravato), potrebbe rivelarsi una sorta di “depenalizzazione camuffata”. Le intimidazioni a non presentare querela ci sono già, specie in territori infiltrati dalla criminalità organizzata, e autorevoli esponenti della Magistratura (tra gli altri, il Procuratore generale della Repubblica di Napoli, Luigi Riello) non hanno visto come un segnale positivo da parte dello Stato sposare una concezione civilistica del diritto penale. Dall’altra parte dell’Italia, a nord, c’è l’emblematica storia di Alberto Genovese, imprenditore “famoso” per avere contribuito a creare Facile.it ma ancora di più per essere stato accusato di due casi di violenza sessuale su modelle stordite con mix di droghe in occasione delle feste nel suo attico milanese e a Ibiza. Condannato per duplice violenza sessuale aggravata a più di otto anni, avrebbe deciso, dopo avere già usufruito dello sconto di pena previsto per il giudizio abbreviato da lui scelto , di non appellare la sentenza di primo grado [4] , presumibilmente al fine di conseguire un’ulteriore diminuzione di pena, sfruttando così un vantaggio recentemente offerto dalla riforma Cartabia . La disciplina del giudizio abbreviato - che è una disciplina teoricamente premiante per entrambe le parti, perché fa confluire nel fascicolo del giudice tutte le indagini del p.m., senza contraddittorio dibattimentale, e garantisce al contempo un significativo sconto di pena (1/3 per i delitti) al condannato - è stata infatti arricchita di un nuovo incentivo. Se l'imputato condannato rinuncia all'appello, può godere di un ulteriore sconto di un sesto della pena, in sede di esecuzione. Ed ecco che un condannato per duplice violenza sessuale può cavarsela , alla fine del “girone” giudiziario, con una pena inferiore ai sette anni, posto che poi, tra benefici e "premi" di legge, gli anni di reclusione vera saranno decisamente meno. D'altra parte, nella prassi giudiziaria del nostro Paese, e in relazione agli effetti circolari del sistema nel suo insieme – ancor di più dopo la riforma Cartabia -, il cosiddetto giudizio abbreviato è un istituto fortemente sbilanciato in favore del reo. Il dibattimento vero - quello all'americana, per intenderci -, dal momento che in Italia, nella normalità dei casi, segue di molti anni le indagini ed è giustamente caratterizzato dal massimo delle garanzie difensive (la prova si deve formare davanti al giudice e il testimone molto solido all'epoca dei fatti può sempre ritrattare o "dimenticare"), non viene di norma affrontato da chi è colpito da un'accusa grave e con evidenza di prova, come può essere quella acquisita tramite accertamenti diretti di polizia giudiziaria (ad esempio, a seguito di perquisizione o arresto in flagranza di reato). Oggi, a maggior ragione con l' improcedibilità dell'azione penale dopo due anni dall'appello, o dopo un anno dal ricorso per cassazione (secondo il nuovo art. 344-bis del codice di procedura penale , salve le eccezioni e le possibili proroghe dallo stesso contemplate), l'imputato colpito da prova indiziaria e ben difeso non ha alcun interesse ad affrontare il giudizio abbreviato. Finisce così che a scegliere questo rito sia soltanto il soggetto raggiunto da prove schiaccianti e/o in custodia cautelare (ovvero protagonista di procedimenti penali che hanno automatica priorità), il quale riesce così a spuntare, pur essendo sicuramente colpevole, e magari per crimini odiosi, come la violenza sessuale, un significativo sconto di pena (1/3 più un sesto, se poi non impugna la condanna di primo grado). D'altra parte, se l’accusato che sia anche colpevole, per un colpo di fortuna o di cattiva gestione dell'accusa, viene prosciolto, il processo si chiude comunque qui, perché l'art. 443 c.p.p. impedisce al Pubblico ministero di impugnare la sentenza di proscioglimento. Più in generale, la mannaia calata sui processi dopo l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità – anche detta “prescrizione processuale” - svela molto più di quanto si potrebbe dire sul rapporto, quanto meno di “fastidio”, che ormai esiste tra volontà politica di controllo del sistema giudiziario e gestione concreta dei processi penali da parte della magistratura. Dopo che per decenni l’organico di giudici e pubblici ministeri è stato tenuto sguarnito, e in assenza di una riforma seria di meccanismi processuali pletorici troppo garantisti o troppo giustizialisti – a seconda dei casi e a seconda degli indagati/imputati -, ecco la soluzione finale. Eliminare i processi, quando non è possibile eliminare i reati. Abbiamo una giustizia lenta? Nessun problema. Se la magistratura non fa “correre” i processi, gli stessi si estinguono per consunzione. Con buona pace del senso di giustizia dei cittadini comuni, quelli che vengono ordinariamente afflitti dalle condotte di reato meno gravi ma a volte più odiose nella percezione individuale. Si dice che ce lo chiede il PNRR . Nel settore della giustizia, il Consiglio europeo, nelle sue annuali Raccomandazioni, ha costantemente sollecitato l'Italia a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio", nonché ad "aumentare l'efficacia della prevenzione e repressione della corruzione riducendo la durata dei processi penali e attuando il nuovo quadro anticorruzione" A sua volta, la Commissione Europea, nella Relazione per Paese relativa all'Italia 2020 (cd. Country Report 2020) del 26 febbraio 2020, ha evidenziato come l'Italia abbia compiuto progressi solo limitati nel dare attuazione alle sopra citate Raccomandazioni. In particolare, nel settore penale, e con particolare riguardo alla lotta alla corruzione, la Commissione ha sottolineato il persistere di una serie di criticità e suggerisce di intervenire in materia di lobbying , di conflitti di interessi e di whistleblowing ; d’altra parte, il perdurare della scarsa efficienza del processo, soprattutto di appello, si ripercuote anche sull'efficacia del contrasto alla corruzione . Da ultimo, nelle Raccomandazioni specifiche all'Italia del 20 luglio 2020 il Consiglio europeo ha nuovamente invitato il nostro Paese ad adottare provvedimenti volti a "migliorare l'efficienza del sistema giudiziario". Siamo proprio sicuri di avere raggiunto gli obiettivi che ci sono stati indicati, tramite la creazione di un processo potenzialmente inconcludente , in cui si rinuncia all’accertamento della punibilità, al calare di uno sbarramento temporale? Il sacrosanto principio della ragionevole durata del processo declinato nell’ art. 111 della Costituzione potrebbe in effetti non corrispondere con la necessità che il Legislatore stabilisca dei limiti massimi di durata del processo penale, superati i quali anni di indagini e di processo vanno letteralmente in fumo, con buona pace del principio, anch’esso di rango costituzionale, dell’ obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale . Né l' estremismo garantistico può arrivare fino al punto di giustificare l’introduzione di un processo penale à la carte . [1] Così si è espresso in una recente intervista il viceministro alla Giustizia Sisto ( https://www.corriere.it/politica/23_gennaio_15/riforma-cartabia-intervista-sisto-ee62609a-9520-11ed-8a68-b6ce8abd8069.shtml ) [2] Per un efficace sunto dello stato attuale della mini-riforma in cantiere vedi: https://iusletter.com/oggi-sulla-stampa/parte-il-cantiere-di-riforma-dellabuso-dufficio/ [3] Il Governo Meloni è peraltro intervenuto non con un provvedimento di urgenza, come quando si è occupato del contestato decreto anti-rave , ma con un semplice disegno di legge: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/CDM_17_modiche_riforma_penale_cartabia.pdf [4] Notizia riportata, tra gli altri, in https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/31/alberto-genovese-rinuncia-allappello-e-grazie-alla-riforma-cartabia-la-pena-scende-a-poco-meno-di-7-anni/6980872/
17 feb, 2023
Tribunale ordinario di Milano, ordinanza n. 8894/2022 del 07/04/2022 (RG n. 1855/2022) IL CASO E LA DECISIONE I genitori di un bambino di sette anni hanno chiesto in via di urgenza l’accertamento del diritto del figlio a ricevere una specifica prestazione dal sistema sanitario pubblico, in ragione del disturbo generalizzato dello sviluppo da cui è stata ritenuto affetto il minore, a seguito di certificazione stilata dall’Azienda sanitaria competente. In particolare, tale disturbo, secondo i ricorrenti, sarebbe stato fronteggiabile soltanto con l’erogazione del trattamento riabilitativo cognitivo comportamentale mediante metodologia ABA, secondo un orario intensivo di 30 ore settimanali, oltre due ore per la supervisione e due ore per la logopedia. Invero, la neuropsichiatra infantile che si è occupata del caso, ha accertato un quadro compatibile con la diagnosi di autismo infantile ed ha consigliato il trattamento educativo strutturato di tipo ABA . Tale trattamento (analisi comportamentale applicata - Applied Behaviour Analysis ) è stato preliminarmente ritenuto dal Giudice adito conforme alla previsione di cui all’ art. 1, comma 7, del d. lgs. n. 502/1992 , in quanto si tratta di prestazione sanitaria per la quale sussistono evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute. Al riguardo, occorre ricordare che l’ art. 2 della legge n. 134/2015 (“ Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie ”) ha previsto un particolare strumento di cura della disabilità in questione, ossia le Linee guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, che l’Istituto superiore di sanità ha provveduto ad aggiornare nell’ottobre 2015. In relazione all’efficacia dei programmi intensivi comportamentali, le linee guida si diffondono nell’analizzare le prove scientifiche raggiunte, secondo diverse metodologie di revisioni, “inclusive” o “restrittive”, rispetto alle quali si può affermare, in sintesi, che nel primo caso (revisioni inclusive) sono state fornite prove coerenti nel sostenere l’efficacia del modello dell’analisi comportamentale applicata su tutte le misure di esito valutate, quali QI, linguaggio e comportamenti adattativi, se paragonati ad un gruppo eterogeneo di interventi non altrettanto strutturati, come ad esempio il trattamento standard e la combinazione di interventi educativi terapeutici senza strutturazione, o lo stesso ABA ma ad intensità ridotta o con distinte modalità di erogazione. In altri termini, il Tribunale ha rilevato che le prove a disposizione, anche se non definitive, consentono di consigliare l’utilizzo del metodo ABA nel trattamento dei bambini con disturbi dello spettro autistico. D’altra parte, Il legislatore statale ha provveduto con D.P.C.M. del 12 gennaio 2017 a rideterminare i principi fondamentali della materia, aggiornando i c.d. Livelli Essenziali di Assistenza (c.d. LEA), e così individuando le forme di assistenza programmata a domicilio, gli interventi sanitari e sociosanitari rivolti ai pazienti in fase terminale e, infine, gli interventi ospedalieri a domicilio. L’assistenza sociosanitaria ai minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e del neurosviluppo è disciplinata dall’articolo 25 e dall’art. 60 di questo decreto. In particolar modo il predetto art. 60 garantisce “alle persone con disturbi dello spettro autistico, le prestazioni della diagnosi precoce, della cura e del trattamento individualizzato, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche”. Posto dunque che in termini di cura tale metodo è l’ optimum , e che l’ordinamento giuridico vigente, secondo il Giudice adito, non consente l’esercizio di alcuna discrezionalità in capo alle strutture pubbliche onerate di erogare il trattamento (con conseguente natura di diritto soggettivo perfetto anche del diritto al rimborso di spese affrontate privatamente), il Tribunale ha proceduto a valutare, con riferimento al caso di specie, l’intensità e la durata del trattamento da eseguire e di cui si chiedeva il riconoscimento, in forma diretta o indiretta, da parte del Servizio sanitario nazionale. Anche sotto questo profilo sono giunte in soccorso le citate Linee Guida, le quali sottolineano in più punti l’esigenza di assicurare un trattamento il più possibile intensivo, strutturato, continuativo e individualizzato. Esse precisano altresì che incidono sull’efficacia del metodo rispetto al trattamento tradizionale alcune variabili legate al singolo soggetto che riceve l’intervento, quanto all’età o alle abilità intellettive dello stesso, anche se non vi sono ancora dati sufficienti per stabilire in misura precisa l’effetto di tali variabili sull’efficacia dell’intervento. Occorre inoltre tenere in debito conto che gli studi avrebbero dimostrato che l’efficacia dell’intervento precoce ed intensivo è più accentuata con riferimento ai bambini in età prescolare e che all'aumentare dell’intensità oltre le 25 ore a settimana non corrisponde un proporzionale miglioramento dei risultati. Il Tribunale ha dunque ritenuto di non doversi discostare, quanto al caso esaminato, dall’indicazione di trenta ore proveniente dal medico e supervisore che ha seguito negli anni il minore, così accertando il diritto dell’interessato a ricevere a carico del sistema sanitario nazionale l’erogazione del trattamento riabilitativo cognitivo comportamentale mediante la metodologia c.d. ABA secondo un orario intensivo di 30 ore a settimana per 24 mesi, condannando contestualmente l’Azienda sanitaria competente a prendere in carico direttamente il minore stesso o comunque a sostenere le spese relative alle cure ricevute da terzi, per un trattamento pari a quello ritenuto necessario. Quanto infine al periculum in mora allegato, la cui sussistenza è necessaria per ottenere la tutela cautelare richiesta, il Giudice adito ha evidenziato che, in assenza di una specifica contestazione circa i rilevanti costi annui del trattamento terapeutico ABA, e considerato nel caso di specie il modesto reddito familiare, vi era il concreto rischio che la famiglia interessata non sarebbe stata in grado di sostenere a lungo i costi, quantomeno per il numero di ore settimanali prescritte, con una verosimile perdita di efficacia del trattamento. IL DIRITTO ACCERTATO. PROFILI DI GIURISDIZIONE La tutela della salute, ai sensi dell’ art. 117 Cost. rientra nelle materie di competenza legislativa concorrente. Spetta dunque alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 dispone che la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale , quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti ed istituzioni di rilievo nazionale Il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso specifiche risorse finanziarie pubbliche e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 , i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse. L’individuazione dei predetti livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario nazionale, per il periodo di validità del Piano sanitario nazionale, è effettuata contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica nel Documento di programmazione economico finanziaria. Le prestazioni sanitarie comprese nei livelli essenziali di assistenza sono garantite dal Servizio sanitario nazionale a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa. Sono posti a carico del Servizio sanitario le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate, mentre sono esclusi dai livelli di assistenza erogati a carico del Servizio sanitario nazionale le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che, in presenza di altre forme di assistenza volte a soddisfare le medesime esigenze, non soddisfano il principio dell’economicità nell’impiego delle risorse , ovvero non garantiscono un uso efficiente delle risorse quanto a modalità di organizzazione ed erogazione dell’assistenza. A sua volta, l’art. 26 della legge 833/1978 (“ Prestazioni di riabilitazione ”) dispone che le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa, sono erogate dalle unità sanitarie locali (oggi Aziende sanitarie) attraverso i propri servizi, ovvero, qualora tali unità non siano in grado di fornire il servizio direttamente, attraverso convenzioni con istituti esistenti nella regione in cui abita l’utente o anche in altre regioni. Sulla base di questo coacervo di norme, è consolidata affermazione giurisprudenziale, seguita nel caso in esame anche dal Tribunale di Milano, quella secondo cui la dimensione primaria e costituzionalmente garantita del diritto alla salute non possa essere sacrificata o compromessa dalla discrezionalità amministrativa, dovendosi escludere la configurabilità di atti amministrativi (comunque eventualmente disapplicabili, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E) che condizionino in tal senso il diritto all’assistenza. Invero, la salute è un bene costituzionalmente protetto, da cui consegue che, in presenza della gravità delle condizioni di salute in cui si trovi a versare il cittadino e dell’impossibilità di ottenere dalle strutture pubbliche prestazioni adeguate, la pretesa del soggetto al riconoscimento ed al rimborso delle spese sostenute per suo conto ha consistenza di diritto soggettivo perfetto. Conseguentemente, ove un atto amministrativo non preveda od escluda il rimborso di dette spese per alcune patologie o lo sottoponga all’osservanza di condizioni burocratiche incompatibili con “l’estrema gravità delle condizioni di salute” in cui il cittadino dovesse versare, l’atto amministrativo medesimo deve essere disapplicato, in quanto in contrasto con norme di rango costituzionale e legislativo. In particolare, la Corte di Cassazione, allargando il campo di immediata operatività del principio della tutela alla salute, ha confermato che il diritto dei cittadini all’assistenza sanitaria trova il suo fondamento nell’ a rt. 32, comma 1 della Costituzione e ha esplicitamente enunciato che il diritto primario alla salute, quale “fondamentale diritto dell’individuo”, rientra fra quelli inviolabili della persona. L’asserzione ha avuto fino ad oggi un riflesso diretto non solo sui diritti accertabili (e sull’ampiezza di essi), nei casi di volta in volta esaminati, ma anche sull'individuazione del Giudice che li deve accertare. Nella particolare ipotesi del riconoscimento del diritto del minore affetto da disturbo dello spettro autistico ad essere curato con trattamento educativo strutturato di tipo ABA (analisi comportamentale applicata), la giurisprudenza maggioritaria era nel senso che la giurisdizione appartenesse al Giudice ordinario. In particolare, trattandosi di erogazione di prestazioni sanitarie ascrivibili ai LEA, e pur riconoscendosi che le stesse presuppongano anche scelte organizzative dell’amministrazione a monte, era stata valorizzata la natura meramente scientifica dei criteri che presiedono alla valutazione finale e precisato che la prestazione sanitaria disegnata dalla legge come incomprimibile è tale da offrire anche soltanto l'opportunità di migliorare le condizioni di integrità psico-fisica, e quindi delle condizioni di vita, della persona bisognosa di cura, o di allontanarne l'aggravamento clinico o diminuirne l'indice di aggravamento, racchiudendo in sé la pretesa alla più adatta terapia. In altri termini, secondo l’orientamento prevalente, anche nel caso di predisposizione regionale, in attuazione della normativa in materia di disturbi dello spettro autistico, di un complesso sistema tecnico - amministrativo volto alla presa in carico e cura dei pazienti che presentano questa tipologia di disturbi, la valutazione del singolo caso avviene secondo parametri di tipo puramente tecnico-scientifico, per individuare per ciascun paziente il percorso sanitario più opportuno, di modo che, pur non essendo in discussione che il Giudice Amministrativo, in ambito di giurisdizione esclusiva, possa essere competente anche per materie afferenti i diritti fondamentali - restando imprescindibile, a tal fine, che la pretesa azionata sia contrassegnata da un sindacato sull’esercizio del potere autoritativo -, tale potere autoritativo in questi casi non era riscontrabile. D’altra parte, sempre secondo questo orientamento, pur non derivando, dalle linee guida statali, un automatico diritto all’erogazione di una determinata terapia, quanto piuttosto la pretesa a che il paziente sia inserito nell’apposito percorso socio-sanitario per essere al meglio diagnosticato e quindi curato secondo le più opportune terapie, salva la possibile parità di efficacia di diverse alternative terapeutiche, la scelta finale della terapia nei confronti del singolo paziente implica l’attivazione delle strutture sanitarie secondo schemi di mera valutazione tecnico-scientifica del caso specifico, essendo il diritto alla miglior prestazione in materia conformato dalla legge e il percorso socio-sanitario eventualmente delineato dalla normativa regionale. In contrario avviso, altra giurisprudenza di merito ha richiamato, per applicarli alle ipotesi sopra descritte, i principi espressi dalla Cassazione in materia di diritto all’istruzione , con particolare riferimento all’adozione del piano educativo individualizzato (PEI) . Al riguardo, la Suprema Corte ha precisato che, ai fini del riparto della giurisdizione, occorre innanzitutto verificare se a seguito della redazione conclusiva, da parte dei soggetti pubblici competenti, del piano educativo individualizzato, ci si trovi di fronte ad un diritto già pienamente conformato nella sua articolazione concreta o se vi sia ancora spazio discrezionale per diversamente modulare gli interventi in favore della salvaguardia del diritto all’istruzione stesso, radicandosi la giurisdizione (esclusiva) del Giudice amministrativo nella fase che precede la redazione del piano educativo individualizzato, poiché in tale fase sussiste ancora, in capo all’amministrazione scolastica, il potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, di individuazione della misura più adeguata al sostegno, il cui esercizio è, invece, precluso dalla successiva predisposizione dello stesso, che determina il sorgere dell’amministrazione dell’obbligo di garantire il supporto per il numero di ore programmato e il correlato diritto all’istruzione. Invero, l’ampiezza della latitudine della giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizi pubblici, segnalata dal carattere generale delle espressioni lessicali utilizzate all’ art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a. , precluderebbe qualsiasi esegesi riduttiva del perimetro della cognizione piena affidata al giudice amministrativa in materia di pubblici servizi , in difetto di qualsivoglia positiva ed esplicita eccezione che la autorizzi, non essendo estranea all’ambito della potestà giurisdizionale amministrativa la cognizione e la tutela dei diritti fondamentali, intendendosi per tali quelli costituzionalmente garantiti, nella misura in cui il loro concreto esercizio implica l’espletamento di poteri pubblicistici, preordinati non solo alla garanzia della loro integrità, ma anche alla conformazione della loro latitudine, in ragione delle contestuali ed equilibrate esigenze di tutela di equivalenti interessi costituzionali. Nel caso in cui gli interessati chiedano dunque all’Azienda sanitaria competente di fornire (o di rimborsarne le spese) un trattamento sanitario specifico (metodo A.B.A.), asserendo che si tratta di metodo indispensabile per la tutela del primario interesse individuale alla salute del figlio, la scelta di un percorso terapeutico diverso da quello indicato dagli interessati stessi implicherebbe l’esercizio del potere amministrativo da parte della P.A., trattandosi della modalità attraverso cui le articolazioni territoriali della sanità pubblica contemperano i diversi interessi coinvolti (diritto alla salute dell’interessato, organizzazione, spesa, risorse disponibili). D’altra parte, sono effettivamente variegati – secondo le stesse Linee guida statali - gli interventi attraverso i quali può estrinsecarsi il modello terapeutico messo a disposizione delle persone affette dal disturbo dello spettro autistico. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recentemente accolto quest’ultimo diverso orientamento ( ordinanza 20/01/2022, n. 1781 ), precisando che, quando non si verte nell'ipotesi della contestazione dell'esecuzione di un "programma individuale" di intervento terapeutico in favore del soggetto disabile, ma invece in quella della richiesta di ampliamento del programma medesimo con una specifica prestazione (diretta ovvero indennitaria), viene implicata l'attività discrezionale, sia amministrativa che tecnica, della Azienda sanitaria competente, con la consequenziale devoluzione della controversia al Giudice amministrativo in virtù dell’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., secondo cui " Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (…) le controversie in materia di pubblici servizi (…) relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione (…) ". Va detto peraltro che tale pronuncia richiama espressamente un altro arresto delle Sezioni Unite ( ordinanza 24/09/2020, n. 20164 ), che però si è espresso su una fattispecie diversa e non perfettamente sovrapponibile. In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che il principio individuato con riferimento al riparto di giurisdizione in materia di PEI scolastico deve applicarsi anche nel caso del progetto individualizzato di cui all’art. 14 della L. n. 328 del 2000 , relativo al campo della disabilità. Invero, posto che l’azione promossa per l’attuazione di tale progetto afferisce astrattamente alla materia dei servizi pubblici, in quanto il progetto stesso costituisce servizio alla persona e, pertanto, resta attratto alla giurisdizione del giudice amministrativo in forza della previsione dettata dall'art. 133 c.p.a., comma 1, lett. c), secondo i Giudici di legittimità occorre distinguere tra la mancata (o incompleta) attuazione o esecuzione del documento programmatorio (giurisdizione del GO) e la redazione stessa del progetto individuale o il suo aggiornamento (giurisdizione del GA), sia nel caso in cui non vengano affatto compiuti che nel caso in cui ne vengano contestati gli esiti. Il tutto in coerenza con quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale in tema di giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo sulla materia dei servizi pubblici, la cui sussistenza è obbligatoriamente riconnessa alla circostanza che la pubblica amministrazione agisca esercitando il suo potere autoritativo, ovvero adottando, nei casi in cui la legge lo consente, strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo. Occorrerebbe sempre in definitiva distinguere, secondo questa declinazione di principi, tra la previa individuazione di un percorso socio-sanitario o assistenziale, che deve discrezionalmente tenere conto – nell’erogazione delle prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale e dei servizi alla persona - delle risorse disponibili in base ai piani di settore, e la doverosità nell’erogazione di quelle prestazioni e di quei servizi, una volta che il diritto sia stato già pienamente conformato, nella sua articolazione concreta, rispetto alle specifiche necessità della persona beneficiaria.
08 feb, 2023
Sentenza del Tribunale di Torino – Sezione dei Giudici delle Indagini preliminari, depositata il 19/08/2022, n. 1339 IL CASO, I REATI ACCERTATI E LA DECISIONE Una ragazza di 15 anni aveva creato un profilo fake su Instagram di genere sadomaso, essendo curiosa dell'argomento. Nell’agosto del 2018 era stata contattata da un certo "padrone-domination", poi identificato con l’imputato, al quale aveva rivelato la verità con riferimento alla sua età. Nonostante tale esternazione, l’uomo, di molti anni più grande, aveva continuato a chattare con lei e in più occasioni le aveva chiesto di inviargli, con successo, delle fotografie in cui lei si masturbava. Dopo circa due mesi si erano scambiati i numeri di telefono e avevano cominciato una relazione a singhiozzo, consumando nell’aprile 2019 il primo rapporto sessuale consenziente; nonostante lui volesse un rapporto sadomaso lei aveva rifiutato perché aveva capito che tale modalità in fin dei conti non le piaceva. All'inizio della relazione, peraltro, l’imputato, nella sua qualità di "padrone", aveva chiesto alla minore di riprendersi mentre si masturbava con vari accessori e lei, dopo avere registrato i video, glieli aveva mandati su Instagram e su whatsapp , insieme ad alcune foto nuda. Nei video e nelle foto non compariva mai il suo volto, così che nessuno avrebbe potuto riconoscerla, non avendo tatuaggi o segni particolari sul corpo. Anche l’uomo le mandava dei video mentre si masturbava; dopo un po’di tempo non le aveva peraltro più richiesto di mandargli video, pur continuandole a domandare l’effettuazione di gesti autoerotici nel corso delle videochiamate. Successivamente, l’imputato le aveva ceduto gratuitamente cocaina e aveva cominciato a perseguitare lei e i suoi familiari, una volta che la ragazza le aveva comunicato l’intenzione di interrompere la loro relazione. La vicenda si era quindi definitivamente trasferita nelle aule di giustizia con la denuncia-querela della minore nel giugno 2020, da cui era scaturito un procedimento penale nei confronti dell’uomo per i reati di cessione di stupefacenti, atti persecutori e pornografia minorile . Con particolare riferimento a tale ultimo delitto, i Giudici torinesi hanno dovuto valutare la realizzazione, nel caso di specie, della fattispecie di cui al primo comma dell'art. 600 ter c.p. , che punisce chiunque produca o realizzi materiale pornografico utilizzando un minore di anni diciotto, ovvero chi recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici, ovvero dai suddetti spettacoli trae profitto. In particolare, all’imputato è stato contestato di avere "indotto" una ragazza all'epoca quindicenne a produrre tale materiale, istigandola in tal senso, avvalendosi della sua superiorità in termini di età, maturità ed esperienza e facendosi così inviare dalla ragazza immagini che la ritraevano mentre si masturbava. Secondo il Tribunale adito, dal materiale di indagine confluito nel fascicolo del giudizio abbreviato è emerso chiaramente che la ragazza avesse inviato all’imputato immagini dal sicuro contenuto pornografico , su richiesta dell'imputato stesso e nell'ambito del gioco di ruolo sadomaso, in cui lei, "schiava", doveva obbedire agli ordini del "padrone". Il Giudice di primo grado si è però chiesto se tale condotta fosse da considerarsi penalmente rilevante, costituendo il discrimine rispetto ad una fattispecie “non punibile” non il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità dell’ azione di utilizzazione . In effetti, nell’attuale sistema del codice penale, la condotta della produzione di materiale pornografico con minore risulta lecita soltanto se posta in essere alle seguenti due condizioni, che devono ricorrere congiuntamente: senza utilizzazione del minore e con il consenso espresso da colui che abbia raggiunto l'età per manifestarlo. E siccome anche le condotte induttive e istigative possono integrare il requisito dell'utilizzo del minore, l'utilizzazione del minore può manifestarsi non solo quando l'agente realizzi egli stesso la produzione di tale materiale, ad esempio scattando le foto dal contenuto erotico, ma anche - come nel caso affrontato dal GUP torinese - quando induca o istighi il minore a compiere tali azioni, ossia facendo sorgere in questi il relativo proposito prima assente (induzione), ovvero rafforzando un proposito già presente (istigazione). D’altra parte, il consenso del minore all'atto sessuale non include e non implica, di per sé, il consenso alla registrazione dell'attività o alle riprese di carattere intimo di natura pornografica, essendo tale attività un quid pluris rispetto all'atto sessuale. Sotto altro profilo, poi, il consenso è sempre revocabile e deve riguardare non solo il momento della "produzione" del materiale pornografico, ma anche la sua successiva conservazione. Partendo da tali premesse interpretative del reato da accertare, il Tribunale adito ha evidenziato che la persona offesa aveva attivato spontaneamente, consapevolmente e autonomamente un profilo Instagram a contenuto "sadomaso", dicendosi incuriosita e interessata all'argomento, e non facendo mai mistero della cosa. Inoltre, la ragazza ha pacificamente ammesso di avere effettuato e inviato, su richiesta (nel gergo usato, su "ordine" dell'imputato) i video pornografici nel primo periodo della relazione con costui, nell'ambito del gioco sadomaso in cui entrambi interpretavano ruoli ben definiti e in linea con la tipologia di profilo che lei stessa aveva aperto. La persona offesa, inoltre, per quanto giovane e proveniente da una famiglia musulmana, non era da considerarsi una ragazza "chiusa", sia a livello di maturità personale che a livello di relazioni sociali, di modo che il Giudice adito è arrivato alla conclusione che il consenso all’invio dei video pornografici fosse stato libero, effettivo e pienamente valido . Correlativamente, nel comportamento dell’imputato non era ravvisabile alcuna induzione o istigazione e, dunque, alcuna "utilizzazione" della minore, essendosi costui comportato in linea con la tipologia di profilo che la ragazza aveva attivato. In definitiva, dunque, il GUP ha mandato assolto l’imputato per il reato di pornografia minorile. Quanto invece agli altri reati contestati, posto che vi era piena prova della cessione di stupefacenti a minore, il Giudice adito ha ritento integrati anche gli estremi dello stalking , evidenziando che era sussistente l’evento materiale di tale reato, nonostante la persona offesa non avesse mai riferito di patire, a causa dell'imputato, uno stato di ansia e paura, né di temere per la propria o altrui incolumità, né di avere modificato, a causa dei comportamenti dell’uomo, le proprie abitudini di vita. Invero, il GUP ha “sposato” la giurisprudenza secondo cui il reato di atti persecutori si realizza anche in assenza di una espressa e dichiarata manifestazione di ansia da parte della vittima, dovendosi avere riguardo sia alle caratteristiche della persona offesa (che, se minorenne, è per ciò solo più vulnerabile), sia all'astratta e oggettiva idoneità della condotta dell'agente a causare uno degli eventi alternativi previsto dalla legge. LE FATTISPECIE CRIMINOSE DI CUI ALL’ART. 600-TER C.P. L'attuale formulazione dell'art. 600 ter c.p. (che tutela non l'autonomia sessuale del minore ma la necessità di proteggere la sua intimità, la dignità e il suo corretto sviluppo psico-fisico, limitando la diffusione di immagini che possano destare un interesse sessuale) è il frutto di plurimi interventi legislativi. La norma si articola su una molteplicità di ipotesi di reato tra loro autonome e diversamente strutturate, ordinate secondo un criterio gerarchico di gravità decrescente, ricavabile dalle clausole di esclusione contenute nei commi terzo e quarto, nonché di graduazione delle pene edittali. Nel dettaglio, il primo comma ha riguardo alla fase di realizzazione/produzione del materiale pornografico mediante utilizzo del minore, nonché al reclutamento e all'induzione del minore stesso; il comma secondo punisce la condotta di chi fa commercio del materiale di cui al primo comma; il comma terzo reprime le condotte di distribuzione, divulgazione, diffusione, pubblicizzazione , ovvero di distribuzione, divulgazione o diffusione di notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale del minore; il comma quarto sanziona, infine, i comportamenti di offerta o cessione a terzi , a titolo oneroso o gratuito, del materiale pornografico. La definizione del materiale pornografico, rilevante per tutti i commi dell'art. 600-ter, si ricava dal settimo e ultimo comma. Secondo la Corte di cassazione, che ha così interpretato il disposto del settimo comma dell'art. 600 ter c.p., in virtù della modifica introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. I), della legge n. 172 del 2012 ( Ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale) - che ha sostituito il primo comma dell'art. 600-ter cod. pen. - costituisce materiale pedopornografico la rappresentazione, con qualsiasi mezzo atto alla conservazione, di atti sessuali espliciti coinvolgenti soggetti minori di età, oppure degli organi sessuali di minori con modalità tali da rendere manifesto il fine di causare concupiscenza od ogni altra pulsione di natura sessuale, e il riferimento alla "rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto" di cui all'ultimo comma dell'art. 600-ter cod. pen. ricomprende non solo gli organi genitali, ma anche altre zone erogene, come il seno e i glutei, anche perché la natura pornografica delle immagini discende non tanto dalla nudità della persona ritratta, quanto dall'atteggiamento e dalle espressioni che la persona assume, con la conseguenza che rientrano nell'alveo del 600 ter c.p. quelle immagini in cui le pose della minore siano inequivocabilmente destinate non a risaltare solo la bellezza del corpo in quanto tale, ma a stimolare in modo esplicito l'interesse erotico altrui. Con riferimento specifico alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 600-ter c.p. – fattispecie approfondita dalla sentenza in esame -, occorre innanzitutto evidenziare che, ai fini dell'integrazione del reato di produzione di materiale pedo-pornografico, non è richiesto dalla giurisprudenza più recente l'accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale. E' stato così superato l'orientamento precedentemente espresso nel 2000 dalla Cassazione a Sezioni Unite, secondo cui si tratterebbe di un reato di pericolo concreto, punibile cioè soltanto nel caso in cui la condotta abbia una consistenza tale da implicare un concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto. Tale materiale, in realtà, secondo le Sezioni Unite del 2018, non deve essere necessariamente destinato ad essere immesso nel mercato della pedofilia, in considerazione della pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione. Sempre sul piano ermeneutico, è stata inoltre negata autonomia concettuale alla nozione di produzione rispetto a quella di realizzazione. Tornando alla costruzione semantica della fattispecie di reato in esame, uno degli elementi costitutivi di essa è l'utilizzo, ovvero il reclutamento o l'induzione del minore, da parte di un soggetto terzo (escludendo dunque i casi di "autoproduzione"). La nozione di "utilizzo" è molto ampia e in essa rientrano e rilevano certamente anche le condotte induttive. Sul concetto di "utilizzo" si erano espresse le Sezioni Unite della Suprema Corte con la citata sentenza n. 51815 del 31.5.2018 , che aveva delineato l'ambito della c.d. " pedopornografia domestica ", affermando, in linea con i principi enunciati nella Direttiva 2011/93/EU e nella Convenzione di Lanzarote, che non sussiste alcuna "utilizzazione del minore" (e pertanto il reato non è integrato) nei casi in cui il materiale pornografico sia stato prodotto e realizzato per un uso strettamente privato, all'interno di un rapporto di coppia paritario (inteso come scevro da condizionamenti derivanti dalla posizione dell'autore), con il consenso, libero ed effettivo, della persona ultraquattordicenne ripresa e/o fotografata. Le Sezioni Unite del 2018 si erano però soffermate unicamente sui rapporti "paritari" instaurati dal minore ultraquattordicenne, così lasciando fuori tutti quei casi di relazione tra minore e adulto . Della questione si sono peraltro interessate nuovamente le Sezioni Unite, che con la sentenza n. 4616 del 28.10.2021 , nel dare una risposta alla questione dei rapporti minorenne-adulto, hanno enunciato una serie di importanti principi di diritto. Secondo la Corte, posto che non tutte le condotte di produzione e realizzazione di immagini e video pornografici aventi ad oggetto minorenni sono reato, ma soltanto quelle che hanno "utilizzato" i minori - e posto che nel caso in cui il minore sia infraquattordicenne tale utilizzo è in re ipsa , in quanto il minore non ha ancora raggiunto l'età minima che la legge stabilisce per prestare il proprio libero e valido consenso -, nel caso in cui vi sia "utilizzazione" del minore ultraquattordicenne, nessuna valenza (esimente o scriminante) può essere riconosciuta al suo eventuale consenso, dal momento che la stessa strumentalizzazione effettuata produce nel minore la formazione un consenso non libero, ma viziato e determinato dall'abusività della condotta dell'adulto. Il discrimine tra il penalmente rilevante e il penalmente irrilevante, in quest'ultima ipotesi, non è dunque il consenso del minore in quanto tale - che comunque deve sussistere -, ma la configurabilità dell'utilizzazione. Al riguardo, è stato precisato che il termine "utilizzazione" sta ad indicare la condotta di chi manovra, adopera, strumentalizza o sfrutta il minore servendosi dello stesso e facendone un uso nel proprio interesse, piegandolo ai propri fini come se fosse uno strumento. Vi sono una serie di elementi-indice dai quali è possibile ricavare la condizione di "utilizzazione" del minore. Invero, la nozione di utilizzazione (che ha sostituito il termine "sfruttamento" presente nell'originaria stesura della norma) evoca innanzitutto una "strumentalizzazione" del minore e la sua riduzione a res per il soddisfacimento di desideri sessuali di altri soggetti, ovvero per conseguire un utile. In altre parole, c'è "utilizzo" del minore quando ricorre, alternativamente, una condizione di abuso, approfittamento, costringimento, istigazione e induzione (quest'ultima condotta, pur espressamente prevista dal n. 2 del primo comma dell'art. 600 ter c.p., è anch'essa una modalità di "utilizzo") da parte del produttore/realizzatore delle immagini, con conseguente asservimento del minore per un vantaggio altrui, anche non direttamente economico. Dunque, anche le condotte induttive e istigative possono integrare il requisito dell'utilizzo del minore, e l'utilizzazione del minore può manifestarsi non solo quando l'agente realizzi egli stesso la produzione di tale materiale, ma anche quando induca o istighi il minore a tali azioni. La condotta di utilizzo può essere desunta, in concreto, da una serie di elementi: dalla posizione di supremazia ricoperta dall'agente nei confronti del minore; dal differenziale di potere tra i due; dalle modalità con cui il materiale pornografico viene prodotto (inganno, minaccia, violenza), dal fine commerciale e dall'età e dalla maturità del minore (soprattutto per la fascia di età compresa tra i 14 e i 16 anni, quando è molto elevato il rischio di condizionamenti esterni e la maturità del minore è ancora limitata), senza che rilevi la familiarità del minore a divulgare le proprie immagini erotiche, in quanto tale tendenza è spesso sintomatica di una particolare fragilità della persona offesa. Devono in altri termini essere accertate forme di coercizione o di condizionamento della volontà del minore stesso, restando escluse dalla rilevanza penale solo condotte realmente prive di offensività rispetto all'integrità psico-fisica dello stesso. Si resta inoltre nell'ambito della pornografia domestica non punibile (ossia quando il materiale è prodotto all'interno del rapporto di coppia, senza forme di utilizzazione e col consenso del minore ultraquattordicenne), soltanto quando il materiale resta nella disponibilità esclusiva delle parti coinvolte nel rapporto. Tale materiale non può infatti mai essere posto in circolazione, perché, in caso contrario, il minore, ancorché inizialmente non "utilizzato", deve essere ritenuto, secondo una valutazione ex post , strumentalizzato, con la conseguenza che il materiale deve essere ritenuto prodotto con utilizzazione del minore, trovando in questo caso applicazione il primo comma dell'art. 600 ter c.p., ovvero i commi successivi, a seconda che la diffusione del materiale sia il frutto di una determinazione originaria o successiva dell'agente, a nulla rilevando l'eventuale consenso del minore, non avendo egli ancora raggiunto quella maturità necessaria a consentirgli una valutazione consapevole in ordine alle ricadute negative nella mercificazione del suo corpo attraverso la divulgazione delle immagini erotiche. In definitiva, anche nei casi in cui sia accertato che il comportamento complessivo dell'imputato non sia stato corretto, e che vi sono plurimi elementi che portano a biasimare profondamente la sua condotta, soprattutto in relazione alla grande differenza di età rispetto al minore, se non si ravvisa in tale condotta alcuna induzione o istigazione e, dunque, alcuna "utilizzazione" del minore, e tenendo presente che occorre mantenere sempre distinto il giudizio morale dal giudizio penale, la formula assolutoria non può essere che piena (“il fatto non sussiste”).
03 feb, 2023
C’è tutto un settore giuridico-processuale del nostro ordinamento che convive con discipline di leggi speciali, o straordinarie che dir si voglia, e che si incrocia perfettamente con il complessivo fallimento della sanità nazionale e regionale del Belpaese. Si tratta delle azioni esecutive contro le Aziende sanitarie. Sono diversi anni, peraltro, che sono stati normativamente previsti differimenti o veri e propri “blocchi” nell’esecuzione dei crediti maturati nei confronti della pubblica amministrazione, e in particolare nei confronti della sanità pubblica. In via generale, l’ art. 14 del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669 , convertito dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, ritenuto pacificamente applicabile anche al giudizio di ottemperanza dinanzi al Giudice amministrativo (dove più incisivi sono i poteri dell’organo giudiziario nei confronti degli Uffici pubblici), aveva previsto che " Le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici … completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto ". Secondo la Corte costituzionale, tale previsione aveva individuato un legittimo spatium adimplendi per l’approntamento dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti, avente “lo scopo di evitare il blocco dell'attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi, contemperando in tal modo l'interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche”. Con riguardo poi al più specifico tema della legittimità di disposizioni legislative, di natura anche emergenziale, volte ad inibire le azioni esecutive da intraprendere o già intraprese nei confronti di particolari categorie di creditori pubblici (come, ad esempio, gli enti del servizio sanitario nazionale), la Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 186 del 12 luglio 2013 in relazione all’ art. 1, comma 51 della L. n. 220 del 2010 (“ Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-Legge di stabilità 2011 ”), nel testo successivamente modificato, in cui era previsto che nelle Regioni commissariate, in quanto sottoposte a piano di rientro dai disavanzi sanitari (tra cui era inserita già all’epoca la Regione Calabria), non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali o ospedaliere sino al 31.12.2012, ed i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle Regioni alle aziende sanitarie, effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78/2010 (convertito in L. n. 122/2010) non avevano effetti sino al 31 dicembre 2012 (entrambi i termini furono successivamente prorogati fino al 31 dicembre 2013) e ciò con il medesimo fine, ovverosia quello di risanare i disavanzi del Servizio sanitario. Nel dichiararne l’illegittimità costituzionale, la Corte riconobbe che una norma come quella appena citata si poneva in contrasto con l’ art. 24 della Costituzione , e chiarì che un intervento legislativo − che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore − può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l’estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via, diversa da quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte. A distanza di pochi anni, peraltro, asseritamente a causa della situazione di emergenza pandemica da COVID-19, con l’art. 117, comma 4, del “Decreto Rilancio” ( d.l. 19 maggio 2020 n. 34 , convertito in L. 17 luglio 2020, n. 77) è stato introdotto, sino al 31.12.2020, il divieto di intraprendere o proseguire nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale azioni esecutive. Tale divieto è stato poi prorogato al 31.12.2021 dall’art. 3, comma 8, del d.l. 31.12.2020, n. 183 (c.d. “Milleproroghe”) convertito in L. 26 febbraio 2021, n. 21. Ancora una volta è dovuta dunque intervenire la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 236/2021 , ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., “limitatamente alla proroga dal 31 dicembre 2020 al 31 dicembre 2021, di cui all'art. 3, comma 8, del d.l. n. 183 del 2020”. Richiamando il proprio precedente del 2013 ed “adattandolo” alla fattispecie della reiterazione della proroga del “blocco” delle azioni esecutive in periodo di emergenza sanitaria, la Corte ha ribadito che “uno svuotamento legislativo degli effetti di un titolo esecutivo giudiziale non è compatibile con l’art. 24 Cost. se non è limitato ad un ristretto periodo temporale ovvero controbilanciato da disposizioni di carattere sostanziale che garantiscano per altra via l’effettiva realizzazione del diritto di credito. In difetto di queste cautele la disposizione legislativa vulnera il diritto di azione ..., con violazione del principio della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost.”. Tuttavia, l’ art. 16 septies, inserito in sede di conversione del d.l. n. 146/2021 , pochi giorni dopo la pronuncia n. 236/2021 della Corte – e concernente la peculiare situazione del Servizio sanitario della Regione Calabria, attualmente soggetta alla gestione commissariale del Piano di rientro sanitario – ha previsto, al comma 2, lett. g) (dettato “ In ottemperanza alla sentenza della Corte costituzionale n. 168 del 23 luglio 2021 e al fine di concorrere all'erogazione dei livelli essenziali di assistenza, nonché al fine di assicurare il rispetto della direttiva europea sui tempi di pagamento e l'attuazione del piano di rientro dei disavanzi sanitari della Regione Calabria ”), l’ennesimo blocco delle azioni esecutive contro gli enti del servizio sanitario in crisi di liquidità, limitatamente, questa volta, a quelli della Regione Calabria, ancorandolo a presupposti sganciati dalla situazione di emergenza sanitaria. La nuova norma ha così disposto: “ Al fine di coadiuvare le attività previste dal presente comma, assicurando al servizio sanitario della Regione Calabria la liquidità necessaria allo svolgimento delle predette attività finalizzate anche al tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalla Regione Calabria agli enti del proprio servizio sanitario regionale effettuati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto non producono effetti dalla suddetta data e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per il pagamento dei debiti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo. Le disposizioni della presente lettera si applicano fino al 31 dicembre 2025 ”. Dicembre 2025. Sono nuovamente fioccate le questioni di costituzionalità. Un Tribunale amministrativo ( Tar Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria ) ha addirittura disapplicato la norma per contrasto con il diritto eurounitario, nell’ambito del ricorso proposta da un medico pediatra che aveva chiesto al Tribunale amministrativo competente per territorio l’esecuzione della sentenza, passata in giudicato, con cui la Sezione Lavoro del Tribunale civile di Reggio Calabria aveva condannato l’Azienda Speciale della Provincia omonima a corrispondergli una somma superiore ad € 11.000 a titolo di emolumenti contrattuali previsti dagli Accordi collettivi nazionali applicabili al caso di specie. La sentenza è stata impugnata dall’Azienda sanitaria, ma nel frattempo la Corte Costituzionale, che aveva fissato l’udienza del 18 ottobre 2022 per operare lo scrutinio di legittimità della nuova disposizione “incriminata”, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 16 septies, comma 2, lettera g) del d.l. 21 ottobre 2021 n. 146, con la sentenza n. 228 dell'11 novembre 2022 . Secondo la Corte, pur non essendo irragionevole, a fronte di una situazione straordinaria come quella calabrese, che le iniziative individuali dei creditori muniti di titolo esecutivo si arrestino per un certo lasso di tempo, mentre si svolge il complesso procedimento di circolarizzazione obbligatoria dei crediti e si programmano le operazioni di cassa, la discrezionalità del legislatore, nello stabilire una misura del genere, non può tuttavia trascendere in un'eccessiva compressione del diritto di azione dei creditori e in un'ingiustificata alterazione della parità delle parti in fase esecutiva, in quanto, posto che la garanzia della tutela giurisdizionale assicurata dall'art. 24 Cost. comprende anche la fase dell'esecuzione forzata, dal momento che la stessa è necessaria a rendere effettiva l'attuazione del provvedimento giudiziale, una misura legislativa che incida sull'efficacia dei titoli esecutivi di formazione giudiziale è legittima soltanto se limitata ad un ristretto periodo temporale e compensata da disposizioni sostanziali che prospettino un soddisfacimento alternativo dei diritti portati dai titoli, giacché altrimenti la misura stessa vulnera l'effettività della tutela in executivis garantita proprio dalla disposizione di cui all'art. 24 della Costituzione, determinando inoltre uno sbilanciamento tra l'esecutante privato e l'esecutato pubblico, in violazione del principio di parità delle parti di cui all'art. 111 Cost.. Di conseguenza, sempre secondo la Corte, la misura introdotta dall'art. 16-septies, comma 2, lettera g) ha mancato l'obiettivo di un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco, non essendo giustificata l'equiparazione, agli effetti dell'improcedibilità, fra i titoli esecutivi aventi ad oggetto crediti commerciali e quelli aventi ad oggetto crediti di natura diversa (in particolare: diritti di risarcimento dei danneggiati da fatto illecito e diritti retributivi dei prestatori di lavoro), e non essendo possibile, per i crediti di natura commerciale, che la durata del blocco esecutivo sia protratta per un intero quadriennio, senza che ne risulti violato il canone di proporzionalità, anche perché, per quanto complesse, le operazioni di riscontro devono essere svolte in un lasso di tempo più breve, magari mediante un adeguato impiego di risorse umane, materiali e finanziarie, che lo Stato deve garantire alla struttura commissariale, e il congelamento di tutti i pagamenti per quattro anni può porre il fornitore, specie se non occasionale, in una situazione di grave illiquidità, fino ad esporlo al rischio di esclusione dal mercato. D’altra parte, il difetto di proporzionalità è stato considerato ancora più evidente, considerando che il blocco esecutivo è destinato a persistere pure nel caso in cui la sanità calabrese esca dal regime commissariale «in considerazione dei risultati raggiunti», né la liquidità generata in favore della Regione Calabria, sia tramite il rinvio della compensazione del saldo di mobilità, sia in virtù dell'erogazione del contributo di solidarietà, reca alcun vincolo di destinazione, neppure pro quota, a beneficio dei creditori muniti di titolo. La Corte costituzionale ha dunque bocciato, senza appello o quasi, la disposizione oggetto di rinvio pregiudiziale, così “troncando” ogni ulteriore dilazione di pagamento ex lege in favore della sanità calabrese, ma contemporaneamente suggerendo tutta una serie di accorgimenti – in costanza di efficacia della restante normativa straordinaria introdotta dall’art. 16-septies del d.l. n. 146 del 2021 – che avrebbero potuto rendere “proporzionale” un blocco limitato e selettivo delle procedure esecutive. Il legislatore ne ha subito approfittato. In sede di conversione del decreto-legge 8 novembre 2022, n. 169 , è stata infatti introdotta la seguente disposizione (articolo 2, comma 3-bis, con norma entrata in vigore a partire dal 28 dicembre 2022): “ In ottemperanza alla sentenza della Corte costituzionale n. 228 dell'11 novembre 2022, al fine di concorrere all'erogazione dei livelli essenziali di assistenza nonché di assicurare il rispetto della direttiva europea sui tempi di pagamento e l'attuazione del piano di rientro dai disavanzi sanitari della regione Calabria, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti degli enti del servizio sanitario della regione Calabria di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalla regione Calabria agli enti del proprio servizio sanitario regionale effettuati prima della data di entrata in vigore della legge 17 dicembre 2021, n. 215, di conversione in legge del decreto-legge 21 ottobre 2021 n. 146, non producono effetti dalla suddetta data e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per il pagamento dei debiti, delle somme agli stessi trasferite a decorrere dalla medesima data. Le disposizioni del presente comma si applicano fino al 31 dicembre 2023 e non sono riferite ai crediti risarcitori da fatto illecito e retributivi da lavoro ”. Incredibile ma vero. I creditori delle aziende sanitarie calabresi sono come dei novelli Ulisse alla ricerca del corrispettivo perduto, con la particolarità che le regole del gioco vengono cambiate in continuazione dallo stesso Stato che dovrebbe tutelare i loro diritti. La Corte costituzionale ha ben indicato i limitati presupposti entro i quali una situazione di dissesto finanziario pubblica può essere bilanciata con il sacrificio dei creditori privati (e non), ma sembra che l’insegnamento non sia stato recepito fino in fondo dal Legislatore, il quale da un lato ha dimenticato che il blocco delle procedure esecutive si protrae ormai già da anni – normativa dopo l’altra – e che occorre che la liquidità generata in favore della Regione Calabria conservi comunque un vincolo di destinazione , anche soltanto pro quota, a beneficio dei creditori muniti di titolo. C’è spazio insomma per una nuova pronuncia del Giudice delle leggi, che ponga eventualmente fine, una volta per tutte, ad una situazione che comincia a divenire – per chi la subisce – decisamente kafkiana .
18 gen, 2023
Tribunale di Arezzo, Sezione Civile, sentenza del 10 novembre 2022 IL CASO E LA DECISIONE Due donne unite civilmente, e legate da una convivenza di natura sentimentale da una decina di anni, hanno chiesto al Giudice civile competente di dichiarare illegittimo il rifiuto dell’Ufficiale di Stato civile di un paese in provincia di Arezzo di procedere al riconoscimento del rapporto di filiazione tra una delle due donne e i minori nati dalla sua compagna, promovendo il ricorso per opposizione previsto dall’art. 95, co. 1 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. Nello specifico, il rapporto di filiazione di cui viene chiesto il riconoscimento sarebbe derivato dalla conclusione positiva in Spagna di un procedimento di procreazione medicalmente assistita (c.d. PMA), presso una clinica autorizzata, la quale aveva sottoposto a fecondazione i gameti depositati dalla donna a cui è stato successivamente negato il riconoscimento, per poi impiantarli, per il compimento della gravidanza, nell'utero della sua compagna, a cui sola l’Ufficiale di Stato civile interessato ha infine attribuito il rapporto di filiazione, in quanto madre biologica . Secondo le ricorrenti, esisterebbe nell’attuale disciplina legislativa un vuoto normativo, che obbliga la madre partoriente a dichiarare all'Ufficio di Stato civile, al momento della formazione dell'atto di nascita dei minori, che gli stessi sarebbero nati da una presunta relazione extraconiugale, nonostante i figli siano nati in realtà costanza di unione civile con la seconda madre “genetica” (che ha partecipato al concepimento tramite fecondazione dei propri ovuli), in attuazione di un progetto familiare condiviso. Invero, la mancata regolamentazione del rapporto di filiazione in caso di coppie omogenitoriali provocherebbe una lesione dell’interesse superiore del minore , impedendo a costui di avere il legame giuridico con un soggetto che condivide con lui lo stesso patrimonio genetico. Di conseguenza, le ricorrenti hanno chiesto che il Tribunale adito, una volta riconosciuto il legame di filiazione intercorrente anche tra i bambini coinvolti e la "seconda" madre biologica - e non solo con la madre partoriente -, ordinasse all'Ufficiale di Stato Civile interessato l 'integrazione dell'atto di nascita dei minori , mediante l'aggiunta del cognome dell'altra donna. Il Giudice ordinario di primo grado ha respinto il ricorso sulla base del seguente ragionamento: - poiché l' art. 5 della legge n. 40/2004 sancisce che possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto coppie di maggiorenni viventi e di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, non è consentito, allo stato attuale della legislazione vigente, l'accesso alla procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali, anche in relazione alla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi applica le tecniche di PMA a coppie "composte da soggetti dello stesso sesso”; - la legittimità costituzionale di tale scelta legislativa è già stata affermata dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 221/2019 , ha evidenziato che l'infertilità fisiologica della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, trattandosi di fenomeni ontologicamente distinti; - la sussistenza, sul piano fattuale, di un concreto rapporto genitoriale non solo intenzionale ed affettivo ma anche biologico tra i minori ed entrambe le ricorrenti non può tuttavia conferire allo stesso il riconoscimento richiesto sul piano giuridico, stante l'assenza, allo stato attuale, di strumenti normativi tali da consentire l’accoglimento della domanda, e posto che l'esigenza di tutela dell'interesse dei minori, sempre allo stato della legislazione vigente, non può comunque legittimare il Tribunale a sostituire le proprie valutazioni con quelle spettanti esclusivamente al legislatore, cui solo compete l'individuazione degli strumenti giuridici più idonei allo scopo, e necessari anche al fine di assicurare uniformità di tutela su tutto il territorio nazionale. GENITORE BIOLOGICO E GENITORE INTENZIONALE (O SOCIALE) Come visto, l' art. 5 della legge n. 40/2004 , sancendo che possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, non consente, di conseguenza, l'accesso alla procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali. La legittimità costituzionale di tale scelta legislativa è già stata affermata dalla Corte Costituzionale che, con la citata sentenza n. 221/2019, ha chiarito che, nella specie, non vi è alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia alla quale occorra porre rimedio, in quanto l' infertilità fisiologica della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità sic et simpliciter (di tipo assoluto e irreversibile della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive), così come non lo è l'infertilità "fisiologica" della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata, con la conseguenza che l'esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale. Secondo la Corte costituzionale, la scelta espressa dal legislatore nella legge n. 40/2004 sarebbe non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce nella materia di interesse, pur rimanendo quest'ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all'evolversi deli apprezzamento sociale della fenomenologia considerata. D’altra parte, anche la Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha affermato che una legge nazionale che riservi l'inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU , trattandosi di situazioni non paragonabili. In effetti, pur rientrando l'unione omosessuale nella nozione di formazione sociale di cui all' art. 2 Cost. , non solo l'infertilita fisiologica della coppia omosessuale non è assimilabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, ma neppure la Costituzione impone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli. Né a opposte conclusioni, sempre secondo la Corte costituzionale, può condurre la successiva legge 20 maggio 2016, n. 76 ( Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze ), che, pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso, non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore. Invero, dal rinvio che il comma 20 dell'art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano escluse, perché non richiamate, quelle che regolano la paternità, la maternità e l'adozione legittimante (cfr. Corte Cost., n. 237/2019). D’altra parte, sempre la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore , ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un'esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie. Al riguardo, non rileva – come precisato anche nel caso esaminato dal Tribunale di Arezzo – la distinzione tra maternità puramente "intenzionale" e il caso di maternità biologica. Invero, lo sbarramento sopra delineato sussiste anche in un'ipotesi, come quella esaminata dal giudice aretino, in cui il ricorso tende ad accertare il rapporto di filiazione ed i suoi effetti giuridici con il genitore che non è tale solo "intenzionalmente", nel senso di aver prestato il proprio consenso alla tecnica di fecondazione assistita, ma anche "geneticamente", nel senso che i figli nati da tale procedura di procreazione medicalmente assistita condividono con la donna che chiede di essere riconosciuta anch'essa come madre il patrimonio genetico (avendo quest'ultima sottoposto al procedimento di fecondazione medicalmente assistita i propri ovuli, poi impiantati nella donna che ha portato avanti la gestazione ed il parto). D’altra parte, come ha bene precisato recentissimamente la Corte di Cassazione a Sezioni unite (n. r.g. 30401 pubblicata il 30 dicembre 2022 ), in un caso in cui a reclamare il proprio status nell’atto di nascita del minore era il genitore (uomo) d’intenzione , che insieme al padre biologico ne aveva voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione in un Paese estero, non è possibile neanche negare al genitore privo di legame biologico la possibilità di adottare il bambino. Sotto questo ulteriore profilo, le Sezioni unite hanno dovuto rispondere all’interrogativo, sollevato dall’ordinanza di rimessione, se il rifiuto del riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale sia giustificato dal contrasto con l’ ordine pubblico internazionale . Secondo la Corte di cassazione, in questi casi il rifiuto è legittimo in quanto la pratica della maternità surrogata (vietata sotto minaccia di sanzione penale, dall’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 ), quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offenderebbe in modo intollerabile la dignità della donna e minerebbe nel profondo le relazioni umane, di modo che non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, ovvero l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione , che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci . Tuttavia, pure il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. Secondo i Giudici di ultima istanza, tale ineludibile esigenza – volta anche a non negare al minore il godimento degli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse – è garantita attraverso l’utilizzo dell'istituto dell' adozione in casi particolari , ai sensi dell’ art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983 . Invero, nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2021 , ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l’applicazione della suddetta ipotesi di adozione per garantire effetti giuridici al rapporto tra genitore sociale e minore - in quanto la stessa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell'adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia –, l’attuale inerzia sul punto del legislatore non impedisce al Giudice di utilizzare tale strumento per dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita, rappresentando l'adozione l'unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale. D’altra parte, con la sentenza n. 79 del 2022 , depositata il 28 marzo 2022, la Corte costituzionale ha rimosso l’impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell’adottante (art. 55 della legge n. 184 del 1983, in relazione all’art. 300, secondo comma, cod. civ.), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari, all’insegna della piena attuazione del principio di unità dello stato di figlio. In seguito a tale sentenza, dunque, anche l’adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell’adottante. Al pari dell’adozione “ordinaria” del minore di cui agli artt. 6 e ss. della legge n. 184 del 1983, l’adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l’adottante, ma fa entrare l’adottato nella famiglia dell’adottante. L’adottato acquista dunque lo stato di figlio dell’adottante. Quanto infine alla ulteriore circostanza problematica, sotto un profilo applicativo, secondo cui la disciplina dell’adozione in casi particolari richiede, ex art. 46 della legge n. 184 del 1983, ai fini del perfezionamento della procedura, l’ assenso del genitore biologico , il quale potrebbe non prestarlo in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, le Sezioni unite hanno evidenziato che l’effetto ostativo del dissenso dell’unico genitore biologico all’adozione del genitore sociale può e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. In altri termini, è possibile superare la rilevanza ostativa del dissenso all’adozione in casi particolari ai sensi della lettera d), tenendo conto che il contrasto non rischia soltanto di vanificare l'acquisto di un legame ulteriore rispetto a quello che il minore ha con la famiglia di origine, ma anche di sacrificare uno dei rapporti sorti all'interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo. In questa prospettiva, il genitore biologico potrebbe negare l'assenso all'adozione del partner solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore.
Autore: di Roberto Lombardi 14 gen, 2023
È cronaca di questi giorni la celebrazione a Palermo del processo nei confronti dell'ex Ministro dell'Interno Salvini per le decisioni e gli avvenimenti che portarono nell'agosto del 2019 al blocco dello sbarco della nave piena di migranti soccorsi in mare aperto dalla ONG "Open Arms". Sono stati escussi quali persone informate dei fatti, tra gli altri, il Presidente del Consiglio e l'altro vice-Presidente del Consiglio dell'epoca (Giuseppe Conte e Luigi Di Maio), i quali avrebbero confermato il dissidio interno esistente nel loro Governo sulle modalità operative dei blocchi navali e dei rifiuti di assegnazione di un porto sicuro , sostanzialmente "scaricando" tutta la responsabilità dei fatti oggetto del processo sul Ministro dell'Interno Salvini, il quale avrebbe operato nella materia degli "sbarchi" continue fughe in avanti a fini di propaganda politica. (1) Ma qual è il vero oggetto giuridico del procedimento penale instaurato contro Salvini? Facciamo un passo indietro. Agosto 2019. Un’imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorreva diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2019, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la nave con a bordo i migranti veniva autorizzata ad entrare in acque territoriali italiane, ma fino al 20 agosto non le fu consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa. Dopo quasi due anni dai fatti, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha disposto il rinvio a giudizio nei confronti dell'ex Ministro dell’Interno per il delitto di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti di ufficio , reati che sarebbero stati commessi nel corso dello svolgimento di funzioni ministeriali. In particolare, all’imputato è stato contestato, con accusa che in questi giorni comincia ad affrontare il vaglio dibattimentale, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS ( place of safety ) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. Il decreto di rinvio a giudizio è giunto a seguito della articolata sequenza procedimentale prevista dal nostro ordinamento giuridico in materia di reati ministeriali , e dopo che il Tribunale competente, ai sensi della legge costituzionale n. 1 del 1989 , aveva trasmesso, a mezzo della Procura della Repubblica di Palermo, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato (Camera di appartenenza dell’ex Ministro). In tale richiesta sono affrontati in modo diffuso gli elementi giuridicamente più complessi della vicenda. Innanzitutto, il Tribunale dei Ministri si è chiesto, dopo avere individuato, nel caso di specie, un sicuro obbligo a carico alle Autorità italiane, se l’indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico. La conclusione dei Giudici è che si tratta di un atto amministrativo – e quindi come tale giustiziabile -, sulla base delle seguenti ragioni: - è l’atto finale di un procedimento disciplinato da fonti internazionali e nazionali che ne individuano i presupposti giuridici e fattuali; - è un atto vincolato nell’ “an”, ricorrendo determinate condizioni, seppure discrezionale nel “quomodo”, in quanto la concreta localizzazione del luogo di sbarco sicuro dipende da valutazioni “di tipo tecnico-amministrativo”; - è un atto la cui forma libera non esclude la sua riconducibilità al genus degli atti amministrativi; - è un atto suscettibile di produrre immediati e diretti effetti giuridici in capo a singoli individui. La qualificazione dell’atto con cui viene indicato il POS come atto amministrativo – insieme all’accertamento dell’obbligatorietà di tale indicazione nel caso di specie – è necessaria al Tribunale dei Ministri per dedurre la sindacabilità dell’omissione di tale atto. Se infatti si trattasse di atto politico , lo stesso, essendo libero nei fini, non potrebbe essere mai sindacato da un organo del potere giudiziario, in virtù del principio di separazione dei poteri . La responsabilità sarebbe solo e soltanto di natura politica. Ne conseguirebbe, ai fini dell’imputabilità del reato di sequestro di persona – così come contestato nel caso di specie – che tale sequestro sarebbe stato commesso tramite la mancata adozione di un atto di natura politica, di per sé non obbligato né vincolato, sulla base di una valutazione libera nei fini e non giustiziabile, in quanto esercizio diretto di un potere costituzionalmente riconosciuto. In altri termini, la condotta materiale del reato, pur astrattamente sussistente, sarebbe in partenza scriminata dall’esercizio del diritto. Ma davvero siamo di fronte a un atto amministrativo e non ad un atto politico, nel caso della decisione di non indicare il POS sul territorio nazionale, nel momento in cui si erano realizzate tutte le condizioni che obbligherebbero secondo il diritto internazionale tale indicazione? Seguendo l’orientamento secondo cui occorrerebbe definire come politico l’atto che, a prescindere dal contenuto, è funzionalizzato alla realizzazione di uno scopo politico, il fine di ridurre drasticamente l’immigrazione clandestina e di imporre all’Unione europea un preventivo accordo sulla ripartizione dei migranti dovrebbe, nella tesi della difesa, bastare a ricondurre l’omissione de qua nell’ambito delle scelte politiche non sindacabili. L’orientamento preferibile in materia appare però quello che prescinde dal fine o dai motivi dell’atto e che qualifica un atto come politico in presenza non solo del requisito soggettivo (atto emanato dal Governo o comunque dai supremi organi dello Stato individuati dalla Costituzione), ma anche di un particolare requisito oggettivo , traducibile nel fatto che l’atto stesso deve essere espressione di un potere politico che assolve, in conformità al dettato costituzionale, alla funzione di cura di interessi statali supremi e unitari, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri. Nel caso di specie, dunque, non si tratterebbe di un atto politico, ma di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, avendo la Costituzione stessa conferito pari dignità costituzionale alle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, con il corollario di assicurare ai soggetti soccorsi in mare un luogo sicuro in cui avere riparo e di potersi avvalere delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo). L’indicazione del POS non è dunque un atto libero nei fini ma un atto amministrativo di natura mista (vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo), che si rende necessario al ricorrere di determinati presupposti. Il Tribunale dei Ministri si è chiesto, a questo punto, se la competenza a indicare il POS nel nostro ordinamento sia del Ministro dell’Interno. E’ sostenibile, in realtà, secondo una tesi avallata su un caso analogo anche dalla Procura della Repubblica di Roma, che la competenza sia del Comando generale del Corpo delle Capitanerie dei Porti, nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare. Anche a non volere accogliere tale tesi, è evidente che il potere di assegnazione del POS è stato scisso nel nostro ordinamento in due segmenti tra di loro distinti ma indissolubilmente interconnessi, il primo (di natura vincolata) volto ad esprimere il nulla-osta all’assegnazione in astratto del POS – che sarebbe di competenza del Centro di coordinamento -, il secondo, finalizzato alla concreta individuazione sul territorio nazionale del luogo di assegnazione. Quest’ultima fase è connotata da un ampio margine di discrezionalità nella scelta del luogo e sarebbe in astratto di competenza del Dipartimento per le libertà civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno . Tuttavia, nella prassi recente, anche tramite lo strumento operativo del “divieto di ingresso” nei confronti di navi private battenti bandiera straniera in acque territoriali italiane – in quanto possibili strumenti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina -, l’Ufficio di Gabinetto del Ministero dell’Interno e il Ministro stesso hanno sostanzialmente avocato a sé il potere di indicazione del POS, trasformando impropriamente quello che avrebbe dovuto essere un atto amministrativo vincolato nell’ an in un atto politico libero nei fini. D’altra parte, le norme sovranazionali, come sostenuto dal Tribunale di Roma su caso analogo, sembrerebbero offrire indicazioni univoche – da cui scaturiscono i connessi obblighi – soltanto nell’ipotesi in cui uno Stato effettui direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assuma il coordinamento di tali operazioni, ma non nel caso in cui le operazioni di ricerca e salvataggio vengano effettuate in autonomia da navi appartenenti ad organizzazioni umanitarie che battono bandiera di Stati europei molto distanti dai luoghi in cui è avvenuto il salvataggio. Quanto al reato più grave in concreto contestato ( sequestro di persona ), posto che lo stesso è integrato da qualsiasi condotta che privi la vittima della libertà fisica e di locomozione, anche se in modo non assoluto, ma comunque per un tempo apprezzabile, nel caso affrontato dal GUP del Tribunale di Palermo, ai fini della decisione sul rinvio a giudizio, è stata considerata libertà fisica sottratta ai migranti quella di non godere per un tempo apprezzabile (sei giorni) dello sbarco in un porto sicuro a cui avevano diritto, non potendosi considerare place of safety , sulla base degli obblighi convenzionali gravanti sullo Stato interessato, la nave sulla quale erano stati soccorsi. (2) Più difficile è però individuare il soggetto attivo (e cioè la persona fisica rappresentante l’organo statale competente, nel caso di specie) di tale condotta. L’indicazione del POS avrebbe dovuto essere effettuata senza ritardo dallo Stato competente secondo le convenzioni internazionali e sulla base della procedura prevista all’interno del singolo Stato. Si è visto però che si trattava di nave privata battente bandiera straniera, e che lo Stato italiano non aveva effettuato direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di modo che la normativa sovranazionale applicabile al caso di specie risulterebbe non prevedere obblighi precisi a carico di uno Stato che versi in una condizione come quella in cui versava lo Stato italiano, all’atto del soccorso in mare. In seguito, la nave straniera – inizialmente assoggettata ad un formale divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane – era stata autorizzata a ripararsi a ridosso della costa di Lampedusa dalla Guardia costiera italiana, una volta sospeso il divieto di ingresso da parte del Tribunale amministrativo regionale competente, e in relazione al potenziale pericolo per le vite umane che il permanere in mare aperto, in vista del peggiorare delle condizioni atmosferiche, avrebbe potuto comportare. Tale circostanza sembra incidere in modo rilevante sull’elemento oggettivo del reato contestato, sia sotto il profilo dell’individuazione del soggetto attivo che sotto il profilo delle modalità di commissione del reato. Invero, l’ascrivibilità della condotta di sequestro di persona al Ministro dell’Interno dovrebbe trovare fondamento, in base alla ricostruzione dell’accusa, nella reiterata negazione di un POS sul territorio nazionale, che di per sé e di fatto avrebbe impedito alla Guardia costiera di far sbarcare i migranti, pur con i dubbi esposti sul soggetto a cui spetti realmente la competenza ad esercitare un potere che dovrebbe essere di natura quanto meno concertata. In quest’ottica, peraltro, non ci si trova più al cospetto di una condotta omissiva – essendo ormai la nave straniera entrata nelle acque territoriali e dunque entro i confini nazionali – ma eventualmente di una condotta attiva , prescindente dalla legittimità o illegittimità del precedente divieto di ingresso nel frattempo sospeso dal TAR. Ma tale condotta dovrebbe allora considerarsi come istigatrice di un reato commesso da altri o come abusivamente impeditiva di una condotta legittima che sarebbe stata di competenza di differenti soggetti istituzionali. Nella relazione posta alla base della richiesta di autorizzazione a procedere inoltrata al Senato dalla Procura della Repubblica di Palermo, si legge che il Comando generale delle Capitanerie di Porto (nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare) aveva autorizzato la nave privata con a bordo i migranti ad ottenere “un punto di fonda nei pressi dell’isola di Lampedusa”, contestualmente vietandone, “all’attualità, l’ingresso in porto”. In altri termini, il Centro di coordinamento di soccorso in mare ha assolto al proprio compito di mettere in sicurezza la nave con a bordo i migranti, ma è non stato altrimenti esercitato il potere-dovere, che in questi casi grava sulla polizia di frontiera, di condurre lo straniero presso la struttura a ciò deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza, in assenza di mancata comunicazione da parte del Ministro dell’Interno del place of safety (quando ormai tale comunicazione non poggiava più direttamente sull’obbligo internazionale connesso al salvataggio in mare). E’ stato anzi espressamente vietato dal Centro di coordinamento stesso lo sbarco nel porto di Lampedusa, nonostante ormai l’imbarcazione in precarie condizioni di navigazione fosse già all’interno delle acque territoriali e ben vicina alla costa. Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la condotta del Centro di coordinamento sembra interrompere il nesso causale tra condotta omissiva contestata all’imputato ed evento giuridico lesivo della privazione di libertà, andandosi a innestare, come fatto nuovo e parzialmente indipendente dalle circostanze pregresse, nello “status” dei soggetti passivi. In pratica, il Centro di coordinamento interviene assumendo la responsabilità dell’obbligo di protezione dei migranti soccorsi a mare, ma contemporaneamente vieta lo sbarco a Lampedusa, dove vi è tra l’altro uno degli hotspot presenti sul territorio nazionale, nonostante l’ art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisca l’obbligo di condurre lo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare presso la struttura deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza. Chi è dunque a privare della libertà personale i migranti, una volta che questi sono entrati nella acque domestiche? Il raggiungimento del territorio nazionale sembra definitivamente recidere il legame tra gli obblighi statali connessi alle zone di ricerca e salvataggio, il soccorso in mare e l’assegnazione di un POS . E ciò non può che incidere anche sulle modalità di commissione della condotta di reato contestata, che parrebbe a questo punto fuori fuoco rispetto alla fattispecie ipotizzata dal Tribunale dei Ministri, perché commessa attraverso un’omissione (mancato trasporto del migrante nell’ hotspot ) diversa dalla mancata individuazione di un place of safety , individuazione che non aveva più ragione di essere, allo stadio in cui era giunta la vicenda. In altri termini, il sequestro di persona ci sarebbe stato e sarebbe certamente “imputabile” anche allo Stato italiano, ma non chiaramente sovrapponibile, sotto un profilo squisitamente giuridico, con la responsabilità penale – che, vale la pena ricordarlo, è di natura personale – del Ministro dell’Interno. Dal punto di vista soggettivo, infine, è un fatto che, all’epoca di contestazione del reato (14/15 agosto 2019), era in vigore il decreto-legge n. 43 del 2019 , che autorizzava il Ministero dell’Interno a vietare l’ingresso di navi nel mare territoriale – anche per ragioni di ordine e sicurezza pubblici, oltre che di violazione delle leggi sulla immigrazione -, e che tale divieto fosse stato nella fattispecie adottato fin da subito nei confronti della nave su cui erano stati tratti in salvo i migranti. A questo riguardo, Il Tar per il Lazio, con decreto monocratico emesso in data 14 agosto 2021, aveva sospeso il divieto de quo , ma soltanto “ al fine di consentire l’ingresso della nave (…) in acque territoriali italiane ” - per “ prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli ” -, di modo che la consapevolezza e volontà di “sequestrare” i migranti potrebbe essere messa in discussione dalla contrapposta certezza di adempiere a un dovere imposto da una legge dello Stato e sotto lo scudo giuridico di un divieto ancora in parte vigente, restando sullo sfondo del diritto penale (e nella possibile irrilevanza dei “motivi” della condotta) ogni altra considerazione sull’opportunità e sulle responsabilità del complessivo disegno politico architettato. In definitiva, ci si trova dinanzi a un guazzabuglio quasi inestricabile di competenze, responsabilità, norme e giustificazioni, in cui la politica con la P minuscola - quella cioè che guarda prevalentemente al consenso e non soltanto ai reali bisogni delle persone - è finita miseramente all'interno di un "contenitore processuale" dove ciascuno dei protagonisti continua a recitare una parte poco credibile, a di là di quello che sarà l'esito giuridico dell'accertamento di responsabilità, e dove mai dovrebbero comporsi e scontrarsi gli interessi e i desiderata delle forze che si pongono l'ambizioso obiettivo di governare il Paese. (1) https://www.open.online/2023/01/13/palermo-processo-open-arms-salvini-conte-di-maio-lamorgese/ (2) Per un'analisi tecnica del reato principale contestato si veda l'articolo pubblicato su questo sito, con riferimento alla medesima vicenda, in data 1 maggio 2021, al link https://www.primogrado.com/atto-amministrativo-atto-politico-e-sequestro-di-persona
Autore: dalla Redazione 08 gen, 2023
( Ricordo del Presidente Giampiero Lo Presti ) a cura dei Colleghi Magistrati Silvana Bini, Giuseppe Esposito, Stefano Mielli, Maurizio Nicolosi, Roberto Valenti e Desirèe Zonno Nel corrente mese è mancato il Presidente Giampiero Lo Presti, magistrato del Tar Lazio, componente del Cpga e già presidente dell’ANMA. Gli scriventi hanno fatto parte del Direttivo dell’ Anma (associazione nazionale dei magistrati amministrativi) da lui presieduto dal 2011 al 2014 e vogliono qui ricordare il suo impegno associativo, motivato dall’ideale di un magistrato imparziale e indipendente. Il Presidente Lo Presti affermava spesso che indipendenza, imparzialità e competenza sono i cardini per ottenere la pubblica fiducia nel ruolo svolto dai giudici amministrativi ed è necessario che siano percepite come tali dall’opinione pubblica. Per questo ha sempre ritenuto che fosse necessaria una regolamentazione rigorosa degli incarichi e dei fuori ruolo . Ed era stata vista come grande occasione la Legge Severino : dal dibattito in prima Commissione della Camera dei Deputati emergeva la possibilità di una disciplina normativa organica dei fuori ruolo , non solo per la previsione del limite temporale, ma per l’introduzione di regole di incompatibilità per i diversi incarichi. Speranza che si è vista poi svanire. Fu aperta anche una “strada” di dialogo con il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di allora, per una possibile riforma, cui Giampiero ha sempre creduto, per riaffermare l’unicità della funzione giurisdizionale tra i magistrati amministrativi di primo e secondo grado in un unico ruolo. Ha affermato da sempre l’urgente necessità di superare l’attuale assetto ordinamentale, nel quale, diceva, viene “ artificialmente mantenuta una sorta di differenza ontologica fra Consiglio di Stato e TAR ”. All’indomani della sentenza della Corte Costituzionale n. 273 del 2011 , a Palermo, in occasione del convegno organizzato dall’Associazione “Art. 111”, queste le sue riflessioni, ripetute spesso anche in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: “ Nessun giudice amministrativo può plaudire ad una pronuncia che, nel suo ordito motivazionale, accende impietosamente i riflettori sull'anomalia di una giurisdizione che è tale, e soltanto tale, esclusivamente per il primo grado di giudizio, mentre cambia natura e indossa vesti diverse e mutevoli in appello; sull'anomalia di un doppio grado di giurisdizione che diventa monco se vede affidate le funzioni di appello ad un giudice che è giudice soltanto a metà e che è comunque "cosa diversa" dal giudice di primo grado ”. Giampiero Lo Presti era strenuo sostenitore della giustizia “sul territorio”. In occasione del convegno organizzato a Milano nel febbraio 2013, in collaborazione con la Società Lombarda degli Avvocati amministrativisti (SOLOM) e le camere amministrative Lombarde e Piemontesi, dal tema “La competenza territoriale nella giurisdizione amministrativa ed il ruolo paritario dei TAR”, affermò che la “ territorialità del giudice si sostanzia in una conoscenza diretta delle questioni e delle realtà territoriali interessate dalle vicende amministrative, della origine e successiva evoluzione delle vicende esaminate. Tale “valore aggiunto” di conoscenza degli affari trattati, che deriva dalla prossimità e dalla continuità istituzionale, si fonda su una percezione più diretta delle vicende controverse e nella possibilità di attingere ai precedenti della giurisprudenza locale, che consente una interpretazione più logica e consapevole dei fatti, i quali possono essere interpretati e conosciuti nella loro più articolata e complessa ricchezza di significati ”. Da qui l’avvio di varie iniziative per la riforma delle norme del Codice del processo amministrativo in materia di competenza funzionale, al fine di ridurre la concentrazione di materie al Tar Lazio. La sua Presidenza ANMA fu caratterizzata certamente da delusioni, per il mancato raggiungimento di obiettivi, ma ha lasciato proposte, idee, progetti, che possono costituire ancora una base da cui fare rinascere “il tempo delle riforme”. Ed è questa l’eredità che lascia a tutti i giudici di primo grado, e non solo.
Autore: Nicola Fenicia 18 ott, 2022
(La Cassazione dirime il conflitto di giurisdizione in materia di obbligo vaccinale degli esercenti le professioni sanitarie) In attesa che la Corte Costituzionale risolva i dubbi di compatibilità del complessivo sistema impositivo degli obblighi vaccinali con i diritti fondamentali alla salute, all’autodeterminazione in materia sanitaria e al lavoro, dubbi sollevati sia dalla giustizia ordinaria che da quella amministrativa, la Cassazione, con ordinanza n. 28429 del 29 settembre 2022 , si è invece pronunciata a sezioni unite sulla questione pregiudiziale della giurisdizione in ordine alla sospensione dall'esercizio della professione sanitaria per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale . Nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, era stato sollevato, ai sensi dell’art. 11, comma 3, del codice del processo amministrativo, un conflitto negativo di giurisdizione, da parte del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, avverso l’ordinanza del Tribunale di Ancona con la quale il giudice ordinario, adito ex art. 700 c.p.c., aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione nella controversia promossa da un fisioterapista libero professionista, contro l’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche e il proprio Ordine professionale. Tale causa aveva ad oggetto i provvedimenti con cui detto Ordine aveva sospeso il ricorrente dall’esercizio della professione sanitaria per mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del d.l. 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76. Ebbene la Cassazione ha risolto il conflitto di giurisdizione con la declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario , posto che verrebbe “ in rilievo un diritto soggettivo - ossia continuare ad esercitare la professione sanitaria, nonostante l'inadempimento all'obbligo vaccinale - nei cui confronti la pubblica amministrazione non esercita alcun potere autoritativo correlato all'esercizio di poteri di natura discrezionale, venendo in rilievo esclusivamente limiti e condizioni di previsione legislativa ”. Tale intervento della Corte di Cassazione, oltre a rivestire notevole interesse giuridico, era particolarmente atteso ed auspicato dagli operatori della giustizia, tenuto conto del contrasto che si è creato all’interno della stessa giurisprudenza amministrativa, dove, mentre il Consiglio di Stato ha trattenuto la giurisdizione ravvedendo profili amministrativi e pubblicistici nell’accertamento dell’ottemperanza da parte del sanitario all’obbligo vaccinale, alcuni tribunali amministrativi regionali hanno invece inquadrato la fattispecie nell’ambito del campo giuslavoristico, declinando quindi la giurisdizione in favore del giudice ordinario. Ma prima di affrontare il cuore della questione occorre illustrare il dato normativo. L’ art. 4 del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44 , convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2021, n. 76 “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, ha imposto agli esercenti le professioni sanitarie che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali, l’obbligo della vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2, inizialmente, sino al 31 dicembre 2021. Il termine di efficacia della misura è stato, poi, prorogato più volte, tramite disposizioni novellatrici del citato art. 4; dapprima, di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021 e, quindi, sino al 31 dicembre 2022 (in forza dell’art. 8, comma 1, lett. a), del d.l. n. 24 del 2022, convertito, con modificazioni, nella legge n. 52 del 2022). Lo stesso comma 1 dell’art. 4 dispone che la “ vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione ”. L’esenzione dalla vaccinazione obbligatoria o il suo differimento può aversi soltanto “in caso in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal proprio medico curante di medicina generale ovvero dal medico vaccinatore, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2”. L’art. 4, dal comma 3 al comma 7, ha, quindi, previsto una articolata scansione procedimentale volta a regolare le modalità operative dell’obbligo vaccinale e a verificarne l’adempimento, la quale è stata oggetto di modificazioni ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. b, del d.l. n. 172 del 2021 , convertito, con modificazioni, nella legge n. 3 del 2022. In particolare, sono stati rimessi all’Ordine professionale territorialmente competente, i compiti, prima assegnati alle aziende sanitarie locali: di verifica del possesso delle certificazioni verdi COVID-19 (tramite Piattaforma nazionale-DGC); di invito all’interessato a presentare la documentazione attestante l’effettuazione della vaccinazione o la richiesta di vaccinazione ovvero ancora la documentazione attestante le condizioni di esenzione/differimento o l’insussistenza dei presupposti dell’obbligo vaccinale; di accertamento del “mancato adempimento dell’obbligo vaccinale”. Inoltre, il novellato comma 4 dell’art. 4, proprio nel disporre che “l’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale è adottato da parte dell’Ordine professionale territorialmente competente, all’esito delle verifiche di cui al comma 3”, ha precisato che tale atto “ha natura dichiarativa e non disciplinare , determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale”. Ciò posto, nei ricorsi che vengono presentati, gli operatori sanitari in genere chiedono al giudice l’annullamento della disposta sospensione dall’esercizio della professione, dalla quale consegue inevitabilmente la sospensione dallo stipendio e dal lavoro, e contestualmente rivendicano il diritto ad esercitare la loro attività professionale sanitaria anche da non vaccinati, ovvero il diritto alla salute o quello a non subire trattamenti sanitari obbligatori, in genere formulando censure d’incostituzionalità delle norme impositive dell’obbligo vaccinale. Venendo dunque al tema della giurisdizione, l’ art. 7, comma 1, c.p.a. indica, quale criterio di corretta individuazione delle controversie che ricadono nella giurisdizione generale del G.A., l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo che si manifesta attraverso provvedimenti, atti o omissioni. Per una parte della giurisprudenza amministrativa, le cause sopra descritte rientrerebbero nella giurisdizione amministrativa in quanto nella fattispecie l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 avrebbe attribuito alla pubblica amministrazione un potere volto a tutelare gli interessi pubblici, ossia a garantire, attraverso la vaccinazione obbligatoria, il rispetto del fondamentale interesse pubblico ad evitare la diffusione del virus Sars-CoV-2 o, comunque, il propagarsi della malattia nelle sue forme più gravi e addirittura letali; dunque gli atti di accertamento dell’inadempimento all’obbligo di vaccinazione sarebbero atti autoritativi rispetto ai quali la situazione vantata dal privato non potrebbe che assumere consistenza di interesse legittimo (da ultimo Consiglio di Stato, III sez., 3 ottobre 2022, n. 8434 ). Tale orientamento dovrebbe essere rimeditato alla luce della nuova ordinanza della Cassazione, la quale, nella sua funzione regolatrice del riparto di giurisdizione, sembra aver assunto una decisione pienamente condivisibile. In primo luogo, infatti, come osservato dalla Suprema Corte, la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni professionali in ambito sanitario deriva automaticamente, ex lege (secondo quanto previsto dal comma 6 dello stesso art. 4), dall’accertamento, ad opera della ASL (ed ora dell’Ordine professionale), della inosservanza dell’obbligo vaccinale. Tale accertamento non ha valore provvedimentale, trattandosi della mera verifica della sussistenza o meno di tale “ requisito essenziale per l’esercizio della professione ”. La ASL o l’Ordine professionale non sono dunque chiamati ad effettuare una ponderazione tra gli interessi in gioco di eminente rilievo costituzionale: interesse alla salute collettiva, da una parte, diritto al lavoro e all’autodeterminazione dall’altra, perché tale comparazione è stata già effettuata a monte dal legislatore con l’introduzione di una fattispecie ex lege d’inidoneità del “lavoratore della sanità” non vaccinato a svolgere la prestazione lavorativa; senza dunque che sia prevista l’intermediazione dell’esercizio di potere da parte di alcuna Pubblica Amministrazione. Lo schema regolante il rapporto è quindi quello della norma che pone un nuovo presupposto per l’esercizio della professione sanitaria , incidendo direttamente sul diritto soggettivo del professionista o dell’operatore ad espletare le relative mansioni. La norma disciplina dunque direttamente il fatto producendo da sé i conseguenti effetti giuridici secondo lo schema “norma-fatto-effetto”. Con la conseguenza che l’organo amministrativo è chiamato solamente ad accertare il compimento di una fattispecie legale specificamente regolata, ossia che – nei termini stabiliti dalle disposizioni di legge – si sia determinato il “fatto” dell’inadempimento all’obbligo vaccinale e a darne, quindi, attestazione. Da tale atto, di mera verifica dell’essersi determinato il “fatto” dell’inadempimento all’obbligo imposto dalla legge, discende, in modo automatico, e senza alcun apprezzamento discrezionale di sorta, la sospensione del sanitario dall’esercizio della professione. Pertanto, se è vero che la disciplina in esame è orientata alla tutela di interessi pubblici di primaria importanza, da ciò non si può desumere che sia stato attribuito alla pubblica amministrazione, per il raggiungimento di tali fini, un potere conformativo della sfera giuridica del privato. L’amministrazione infatti non è chiamata ad esercitare un potere sanzionatorio o disciplinare sull’operatore sanitario che non si è vaccinato, ma solo a “fotografare” un fatto cui la legge connette l’inidoneità temporanea del medesimo operatore sanitario, in quanto lavoratore, sia esso autonomo o subordinato, a svolgere l’attività sanitaria. Si comprende quindi che, pur avendo l’obbligo vaccinale la sua genesi in una finalità spiccatamente di interesse pubblico, l’intera disciplina approntata dal legislatore con l’art. 4 in esame, rimane racchiusa nell’ambito “privatistico - lavorativo”. In ogni caso, anche se si volesse inquadrare la disciplina in esame nell’ambito del diritto pubblico, non per questo bisognerebbe necessariamente riconoscere nell’attività svolta dalle ASL o dagli Ordini professionali le caratteristiche del potere in senso proprio e dunque la configurabilità di interessi legittimi; ricorrono infatti nell’ordinamento diversi casi in cui l’attività unilaterale svolta dall’amministrazione, pur essendo disciplinata dal diritto pubblico, non si configura necessariamente come potere amministrativo, come accade nelle vicende relative all’iscrizione ad albi professionali o a registri anagrafici, nelle quali il cittadino è titolare di un diritto soggettivo. Ne consegue dunque che, rispetto all’atto di accertamento dell’inadempimento all’obbligo vaccinale emesso dall’Azienda sanitaria o dall’Ordine, la situazione giuridica del professionista o dell’operatore non è qualificabile in termini di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo. E d’altra parte, la contestazione dell’accertamento dell’inadempimento, non si risolve nell’impugnativa di un provvedimento o atto amministrativo, ma nella richiesta di verificare l’effettiva situazione di fatto e di diritto sottostante al fine di escludere l’effetto sospensivo ovvero dichiarare l’insussistenza o la non coercibilità dell’obbligo vaccinale. Ed anche laddove occorra stabilire in giudizio se sussista un’ipotesi di esonero dall’obbligo vaccinale, o di suo differimento per ragioni di salute, non si tratterebbe di sindacare un esercizio del potere autoritativo discrezionale, bensì soltanto di verificare se sussista un caso di “a ccertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal proprio medico curante di medicina generale ovvero dal medico vaccinatore ”; si tratterebbe quindi di verificare l’esistenza di una certificazione che deve provenire, non direttamente dalla medesima amministrazione agente, ma dal medico di medicina generale o dal medico vaccinatore. Quindi, anche in tali casi l’attività rimessa all’Amministrazione sanitaria o all’Ordine professionale è una mera attività ricognitiva che non richiede neppure alcuna valutazione o competenza di tipo medico, come peraltro dimostrato dal fatto che l’art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 26 novembre 2021, n. 172, nel novellare l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, ha attribuito quegli stessi compiti di verifica certativa che prima erano assegnati alle ASL, agli Ordini professionali , escludendo qualsiasi ruolo delle amministrazioni sanitarie ai fini dell’accertamento dell’inadempimento che viene ora effettuato dagli Ordini sulla scorta di un mero rilievo documentale, per mezzo di un atto definito esplicitamente avente natura dichiarativa e non disciplinare. Da tale modifica legislativa si ricava anche l’ulteriore conferma che la suddetta attività non possa configurare un potere amministrativo, il quale per sua natura dovrebbe essere infungibile, ossia riservato in via esclusiva ad un determinato apparato dotato di specifiche competenze, in quanto essa invece è stata in un breve arco temporale assegnata in successione a due enti aventi funzioni del tutto differenti. Se ne ricava ancora che la realizzazione dell’interesse pubblico alla limitazione della diffusione del contagio nell’ambito del comparto sanitario non è stata affidata alla cura di un particolare organo amministrativo, designato per il perseguimento di tale missione e per l’effettuazione di certe valutazioni tecniche. In conclusione, pare dunque che a fronte dell’attività accertativa in questione, non caratterizzata da profili autoritativi, siano identificabili solo diritti soggettivi azionabili davanti al giudice ordinario. E tutto ciò senza nulla togliere alla regola di riparto, ormai acquisita anche da parte della Cassazione, che vede il giudice amministrativo titolare della giurisdizione anche ove l’amministrazione agisca nell’esercizio di un potere previsto dalla legge a conformazione di un diritto fondamentale del privato, ovvero laddove la mediazione amministrativa sia volta ad assicurare la compatibilità dell’esercizio di quel diritto rispetto agli interessi della collettività. Infatti, una volta che il potere è stato attribuito, è al corretto esercizio di questo che deve aversi riguardo per fornire piena tutela al titolare dell’interesse sostanziale (e in ciò risiede l’essenza dell’interesse legittimo), senza che possa darsi ultroneo rilievo alla natura “fondamentale” della situazione giuridica, e tale tutela può e deve essere assicurata in modo pieno dal giudice amministrativo. Allo stesso modo è chiaro come non si debba cadere nell’errore di ritenere che il carattere vincolato dell’azione amministrativa porti con sé il corollario della natura “paritetica” dei relativi atti. L’esistenza infatti di un vincolo al potere amministrativo, e dunque l’assenza di discrezionalità amministrativa, non riduce il potere ad un’obbligazione civilistica, poiché l’amministrazione esercita in questi casi una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali. In tali casi l’intermediazione operata dall’amministrazione costituisce, in ragione delle strette maglie legislative predisposte, un sottile diaframma il cui superamento è ex ante oggettivamente prevedibile sulla base della semplice lettura delle norme e della sussunzione in esse del fatto; nondimeno, poiché una determinata amministrazione è chiamata a svolgere una precipua funzione per tutelare in via diretta uno specifico interesse pubblico, si configura l’esercizio di potere anche se l’ an e il quomodo di questo sono predeterminati dalle legge. Del resto, che il vincolo al potere non muti i termini del riparto di giurisdizione emerge chiaramente dalle disposizioni del codice del processo amministrativo, che prevedono la possibilità della condanna dell’amministrazione all’emanazione dell’atto dovuto (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.). Tuttavia, proprio alla luce di tali ultime riflessioni è ancor più evidente come l’applicazione delle norme sull’obbligo di vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2 per il personale sanitario non sia intermediata dal potere pubblico sia pure nella forma vincolata, non essendo l’amministrazione (ASL o Ordine professionale) chiamata direttamente alla cura dell’interesse pubblico ad evitare la diffusione del virus Sars-CoV-2, né ad operare alcuna valutazione tecnica al fine di verificare l’adempimento all’obbligo di vaccinazione. L’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 descrive infatti una serie di atti e termini diretta a far emergere l’eventuale inadempimento, del quale l’amministrazione si limita a prendere atto, senza l’impegno di specifiche competenze e senza che le venga attribuita la capacità di modificare unilateralmente la sfera giuridica del professionista o dell’operatore sanitario.
Autore: di Sergio Conti, Presidente TAR a riposo 07 ott, 2022
Riflessioni su una recente sentenza del Consiglio di Stato in materia di obbligo vaccinale Si parla di discrezionalità tecnica (G. Barone v. discrezionalità in Enc. Giur. Treccani p.8) “allorché l'amministrazione giunga alla decisione impiegando categorie tecniche o – come altri dice – cognizioni specialistiche, cognizioni cioè che non siano proprie della generalità dei soggetti di una comunità.” Gli ordinamenti giuridici sono sensibili all’irrompere delle conoscenze tecniche e, sempre più spesso, le norme fanno riferimento esplicitamente (o implicitamente) alle regole della tecnica e del sapere proprio di altre scienze, al fine di trarne gli elementi utili per comporre gli interessi coinvolti nella fattispecie concreta disciplinata. Va rammentato che le discipline specialistiche - in ragione della maturazione delle conoscenze acquisite, dello stadio di sviluppo raggiunto o per la stessa caratteristica degli elementi di fondo su cui si basano - possono presentare diverse caratteristiche. Una classica suddivisione è quella che distingue le c.d. scienze esatte (matematica, fisica, chimica, ecc.) da quelle sociali o inesatte (economia, sociologia, psicologia, letteratura, arte, ecc.). Le prime sarebbero connotate da un elevato grado di precisione, al punto che di solito esprimerebbero ‘certezze’ non discutibili e ‘universalità’ dei risultati, mentre le seconde sarebbero contraddistinte dalla ‘opinabilità’ delle conclusioni a cui pervengono. Peraltro tali definizioni, sotto il profilo epistemologico (o, più precisamente, gnoseologico), sono state, da tempo, superate – ancorché esse siano però ancora dominanti nella “cultura comune” e proprio da tale presupposto non più riconosciuto trae linfa il dibattito politico/giornalistico - dato che, per le scienze esatte, si è dimostrata, alla luce di successive scoperte, la fallacia di talune leggi ritenute fino allora assolutamente esatte e invece dimostratesi (in via sperimentale o in via astratta deduttiva o induttiva) erronee (o perlomeno imprecise). In conclusione, qualora si debba fare riferimento alle discipline specialistiche , non è possibile ritenere apoditticamente la validità assoluta di alcune e la fallibilità di altre, mentre si dovrà più correttamente effettuare una ponderata valutazione, caso per caso, a seconda della natura della regola tecnica che viene in considerazione e del suo collocarsi nel contesto della decisione amministrativa da assumersi. Semmai è possibile distinguere – indipendentemente dalla tipologia di scienza presa in considerazione – regole tecniche la cui applicazione consente di pervenire a risultati verosimili e regole tecniche in grado di fornire soltanto risultati plausibili (più o meno probabili). Va da ultimo rilevato che, per le sue caratteristiche peculiari, quella medica non è definita come scienza ma come arte (a partire dal giuramento di Ippocrate), dato che unisce elementi della scienza con l'approccio empatico del medico rispetto al paziente, ognuno dei quali è diverso dagli altri (essendo notorio che terapie che giovano ad un soggetto non hanno effetto su di un altro). La sentenza del Consiglio di Stato Sez. 3, n. 1381 del 28.2.2022. Con tale pronuncia iI Consiglio di Stato ha respinto l’appello di una infermiera del SSN avverso la sentenza di primo grado, recante il rigetto del ricorso proposto avverso il provvedimento di accertamento di elusione dell'obbligo vaccinale emanato nei suoi confronti. Partendo dal presupposto che buona parte delle questioni poste (cfr. p. 5) “ricalcano quelle già esaminate nel giudizio definito da questa sezione con la pronuncia n. 7045 del 20 ottobre 2021”, il Collegio ha operato ampio richiamo “alle argomentazioni già sviluppate nella pronuncia di ottobre (ex art. 88 comma 2 lett. d) c.p.a.)”, riservando un “più specifico sforzo motivazionale” ai ”profili di novità”. Nel rinviare sulla questione complessiva della costituzionalità dell’obbligo vaccinale a quanto osservato nel precedente articolo pubblicato su questo sito il 19 gennaio 2022 * , va qui brevemente esaminata una questione di grande rilievo posta alla base di questa sentenza. A fronte del motivo di appello con il quale la ricorrente lamentava la violazione del diritto di difesa (ex artt. 24 e 111 della Costituzione), sotto il duplice profilo dell’impedimento del contraddittorio e della prova, per essersi il giudice di prime cure rifiutato di prendere in specifica considerazione la documentazione difensiva ritualmente depositata dalla parte ricorrente, e ciò sulla base di una pretesa superiorità delle fonti scientifiche ufficiali, il supremo consesso amministrativo lo ha ritenuto infondato, osservando: << L’attendibilità dei dati assunti a base della decisione promana dalla qualificata competenza e dal ruolo istituzionale riconosciuto ad Ema, AIFA e ISS, quali autorità regolatorie della materia alle quali è rimesso il compito di vagliare le risultanze del dibattito scientifico e di trarne le dovute conclusioni. La pretesa di rinnovare in una sede giudiziale il confronto tra diverse tesi scientifiche e di farne arbitro il giudice, non solo muove da un inspiegabile e immotivato sospetto di inattendibilità delle fonti ufficiali; ma, soprattutto, assume come realistica la possibilità che una materia così delicata e tecnicamente complessa possa essere adeguatamente esaminata e governata al di fuori del contesto suo proprio e da soggetti privi di specifica competenza, quando invece è proprio il richiamo alle fonti ufficiali e alle voci più autorevoli del campo medico (come tali riconosciute dal sistema scientifico nazionale e internazionale) a poter garantire una interpretazione oggettiva e univoca dei dati rilevati. Come già chiarito in sede cautelare, anche un supplemento di indagine in astratto esperibile da questo giudice non potrebbe che fare rinnovato riferimento alle medesime autorità. >>. In sostanza, il Consiglio di Stato pare escludere la stessa ammissibilità di contestazioni scientifiche su quanto affermato dagli organi tecnici AIFA e Istituto superiore di sanità. Non è ben chiaro se l'insindacabilità sia riconducibile alla veste soggettiva dell'organo o alla materia trattata, ma la questione non è particolarmente rilevante, dato che la conclusione a cui perentoriamente si perviene è quella che esistano spazi di insindacabilità assoluta. Un balzo all'indietro Tali assunti, che si pongono in totale distonia con il quadro giurisprudenziale antecedente, non possono essere condivisi. Va ricordato, al riguardo, quanto aveva affermato il medesimo Consiglio di Stato nella “storica” sentenza n. 601 del 1999 , con la quale è stato (sembrava definitivamente) superato il mito della insindacabilità della c.d. discrezionalità tecnica . Dopo avere ricostruito il percorso argomentativo seguito dalla sentenza di primo grado, che aveva rigettato le contestazioni svolte dal ricorrente avverso il diniego di riconoscimento della causa di servizio da parte degli organi medico legali (sostenendo che “in mancanza della possibilità di dimostrare con carattere di certezza oggettiva la causa di una "affezione a genesi multifattoriale" quale la cardiopatia ischemica, il procedimento valutativo, il cui contenuto specialistico sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, è correttamente motivato sul valore probabilistico di specifici "fattori di rischio" ed è immune da vizi logici”), il Consiglio di Stato aveva svolto il seguente iter motivazionale. << Tali acquisizioni si collocano all'interno di un orientamento - quello della insindacabilità della c.d. discrezionalità tecnica dell'amministrazione - assai diffuso presso il giudice amministrativo, ma che non sembra resistere, anche alla luce di autorevole dottrina, ad una riconsiderazione dell'argomento. Ciò che è precluso al giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità, infatti, è la diretta valutazione dell'interesse pubblico concreto relativo all'atto impugnato (Cass., 3 novembre 1988, n. 5922; 6 aprile 1987, n. 3309): dunque, del merito dell'atto amministrativo. La c.d. "discrezionalità tecnica", invece, è altra cosa dal merito amministrativo. Essa ricorre quando l'amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare una norma tecnica cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta. L'applicazione di una norma tecnica può comportare valutazione di fatti suscettibili di vario apprezzamento, quando la norma tecnica contenga dei concetti indeterminati o comunque richieda apprezzamenti opinabili. Ma una cosa è l'opinabilità, altra cosa è l'opportunità. La questione di fatto, che attiene ad un presupposto di legittimità del provvedimento amministrativo, non si trasforma - soltanto perché opinabile - in una questione di opportunità, anche se è antecedente o successiva ad una scelta di merito. Ciò è confermato anche dalle acquisizioni della Corte di cassazione, secondo cui "con riguardo alle pronunzie del Consiglio di Stato, l'eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell'art. 111, 3° comma, Cost. sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile solo quando l'indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima una volontà dell'organo giudicante che si sostituisce a quella dell'amministrazione; con la conseguenza che l'indicato vizio non ricorre quando il Consiglio di Stato indaghi sui presupposti di fatto del provvedimento impugnato (Cass., 5 agosto 1994, n. 7261). Anzi, il potere di accertare i presupposti di fatto del provvedimento impugnato viene considerato come lo specifico della giurisdizione amministrativa di legittimità, che la differenzia dal giudizio di legittimità che caratterizza il ricorso per cassazione. >>. Più oltre, nella medesima decisione, il Consiglio di Stato soggiungeva: << 1.2. Del resto, è ragionevole l'esistenza di una "riserva di amministrazione" in ordine al merito amministrativo, elemento specializzante della funzione amministrativa; non anche in ordine all'apprezzamento dei presupposti di fatto del provvedimento amministrativo, elemento attinente ai requisiti di legittimità e di cui è ragionevole, invece, la sindacabilità giurisdizionale. Il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici può svolgersi, allora, in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito dall'autorità amministrativa, bensì invece alla verifica diretta dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo. Non è, quindi, l'opinabilità degli apprezzamenti tecnici dell'amministrazione che ne determina la sostituzione con quelli del giudice, ma la loro inattendibilità per l'insufficienza del criterio o per il vizio del procedimento applicativo. >>. Va rammentato che a partire da questa importante decisione si sia radicalmente mutato, in dottrina come in giurisprudenza, l'approccio al tema del c.d. insindacabilità della discrezionalità tecnica. Vi sono stati interventi legislativi che hanno esteso il ricorso alla C.T.U. oltre che alla verificazione per consentire al Giudice amministrativo di controllare l'esattezza dei dati tecnici adoperati dalla amministrazione, sono stati versati fiumi di inchiostro nel disquisire sulle modalità di esercizio del sindacato (debole/forte, estrinseco intrinseco), ma non si è più, per molti lustri, parlato, nella giurisprudenza, di insindacabilità della discrezionalità tecnica. Le Autorità indipendenti sono però sindacabili. Sotto altro riguardo, la questione ha punti di somiglianza con quella della sindacabilità degli atti delle Autorità Indipendenti, che solitamente riguardano interessi economici (seppur rilevantissimi) e non incidono direttamente sui diritti (“intangibili”?) della persona umana. Al riguardo, è pare illuminante riportare alcuni stralci di quanto ha osservato il prof. A. Travi – nello scritto “ Il problema generale del sindacato giurisdizionale degli atti delle Autorità indipendenti; il riparto di giurisdizione e il controllo della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato ”, in occasione del seminario di studi del 14 febbraio 2019, reperibile su www.unioneamministrativisti.it - ove viene sottolineato che “la contestazione del fatto pone al giudice un problema di prova, con la conseguenza che, se il fatto contestato è rilevante, è erronea la sentenza che accolga la ricostruzione dell’amministrazione senza dar corso un’istruttoria. Non esiste nel nostro ordinamento una presunzione di verità dell’atto amministrativo, quanto ai fatti enunciati nel provvedimento, neppure se si tratta di provvedimenti di Autorità indipendenti.” L'illustre autore ritiene che “si deve adottare un criterio rigoroso” e afferma che: “Il giudice, in presenza di contestazioni, per verificare se la soluzione accolta nell’atto [di regolazione] sia ‘corretta’ o ‘attendibile’, deve accertare innanzi tutto se essa sia oggettivamente fondata e sostenibile dal punto di vista tecnico. In ogni caso deve esservi un accertamento di ordine tecnico , se il punto è contestato nel giudizio per ragioni concernenti il profilo tecnico. Questa conclusione non discende da opinioni personali, ma è imposta dai principi di parità delle parti e di terzietà del giudice, sanciti dall’art. 111 Cost.”. Ed ancora, una chiarificazione al tema era stata data, già nel lontano 1968, dal prof. V. Ottaviano (La giurisdizione di merito nella giustizia amministrativa in La giustizia amministrativa - Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione Vicenza 1968 p. 187) che affermava che “il divieto per il giudice di ripetere il processo tecnico che ha già eseguito l'autorità, per verificare se il risultato sia esatto oppure no non ha fondamento nella nostra Costituzione: deve invece essere consentito al giudice di disporre tramite gli stessi organi dell'amministrazione, una nuova valutazione tecnica dei fatti già valutati nel provvedimento o un loro riesame alla stregua di eventuali perizie prodotte dal privato”. Crediamo che le considerazioni svolte dal prof. Travi non possano che essere condivise e che debbano evidentemente trovare applicazione a fortiori applicazione anche in tema di atti di regolazione di AIFA e ISS. Qualche osservazione finale. Parrebbe che quindi esistano per il Consiglio di Stato, spazi di insindacabilità assoluta di organi tecnici dello Stato. O forse di quelli che utilizzano la “scienza”. Rinviando a un ulteriore contributo alcune considerazioni circa l'ascrivibilità alla “scienza” di qualsiasi questione tecnica, il significato del metodo scientifico e il suo divergere dal dogmatismo, e – più in generale - sulla validità assoluta o relativa delle c.d. “Verità scientifiche”, va rilevato che forse l'affermazione perentoria intendeva essere posta al limitato fine del contrasto all'emergenza connessa all'epidemia da Covid 19 . Si tratterebbe, in tal caso, di un portato della “cultura dell'emergenza” che pare avere trovato ampi spazi nella dottrina, in primis costituzionalistica, e in ampi settori della giurisprudenza. I giuristi contemporanei, sino ad ieri occhiuti controllori (giustamente) del debordare del potere nei confronti della persona, si sono improvvisamente trasformati in accaniti sostenitori del principio di necessità , capace di travolgere qualsiasi ostacolo alla realizzazione dell'obiettivo dichiarato (la tutela della salute pubblica), fors'anche i diritti dei consociati sanciti dalla Carta fondamentale. E' tuttavia da auspicare un ritorno deciso alla tutela giurisdizionale del cittadino, come da Costituzione.
Autore: di Roberto Lombardi 01 set, 2022
La legge 17 giugno 2022, n. 71 , che attribuisce al Governo ampie deleghe per la riforma dell'ordinamento giudiziario (nell’ambito della cosiddetta riforma Cartabia ), ha previsto anche nuove regole con riferimento all' accesso alla magistratura ordinaria . Il fine dichiarato è quello di ridurre i tempi stessi di accesso alla professione di magistrato – formula generica che sta probabilmente a significare che deve passare meno tempo possibile tra il conseguimento della laurea in legge e l’inizio della carriera di giudice -, e uno dei mezzi “pensati” per raggiungere questo fine è l’eliminazione delle obbligatorie tappe intermedie che fino ad oggi occorreva percorrere prima di provare a superare il concorso . In particolare, l' art. 4, comma 1, lett. a) ha stabilito, tra i criteri di delega, che "i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni possono essere immediatamente ammessi a partecipare al concorso per magistrato ordinario ". Si tratta di una norma dal carattere precettivo/programmatorio che, con un ritorno al passato, consentirà anche ai neolaureati (tutti o soltanto quelli che hanno conseguito un determinato voto di laurea?) di cimentarsi immediatamente con le difficili prove scritte di uno dei più ambiti concorsi pubblici. Si direbbe, in un Paese normale, che è l’approdo definitivo di un Legislatore consapevole e maturo, che ha ormai sperimentato la fallibilità di tutte le altre opzioni. Non è così, purtroppo. Dalla documentazione reperibile sui siti istituzionali, la discussione sul punto, dopo la presentazione del disegno di legge da parte del Ministro Bonafede, è stata praticamente nulla. Facilmente comprensibile invece la ratio di partenza, che ha segnato un’inversione a U rispetto alla riforma precedente (quella dell’ormai lontano 2006): l’età media di ingresso in magistratura ordinaria è diventata troppo alta, e ha conseguentemente creato importanti ricadute organizzative in termini di difficoltà di copertura degli uffici giudiziari, oltre che una potenziale discriminazione nei confronti dei candidati meno abbienti. D’altra parte, la storia del concorso si intreccia con la storia della magistratura stessa. Ai tempi del primo vero maxi-processo alla mafia (quello in cui venne largamente contestato il nuovo reato di cui all'art. 416-bis c.p.), quando già il ruolo del giudice aveva assunto in Italia tutt'altro rilievo sia socialmente che a livello di gratificazione economica rispetto ai decenni precedenti, vigeva ancora il codice di procedura penale del 1930, di chiaro stampo inquisitorio. Falcone e gli altri magistrati del pool anti-mafia misero a frutto contro la criminalità organizzata le formidabili potenzialità investigative di quel codice, acquisendo in istruttoria prove che poi divenivano quasi irrefutabili nel processo. Prontamente, il codice fu cambiato. Si passò ad un procedimento penale dal taglio accusatorio, con alcuni residui inquisitori. Una specie di processo all'americana annacquato, dove mancavano la preventiva selezione delle notizie di reato da perseguire e l'immediatezza del dibattimento, con una prova che si formava solo in parte davanti al giudice. Ma il danno, se così vogliamo chiamarlo, era già stato fatto. Orde di studenti universitari idealisti sposarono la causa della giustizia con la G maiuscola, sperando di ripetere le imprese dei grandi magistrati anti-mafia degli anni ’80, e ancor di più il fenomeno acquistò rilevanza con l'avvento di “mani pulite”, nei primi anni ‘90. Il concorso divenne un punto di riferimento ai massimi livelli per giovani e brillanti laureati in giurisprudenza, in un mix di idealità e di volontà di potere (il potere giudiziario ) esaltato e quasi sacralizzato dalle tragiche morti di Falcone e Borsellino, le quali furono considerate rappresentative, accanto alla strenua lotta della Procura di Milano contro la politica corrotta, del prezzo da pagare per ripulire un Paese oggettivamente alla deriva morale. Fioccarono i bandi di concorso e la magistratura raggiunse il suo massimo credito nei confronti dell'opinione pubblica, proprio mentre una parte rilevante della classe politica - vecchia e nuova -, riprendendo gli strali del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga contro i “giudici ragazzini”, dava avvio alla sua battaglia strisciante contro il presunto strapotere dei P.M. (raggiunto peraltro proprio con l’uso di quel codice che era stato introdotto con intenti garantistici). Erano quelle, in realtà, due questioni tra di loro differenti (l’inadeguatezza del giovane magistrato ad affrontare grandi processi e lo squilibrio tra accusa e difesa), sia cronologicamente che strutturalmente, ma si saldarono insieme, con il tempo, nella duplice direzione del depotenziamento del potere dei singoli pubblici ministeri e dell'allungamento dei tempi di accesso alla magistratura. Nel frattempo, cercando di risolvere il problema - già rilevante per il legislatore dell'epoca – dell’eccessiva affluenza e partecipazione di candidati alle singole selezioni di concorso, il Legislatore cercò di tagliare il numero dei concorrenti agli scritti introducendo le famigerate prove preselettive . Dapprima, dopo il 1997, fu introdotta una preselettiva formata soltanto da 5.000 quiz, tutti di diritto civile (con prove scritte tenutesi soltanto nel gennaio del 2000). Ne venne fuori un mezzo disastro. Per gli affamati laureati che si affacciavano al concorso fu un gioco da ragazzi mandare a memoria tutti i quiz e totalizzare con disinvoltura zero errori. I Tribunali amministrativi regionali ebbero così gioco facile nel dire che una preselettiva siffatta non era inspirata a un criterio razionale di valutazione della preparazione del candidato, e ammisero con riserva agli scritti anche chi aveva fatto uno o più errori, così di fatto vanificando lo scopo della preselettiva. Fu allora la volta dei 15.000 quiz - civile, penale e amministrativo -, anch'essi soltanto mnemonici ma almeno rappresentativi di tutte e tre le materie degli scritti. Durò poco anche questo esperimento. Con la riforma Castelli (dal nome dell'ingegnere designato all'epoca come Ministro della giustizia), così come affinata e attuata con ulteriori decreti legislativi dal successore Mastella, arrivarono nuove regole per l'accesso alla magistratura. Requisito per potere sostenere le prove concorsuali, in base all' art. 2 del d.lgs. n. 160 del 2006 , non era più la sola laurea in giurisprudenza a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, ma anche, in aggiunta, il conseguimento di diploma presso le scuole di specializzazioni nelle professioni legali, oppure di dottorato di ricerca in materie giuridiche, o di abilitazione all'esercizio della professione forense, o ancora lo svolgimento di funzioni direttive nelle pubbliche amministrazioni per almeno tre anni o di funzioni di magistrato onorario per almeno quattro anni, ovvero il conseguimento del diploma di specializzazione in una disciplina giuridica, al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni, presso le scuole di specializzazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162. La norma originaria, tanto per cambiare, era scritta male e conteneva parecchie falle, che fu necessario tamponare subito. La mini-riforma del 2007 previde allora di includere, tra le altre, anche le categorie dei magistrati amministrativi e contabili, dei procuratori dello Stato e dei docenti universitari in materie giuridiche. Ma il sacro furore che contraddistingueva in quel periodo il Legislatore – convinto evidentemente che la strada del concorso di secondo grado avrebbe migliorato il sistema giustizia e forse anche allentato la “pressione” della magistratura sulla politica -, gli accecò talmente la vista da ricomprendere tra le categorie anche gli avvocati iscritti all'albo, e non solo i laureati abilitati all’esercizio della professione forense. Una differenza non da poco (all’epoca, chi studiava seriamente per il concorso in magistratura ordinaria difficilmente esercitava la professione forense, ma si limitava a conseguire sulla carta il titolo di avvocato, anche in relazione ai rilevanti costi derivanti dall’iscrizione all’albo), che è stata cancellata soltanto qualche anno dopo e soltanto a mezzo di una pronuncia della Corte costituzionale, che approfittò peraltro di una distrazione nella redazione della norma, la quale aveva irragionevolmente previsto lo sbarramento dell’iscrizione senza ancorarlo anche ad un periodo minimo di esercizio della professione stessa [1] . Successivamente, il d.l. 21 giugno 2013, n. 69 , convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, e poi modificato ancora nel 2014, ha disposto (con l' art. 73, comma 11-bis ) che anche l’esito positivo del tirocinio svolto presso Tribunali e Avvocatura dello Stato costituisce titolo per l'accesso al concorso per magistrato ordinario. E’ stato l’ultimo tassello inserito nel mosaico costituito dall’ingresso nell’ordinamento di una lunga serie di requisiti supplementari, alternativi tra loro, per potere accedere al concorso in magistratura ordinaria. Questa sorta di concorso di secondo grado (in quanto non accessibile ai semplici laureati), introdotto per ridurre il numero dei partecipanti - il cui esponenziale aumento aveva messo definitivamente in crisi una macchina concorsuale già provata -, oltre che al fine di inaugurare anche in Italia una formazione comune e di auspicata alta qualità per i laureati in giurisprudenza intenzionati a divenire avvocati, notai o magistrati, ha fallito tutti i suoi obiettivi. Il progetto iniziale prevedeva una severa restrizione dell’accesso al concorso, da riservarsi tendenzialmente ai soli diplomati delle scuole di specializzazione, ma la successiva, graduale apertura alle numerose categorie prima elencate, ha ridato fiato a una partecipazione di massa, con l’unico risultato di rilievo di un ingiustificato prolungamento, anche di anni, dei tempi necessari ai neolaureati per potere partecipare al concorso, senza alcuna garanzia di retribuzione, o anche solo di rimborso delle spese affrontate, e con scarse prospettive che tale periodo supplementare di disoccupazione o di precariato venga quanto meno parzialmente compensato da un’offerta formativa di riconosciuto valore. D’altra parte, le scuole di specializzazione per le professioni legali non si sono neanche avvicinate a divenire concorrenti credibili delle scuole notarili e dei corsi privati per la preparazione al concorso in magistratura, tanto che, nel momento in cui si tornerà all’accesso diretto al concorso dei laureati in giurisprudenza, sarà difficile giustificarne l’ulteriore esistenza. Gli unici traguardi che possono dirsi raggiunti dal Legislatore negli ultimi venticinque anni sono stati dunque quelli di precludere la partecipazione al concorso ai neolaureati in situazione di difficoltà economica e di alzare e di molto l'età di accesso alla magistratura ordinaria, con tutte le ripercussioni negative già viste, mentre le singole selezioni concorsuali hanno continuato ad essere oltremodo affollate e lente. Al riguardo, i dati sono impietosi, se solo si pensa che i candidati dell'ultimo concorso che hanno consegnato gli elaborati sono stati 3606, e quelli del concorso precedente 3797. Ancora una volta, però, il Legislatore non riesce a fare due cose in una volta sola. Il concorso viene lasciato così com’è, salvo una risibile diminuzione delle materie oggetto di prova orale, e la platea degli aspiranti magistrati viene di nuovo ampliata a dismisura per evitare gli effetti distorsivi del concorso di secondo grado. D’altra parte, secondo le sensibilità più vicine a chi ha cuore una figura di magistrato veramente indipendente e un po'più "a margine" dalla politica e delle dinamiche sociali più vischiose, la riduzione dell'età di accesso potrebbe tornare sinonimo di maggiore idealità e dedizione alla causa della giustizia. Un giudice meno disincantato, si direbbe. Di certo un giudice più "ragazzino", con buona pace delle tesi del Presidente Cossiga e dei suoi seguaci. Nel frattempo, il vicepresidente del CSM Ermini ha pubblicamente denunciato che la giustizia ordinaria è "a corto di giudici" [2] , e che lo sarà fino al 2024, in quanto il concorso del 2020, gravemente deficitario nei suoi requisiti strutturali di selezione [3] , ha visto un forte ridimensionamento dei posti da assegnare, dopo l'esito degli scritti, e il concorso del 2021 da 500 posti è entrato da poco nella fase delle correzioni. Ancora una volta, la politica non ha saputo trovare il bandolo della matassa , e nessun progresso è derivato, su questo fronte, dall'avere nominato una ministra "tecnica" in teoria altamente qualificata, in quanto ex Presidente della Corte costituzionale. L'attuale e futura scopertura di organico non solo non consentirà il raggiungimento degli obiettivi del PNRR in tema di giustizia "veloce", ma sta probabilmente preannunciando, a detta dello stesso Ermini, "un'emergenza grave" del settore. Con le inevitabili conseguenze in termini di blocco dei processi - già divenuta realtà in Tribunali complessi come quello di Roma -, e nefaste future ripercussioni sul sistema della giustizia penale nel suo insieme, in connessione con l’introduzione della più che discutibile norma sulla "improcedibilità" dell’azione penale dopo il primo grado di giudizio. La soluzione? Per un beffardo scherzo del destino qualcuno comincia a proporre di far saltare o comunque di ridurre la durata del tirocinio dei prossimi vincitori di concorso. E alla fine tutto torna al punto di partenza: per governare la nave e non affondare serviranno più giudici ragazzini , magari anche privi di ogni minima cultura della giurisdizione, la quale soltanto si apprende (o comunque si apprendeva, un tempo) dopo un adeguato periodo di formazione accanto ad una pluralità di giudici più esperti. Oppure soltanto servirebbe - ma nel nostro Paese questo sembra un film di fantascienza - un Legislatore più accorto, più preparato, più vicino alla realtà degli uffici giudiziari, e meno esposto all'insostenibile leggerezza delle iniziative di chi non ha alcun reale interesse a far funzionare la giustizia. [1] Corte Costituzionale, sentenza 06 - 15 ottobre 2010 n. 296 (in G.U. 1a s.s. 20/10/2010 n. 42) [2] I dati ufficiali dicono che allo stato vi è una scopertura nei Tribunali di circa il 15% dei magistrati ordinari previsti in organico [3] Con una scelta poco lungimirante, non solo le prove scritte da svolgere sono state ridotte da tre a due, ma è stato altresì stabilito che gli elaborati avrebbero dovuto essere presentati nel termine di quattro ore dalla dettatura. La conseguenza è stata un inevitabile scadimento della qualità degli elaborati consegnati, che ha a sua volta comportato una forte riduzione rispetto al preventivato (solo 220 su 310 posti messi a concorso) dei candidati ammessi alla prova orale.
Autore: a cura di Luca Nania, Magistrato militare e docente della Scuola Superiore della Magistratura 13 ago, 2022
La pronuncia La sentenza non definitiva del Consiglio di Stato n. 6013/2022 si inserisce nel filone, ormai corposo, dei provvedimenti del supremo organo di giustizia amministrativa italiana con i quali la Corte di Giustizia UE è stata sollecitata a delineare, con maggiore chiarezza, i presupposti al ricorrere dei quali non sussiste l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte da parte dei giudici nazionali di ultima istanza. L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte, per come previsto dal TFUE Come noto, l’art. 267 TFUE (già art. 234 della versione consolidata del Trattato CE, a sua volta corrispondente all’art. 177 della originale versione del Trattato di Roma) dispone che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei trattati e sulla validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, organi od organismi dall’UE (art. 267, par. 1, TFUE) , ivi compresi gli atti normativi (regolamenti, direttive). Ove la questione dell’interpretazione degli atti dell’Unione si ponga dinnanzi ad un giudice nazionale di ultima istanza – nei confronti delle cui decisione, cioè, non sia ammesso ulteriore ricorso giurisdizionale interno – tale giudice è tenuto a rivolgersi alla CGUE, sottoponendole, in via pregiudiziale, la questione di interpretazione (art. 267, par. 3, TFUE). La posizione della Commissione Jenkins Già dal 1978, la Commissione europea - nel rispondere all’interrogazione di un parlamentare europeo (Krieg) che lamentava il mancato deferimento alla Corte di Giustizia, da parte della Corte di cassazione francese, di una questione di interpretazione del trattato CEE relativa alle importazioni fra Stati membri, nonostante il diritto nazionale applicato nella fattispecie avesse l’effetto di introdurre una misura di contingentamento della produzione analoga a quelle condannate dalla Corte di giustizia nelle sue sentenze Van Haaster (causa 190/73) (a) e Van den Hazel (causa 111/76) – affermò che l’articolo 177 del trattato CEE non obbligava i tribunali nazionali a differire il giudizio ed a rimettere sistematicamente alla Corte di giustizia tutte le questioni di interpretazione del diritto comunitario loro sottoposte. Tali tribunali avrebbero dovuto passare oltre e statuire direttamente allorché le questioni fossero state perfettamente chiare e la risposta da dare a loro fosse stata evidente ad ogni giurista con un minimo di competenza. La sentenza CILFIT La questione dei limiti all’obbligo del rinvio pregiudiziale non tardò molto ad arrivare alla Corte di Giustizia, che cercò di risolverla con la celeberrima sentenza CILFIT (CGUE, 6 ottobre 1983, C-283/81) . La nostra Corte di Cassazione, con ordinanza del 27 maggio 1981, aveva rimesso alla CGUE la seguente questione: “ Se il terzo comma dell’art. 177 del Trattato, statuendo che quando una questione del genere di quelle elencate nel primo comma dello stesso articolo è sollevata in un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia, sancisca un obbligo di rimessione che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativ o”. La vicenda che aveva portato a tale questione pregiudiziale riguardava il contrasto tra alcune società laniere (tra cui la CILFIT s.r.l.) ed il Ministero della sanità circa il diritto fisso per visita sanitaria (all’epoca pari a Lit. 700 per ogni quintale di lana importata) ai sensi della legge n. 30 del 1968, che, secondo le società, sarebbe stata inapplicabile in seguito all’emanazione del regolamento del Consiglio 28 giugno 1968, n. 827, riguardante l’organizzazione comune dei mercati per taluni prodotti elencati nell’allegato II del Trattato. Il Ministero della Sanità, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, aveva sostenuto al contrario che le lane, non essendo comprese nell’allegato II del Trattato CEE, non avrebbero potuto essere soggette ad alcuna organizzazione comune di mercato e, quindi, non avrebbero potuto essere interessate nel regolamento di cui trattasi. Il Ministero aveva insistito, pertanto, “perché la decisione della questione così proposta sia adottata da parte della suprema Corte, sostenendo che le circostanze di fatto sono di un’evidenza tale da escludere la possibilità stessa di ipotizzare un dubbio di interpretazione e quindi tali da escludere l’esigenza di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia”. Le parti intervenute nel procedimento C-283/81 sostennero alcuni principi – in parte ripresi dalla Corte di Giustizia – che appare opportuno ricordare. Il Governo italiano, per il tramite dei suoi agenti, sostenne che, nonostante la diversa formulazione letterale rispetto al par. 2, il par. 3 dell’art. 177 (oggi art. 267 per. 3 TFUE) non avesse “portata precettiva diversa e che, quindi, tale norma non abbia inteso sottrarre al giudice nazionale di ultima istanza il potere di valutare la necessità o meno di una pronunzia pregiudiziale”, proponendo di risolvere la questione pregiudiziale nel senso che “il Trattato obbliga le giurisdizioni nazionali di ultima istanza a richiedere una pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia nei casi in cui, ad esito di conveniente delibazione, riconoscano non manifestamente infondata la questione di interpretazione innanzi ad esse sollevata”, in definitiva richiamando lo stesso criterio che deve guidare i giudici italiani nel momento in cui sollevano la questione di costituzionalità di una legge nazionale dinnanzi alla Consulta. Governo danese e Commissione europea fecero invece riferimento, rispettivamente, ad un “dubbio interpretativo reale” ed alla presenza o meno di un “ragionevole dubbio interpretativo” quale presupposto per l’attivazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Interessante ricordare il passaggio in cui la Commissione, ritenendo indispensabili dei limiti all’obbligo di rinvio, invocò la necessità di garantire “la buona amministrazione della giustizia”, impossibile da realizzare se la Corte fosse stata sommersa da questioni pregiudiziali sollevate a prescindere da un preventivo esame della loro rilevanza e fondatezza da parte dei giudici nazionali. I CILFIT criteria La Corte di Giustizia, sulla questione sottopostale dalla Corte di Cassazione, ricordò, preliminarmente, lo scopo dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, ovvero garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto comunitario, nell’insieme degli Stati membri, evitando divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità (CGUE, C-283/81, punto 9). Al fine di attivare tale obbligo, evidenziò ancora la Corte, “non è sufficiente che una delle parti in causa sostenga che la controversia pone una questione di interpretazione del diritto comunitario”, disponendo i giudici nazionali, anche di ultima istanza, del potere di valutare se fosse necessario interpretare il diritto comunitario per decidere la controversia (punti 10-11) La Corte affermò altresì, richiamando la sentenza Da Costa (CGUE, 27 marzo 1963, C-28/1962), che nessun obbligo di rinvio avrebbe potuto ritenersi sussistente qualora la questione sollevata fosse stata materialmente identica ad altra questione già chiarita in via pregiudiziale dalla Corte (punti 13 e 14), ferma restando, in tal caso, la facoltà del giudice nazionale di adire comunque il supremo organo di giustizia comunitario (punto 15). Infine, la Corte dichiarò che “ la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia ” (punto 16). Volendo riassumere le conclusioni della Corte di Giustizia, può affermarsi che l’obbligo di rimessione della questione di interpretazione del diritto comunitario da parte del giudice nazionale di ultima istanza non sussisterebbe: a) quando la questione non sia rilevante, ovvero quando la decisione della controversia sottoposta al giudice nazionale non dipende dall’interpretazione di una norma comunitaria; b) quando il punto di diritto controverso sia già stato deciso dalla Corte di Giustizia, ferma restando comunque la facoltà, per il giudice nazionale, di promuovere al riguardo nuova questione pregiudiziale (c.d. acte éclairé , ovvero - con libera traduzione dal francese - “norma (già) chiarita”, essendoci al riguardo un precedente della Corte); c) quanto la soluzione alla questione giuridica si imponga con tale evidenza da non lasciare spazio a dubbi (c.d. acte clair , ovvero la norma “chiara” di suo). Inutile evidenziare che l’ipotesi dell’ acte clair risultò alla Corte di Giustizia (e non solo alla Corte, vista la dottrina, spesso e volentieri vivacemente critica, maturata al riguardo [1] ) quella più problematica, avvertendosi il rischio concreto di trasformare tale criterio in una mera tautologia. La Corte di Giustizia, pertanto, suggerì immediatamente alcuni sub-criteri, da valutarsi da parte del giudice nazionale per dare concretezza alla teoria dell’ acte clair : a) la maturazione del convincimento, da parte del giudice nazionale, che la soluzione interpretativa della norma comunitaria apparirebbe con la stessa evidenza anche agli altri giudici degli Stati membri ed alla Corte di Giustizia (punto 16, criterio che potremmo definire dell’evidenza soggettiva comune); b) le caratteristiche proprie del diritto comunitario (punto 17, criterio strutturale del diritto comunitario); c) il raffronto tra le varie versioni linguistiche della norma, tutte fidefacenti secondo il diritto comunitario (punto 18, criterio testual-linguistico); d) la terminologia e le nozioni giuridiche proprie del diritto comunitario, non sempre coincidenti con quelle di diritti nazionali (punto 19, criterio della terminologia comunitaria); e) il collocamento di ogni norma comunitaria nel proprio contesto e le sue finalità, nonché il suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi (punto 20, criterio dell’interpretazione teleologicamente orientata). Orbene, se i criteri del raffronto tra le diverse versioni linguistiche dell’atto normativo, della sua interpretazione teleologica, della necessaria valutazione della terminologia propria del diritto comunitario non pongono particolari problemi, costituendo in definita gli ordinari strumenti della scienza ermeneutica [2] , risulta assai vago il richiamo alla evidenza di una certa interpretazione che si imporrebbe come tale non solo alla Corte di Giustizia, ma a tutti i giudici nazionali degli Stati membri. La successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia (tra le più recenti, CGUE, 15 settembre 2005, C-495/03, Intermodal Transport; 18 luglio 2013, C-136/12, Consiglio Nazionale dei Geologi; 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira da Silva e Brito; 28 luglio 2016, C-379/15, Association Nature France Environnement; 15 marzo 2017, C-3/16, Aquino; 4 ottobre 2018, C-416/17, Commissione/Repubblica Francese) ha sostanzialmente ribadito i c.d. criteri CILFIT , limitandosi a qualche puntualizzazione non decisiva, come, ad esempio, la necessità che l’insussistenza di un ragionevole dubbio sull’interpretazione della norma comunitaria (ovvero dell’evidenza che una certa interpretazione della norma si imporrebbe anche ai giudici nazionali ed a quelli della Corte di Giustizia) sia sorretta da “prova circostanziata” (cfr. C-379/15, punto 52). Le preoccupazioni del Consiglio di Stato Dinnanzi a tale incertezza, il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario (sez. IV, sent. n. 6290/2021; sez. IV, sent. n. 490/2022; sez. IV, sent. n. 4741/2022, oltre a sez. IV, sent. n. 6013/2022 qui riportata) sollevare questione pregiudiziale dinnanzi alla Corte di Giustizia, invitandola a chiarire meglio i criteri CILFIT. Ciò, anche in considerazione del fatto che, ove un giudice nazionale di ultima istanza non dovesse rinviare pregiudizialmente una questione di interpretazione di norma unionale, sull’asserita convinzione dell’evidenza di una sua certa interpretazione poi sconfessata dalla Corte di Giustizia, potrebbe darsi luogo a responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto dell’UE e, tenuto conto della novella della Legge n. 117/88, anche a responsabilità civile e disciplinare del magistrato italiano. Significativa, riguardo a tale ultima preoccupazione, appare essere la sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2018, nella causa C-416/17 , ove essa, su ricorso della Commissione, ha ritenuto la Francia responsabile della violazione dell’art. 267 par. 3 TFUE in quanto il suo Conseil d’Etat aveva omesso il rinvio pregiudiziale per l’interpretazione degli artt. 49 e 63 TFUE. In particolare, il Conseil d’Etat aveva già investito la Corte di Giustizia della questione di interpretazione delle suddette disposizioni, omettendo però di effettuare nuovo rinvio pregiudiziale su un altro particolare aspetto della normativa, poi interpretata dal giudice francese in termini da esso ritenuti univoci e pertanto non necessitanti di un nuovo rinvio pregiudiziale. La Corte di Giustizia, per parte sua, ha ritenuto non univoca detta interpretazione sull’assunto per cui, avendo essa scelto (ex post) una interpretazione diversa da quella del consesso di giustizia amministrativa francese, l’esistenza di un ragionevole dubbio sull’interpretazione della norma unionale non poteva che essere di per sé evidente. Il Consiglio di Stato italiano ha quindi chiesto una nuova pronuncia alla Corte di Giustizia, rilevando che: a) i criteri CILFIT , così come delineati, appaiono di difficile accertamento, specialmente nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto unionale rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte ; b) l’eventuale loro erronea applicazione sarebbe foriera di responsabilità civile e disciplinare per il giudice supremo nazionale italiano, in base alla norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, della Legge n. 117 del 1988 [3] , con la conseguenza che il giudice nazionale, per evitare di incorrere in responsabilità, sarebbe costretto a disporre rinvio pregiudiziale “pur che sia, allungando di molto i tempi della controversia”; c) in particolare, la prova circostanziata dell’evidenza dell’interpretazione del diritto comunitario si risolverebbe in una vera e propria probatio diabolica . Il sistema delineato dai CILFIT criteria , secondo il Consiglio di Stato, condurrebbe dunque ad una evidente incongruità: pur in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale, quest’ultimo potrebbe essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) dell’interpretazione, con una evidente lesione del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law . Il Consiglio di Stato ha dunque proposto alla Corte di Giustizia di interpretare il criterio della “evidenza che si impone anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte” non già quale indagine soggettiva, bensì quale esame oggettivo circa l’esistenza o meno di plurime e/o alternative interpretazioni della norma unionale. Tale esame dovrebbe essere condotto (esclusivamente) sulla base della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la disposizione europea, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale. È stato chiesto alla Corte di Giustizia anche se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare. L’insoddisfacente risposta della Corte di Giustizia Con la sentenza del 6 ottobre 2021, nella causa C-561/19 [4] , Consorzio Italiano Managment e Catania Multiservizi, la Corte di Giustizia è nuovamente tornata sui presupposti dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Peraltro, la Corte ha ritenuto, con tale sentenza, di aver risposto anche alle richieste del Consiglio di Stato italiano, sopra ricordate, tant’è che, come da prassi, la sua cancelleria (nota del 13 dicembre 2021) ha chiesto al Consiglio di Stato se intendesse rinunciare alle questioni pregiudiziali sollevate riguardo all’art. 267 TFUE: la risposta del supremo consesso di giustizia amministrativa italiano è stata negativa (sez. IV, ord. n. 2545/2022). E tale risposta negativa, a parere di scrive, non può certo biasimarsi. La Corte, nella sentenza in parola (punti 29-46), ha ribadito quanto già affermato in passato – in particolare circa la “corretta interpretazione del diritto dell’Unione che si impone con tale evidenza da non lasciar adito a dubbi” - così lasciando immutata l’insoddisfazione dell’operatore del diritto per i CILFIT criteria. In particolare, la Corte di Giustizia, oltre a ribadire i criteri CILFIT : a) ha affermato che “la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, (…) non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione”; tale affermazione, all’evidenza, si risolve in una tautologia, non venendo in alcun modo chiarito in cosa debba consistere il “dubbio ragionevole” (punto 48); b) ha dichiarato che, “quando l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti – in seno agli organi giurisdizionali di un medesimo Stato membro o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi – relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale è portata a conoscenza del giudice nazionale di ultima istanza, esso deve prestare particolare attenzione nella sua valutazione riguardo a un’eventuale assenza di ragionevole dubbio quanto all’interpretazione corretta della disposizione dell’Unione di cui trattasi” che, nuovamente, appare a chi scrive un ragionamento meramente “circolare”, in quando non chiarisce come dovrebbe concretamente estrinsecarsi tale “particolare attenzione” (punto 49); c) ha ricordato (cfr. CGUE 14 dicembre 1995, C-430-431/93, van Schijndel e Van Veen; 15 marzo 2017, C-3/16, Aquino) che un organo giurisdizionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di pregiudizialità allorquando tale questione non sia proponibile nel giudizio a quo a causa delle preclusioni processuali previste dal diritto nazionale, fatti comunque salvi i principi di equivalenza [5] e di effettività [6] (punto 61) [7] . Maggiormente sensibile alle istanze di revisione dei CILFIT criteria è stato l’Avvocato Generale Michal Bobek, che nelle sue conclusioni [8] alla causa C-561/19 ha osservato: a) la necessità di chiarire, con precisione, quali siano, attualmente, la natura e la portata dell’obbligo di cui all’art. 267 par. 3 TFUE; b) la necessità di superare il concetto di “acte clair”, vale a dire la mancanza di ogni ragionevole dubbio riguardo alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nel caso di specie, per limitare l’obbligo di sottoposizione di questione pregiudiziale solo alle divergenze oggettive nella giurisprudenza a livello nazionale, che minacciano l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea; c) l’opportunità, conseguentemente, che l’obbligo di rinvio pregiudiziale sia subordinato al ricorrere, cumulativo, di tre condizioni : 1. la causa solleva una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (e non già di applicazione del diritto unionale, ove l’attività di applicazione consisterebbe nella sussunzione del caso di specie nelle norme così come interpretate); 2. il diritto dell’Unione può essere ragionevolmente interpretato in più modi possibili; 3. l’interpretazione del diritto dell’Unione non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte né da una singola sentenza della Corte, formulata in modo sufficientemente chiaro; Secondo l’avvocato generale, invero, l’uniformità cui deve tendersi ex art. 267 TFUE non è, e non è mai stata, riferita al risultato di ciascun caso specifico, bensì alle norme giuridiche da applicare: ciò significa che, in linea di principio, accanto a un ragionevole grado di uniformità delle norme giuridiche (interpretazione), può esistere una diversità di risultati specifici (applicazione). La limitazione del rinvio pregiudiziale, in accordo con l’avvocato generale, sarebbe anche funzionale alla salvaguardia del buon andamento della giustizia, tenuto conto dell’aumento vertiginoso del numero di domande di pronuncia pregiudiziale e delle limitate risorse giudiziarie della Corte. Seppur non scevre da punti critici – in particolare il richiamo alla distinzione tra interpretazione ed applicazione, assai sdrucciolevole per stessa ammissione del Bobek, nonché potenzialmente foriera di concreti trattamenti giurisdizionali diversi tra Stati membri, senza tralasciare la “ragionevolezza” delle molteplici interpretazioni delle norme unionali, che nuovamente rischia di cadere nella tautologia – le conclusioni dell’avvocato generale appaiono comunque apprezzabili nella parte in cui invocano e cercano di individuare criteri oggettivi cui subordinare l’obbligo di rinvio pregiudiziale. Conclusivamente, non resta che aspettare una nuova pronuncia della Corte di Giustizia, da ultimo sollecitata dalla sentenza del Consiglio di Stato qui riportata, nella certezza dell’insostenibilità del criterio del “ragionevole dubbio”, soggettivamente orientato, che continua ad essere proposto dalla Corte nonostante sia, in concreto, inapplicabile. [1] TIZZANO in Foro it. 1983, vol. 106, n. 3, p. 63 ss.; LAGRANGE, in RTDEur 1983, p. 159 ss.; CATALANO, La pericolosa teoria dell’”atto chiaro”, in Giustizia civile, I, 1983, p. 12 ss.; LENAERTS, La modulation de l’obligation de renvoi préjudiciel, in Cahiers de droit européen, 1983, p. 471 ss.; BEBR, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Comm. Market Law Rev., 1983, p. 439 ss. [2] Solo il criterio del raffronto testuale potrebbe porre diversi problemi pratici, tenuto conto che dall’epoca della sentenza Cilfit, quando le lingue ufficiali della Comunità erano appena sette, la babele linguistica europea è cresciuta sino alle attuali ventiquattro. [3] Art. 2, comma 3-bis, della Legge n. 117 del 1988: “Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”. [4] Per un approfondita disamina della sentenza in parola, si veda LIPARI, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, C-561/2019; i criteri CILFIT e le preclusioni processuali , in https://www.giustamm.it/dottrina/lobbligo-di-rinvio-pregiudiziale-alla-cgue-dopo-la-sentenza-6-ottobre-2021-c-561-2019-i-criteri-cilfit-e-le-preclusioni-processuali/. [5] Per principio di equivalenza richiede la disciplina processuale nazionale si applichi, in egual modo, ai ricorsi per violazione del diritto nazionale ed ai ricorsi per violazione del diritto dell’Unione. [6] Il principio di effettività richiede che la disciplina processuale nazionale non sia tale da rendere, nella pratica, impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale. [7] È interessante osservare che mentre nella sentenza in oggetto la Corte ha ritenuto ben possibile, per il giudice di ultima istanza, omettere di sollevare questione pregiudiziale se le preclusioni processuali nazionali non consentono più alle parti nuove eccezioni al riguardo – e conseguentemente escludendo, seppur implicitamente, qualsiasi responsabilità dello Stato membro per violazione dell’art. 267 TFUE – la stessa Corte, con la recente sentenza del 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 e C-831/19, ha ritenuto superabile - con sconcertante nonchalance - il giudicato formatosi su un decreto ingiuntivo, ritualmente notificato e non opposto, ove esso sia stato emesso sulla base di un contratto contenente clausole abusive. E ciò nonostante – all’evidenza – il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo fosse in definitiva dipeso non già da violazioni del principio di equivalenza ed effettività, bensì dal colpevole comportamento processuale del debitore, che aveva omesso di coltivare le impugnazioni avverso il decreto ingiuntivo puntualmente offerte dal processo civile italiano. Per una attenta disamina della sentenza nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19, si veda TALLARO, L’erosione dell’autorità del giudicato, in https://www.primogrado.com/lerosione-dellautorita-del-giudicato. [8] Per una penetrante critica di tali conclusioni, si veda DE PASQUALE, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in http://www.dirittounioneeuropea.eu/Tool/Evidenza/Single/view_html?id_evidenza=1197.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 05 ago, 2022
TAR per il Lazio, sentenza n. 4232 dell’11 aprile 2022 IL CASO Un ormai ex Consigliere di Stato chiede l’annullamento del provvedimento con cui è stato destituito dalla magistratura. Con tale destituzione è stata sanzionata la condotta tenuta dal giudice nell’ambito dell’ incarico extraistituzionale svolto come docente per la preparazione, tra gli altri, del concorso in magistratura. In particolare, il Consigliere di Stato svolgeva, parallelamente all’attività di magistrato – e dietro regolare autorizzazione – le funzioni di direttore scientifico e docente dei corsi postuniversitari organizzati da una società privata, e rivestiva il ruolo di curatore e/o direttore scientifico della rivista giuridica telematica avente analoga denominazione della società. Nel corso di tali incarichi, però, il docente-magistrato, secondo l’impostazione accusatoria consolidatasi in sede disciplinare, aveva elaborato, condiviso o comunque preteso l'applicazione di clausole contrattuali, di prescrizioni regolamentari e di norme (contenute nel codice di condotta imposto ai borsisti) implicanti comportamenti e contegni, commissivi e omissivi, chiaramente lesivi dei diritti fondamentali della persona. Si sarebbe trattato di clausole e prescrizioni non aventi alcun rapporto di strumentalità rispetto all'obiettivo della formazione giuridica post-universitaria e della preparazione ai relativi concorsi, e che sarebbero risultate ancor più stigmatizzabili in quanto fatte proprie da un magistrato che, in ragione del suo ruolo, dovrebbe mostrare una particolare sensibilità giuridica e il rispetto dei valori fondamentali della persona. L’ex Consigliere di Stato aveva inoltre violato, nel contesto della condotta a lui contestata, gli artt. 18 e 20 e 27 della delibera del CPGA del 18 dicembre 2001 , contenente le norme generali per il conferimento e l'autorizzazione di incarichi non compresi nei doveri e nei compiti di ufficio dei magistrati amministrativi, nonché l’impegno contenuto nell'autodichiarazione del novembre 2015 presentata in occasione della richiesta di autorizzazione poi rilasciata dal CPGA in relazione allo svolgimento, nell'anno 2016, degli incarichi di docente e di direttore scientifico dei corsi organizzati dalla società privata che lo aveva assunto come docente. In particolare, aveva rivolto, nel periodo ottobre-novembre 2016, ai Carabinieri di un piccolo comune del piacentino, reiterati solleciti affinché intervenissero ai sensi dell'art. 1, III co., del r.d. n. 773/1931 (t.u.l.p.s.) su persona ritenuta inadempiente nei confronti della società di cui sopra, mostrando di assumere, nelle suddette circostanze, le funzioni di amministratore di fatto o comunque di rappresentante della società stessa. Nell’ambito di tale condotta, il giudice professore aveva utilizzato indebitamente la sua qualifica e il suo ruolo di magistrato, sollecitando reiteratamente l'Ufficio pubblico destinatario dei suoi interventi per scopi privati collegati alla relazione personale intercorsa tra lui e una frequentante il corso. Aveva inoltre espresso, attraverso numerosi interventi e commenti scritti, pubblicati sulla rivista giuridica telematica sopra citata, valutazioni non appropriate e non conferenti rispetto alla sede utilizzata, con grave violazione, in un caso, del riserbo, dell'onore, della reputazione e della dignità delle persone e, segnatamente, delle donne; tali valutazioni erano in ogni caso risultate lesive, secondo l’organo di autogoverno, della funzione, del prestigio e dell'immagine della magistratura. LA DECISIONE Il Tribunale adito ha respinto il ricorso dell’ex Consigliere di Stato contro il decreto di destituzione, previo esame, seppure sintetico, di tutte le questioni procedurali e di merito afferenti al procedimento disciplinare intentato nei confronti dell’interessato. In premessa, i giudici di primo grado hanno evidenziato che l’ art. 32 della legge n. 186 del 1982 – relativa all’ordinamento della giurisdizione amministrativa – stabilisce che, per quanto non diversamente disposto dalla stessa legge, si applicano ai magistrati amministrativi le norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento. Tuttavia, l’attuale disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, che adesso è contenuta nel d.lgs. n. 109/2006 , all’ art. 30 di tale decreto esplicitamente ne esclude l’applicazione nei confronti dei magistrati amministrativi, oltre che di quelli contabili. Ne consegue, secondo il TAR Lazio, e in conformità all’orientamento consolidato in materia, che il rinvio contenuto nell’art. 32 della L. n. 186 del 1982, originariamente da qualificarsi come rinvio mobile alle norme dettate per i magistrati ordinari, deve, per effetto dell’art. 30 d.lgs. n. 109 del 2006, considerarsi ora come un rinvio fisso alle norme di cui al r. d.lgs. n. 511 del 1946 . A sua volta, il regio decreto suddetto, all’ art. 18 , dispone che “ il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari, secondo le disposizioni degli articoli seguenti ”. Rispetto all’applicazione nel caso concreto di tale disposizione, il Tribunale ha espresso le seguenti, fondamentali considerazioni, tutte convergenti nel determinare il rigetto del ricorso: - le garanzie previste in materia di equo processo dall’ art. 6, par. 2 e 3 della CEDU si applicano soltanto a salvaguardia dei soggetti nei confronti dei quali è formulata un’accusa penale, mentre per i procedimenti disciplinari, ivi compresi quelli che comportano l’irrogazione delle sanzioni più gravi trattandosi di controversie che riguardano comunque diritti di carattere civile, trovano applicazione unicamente le garanzie di cui all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione, che riconoscono il diritto dell’interessato all’esame equo e pubblico della causa, in un termine ragionevole, da un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge; - le previsioni normative riguardanti le violazioni di regole deontologiche (come nel caso di specie possono considerarsi i concetti di “fiducia” e “prestigio”) “ non possono non avere portata generale perché una indicazione tassativa renderebbe legittimi comportamenti non previsti ma egualmente riprovati dalla coscienza sociale, con giustificazione intrinseca della latitudine della previsione e dell’ampio margine della valutazione affidata ad un organo, che, operando con le garanzie proprie di un procedimento giurisdizionale, è, per la sua strutturazione particolarmente qualificato per apprezzare se i comportamenti di volta in volta considerati siano o meno lesivi dei valori tutelati ”; - la sanzione espulsiva può essere irrogata ogni qual volta l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato; l’adeguatezza della sanzione della rimozione rientra nell’apprezzamento di merito dell’organo disciplinare competente, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logico-giuridici; - la Corte di Strasburgo, nel pronunciarsi sulla compatibilità con le previsioni della Carta dell’art. 18 del r. d.lgs. n. 511 del 1946, ha ritenuto che la norma presente nell’ordinamento italiano rappresenti un sufficiente aggancio normativo per l’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei magistrati italiani e ha considerato in linea di massima sussistente il requisito della “ accessibilità ”, alla luce della particolare professionalità dell’interessato, quale magistrato, e, quindi, tecnico del diritto, mentre, per ciò che concerne il requisito della “ prevedibilità ”, posto che occorre che la normativa chiarisca con sufficiente precisione le condizioni di obbligo nel caso di condotta astrattamente lecita, tale necessità non ricorrerebbe allorché le condotte contestate, come nel caso esaminato dai giudici romani, non abbiano una base lecita, riguardando il compimento di atti lesivi della dignità umana, la violazione di norme regolamentari del CPGA, l’uso indebito della qualifica e del ruolo di magistrato, e la diffusione di valutazioni che, trasmodando i limiti connaturati alla libertà di esercizio dell’attività di insegnamento e di ricerca, hanno determinato una lesione di diritti costituzionalmente garantiti quali quelli al riserbo e alla reputazione delle persone. Nel merito, il TAR ha conclusivamente evidenziato che dall’ampio quadro probatorio raccolto fosse emersa una situazione abnorme, in cui le vicende strettamente personali di alcune allieve erano state adoperate dal ricorrente con finalità pseudo-scientifiche e asseritamente formative, attraverso condotte incompatibili con il rispetto dell’obbligo, ritenuto sussistente automaticamente in capo a un magistrato, di non compromettere la propria credibilità e, con essa, il prestigio dell’istituzione giudiziaria che rappresenta. Inoltre, sempre secondo il Giudice di primo grado, che il ricorrente avesse una posizione di amministratore di fatto o di rappresentante della società in cui avrebbe dovuto svolgere un mero incarico di insegnamento e di coordinamento scientifico, l'unico formalmente autorizzato dal CPGA, è stato desunto dalla circostanza – da ritenersi provata - che l’ex Consigliere di Stato era sempre stato l’unico interlocutore della società stessa nei rapporti con tutti i corsisti e borsisti, così violando i limiti dell'autorizzazione sulla cui base poteva insegnare. SPUNTI DI RIFLESSIONE La sentenza lascia spazio ad alcune osservazioni, non tanto sulla vicenda in sé - rispetto alla quale emerge chiaramente, ed è stata provata, una condotta umana del protagonista poco ortodossa e senz'altro discutibile per un magistrato -, quanto sul percorso giuridico seguito dai Giudici per rendere conforme al contesto ordinamentale vigente in materia di sanzioni l'applicazione di una “misura” lavorativa espulsiva conseguente alla contestazione di un illecito chiaramente atipico. I concetti di lesione del prestigio e della fiducia che sono al centro della condotta messa a fuoco dall'art. 18 del r. d.lgs. n. 511 del 1946, già di per sé difficilmente inquadrabili nell'ambito dell'attività tipica del magistrato, diventano ancora più sfuggenti quando ad essere coinvolto è il giudizio sul comportamento del giudice fuori dal contesto lavorativo. Con riferimento alla magistratura ordinaria , il d.lgs. n. 109 del 2006 (lett. a) e d) dell'art. 3) contempla i due seguenti illeciti disciplinari tipici, in un qualche modo assimilabili a una parte rilevante della condotta tenuta dal Consigliere di Stato destituito: - l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri; - lo svolgimento di attività tali da recare concreto pregiudizio all'assolvimento dei doveri disciplinati dall'articolo 1 dello stesso decreto (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, oltre che rispetto della dignità della persona nell'esercizio delle funzioni). Si tratta di condotte che, nella loro essenza paradigmatica – come tale riproducibile quale clausola generale di comportamento da tenersi fuori dall’ufficio, anche ai sensi dell’art. 18 sopra citato -, richiamano la necessità per il magistrato di mantenere nella vita di tutti i giorni, anche fuori dal contesto lavorativo, una maggiore prudenza rispetto al consociato “medio”, sia nell’ostentare e utilizzare abusivamente la propria qualifica che nel manifestare apertamente le proprie propensioni caratteriali "peggiori". Se però il concetto di “abuso” della qualifica è facilmente decifrabile, sulla base delle nozioni sparse qua e là nell’ordinamento giuridico (e spesso e volentieri assurge a condotta penalisticamente rilevante), il tema diventa molto più delicato e spinoso quando si va a giudicare la connessione tra attività extralavorative e pregiudizio concreto alla credibilità della funzione giudiziaria rivestita. Il problema nasce dalla prevedibilità ex ante della sanzione applicata, rispetto alla condotta tenuta e poi accertata. L'ex Consigliere di Stato ha contestato con il suo ricorso una sorta di incursione dell'organo di autogoverno nella sua vita privata e nella sua libertà costituzionalmente tutelata di espressione e di insegnamento, al di fuori di qualsiasi norma che imponga canoni predeterminati di condotta fuori dall’ufficio per il magistrato. Orbene, quale nesso di prevedibilità hanno la “persecuzione” di natura amorosa e il “processino” in pubblico delle debolezze altrui con la destituzione dalla funzione di magistrato, laddove non sfocino in veri e propri reati? Su questo, è opportuno fare chiarezza. La fonte primaria del discredito per la magistratura nel caso di specie sembra stare non tanto nella condotta umana più o meno scriteriata (condotta che è diventata di pubblico dominio a causa dell'incredibile furia mediatica ingeneratasi), quanto nel fatto che a un soggetto così “disinvolto” è stato concesso il potere di insegnare e di costruirsi una vera e propria “scuola di magistratura” a sua immagine e somiglianza, accanto e in parallelo rispetto al dovere istituzionale di "giudicare". Se per ipotesi l’ex Consigliere di Stato fosse stato soltanto un docente privato, non avrebbero avuto alcun rilievo sulla sua carriera lavorativa le sue intemperanze e indebite ingerenze nella vita privata altrui, se non in conseguenza di accertamenti di natura penale sulle singole condotte tenute sfruttando abusivamente la propria posizione di supremazia . Ma siccome l’ex Consigliere di Stato faceva di lavoro il magistrato, ecco che il contestuale lavoro di insegnante – che nel tempo aveva assunto grande rilevanza e notorietà nell’ambito della preparazione ai concorsi pubblici di alto livello – è andato ad incidere, nei suoi riflessi di negatività, sulla carriera principale di giudice. Sotto questo profilo, per ritenere sussistente il profilo della prevedibilità degli effetti della disposizione sanzionatoria applicata, il TAR ha dovuto compiere un doppio passaggio nel ragionamento giuridico, dapprima individuando la non liceità in astratto delle condotte contestate (tramite il riferimento alla lesione della dignità umana e alla violazione di norme regolamentari del CPGA), e successivamente misurando l’idoneità di tali condotte a ledere l’immagine del singolo Consigliere di Stato e, in tal modo, dell’intera magistratura amministrativa, anche in considerazione della piena conoscibilità di una parte di tali condotte all’interno della “scuola”, frequentata da numerosi allievi, di cui era docente e direttore scientifico il magistrato. D'altra parte - e in ciò si va a lambire il decisivo tema della proporzionalità della misura adottata - il Consiglio di Presidenza si è trovato di fronte a un dubbio amletico: limitarsi a revocare l'autorizzazione concessa e punire il Giudice senza destituirlo o espellere dal proprio consesso un corpo ormai estraneo e foriero di discredito per la categoria? Non a caso, la proposta iniziale del relatore era stata nel senso di infliggere all’incolpato una sanzione pari alla perdita di due anni di anzianità, e, ad esito della vicenda, l'organo di autogoverno si è determinato a inserire limiti più ristrettivi per l'autorizzazione all'insegnamento nei corsi di preparazione ai concorsi per magistratura [1] . Alla fine, probabilmente, ha prevalso una particolarissima applicazione della " teoria del contagio" , secondo cui la perdurante presenza del trasgressore all’interno del Consiglio di Stato avrebbe trasmesso de facto a tale organo una caratteristica di non affidabilità e non integrità [2] . Tale impostazione di carattere generale, pur non avendo molto a che vedere con l'essenza delle singole condotte contestate, ha probabilmente indirizzato verso la massima severità una decisione che, a torto o a ragione – lo deciderà in appello lo stesso Consiglio di Stato –, è stata imperniata anche su una valutazione di autotutela pro futuro del prestigio dell'intero plesso. [1] Vedi la Delibera dell’8 febbraio 2018 del CPGA, modificativa della "Norme generali per il conferimento o l’autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi" [2] Tale teoria è normalmente utilizzata in materia di esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara ex art. 80, comma 5, lett. c) d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per un grave illecito professionale commesso da un suo esponente (cfr. da ultimo, Cons. di Stato, sent. n. 3107 del 2022)
Autore: di Paolo Nasini 03 ago, 2022
Tribunale civile di Firenze, sez. II, 6 luglio 2022, decreto, Est. Zanda IL CASO Il Tribunale di Firenze è intervenuto con un decreto “inaudita altera parte”, ai sensi del combinato disposto degli artt. 700 e 669 sexies, comma 2, c.p.c. , in una fattispecie concernente l’accertamento della violazione dell’obbligo vaccinale ex art. 4, DL n. 44 del 2021, conv. in l. n. 76 del 2021 e conseguente sospensione della ricorrente dall’esercizio della professione di Psicologa. Si tratta di un giudizio cautelare , instaurato avanti al G.O. a seguito della declaratoria di difetto di giurisdizione da parte del TAR Toscana pronunciata con sentenza n. 1565 del 2021, passata in giudicato il 6 maggio 22, nell’ambito del quale la parte ricorrente ha chiesto l’adozione di un provvedimento cautelare, anche inaudita altera parte , sospensivo dell'atto di sospensione dall’esercizio della professione di psicologa, in quanto idoneo a compromettere beni primari dell'individuo quale il diritto al proprio sostentamento e il diritto al lavoro di cui all'art. 4 Cost., inteso come espressione della libertà della persona e della sua dignità, garantita dalla libertà dal bisogno. In particolare, parte ricorrente ha allegato come l'esercizio della professione costituisse l'unica sua fonte di sostentamento. LA SOLUZIONE Il Tribunale ha sospeso, inaudita altera parte (fissando l'udienza per la conferma, modifica o revoca del provvedimento in contraddittorio), l’atto dell'ordine degli Psicologi della Toscana che vieta alla ricorrente di esercitare la professione di psicologa fino alla sua sottoposizione al trattamento sanitario iniettivo contro Sars Cov 2, autorizzando quindi l'esercizio della professione senza sottoposizione al trattamento in questione, lavorando in qualunque modalità (sia in presenza che da remoto) alla stessa stregua dei colleghi vaccinati. Il Giudice, nel concedere la sospensione inaudita altera parte, e premettendo, significativamente, che la decisione del TAR Toscana, reiettiva della propria giurisdizione, fosse condivisibile, ha valorizzato il fatto che: - l'instaurazione del contraddittorio potrebbe creare un irreparabile nocumento alla libertà e al diritto al lavoro della ricorrente, la quale non può più esercitare la professione di psicologa e sostentarsi col proprio lavoro da molti mesi sin dall'ottobre 2021; - seppure il decreto legge convertito in legge sopra ricordato si proponga lo scopo di impedire la malattia e assicurare condizioni di sicurezza in ambito sanitario, tuttavia questo scopo è irraggiungibile perché sono gli stessi report di AIFA ad affermarlo, sia quelli coevi alla sospensione della ricorrente che quelli più recenti di gennaio e maggio 2022, e ancor più i report di istituti di vigilanza europei, ad es. Euromomo oppure Eudravigilance, che riportano un fenomeno opposto a quello che si voleva raggiungere con la vaccinazione, ovvero un dilagare del contagio con la formazione di molteplici varianti virali e il prevalere numerico delle infezioni e decessi proprio tra i soggetti vaccinati con tre dosi; - l'art. 32, comma 2, Cost., non è in radice applicabile, anche a voler prescindere dalla violazione della riserva di legge, proprio per la mancanza di benefici della collettività; - sotto altro profilo, l'art. 32 Cost. all'interno della carta costituzionale "personocentrica", dopo l'esperienza del nazi-fascismo, non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto e tantomeno consente di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona, senza il suo consenso libero e informato , consenso che nel caso di specie non può essere “informato” posto che i componenti dei sieri e il meccanismo del loro funzionamento sono coperti non solo da segreto industriale ma anche, incomprensibilmente, da segreto "militare", sì che a tutt'oggi dopo due anni ancora non si conoscono i componenti dei sieri e gli effetti a medio e lungo termine come scritto dalle stesse case produttrici, mentre si sa che nel breve termine hanno già causato migliaia di decessi ed eventi avversi gravi; - l'art. 32 Cost e coerentemente le varie convenzioni internazionali sottoscritte dall'Italia vietano l'imposizione di trattamenti sanitari senza il consenso dell'interessato perché ne verrebbe lesa la sua dignità, valore che sta alla base delle molteplici norme della nostra Costituzione rigida e che sostanzia l'art. 1 della Costituzione della Germania; - pertanto, il rifiuto di prestare il consenso da parte della ricorrente deve ritenersi legittimo in quanto non può essere libero e informato; - l'obbligo vaccinale imposto per poter lavorare viola gli artt. 4, 32 e 36 Cost, che, ponendo al centro "la persona" e difendendola prima di tutto dallo Stato, non consente a quest’ultimo e a tutti i suoi apparati centrali e periferici (come anche gli ordini professionali) di imporre alcun obbligo di trattamento sanitario senza il consenso dell'interessato; - il nostro ordinamento e i trattati internazionali vietano qualunque trattamento sperimentale sugli esseri umani, e vi sono regolamenti come il n. 953/21 e risoluzioni UE come la n. 2361/21 che specificamente vietano agli Stati membri di attuare discriminazioni in base allo stato vaccinale Sars Cov 2; - l'ordine degli psicologi della Toscana ha violato la suddetta normativa immediatamente applicabile, attuando una discriminazione della ricorrente rispetto ai colleghi vaccinati che possono continuare a lavorare pur avendo le stesse possibilità di infettarsi e trasmettere il virus e imponendo illecitamente un trattamento iniettivo che ha già causato eventi avversi gravi e morte; - le autorità sanitarie della Regione Toscana e il Consiglio dell'Ordine degli Psicologi della Toscana non possono non essere al corrente del dilagare dei contagi nonostante l’80/90% della popolazione sia vaccinata contro Sars Cov 2 e sono anche al corrente, o dovrebbero esserlo, del dilagare del contagio tra vaccinati con tre dosi, degli eventi avversi anche gravi e mortali di soggetti vaccinati; si tratta, infatti, di dati pubblicati dallo stesso Ministero della Salute, per cui appare illecita sia l'emanazione che il successivo perdurante mancato ritiro in autotutela da parte dell'Ordine di appartenenza, di quel provvedimento di sospensione della ricorrente assunto in data 19 ottobre 2021 e tuttora vigente fino al 31 dicembre 2022; - la ricorrente, pertanto, non può essere costretta, per poter sostentare se stessa e la sua famiglia, a sottoporsi a questi trattamenti iniettivi sperimentali talmente invasivi da insinuarsi nel suo DNA alterandolo in un modo che potrebbe risultare irreversibile, con effetti ad oggi non prevedibili per la sua vita e salute; - sotto un profilo epidemiologico, la condizione del soggetto vaccinato non è dissimile da quello non vaccinato perché entrambi possono infettarsi, sviluppare la malattia e trasmettere il contagio; - dunque l'imposizione dell'obbligo vaccinale per svolgere la professione è discriminatorio e viola il regolamento europeo n. 953/2021 self executing che vieta discriminazioni dei cittadini europei fondate sullo stato vaccinale. Il Tribunale, quindi, oltre a richiamare la risoluzione del Consiglio di Europa n. 2361/2021 e i Regolamenti (CE) 726/2004 (art. 14 bis) e 507/2006, ha dato conto di una serie di arresti giurisprudenziali a sostegno di quanto dallo stesso affermato, ovvero: - la decisione della Corte Giust. UE, 11 luglio 2019, n. 716/17 che recita: "ogni Giudice nazionale chiamato a pronunciarsi nell'ambito delle proprie competenze ha, in quanto organo di uno Stato membro, l'obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell'Unione che abbia effetto diretto nella controversia di cui è investito" [1] ; - le ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale dei decreti legge che impongono i trattamenti iniettivi anti Sars Cov 2 per l'esercizio da parte dei cittadini di diritti e libertà fondamentali [2] ; - le pronunzie di revoca della sospensione dal lavoro per inosservanza obbligo vaccinale [3] . [1] Anche Corte cost. n. 95/2017. Sull'obbligo di disapplicazione immediata da parte del GO della fonte interna contrastante col diritto dell'Unione Europea e "a contrario", il Tribunale ha poi citato Cass. civ., sez. I, ord., 18 ottobre 2018, n. 26292; Cass. civ., sez. I, ord., 06 giugno 2018, n. 14638; Trib. Firenze n. 1855 del 2021; Cass., 21 dicembre 2009, n. 26897: < >. [2] In particolare, CGARS, ord., 22 marzo 2022, n. 351; T.A.R. Lombardia, sez. 1, 16 giugno 2022, n. 1397. [3] In particolare, Tribunale di Padova del 28.4.22; Tribunale di Sassari del 9.6.22; Tribunale di Velletri 14.12.2021; TAR Lombardia 26.4.2022 (caso di una veterinaria sospesa dall'albo); Tribunale di Roma del 14.6.22; TAR Lombardia n. 1397 del 16.6.22; varie sentenze di Tar Piemonte e varie sentenze di Tar Roma (su personale delle forze armate, sanitari e insegnanti).
Autore: di Roberto Lombardi 31 lug, 2022
(Una particolare definizione di "indipendenza" nel basket: " Il gancio cielo non è un tiro come gli altri. Per farlo bene un giocatore deve comprendere un principio fondamentale: l'isolamento. Se tu sei il più alto, tutti vogliono un pezzo di te. Il gancio cielo li tiene lontani, trasforma il tuo corpo in un muro al di là del quale non ti possono toccare e nemmeno guardarti in faccia. E per questo, tu sei imprevedibile, e quindi, quando vuoi, quando sei pronto per farlo, ti lasci il mondo alle spalle, ti elevi al di sopra di esso. Finché resti totalmente, assolutamente solo " (così Kareem Abdul-Jabbar , a proposito del suo marchio di fabbrica). Indipendenza sta ad indicare assenza di dipendenza, separazione da posizioni precostituite, alterità rispetto ad identità che trovano un comune e consolidato riconoscimento. Può avere un valore statico, quando costituisce l'essenza di una dimensione spontanea o elettiva, ma può giovarsi anche di una lettura dinamica, quando rappresenta una forma di distacco da una precedente appartenenza. L'indipendenza ha alcune prerogative, che possono costituire un limite o una risorsa, a seconda dei casi. Non bisogna infatti mai dimenticare – ed è in questo senso la critica dominante nei confronti di chi ostenta la propria indipendenza – che la libertà da uno stato di soggezione o comunque una condizione per definizione non subordinata possono involontariamente spingere ad un rifiuto aprioristico del giudizio e del modo di pensare e agire altrui. Quanto al concetto di prerogativa, essa indica, in generale, e nel senso latino del termine, la possibilità di votare "prima degli altri". In chiave più estensiva, può essere concepita come l'attribuzione speciale che viene riconosciuta ai titolari di cariche pubbliche, e richiama una sorta di privilegio, se intesa come possibilità giuridica di compiere attività non consentite a chiunque. Tuttavia, nel senso più nobile ed esteso del termine, la prerogativa assume la forma e la sostanza di una qualità distintiva o di una caratteristica specifica di una persona o di una cosa, che rendono quella persona o quella cosa speciali e degne di rispetto e ammirazione. Ecco allora che le prerogative dell'indipendenza non possono che essere intese come attributi naturalmente buoni, segni distintivi di una posizione essenzialmente scevra da pregiudizi e contrapposizioni ideologiche. Non si tratta di neutralità, di egoistico disinteresse rispetto alle piccole e grandi questioni quotidiane e di sistema, ma di un modo di affrontare la vita secondo criteri non influenzabili, se non per imitazione volontaria, da gruppi di potere precostituiti e organizzati. Ma quali sono queste prerogative? Innanzitutto, la "lontananza" . Si consuma una sorta di distacco rispetto a persone e vicende ordinarie. Non vi è rifiuto o sprezzante indifferenza, ma assenza di vicinanza emotiva nell’approccio ai fatti. Amicus Plato, sed magis amica veritas , dice una locuzione latina. Non essendovi vincolo di appartenenza, ne deriva una necessaria indifferenza rispetto alla fonte o al protagonista della questione da esaminare; questa indifferenza trae la sua linfa e la sua ragione di essere non dall’assenza di rapporti umani significativi (“amicus Plato”) ma dalla necessità di non essere fuorviati da tale rapporti nella comprensione dei fatti e nella elaborazione delle soluzioni ("sed magis amica veritas"). In secondo luogo, la competenza . Per essere indipendenti occorre essere competenti. Non esiste il recepimento acritico del suggerimento, non esiste il sentito dire, men che meno l’errore basato su superficialità e assenza di controllo delle fonti di conoscenza. La competenza è la garanzia massima della capacità di competere con gruppi organizzati e gerarchizzati, in cui il sapere è elaborato e distribuito selettivamente (e con cura) dalla classe dirigente per mantenere il controllo degli associati. Infine, l' imparzialità . E’ un termine abusato, che spesso richiama un criterio di giustizia, di merito. Ma è anche il naturale corollario della “lontananza”, da cui si distingue perché, mentre la prima opera a monte dell’indipendenza, l’imparzialità opera a valle, nell’approccio ai singoli atti concreti. E’ la stella polare di un giudizio, di una valutazione equidistante, non influenzabile da interessi personali o simpatie di qualsivoglia genere. L’imparzialità, ma più in generale tutto il concetto di indipendenza, interna ed esterna, hanno molto a che vedere con lo status del Giudice in Italia e con le sue prerogative di autogoverno, di controllore cioè di sé stesso. Recentemente, prima e dopo la riforma Cartabia – nata dalle fosche nubi della "vicenda Palamara" -, hanno avuto spazio alcune iniziative interessanti, con riferimento alle prossime elezioni della componente togata del CSM, di quei Giudici cioè che vanno a costituire il nocciolo duro del parlamentino che decide su promozioni, trasferimenti e punizioni dei magistrati ordinari. Tutti o quasi tutti sono d’accordo nell’individuare tra i grandi mali della magistratura italiana l’esistenza delle cosiddette “correnti”, per la vischiosità, lo spirito di appartenenza degli aderenti e la concentrazione di potere che ne deriva, ma nessuno – legislatore compreso – ha individuato la cura per ridurre l’influenza delle correnti sui meccanismi interni della magistratura, e diminuire l’opacità dei processi decisionali in seno all'organo di autogoverno. Alcuni magistrati ordinari si sono tuttavia organizzati con un metodo per certi versi rivoluzionario, ovvero il cosiddetto “ sorteggio anticipato ”. Il concetto è di individuare le candidature prima che i gruppi organizzati decidano chi designare per le elezioni; è stato pertanto effettuato un sorteggio dinanzi a un notaio, che ha creato una sorta di graduatoria casuale tra tutti i circa 10.000 magistrati ordinari, a cui è seguita l’individuazione, seguendo la graduatoria stessa, e al netto delle indisponibilità, di undici candidati alle elezioni del Csm: otto giudici di merito (due per ogni collegio), un pubblico ministero e un consigliere di Cassazione. La novità è degna di nota, e non vi è dubbio che il candidato, tra quelli individuati per sorteggio, che dovesse essere eletto, non avrà vincoli di appartenenza o di dipendenza da nessuna delle correnti. Contemporaneamente, l'introduzione effettiva della parità di genere all'interno delle candidature dei togati - è di questi giorni la notizia dell'individuazione per sorteggio da parte della Cassazione di 39 magistrate ai fini di integrazione delle liste - potrebbe dare a qualche spirito libero la possibilità di votare candidati astrattamente autonomi rispetto alle scelte di corrente. Nel frattempo, nell’ambito della giustizia amministrativa – in cui è probabilmente più facile sperimentare, per le ridotte dimensioni dell’organico complessivo e il minore impatto delle sue decisioni sull’opinione pubblica (ma non certo sull’economia e sulle Istituzioni) – è stato registrato un passaggio storico. Alle elezioni dei magistrati che vanno a rappresentare i giudici di primo grado in seno all’organo di autogoverno, è stato eletto, per la prima volta, un candidato indipendente , presentatosi cioè al di fuori e senza l'appoggio delle due correnti in cui è divisa la componente sindacale interna ai Tar. E’ stato un voto per certi versi in controtendenza rispetto alle ordinarie dinamiche che caratterizzano questi passaggi elettivi ordinamentali, che normalmente privilegiano il candidato con più conoscenze/amicizie interne, quello con maggiore vissuto sindacale, quello con il più forte sponsor o quello che beneficia di un sistematico e mirato riequilibrio di voti in seno alla corrente più forte. Nel caso del candidato indipendente – al contrario – il singolo elettore ha dovuto confrontarsi con un magistrato dalle caratteristiche molto marcate di lontananza e imparzialità , ed era conscio di non potere ricevere “nulla” in cambio del voto, ma ugualmente speranzoso di poter contare sulla sua competenza nell’interesse dell’intera categoria. In altri termini, niente di più lontano da un voto opportunistico o di appartenenza. E la politica? La politica deve scegliere i soggetti estranei alla magistratura da inviare, insieme ai magistrati, negli organi di autogoverno della giustizia nazionale. Si tratta essenzialmente di professori universitari di diritto e avvocati la cui selezione è scandita da logiche astrattamente diverse da quelle del merito, e che trae invece la sua "linfa" da una sorta di spartizione concordata degli incarichi disponibili tra le forze politiche (le quali tendono dunque a scegliere l'amico di area). Nulla di male, in fondo. Ma, di certo, qui manca senz'altro almeno una delle prerogative dell'indipendenza. Non vi è probabilmente – e paradossalmente - la lontananza, perché lo status del componente esterno alla magistratura risente direttamente della volontà politica di chi ne ha voluto la nomina, e il passaggio ad ulteriori incarichi, sempre di scelta cosiddetta fiduciaria, è soggetto ad una preliminare valutazione, effettuata con criteri spesso insensibili al bene comune, dell’attività svolta. Potrebbe per assurdo mancare la competenza, se questa viene intesa nel senso sopra enunciato, come capacità di conoscere autonomamente questioni e soluzioni specifiche. Si tratta in fondo di professionisti spesso avulsi dalle dinamiche interne delle singole magistrature. È infine fortemente a rischio anche l'imparzialità, perché il voto su questioni di massima può risentire inevitabilmente della sensibilità dell'area da cui proviene il professionista. Il 21 settembre prossimo venturo, il Parlamento in seduta comune, quello tuttora in carica, si sarebbe dovuto riunire per eleggere i professori e gli avvocati che vanno per l’appunto a costituire i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura. Ma la data non è più in calendario perché a Camere sciolte non sarebbe possibile procedere, specie quattro giorni prima delle elezioni politiche. Quindi toccherà quasi certamente ai nuovi deputati e senatori eleggere i laici di Palazzo dei Marescialli, senza i quali il nuovo Consiglio non può iniziare la sua fondamentale attività. Idem per la giustizia amministrativa. Ancora una volta la politica, quando nei fatti si tratta di dimostrare una reale volontà di cambiamento, manifesta completa insensibilità per i meccanismi operativi interni al sistema giustizia. La contingenza elettorale sacrifica la necessità di avere un organo di autogoverno nel pieno dei suoi poteri entro i tempi stabiliti dalla legge. E questo financo quando è stato lo stesso legislatore a modificare il sistema di elezione dei giudici sperando di evitare in futuro, a se stesso e all'opinione pubblica, incresciose situazioni di gestione del potere, che nulla hanno a che fare con lo spirito più nobile della magistratura italiana. C'è urgente bisogno di una nuova infornata di spiriti liberi, di persone che provengano dagli uffici giudiziari perché ci hanno lavorato e non perché occupano una casella della geografia giudiziaria del potere, di magistrati che conoscano bene il sistema non al fine di sfruttarlo per interesse personale ma per cambiarlo in meglio. E magari, di tanto in tanto, invece di una stucchevole sequela di passaggi in orizzontale, assisteremo a qualche gancio cielo alla Kareem.
27 lug, 2022
Tribunale di Torino, sezione dei Giudici per le indagini preliminari, 11/04/2022, n. 442 IL CASO Un soggetto viene processato con rito abbreviato per il reato di maltrattamenti nei confronti della propria moglie e della propria figlia minore di età; il delitto di cui è persona offesa la moglie risulta aggravato dall’avere commesso il fatto in presenza di persona minore (ovvero, la figlia stessa). Le singole condotte, a cui spesso aveva assistito la ragazzina, erano consistite, secondo l’accusa, in insulti, accuse, distruzione ingiustificata di mobili e suppellettili, violenza fisica, urla e comportamenti costantemente aggressivi, oltre che in continue richieste di denaro e prelievo clandestino di soldi ai danni delle persone offese. Il GUP ha ritenuto accertata la responsabilità penale dell’imputato, in quanto la ricostruzione dei fatti offerta dalle persone offese era stata indirettamente riscontrata non solo dal tenore delle relazioni dei servizi sociali che avevano in carico il nucleo familiare ma, altresì, dalle dichiarazioni sostanzialmente ammissive rese dall'imputato in sede di interrogatorio. Dal punto di vista della qualificazione giuridica, le condotte perpetrate dall’imputato, essendo consistite in plurime e insistite offese, oltre che in reiterate compromissioni dell'integrità morale e fisica delle vittime, sono state considerate interamente sussumibili nel delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 572 c.p. (maltrattamenti ai danni di più persone), ravvisandosi tutti i requisiti della suddetta norma incriminatrice: - l'abitualità delle condotte (reiterate nel tempo e protrattesi, con cadenza costante e pressoché quotidiana, per un significativo e apprezzabile periodo di tempo); - l'obiettiva lesività di tali comportamenti e la loro capacità di determinare uno stato di avvilimento e sopraffazione nelle persone offese; - l'unitarietà del dolo, essendo i vari atti lesivi sorretti da un dolo unitario e da una volontà tesa ad instaurare un regime di vita vessatorio, con continue sofferenze e mortificazioni per la moglie e la figlia conviventi. Il Tribunale di Torino ha ritenuto trattarsi, nel caso di specie, non di episodi singoli e sporadici ma piuttosto di condotte seriali, concatenate e legate da un dolo unitario, suscettibili di determinare, come riferito in modo credibile dalle vittime, una condizione esistenziale connotata da costante ansia e timore. Il fatto poi che gli episodi aggressivi si siano alternati, di tanto in tanto, con momenti di "normalità", non ha avuto rilievo nella decisione finale, in quanto, per l’integrazione del delitto di maltrattamenti in famiglia non è necessario che gli atti “lesivi”, delittuosi o meno, vengano posti in essere per un tempo prolungato, ma è invece sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale, non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante lo stesso siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. Infine, il GUP ha ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti anche nei confronti della minore, a guisa di violenza assistita , dal momento che la ragazzina è stata lei stessa vittima delle condotte tenute dal padre, essendo stata costretta a convivere in un contesto familiare caratterizzato dall'impiego sistematico, all'interno dell’abitazione coniugale, di violenza morale nei confronti della madre. Tale situazione era stata non solo percepita distintamente dalla minore, ma anche avvertita da lei come condizionante, e risultata al fine peggiorativa della sua già fragile condizione psico-fisica; si è così determinata quella particolare ipotesi di maltrattamenti consistente in comportamenti vessatori non rivolti direttamente in danno di un figlio minore, ma che lo coinvolgono indirettamente, come involontario spettatore delle condotte poste in essere nei riguardi di altri componenti della famiglia, a condizione che sia stata accertata l'abitualità delle condotte e che le stesse siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello spettatore passivo. Il REATO E L’AGGRAVANTE Il delitto di maltrattamenti in famiglia è un delitto abituale , in quanto il significato stesso del termine “maltrattare” – verbo usato nella costruzione della condotta dal legislatore – indica un comportamento che non si consuma con un unico atto offensivo ma che tende a perpetuarsi in un arco temporale più o meno lungo. In altri termini, le vessazioni fisiche o morali a cui viene sottoposta “una persona della famiglia o comunque convivente” devono essere plurime e reiterate nel tempo. Recentemente, la Corte di Cassazione ha precisato che l'abitualità nel reato di maltrattamenti in famiglia può essere integrata anche nel caso di più atti, delittuosi o meno, che vengano posti in essere in un lasso temporale non necessariamente prolungato, a condizione che la protrazione della condotta sia comunque idonea a dar luogo ad uno stato di vessazione e soggezione dei familiari conviventi della vittima del reato. La durata complessiva dell'arco temporale entro il quale si manifestano le condotte maltrattanti è dunque un dato tendenzialmente neutro ai fini della configurabilità del reato, fermo restando che, se la convivenza si è protratta per un periodo limitato, occorrerà che i maltrattamenti siano posti in essere in maniera continuativa e ravvicinata. In definitiva, secondo i giudici di legittimità, tanto più è ridotto il periodo della convivenza, tanto maggiore deve essere la ripetitività ed offensività delle condotte maltrattanti , affinché si ritenga instaurato quel clima di abituale vessazione della persona offesa che costituisce l'elemento tipico del reato in esame. Al secondo comma , l’art. 572 del codice penale prevede una circostanza aggravante speciale (“La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore (…)”) che lambisce il concetto giurisprudenziale di “violenza assistita”. In pratica, la presenza del minore degli anni diciotto agli episodi di maltrattamenti (anche soltanto ad uno degli episodi) comporta un aumento di pena, a cui si affianca, per espressa disposizione del legislatore penale, la qualificazione del minore “spettatore” come persona offesa dal reato (art. 572, ultimo comma, c.p.). Si tratta di circostanza aggravante che è stata introdotta dalla L. n 69 del 2019 (“Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”), e che ha inserito nella specifica sede del reato di maltrattamenti analoga circostanza in precedenza prevista (per ciò che concerneva anche il reato di maltrattamenti) come circostanza comune dall’ art. 61 n. 11-quinquies del codice penale . Tale circostanza aggravante si distingue peraltro in modo sostanziale dalla diversa e limitrofa ipotesi della “violenza assistita”, che consiste invece nella realizzazione tout court del reato di maltrattamenti in danno di un minore. Nel primo caso, non è necessario che gli atti di violenza posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità, essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato; nel secondo caso, il delitto di maltrattamenti non solo viene commesso alla presenza del minore in maniera abituale, ma quest'ultimo risente e soffre, seppure indirettamente, delle conseguenze di quelle vessazioni fisiche e psichiche. Occorre, in altri termini, per integrare il concetto giurisprudenziale di “violenza assistita” (anche definibile come di maltrattamenti indiretti o di “violenza percepita”), la prova sia del fatto che il minore abbia abitualmente presenziato ai comportamenti vessatori, sia della circostanza che lo stato di sofferenza psico-fisica manifestato dai minori dopo i fatti sia stato cagionato proprio dall'aver assistito agli episodi di contrasto tra genitori, e non da altri fattori esterni, seppure connessi alle vicende familiari in senso lato. Occorre al riguardo ricordare che l'elaborazione della figura della "violenza assistita" o "indiretta" è stata il punto d'approdo di una evoluzione giurisprudenziale il cui incipit è costituito dalla decisione con cui la giurisprudenza di legittimità, dopo aver ribadito che l' oggetto giuridico della tutela penale apprestata dall'art. 572 c.p. non è - o non è solo - l'interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori o violenti, ma anche la difesa della incolumità fisica o psichica dei suoi membri e la salvaguardia dello sviluppo della loro personalità nella comunità familiare, ha affermato che la condotta incriminata dall'art. 572 c.p. ricomprende non solo la violenza fisica, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, anche se consistenti in atti che, di per sé, non costituiscono reato, aggiungendo che la stessa può essere posta in essere tramite condotte omissive di deliberata indifferenza verso elementari bisogni assistenziali e affettivi di una persona, sempre che siano sorrette dal dolo e che da tali omissioni derivi, inequivocabilmente, uno stato di sofferenza per la vittima. Sulla base di questi presupposti e sul rilievo dei consolidati esiti degli studi scientifici concernenti gli effetti negativi sullo sviluppo psichico del minore costretto a vivere in una famiglia in cui si consumino dinamiche di maltrattamento, si è affermato dunque che la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche dal clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo. D’altra parte, la Corte di Cassazione ha anche precisato, recentemente, che, se è vero che il reato di maltrattamenti è configurabile anche nei confronti di un infante che assista alle condotte maltrattanti poste in essere in danno di altri componenti della sua famiglia, a condizione che tali condotte siano idonee ad incidere sull'equilibrio psicofisico dello stesso, la tenera età del minore (che abbia ad esempio pochi mesi) può costituire un elemento che consente di escludere che l’infante stesso possa aver in qualche modo percepito il contesto ambientale e le condotte vessatorie.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 21 lug, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 4 luglio 2022, n. 21065 La cartella di pagamento è un titolo esecutivo in forza del quale è possibile per l’Amministrazione finanziaria procedere, trascorsi sessanta giorni, all’espropriazione forzata, ossia a dare attuazione al credito tributario con una procedura speciale sostitutiva dell’adempimento del contribuente. Ma se trascorre un anno, prima di dare l’avvio all’espropriazione forzata, l’Amministrazione deve notificare un avviso di mora contenente la “intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni”, un atto formale redatto in conformità a un modello approvato con decreto del Ministero delle finanze. Ebbene, un’intimazione di pagamento è stata impugnata lamentando che l’atto non conteneva elementi essenziali quali un’idonea motivazione, l’indicazione dei termini e dell’autorità dinnanzi alla quale ricorrere, il tasso e il metodo di calcolo degli aggi e degli interessi. E il giudice tributario di merito, sia di primo che di secondo grado, ha condiviso la posizione della parte privata, affermando che il contenuto dell’atto notificato non consentiva di comprendere le ragioni della richiesta del pagamento. Ma la Corte di Cassazione, con la sentenza qui segnalata, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione facendo applicazione dell’ art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990 . Sul punto, la Cassazione ha affermato: - che l’intimazione di pagamento è normativamente prevista dai commi 2 e 3 dell’art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973 e che dal contenuto delle relative disposizioni si evince che trattasi di “ un atto vincolato in quanto redatto in relazione a un modello ministeriale e avente come contenuto l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni ”; - che “è esaustivo il solo riferimento alla cartella di pagamento in precedenza notificata”, contenuto capace di “rendere edotto l’interessato delle ragioni dell’emissione dell’intimazione”, idoneo “a conoscere la pretesa tributaria nell’an e nel quantum” e in grado “di garantire la difesa del contribuente e la sua effettiva possibilità di contestazione”; - che “ lo scopo dell’intimazione è rendere edotto il contribuente che per effetto della mancanza di pagamento della cartella già notificata inizia l’esecuzione coattiva, assolvendo nel caso la funzione equivalente a quella del precetto, sicché il suo contenuto, in relazione alle finalità sue proprie, può dirsi esaustivo ove non solo si dia atto del mancato pagamento del debito tributario ma anche contenga l’intimazione al contribuente di effettuare il versamento dovuto entro un termine ristretto, con l’avvertenza che in mancanza si procederà a esecuzione forzata ”; - che è erroneo “pretendere ulteriori contenuti, peraltro già noti al contribuente proprio in virtù della precedente cartella notificata”, e da ciò deriva che “l’intimazione di pagamento non necessita di particolare motivazione oltre all’indicazione della cartella non pagata e precedentemente notificata, né va allegata la cartella precedentemente notificata, essendo sufficiente indicare gli estremi della stessa, come desumibile dal modello ministeriale”; - che, di conseguenza, l’intimazione di pagamento “non è annullabile a causa della insufficienza della motivazione”, ai sensi dell’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che è “norma applicabile a tutti i provvedimenti amministrativi tra cui quelli tributari, in quanto per la natura vincolata del provvedimento, è palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. La sentenza si segnala perché sia in giurisprudenza che in dottrina non è (ancora) del tutto pacifica l’applicazione dei principi dettati dal comma 2 dall’art. 21 octies al diritto tributario, e ciò per la specialità dello stesso (sebbene l’art. 13 della legge sul procedimento amministrativo non abbia incluso l’art. 21 octies tra le disposizioni che non si applicano ai procedimenti tributari), e perché l’ art. 7 della l. n. 212 del 2000 sulla motivazione dell’atto tributario non menziona testualmente la presupposta istruttoria ma dispone che devono essere indicati “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche” che hanno determinato la decisione. Ed anche perché si considera che la violazione di alcune norme tributarie (anche di natura procedimentale, per esempio l’inosservanza del termine dilatorio previsto dal comma 7 dell’art. 12 della l. n. 212 del 2002 in caso di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio dell’attività del contribuente) è sanzionata con la nullità , il che esclude l’ammissibilità della prova di resistenza. In concreto, per gli avvisi di accertamento, o di rettifica, la Suprema Corte afferma che, se è vero che non sono frutto dell’esercizio di discrezionalità amministrativa, essi sono tuttavia emessi nell’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica tanto che, se possono essere vincolati nell’ an , non necessariamente sono emessi con contenuto dispositivo prestabilito ex lege , perché presentano margini di valutazione tecnica nella rilevazione, come pure nell’accertamento, del fatto presupposto cui la legge ricollega l’esigenza di provvedere, e perché condizionano in modo variabile il loro contenuto dispositivo in relazione alle diverse caratteristiche e qualificazioni giuridiche del fatto presupposto come in concreto rilevato (Cass. Civ., sez. V, 14.2.2019, n. 4388; id., sez. V, 11.11.2015, n. 23050). All’opposto, la figura dell’ atto vincolato ricorre se la scelta della sua emanazione e il suo contenuto sono prestabiliti da una norma, o da un altro provvedimento sovraordinato, sicché all’Amministrazione non residua alcuna facoltà di scelta tra determinazioni diverse. Sono tipici atti vincolati gli atti conseguenziali, meramente esecutivi, quali la cartella di pagamento e l’avviso di mora. E, da ultimo, l’art. 21 octies ha trovato applicazione anche: - in un caso di emissione di un atto di contestazione di sanzioni da parte di un ufficio dell’Agenzia delle entrate incompetente territorialmente , in quanto “il vizio derivante dall’incompetenza territoriale dell’ufficio emittente è di natura solo formale, senza alcun riflesso sul contenuto vincolato dell’atto di contestazione delle sanzioni” (Cass. civ., sez. V, 11.11.2021, n. 33287); - in un’ omessa sottoscrizione del ruolo d’imposta , perché l’art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973 non prevede alcuna sanzione per tale ipotesi, sicché non può che operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana (con onere della prova contraria a carico del contribuente, che non può limitarsi a una generica contestazione dell’esistenza del potere o della provenienza dell’atto ma deve allegare elementi specifici e concreti a sostegno delle sue deduzioni), e per la “natura vincolata del ruolo, che non presenta in fase di formazione e redazione margini di discrezionalità amministrativa, il che comporta l’applicazione del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento” (Cass. civ., sez. V, 14.4.2020, n. 7800); - nella mancata indicazione del responsabile del procedimento in un provvedimento di diniego di agevolazione, atto di natura vincolata perché il rilascio del nulla osta dipende dalla disponibilità di risorse economiche e dall’ordine cronologico di arrivo della domanda, atto perciò che, viste le dichiarate condizioni di fatto, non può avere contenuto diverso da quello adottato, per cui “va esclusa la sua annullabilità in ragione dell’inidoneità dell’intervento dei soggetti ai quali è riconosciuto un interesse a interferire sul suo contenuto” (Cass. civ., sez. V, 17.7.2018, n. 18987).
Autore: a cura di Paolo Nasini 05 lug, 2022
Tribunale di Genova, sez. VI, 18 gennaio 2022, n. 100, est. Parentini IL CASO A seguito di ricorso ex artt. 633 e ss. c.p.c. , presentato dalla società C.A.C. nei confronti dei signori Ro. Gi., Bi. Gi. e Ca. An., quali fideiussori delle società GPATBC e GPATB, il Tribunale di Genova ha emesso decreto ingiuntivo condannando i predetti al pagamento di Euro 100.231,12 oltre interessi, nonché le spese di giudizio, quale debito residuo del contratto di finanziamento di Euro 355.000,00. Ne è seguita l’opposizione da parte dell’ingiunto Ca., il quale, in primo luogo, ha disconosciuto la sottoscrizione apparentemente allo stesso riconducibile apposta sulle pagine quinta, sesta, ottava, nona, undicesima e dodicesima della produzione n.ro 8, documento il quale recava peraltro due date differenti 26/3/2014 e 17/6/2014; inoltre, l’opponente ha disconosciuto anche la firma apparentemente dallo stesso apposta nella ricevuta di ritorno della raccomandata a.r. 18/9/2015 e alla pagina sesta della produzione n.ro 10 allegata al ricorso ex art. 633 c.p.c.. In particolare, l’opponente, socio accomandante, ha eccepito di non aver mai partecipato alla gestione e all'amministrazione della società, la quale avrebbe avuto oggetto sociale estraneo all'attività imprenditoriale svolta dal Ca. In tal senso, secondo l'opponente, la fideiussione sarebbe stata concessa per scopo estraneo all'attività professionale svolta, con conseguente applicazione della disciplina consumeristica: pertanto la clausola che dispensava parte creditrice dall'osservanza del termine di decadenza di cui all'art. 1957 c.c. sarebbe nulla, integrando una clausola vessatoria e non essendo stata oggetto di specifica trattativa col cliente ma frutto di predisposizione unilaterale da parte della banca. Quindi, la banca, non avendo coltivato nel termine di decadenza di sei mesi le proprie pretese nei confronti della debitrice principale sarebbe decaduta ex art. 1957 cod.civ. dalla garanzia fideiussoria. Infine l’opponente ha dedotto che la garanzia fideiussoria si sarebbe estinta per fatto del creditore ex art. 1955 c.c. posto che la condotta silente della banca, la quale non aveva dato riscontro alcuno alla missiva del Ca. con la quale chiedeva lumi sulla sua posizione debitoria per la garanzia rilasciata, gli avrebbe impedito di pagare a tempo debito e surrogarsi, conseguentemente, nelle ragioni creditorie della banca nei confronti della società CGCF che nel settembre 2015 e comunque nel marzo 2016, era ancora operativa e solvibile. Inoltre ha proposto domanda di rivalsa nei confronti di tale ultima società. C.A.C. si è costituita in giudizio affermando che il credito sarebbe stato provato dal riconoscimento di debito operato dalla parte mutuataria per poter accedere alla sospensione di dodici mesi del termine per il pagamento delle rate; inoltre, ha dedotto che Ca., stante la qualificata partecipazione nella società mutuataria, non poteva ritenersi consumatore e che neppure poteva configurarsi la causa estintiva ex art. 1955 c.c.; quindi, ha dedotto la piena validità della clausola derogatoria dell'art. 1957 c.c. Si è costituita in giudizio CGCF chiedendo il rigetto della domanda di rivalsa formulata dall'opponente nei suoi confronti poiché la copertura assicurativa rilasciata a garanzia del credito sarebbe estranea al rapporto tra il creditore ed eventuali fideiussori. LA DECISIONE Il Tribunale di Genova ha respinto l'opposizione e, per l'effetto, ha confermato il decreto ingiuntivo opposto. Il Giudice di prime cure, superate, sotto diversi profili, le questioni inerenti i disconoscimenti effettuati, ritenuto che la banca convenuta avesse dimostrato il titolo del proprio credito, al contrario dell’opponente, che non aveva fornito prova dell’estinzione dello stesso, e ritenuto che la condotta della banca non avesse privato l’opponente del diritto di surrogazione (con conseguente rigetto dell’eccezione di estinzione ex art. 1955 c.c.), ha esaminato la problematica relativa alla decadenza ex art. 1957 c.c. Infatti, come accennato, la parte opponente ha eccepito l’applicabilità alla fideiussione dello 'statuto' del consumatore poiché il Ca., quale socio accomandante della società garantita, avrebbe esercitato - all'atto dell'accensione della garanzia fideiussoria - un'attività professionale estranea all'oggetto sociale della medesima società. Ne conseguirebbe, secondo l'opponente, che la dispensa dal termine di cui all'art. 1957 c.c., sottoscritta per accettazione dal fideiussore, sarebbe nulla per violazione dell' art. 33 del d.lgs. 206/2005 , non essendo stata oggetto di specifica trattazione con lo stesso consumatore ma oggetto di predeterminazione unilaterale da parte della banca opposta. Ne conseguirebbe che, essendo decorso il termine di sei mesi di cui all'art. 1957 cod. civ. dal 18/9/2015 (e/o comunque dalla data del fallimento della G.P.A. Trans S.r.l. ossia dal 11/2/2016), senza che la Banca avesse svolto alcuna attività nei confronti del debitore principale o le avesse diligentemente continuate, la banca sarebbe decaduta dalla garanzia fideiussoria azionata in via monitoria. Il Tribunale di Genova ha rammentato che, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza comunitaria e di legittimità, " i requisiti soggettivi di applicabilità della disciplina legislativa consumeristica in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio in favore della società devono essere valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale), dando rilievo - alla stregua della giurisprudenza comunitaria - all'entità della partecipazione al capitale sociale nonché all'eventuale qualità di amministratore della società garantita assunto dal fideiussore " (Cass., Sez. III, 13/12/2018, n. 32225). La Corte di Cassazione ( Cass. Sez. VI-III, 31/10/2019, n. 28162 ) ha fondato il proprio giudizio sul principio affermato dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nella sentenza pronunciata il 19 novembre 2005 nella causa C-74/15 Tarcau contro Banca Comerciale Intesa Sanpaolo Romania SA e altri , con interpretazione - vincolante per il giudice nazionale - degli artt. 1, paragrafo 1, e 2, lett. b), della direttiva 93/13 , secondo il quale << tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società>>; precisando che < >. Il Tribunale, quindi, ha ricordato che i collegamenti funzionali tra fideiussore e società, che possono fondatamente indurre a ritenere che il primo non abbia agito per uno scopo estraneo alla sua attività professionale, possono alternativamente ravvisarsi o nel fatto che il socio/fideiussore rivesta incarichi amministrativi all'interno della società o detenga una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale (cfr. in termini Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 1666 del 24/01/2020). Nel caso di specie, il Giudice di prime cure, ha accertato che, secondo le risultanze della visura camerale, in primis , la società 'garantita' era inserita in un gruppo di imprese che mettevano capo anche al Ca; secondariamente, il Ca. era socio di maggioranza della società garantita. Quindi, considerati anche i volumi d'affari della società, documentati dalla parte opposta, il Tribunale ha concluso nel senso che l’opponente avesse un proprio interesse commerciale al rilascio della fideiussione, giacché strumentale all'ottenimento di un finanziamento, che avrebbe permesso di incrementare la sua non trascurabile partecipazione agli utili di impresa (essendo socio di maggioranza). Conseguentemente, secondo il Tribunale, l'interesse del fideiussore non poteva ritenersi estraneo all'oggetto sociale della società, avendo egli in virtù della cospicua partecipazione, un interesse largamente convergente con quello della società garantita, ad implementarne le opportunità di sviluppo commerciale. Non rivestendo il Ca. la qualità di consumatore il Tribunale ha affermato che la clausola di deroga al termine di cui all'art. 1957 c.c., specificamente approvata per iscritto, non poteva ritenersi nulla, non potendo altresì trovare applicazione lo statuto del consumatore. BREVI CONSIDERAZIONI La fideiussione (artt. 1936 e ss c.c.) è il contratto in forza del quale un soggetto (fideiussore), obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l'adempimento delle obbligazioni del debitore. Caratteristica principale del contratto di fideiussione è l’accessorietà: in tal senso, la fideiussione necessita di una valida obbligazione altrui e si estingue con l'estinzione del debito garantito. Sotto altro profilo, il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale. Altro elemento rilevante è che l’obbligazione del fideiussore è solidale: il creditore, quindi, può, in linea di principio, rivolgersi indifferentemente, oltre che allo stesso debitore, anche al fideiussore per pretendere il pagamento dell’intero e l’eventuale adempimento del fideiussore libera il debitore principale nei confronti del creditore. Nel caso di fideiussione prestata a favore di un debitore “professionista”, ai sensi del d.lgs. n. 205 del 2006, ovvero anche prima della direttiva CE n. 93/13, un più risalente orientamento ricollega al fideiussore di per sé la qualità di “professionista” proprio in ragione della natura accessoria del contratto di fideiussione rispetto a quello “principale” che lega il creditore al debitore garantito ( accessorium sequitur principale ). In tal senso, la Corte di Giustizia UE ha affermato che ai sensi dell’art. 2, dir. n. 85/577, un contratto di fideiussione stipulato da una persona fisica, la quale non agisca nell'ambito di un'attività professionale, è escluso dalla sfera di applicazione della direttiva quando esso garantisca il rimborso di un debito contratto da un'altra persona la quale agisce, per quanto la concerne, nell'ambito della propria attività professionale (CGUE, sentenza “Dietzinger”, 17.3.1998, C-45/96). Anche la Corte di Cassazione ha recepito tale orientamento, ritenendo che la qualità del debitore principale attraesse quella del fideiussore ai fini della individuazione del soggetto che deve rivestire la qualità di consumatore. Pertanto, in caso di fideiussione, il requisito soggettivo della qualità di consumatore, in capo al fideiussore, deve essere accertato in relazione all’obbligazione garantita e in relazione alla qualità (professionista o consumatore) del debitore garantito. In tal senso, è stato affermato che < > (Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2018, n. 25155). D’altronde, il suddetto orientamento è stato rivisto dalla stessa Corte di Giustizia UE (ord. 19.11.2015 C-74/15) affermando che << quanto alla questione se una persona fisica che si impegna a garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di un istituto bancario in base a un contratto di credito possa essere considerata un «consumatore» ai sensi dell'articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, occorre rilevare che un siffatto contratto di garanzia o di fideiussione, sebbene possa essere descritto, in relazione al suo oggetto, come un contratto accessorio rispetto al contratto principale da cui deriva il debito che garantisce [v., nel contesto della direttiva 85/577/CEE del Consiglio, del 20 dicembre 1985, per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali (GU L 372, pag. 31), sentenza Dietzinger, C-45/96, EU:C:1998:111, punto 18], dal punto di vista delle parti contraenti esso si presenta come un contratto distinto quando è stipulato tra soggetti diversi dalle parti del contratto principale. È dunque in capo alle parti del contratto di garanzia o di fideiussione che deve essere valutata la qualità in cui queste hanno agito >>; << ….. la nozione di «consumatore», ai sensi dell'articolo 2, lettera b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo (v. sentenza Costea, C-110/14, EU:C:2015:538, punto 21). Essa deve essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell'ambito delle attività estranee all'esercizio di una professione….Spetta al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell'ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come «consumatore» ai sensi della suddetta direttiva (v., in tal senso, sentenza Costea, C-110/14, EU:C:2015:538, punti 22 e 23)….Nel caso di una persona fisica che abbia garantito l'adempimento delle obbligazioni di una società commerciale, spetta quindi al giudice nazionale determinare se tale persona abbia agito nell'ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che la legano a tale società, quali l'amministrazione di quest'ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale, o se abbia agito per scopi di natura privata >>. Anche la Corte di Cassazione, quindi, si è adeguata al nuovo orientamento, ad esempio affermando che <<….quello dell'accessorietà fideiussoria si manifesta tratto oggettivamente estraneo alla normativa di protezione del consumatore. Connotante la struttura disciplinare dell'impegno e dell'obbligazione assunti dal fideiussore, l'accessorietà non può non rimanere confinata entro tale ristretto ambito; di certo, non può venire proiettata fuori da esso, per spingerla sino a incidere sulla qualificazione dell'attività - professionale o meno - di uno dei contraenti; tanto meno, l'accessorietà potrebbe far diventare un soggetto (il fideiussore o, più in generale, il terzo garante) il replicante, ovvero il duplicato, di un altro soggetto (il debitore principale). Non è un caso, del resto, che gran parte della letteratura ha censurato aspramente la costruzione del fideiussore quale professionista di riflesso, pure evidenziando gli esiti paradossali a cui la stessa conduce in modo diretto, quale quello di dovere ritenere consumatore la banca, che presta fideiussione per il debito contratto da una persona fisica che non svolga alcun tipo di attività professionale. Così esclusa la rilevanza dell'attività svolta dal debitore principale per la qualificazione della posizione (di consumatore o meno) del fideiussore, va adesso segnalato che le citate decisioni della Corte di Giustizia indicano - quale criterio per la positiva identificazione di un fideiussore nell'ambito della categoria del consumatore - la "valutazione se il rapporto contrattuale" di cui alla fideiussione nel concreto rientri, oppure no, "nell'ambito di attività estranee" all'esercizio della eventuale professione specificamente svolta dal soggetto che ha prestato la garanzia. Come si vede, si tratta del criterio generale, comune per l'identificazione di una contraente persona fisica nell'alveo protettivo di consumatore (cfr. la norma dell'art. 3 cod. consumo, comma 1, lett. a). Non si vede, d'altro canto, quale ragione oggettiva potrebbe mai giustificare un'identificazione del fideiussore (del terzo garante, in genere) in tale figura (di consumatore, appunto) sulla base di criteri diversi da quelli generali e comuni. Di conseguenza, alla stregua dell'interpretazione che, nell'attuale, questa Corte dà della nozione generale di consumatore (cfr., da ultimo, Cass., 26 marzo 2019, n. 8419), tale dev'essere considerato il fideiussore persona fisica che, pur svolgendo una propria attività professionale (o anche più attività professionali), stipuli il contratto di garanzia per finalità non inerenti allo svolgimento di tale attività, bensì estranee alla stessa, nel senso che si tratti di atto non espressivo di questa, nè strettamente funzionale al suo svolgimento (c.d. atti strumentali in senso proprio)….Consegue all'insieme delle osservazioni svolte che - in relazione alla posizione del fideiussore e consumatore S.A. - va ritenuta la competenza del Tribunale di Fermo>> (C. Cass., sez. VI, 16 gennaio 2020, n. 742) La giurisprudenza, quindi, ha superato la teoria del c.d. riflesso o rimbalzo , svalutando, ai fini che qui interessano, il carattere dell’accessorietà del contratto di fideiussione. Ciò che rileva e deve essere accertato dal Giudice è < > e, quindi, se il fideiussore, nella stipula del contratto, abbia agito nell'ambito della sua attività professionale o sulla base dei collegamenti funzionali che lo legano a tale società (quali l'amministrazione di quest'ultima o una partecipazione non trascurabile al suo capitale sociale) ovvero se abbia agito per scopi di natura privata (consumatore).
Autore: di Maria Abbruzzese, Presidente di Sezione del TAR Campania 25 giu, 2022
( L’UBI CONSISTAM della perdita di chance nel diritto amministrativo ) dalla relazione svolta durante il Corso di formazione “Questioni controverse di diritto amministrativo – Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza” I. Generalità Definire la “chance” non è compito facile e lo è ancor meno se la definizione deve trovare concreta applicazione nel diritto amministrativo. La “chance” è concetto volubile e ambiguo (qualcuno dice incorporeo, a marcare la differenza rispetto alla dimensione fisica dei beni contenuto di diritti), perché ha a che fare con la probabilità di un’acquisizione futura ed è un’idea che, nella società liquida, che valorizza e premia la mera possibilità di sviluppo piuttosto che l’effettiva consistenza, all’attualità, delle capacità, in senso lato, del soggetto, come di qualsiasi sistema, è destinata ad affermarsi addirittura come prevalente rispetto alla dimensione statica dei diritti di matrice classica. O meglio, come espansiva, giacché, in astratto, qualunque situazione soggettiva può essere riguardata nella sua dimensione diacronicamente rivolta al futuro; nella sua potenzialità, dunque, piuttosto che nella sua essenza statica fisicamente apprezzabile nel presente [1] . Il diritto deve dunque occuparsene, avendo la funzione di regolare (ossia di dare una regola) ai fenomeni reali. Le prime emersioni del concetto si registrano attraverso il naturale sviluppo applicativo dell’ art. 1223 c.c. [2] , ossia nell’ambito della regolazione dell’inadempimento contrattuale, cui deve conseguire l’integrale risarcimento del soggetto danneggiato; regola che vale, per l’intermediazione dell’art. 2056 c.c., anche per l’illecito extracontrattuale. La “chance” è dunque la possibilità di conseguire un bene, è caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza ed entra nel diritto allorché se ne accerti la “perdita” per effetto di un fatto di inadempimento o di illecito extracontrattuale, come danno o componente di danno. Si tratta di un interesse “meritevole di tutela”, giacché parte integrante della dimensione prospettica del soggetto, e dunque la sua lesione diventa risarcibile per il tramite della clausola aperta di cui all’art. 2043 c.c. A voler approfondire in che cosa consista effettivamente la “perdita”, coerentemente con la natura volubile della “chance”, occorre considerare che ciò che si apprezza (e che richiede, in caso di lesione, il risarcimento a carico del danneggiante) è la normale proiezione futura della persona, ossia la sua dimensione dinamica e i suoi probabili sviluppi; l’idea classica della causalità viene utilizzata non solo per collegare il fatto dannoso all’evento lesivo ma anche per individuare i possibili conseguenti di una situazione data, tale essendo il momento in cui è persa la “chance”. La chance si qualifica allora come naturale (probabile) sviluppo di una situazione data (“hoc post hoc” o, forse meglio, secondo il principio di regolarità causale, “hoc propter hoc”), interrotto dal fatto dannoso che tale sviluppo preclude. Non si tratta, dunque, di reintegrare una lesione o un pregiudizio subiti rispetto ad un bene concreto, sensibile, ricompreso nel patrimonio fisico del danneggiato, ma di considerare un bene ulteriore, non empiricamente percepibile, ma ugualmente presente nel patrimonio giuridico del danneggiato, nella forma di stadi intermedi di un processo evolutivo avente come risultato finale la produzione di un vantaggio fisicamente apprezzabile. L’indagine sul nesso causale, normalmente rivolta all’indietro a ricercare le cause dell’evento dannoso, nel caso della “chance” è volta “in avanti”, al fine di individuare i possibili sviluppi della situazione data, a partire del fatto dannoso. È qui che entra in gioco la “probabilità”, che è il nesso che collega il fatto certo con l’incerto futuro, e che, ove apprezzabile in grado elevato, si confonde con la certezza [3] . II. Le varie definizioni della chance e la perdita di chance La intrinseca ambivalenza del concetto di “chance”, divisa tra effettiva diminuzione attuale delle possibilità di sviluppo e perdita naturalmente rivolta al futuro, ha condotto dottrina e giurisprudenza ad avvicinare la “chance” all’idea, più rodata, di aspettativa di diritto, anche in chiave differenziatrice dall’aspettativa di mero fatto, ovvero al danno futuro [4] . E tuttavia la “chance” assume rilevanza per il diritto quando è “perduta” . Infatti, l’interruzione della serie causale che conduce dalla potenza all’atto, ossia dalla mera “chance” all’effettiva realizzazione del risultato atteso per effetto della situazione data, ove determinata dall’inadempimento o dall’illecito, comporta il risarcimento del danno. Il danno consiste allora, per l’appunto, nella perdita della “chance”, che assurge così a “bene” autonomo e diverso dalla mancata realizzazione dell’evento [5] . In tale logica, non rileverebbe affatto il grado di probabilità della realizzazione del risultato atteso ai fini della enucleazione della “chance”; il grado di probabilità, per contro, riassumerebbe rilevanza ai fini della concreta quantificazione del danno [6] . La perdita di “chance” è considerata, in tale prospettiva, come “danno emergente”, posto che determina un decremento nel patrimonio del soggetto, che, a seguito del fatto di inadempimento o illecito, perde la possibilità di conseguire il bene (o di evitare un pregiudizio). Non si ha riguardo, come detto, al bene finale, dunque, ma alla possibilità di conseguirlo. La apparente chiarezza della definizione, tuttavia, per la indissolubile connessione con la proiezione futura della situazione cui accede, nella concreta applicazione continua a risentire della sua intrinseca fluidità; anche a voler considerare lo sviluppo della situazione e il suo risultato finale (auspicato) come elemento utile alla sola quantificazione del danno, resta indubbia la rilevanza delle tecniche di accertamento del nesso causale (oramai portate, già dalla giurisprudenza civile, dal piano della certezza a quello della rilevante probabilità). Assumendo dunque che detto accertamento resti comunque rilevante, i problemi connessi al risarcimento della chance perduta sono almeno due: - è apprezzabile e risarcibile qualsiasi chance, e dunque anche la “minima chance”, ovvero, per essere valorizzata agli effetti risarcitori, la “chance” deve avere una minima consistenza (che si traduce in un “certo” grado di probabilità di naturale suo sviluppo favorevole)? - come si quantifica il danno da “chance” perduta? III. Il trattamento della perdita di chance (ovvero della chance perduta) per la giurisprudenza civile Il primo quesito ci riconduce alla stessa enucleazione dell’idea di “chance”, come indissolubilmente legata al concetto di “probabilità” e dunque di un non certo collegamento tra la “chance” stessa e il suo potenziale sviluppo. In effetti, se detto collegamento fosse certo (e se, dunque, fosse certa la perdita) non potrebbe più parlarsi di perdita di “chance” ma, tout court , di perdita di un bene già autonomamente risarcibile. Il problema non è nuovo ed è stato già affrontato dalla giurisprudenza civile. Che ha dapprima definito la “chance” come “concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione” [7] , e, conseguentemente, onerato il preteso danneggiato di provare, sia pure solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza immediata e diretta [8] . Va subito detto che, nell’evoluzione della giurisprudenza civile, ha giocato un ruolo non indifferente l’essersi, il danno da perdita di “chance”, spesso accompagnato (e cumulato) a componenti di danno diverso, come, ad esempio, il danno alla salute; questo spiega perché, una volta riconosciuto, appunto come danno emergente, il danno alla salute, i giudici hanno preteso la “prova” rigorosa del preteso danno ulteriore (perdita di “chance” come “danno patrimoniale futuro”), che si assumeva anch’esso conseguente alla riconosciuta esistenza di postumi invalidanti; in tale senso si è ritenuto spettare al danneggiato “ l’onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli ha precluso l’accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiore guadagni ” [9] . Risulta evidente l’esigenza di verifica, insieme, di causalità “all’indietro” (come nesso causale tra l’evento dannoso e il danno lamentato) e “in avanti” (come presumibile sviluppo causale della situazione data). In tal caso, il danno da perdita di chance è riguardato come una “componente” del danno, da provare e da considerare in via autonoma [10] . Ma l’ ubi consistam della “chance” è davvero nella elevata probabilità di verificazione del risultato favorevole? Qui il ragionamento si fa più confuso. Il giudice richiede la “ragionevole” certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole (non necessariamente superiore al 50% , ovvero secondo il criterio del “più probabile che non”) non la “probabilmente certa” esistenza di una probabilità (probabilità di secondo grado). Occorre dunque fissare ex ante una percentuale fissa minima di probabilità risarcibile? [11] Seguendo tale ordito argomentativo, sembrerebbe ineludibile la valutazione del “potenziale” della “chance”. E torniamo al problema: tale valutazione occorre ai fini della stessa configurabilità della “chance” ovvero solo per la sua valutazione quantitativa ai fini risarcitori? Quanto, poi, alle tecniche di quantificazione del danno da perdita di “chance”, indubbiamente raffinata è l’elaborazione sviluppata dal giudice civile. Nel calcolo del danno da perdita di occasione favorevole, secondo la giurisprudenza, deve utilizzarsi il c.d. “coefficiente di riduzione”: si assume come parametro di riferimento il bene finale cui si aspirava, diminuito del detto coefficiente di riduzione, parametrato al grado di probabilità di conseguirlo in relazione al caso concreto. Così facendo, tuttavia, la perdita di “chance” finisce per confondersi con la perdita del bene sperato, costituendone solo una percentuale [12] . La progressiva consapevolezza di tale confusione concettuale riconduce alla distinzione tra filone “eziologico” e “ontologico” della perdita di “chance”, che si fonda sulla richiesta, ai fini risarcitori, di una minima percentuale di verificazione dell’evento per la stessa configurazione della “chance,” o meno. Nel caso si acceda alla ricostruzione eziologica, si valorizza la perdita del risultato finale che il soggetto avrebbe conseguito se non ci fosse stato il comportamento illecito ovvero l’inadempimento contrattuale. Nel lucro cessante, tuttavia, il danno è certo, non probabile (in quanto conseguenza immediata e diretta dell’illecito), mentre la perdita di “chance” attiene al (diverso) pregiudizio, potenziale o eventuale, collegato in modo incerto con l’evento dannoso. Mediante la tecnica del lucro cessante, si collega direttamente la condotta illecita o non adempitiva con la perdita del risultato finale, che è intermediata dalla situazione di “chance” autonomamente lesa [13] . Esclusa quindi la possibilità di utilizzare la tecnica del lucro cessante, si è ripiegato sul danno emergente, che presuppone che la “chance” costituisca una posta attiva del patrimonio del danneggiato, e dunque un bene autonomo differente dal bene finale cui si aspirava, e, per altro verso, la risarcibilità delle conseguenze mediate indirette della condotta lesiva. Altra ricostruzione rimanda invece alla tematica del “diritto in attesa di espansione”, spiegandosi la perdita di “chance” non come perdita di un risultato favorevole (ad esempio, il posto di lavoro cui si aspirava), ma piuttosto della possibilità di conseguire un risultato utile nella prospettiva dell’acquisizione del risultato finale (ad esempio, poter sostenere gli esami per ottenere quel posto di lavoro), possibilità che già esisterebbe nel patrimonio del soggetto nel momento in cui fosse inciso dal comportamento illecito; in tal caso, la lesione del diritto sarebbe configurata come lesione di una legittima aspettativa tutelata. Non manca, come spesso accade, una tesi intermedia, secondo cui la “chance” costituirebbe una posta attuale del patrimonio, ossia un bene della vita autonomo e tutelabile in sé; in tal senso, altro è il risultato avuto di mira (vincere un concorso), altro è la possibilità di conseguirlo. Secondo tale ricostruzione, la “chance”, intesa come possibilità di un risultato, è un bene della vita autonomamente apprezzabile, purché ovviamente si tratti di una possibilità statisticamente seria. La perdita di “chance” presenterebbe dunque al suo interno entrambi i profili (ontologico ed eziologico). IV. Le applicazioni concrete nella giurisprudenza civile La giurisprudenza civile si è occupata da tempo della perdita di “chance”. Sembra utile, dunque, ripercorrere, succintamente, la relativa casistica per rimarcarne le differenze rispetto al diritto amministrativo. I settori maggiormente interessati sono stati quelli sanitario, della responsabilità professionale e giuslavoristico. L’ ambito sanitario è stato uno dei primi ad essere indagati sotto il profilo di interesse. Si è rimarcato come il risarcimento, per essere globale, dovesse comprendere anche le conseguenze sulle potenzialità espansive del soggetto, anche a costo di ridurre la percentuale di “certezza” sulle dette conseguenze. La chance , dunque, sembra ricondotta ad una duplice funzione, in quanto autonomo bene della vita (sotto forma, ad esempio, di “chances” di sopravvivenza) ma anche tecnica di dimostrazione della causalità a tutela del bene vita; in tale senso, la “chance” assume rilievo in quanto significativa e tale da rendere la probabilità di verificazione (o di esclusione) dell’evento morte, al fine di riconoscere o escludere la responsabilità dei sanitari, vicina alla certezza, dunque, in definitiva, come tecnica di accertamento del nesso causale. La domanda per perdita di “chance”, per quanto sopra detto, è tuttavia ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato. Infatti, in questo secondo caso, la stessa collocazione logico-giuridica dell’accertamento probabilistico attiene alla fase di individuazione del nesso causale, mentre nell’altro caso attiene al momento della determinazione del danno; in sostanza, nel primo caso le “chances” substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono l’oggetto della perdita e quindi del danno [14] . Il danno da mancato raggiungimento del risultato sperato è ontologicamente diverso da quello per perdita di “chances” che non è neppure un minus rispetto all’altro. Quanto alla “misura” della perdita di “chances”, sembra sufficiente dedurre una possibilità non meramente simbolica di danno per ottenere il risarcimento del danno, parametrato alla lesione lamentata. Purché sia certa l’inadeguatezza dell’adempimento prestato dal debitore, il creditore danneggiato potrà ottenere il risarcimento per le “chances” perdute, senza che rilevi la reale efficacia impeditiva della condotta dovuta (ed omessa). La responsabilità medica, settore nel quale si inquadrano i precedenti evidenziati, suggerisce una casistica improntata sull’inadempimento contrattuale sub specie di obbligazione di mezzi; quindi non è richiesta la prova analitica del nesso esistente tra condotta e evento lesivo, che diventa invece più rigorosa ove si agisca per il mancato raggiungimento del risultato sperato [15] . Questo consente di superare le tradizionali tecniche di accertamento causale mutuate dal diritto penale e caratterizzate dalla regola dell’accertamento causale basato su presunzioni e regole di esperienza e della alta probabilità logica o razionale, sostituendola con quella, di matrice nordamericana, del “più probabile che non”. L’approfondimento delle tematiche sulla natura della perdita di “chance” ha consentito di estendere la sua possibile enucleazione ad altre ipotesi di responsabilità professionale, ad esempio in materia di responsabilità del legale per tardiva proposizione di un atto di appello. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, che ha riconosciuto l’esistenza di un danno da perdita di “chance” del cliente, il pregiudizio è ravvisato non già nell’impossibilità di ottenere l’esito favorevole della lite, ma nella perdita di serie ed apprezzabili possibilità di successo, conseguenti alla proposizione del gravame [16] . La perdita di chance è stata ravvisata in ipotesi preclusive della possibilità di conseguire una promozione [17] . Anche in tale caso, si è distinto con chiarezza tra l’effettivo conseguimento della promozione (bene della vita) e la mera possibilità di aspirarvi (chance). V. E per la giurisprudenza amministrativa? La prima questione da porsi è se la “chance” si atteggi diversamente per il diritto amministrativo rispetto al diritto civile [18] . Il dubbio deriva dalla ineludibile naturale intermediazione del potere pubblico , tipico del diritto amministrativo, nell’esercizio delle facoltà connesse alla situazione giuridica soggettiva. Se il fatto illecito interrompe la serie causale conducente al vantaggio, così ledendo la “chance” di conseguirlo, la stessa serie causale, in diritto amministrativo, non è lineare, essendo necessario il superamento di uno “step” ulteriore soggetto esclusi i casi di potere vincolato, a valutazione discrezionale. Questo determina un ulteriore passaggio intermedio all’interno della serie causale riconducibile al fatto illecito (che si interpone, in tesi, nella naturale proiezione futura della sfera soggettiva individuale) costituito dall’obbligato riesercizio del potere ( sub specie di potere discrezionale), che rende (ancora) più complessa la ricostruzione del nesso causale “in avanti”. La “chance” potrebbe, in tal senso, essere identificata con la tensione verso il risultato favorevole derivante dall’eventuale positivo enuclearsi del procedimento in favore del richiedente ovvero, per altro verso, con lo stesso interesse legittimo, nella sua forma pretensiva [19] . Nel caso di lesione dell’interesse legittimo pretensivo, dunque, potrebbe ritenersi che il risarcimento dell’interesse legittimo leso assorba il risarcimento da perdita di “chances”. Le tecniche di quantificazione del danno da perdita di “chances”, che fanno riferimento alla “probabilità” di conseguire il bene della vita finale (sia pure attraverso la mediazione procedimentale), non agevolano la distinzione. Ma proprio la ridetta necessaria intermediazione del potere e la natura stessa della norma di comportamento violata (di azione, si direbbe, secondo un’antica terminologia) potrebbe condurre invece ad una autonoma ricostruzione della perdita di “chances” nel diritto amministrativo. Al riguardo, un primo punto da chiarire è se davvero si abbia lesione da perdita di “chances” solo quando sia accertata definitivamente l’impossibilità di conseguire un risultato favorevole. Sottesa al quesito sopra posto, è tuttavia, più incisivamente, l’indagine sul rapporto tra “chance “e interesse legittimo. Se dovessimo ragionare come nel diritto civile, ove la “chance” è contenuto proprio del diritto (nella sua proiezione dinamica), autonomamente tutelabile e risarcibile, anche nell’interesse legittimo dovrebbe analogamente ritenersi contenuta la “chance”. A tale automatica sovrapposizione, osta tuttavia la sostanziale diversità tra le due figure di situazione giuridica soggettiva. Torniamo al nostro quesito. La riedizione del potere che consegue all’annullamento di un provvedimento, secondo le modalità conformate dal giudicato amministrativo, ricostituendo, di regola, la possibilità di conseguire il risultato, non potrebbe, per definizione, determinare la perdita di “chances” ma ricostituirebbe, integra, la “chance” nel patrimonio del soggetto. Si potrebbe, tuttavia, pensare che la riedizione del potere non determini affatto la ricostituzione della “chance” originaria, ma costituisca una sorta di “seconda chance”, a sua volta integra e suscettibile di “lesione”. Ogni attivazione procedimentale integrerebbe così una “chance”, autonomamente valutabile, di conseguire il risultato favorevole. Nel primo caso, la “chance” si sovrapporrebbe all’interesse pretensivo, mentre, nel secondo caso, piuttosto all’interesse procedimentale. Se poi si accertasse che il risultato del procedimento non potrebbe che essere favorevole al preteso danneggiato, ciò che si andrebbe a risarcire non sarebbe affatto la perdita di “chances” ma la perdita patrimoniale connessa al mancato risultato favorevole, come lucro cessante o danno emergente, essendo certa la verificazione dell’evento ove non fosse stata impedita dall’illegittimo esercizio del potere. La mera probabilità di conseguire il vantaggio sarebbe dunque, in tale caso, assorbita dalla certa perdita del vantaggio conseguibile per effetto del fatto lesivo intermedio. VI. Perdita di chance e appalti pubblici Il campo privilegiato di esercizio del giudice amministrativo a confronto con la perdita di “chance” è stato quello degli appalti pubblici , come naturale precipitato delle questioni risarcitorie fin da subito rilevanti per il diritto dei contratti pubblici innervato dagli acquis unionali. Ogni procedimento concorsuale, in effetti, dà agli operatori che vi partecipano una “chance” di aggiudicazione; il procedimento in sé costituisce una sequenza che progressivamente avvicina il concorrente al risultato finale favorevole; la sua interruzione e/o il suo esito sfavorevole determinano, dunque, la perdita di “chance” che, ove illegittimamente procurata, in astratto configurerebbe ex se una lesione risarcibile. Per contro, ove neppure vi fosse una procedura concorsuale ma, in ipotesi, un affidamento diretto, la perdita di “chance” sarebbe, ancora in astratto, ugualmente ravvisabile nella condotta dell’Amministrazione che avrebbe impedito il sorgere stesso di una “chance”. La “chance” è dunque ricostruibile come la possibilità, per l’operatore economico (naturalmente interessato al settore di attività e al mercato rilevante), di risultare affidatario della commessa e l’affidamento ad altri di per sé vanifica tale “chance”. Questo spiega perché la materia degli appalti sia quella più direttamente incisa dalla tematica in questione. Sta di fatto che, ad oggi, la perdita di “chance” è diventata una sorta di clausola di stile di tutte le domande risarcitorie connesse alle questioni in materia di appalti, sia nella forma di “chance perduta di ottenere l’aggiudicazione dell’appalto”, sia nella forma di “chance perduta di potersi aggiudicare l’appalto”. Un risalente caso si è occupato della “prima forma” di perdita di “chance” [20] . La complessa vicenda (passata anche per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) si è conclusa con l’annullamento dell’aggiudicazione disposta in favore della controinteressata, con obbligo di rinnovazione della procedura, ma con contestuale riconoscimento del risarcimento del danno da perdita di “chance”. L’interesse pretensivo a base della richiesta di tutela è stato dunque soddisfatto mediante l’obbligo rinnovatorio; da questo, tuttavia, è stata distinta la “chance”, connessa al procedimento esitato negativamente per l’istante ma autonomamente riguardata, la cui perdita è stata risarcita. La pronuncia sembra dunque divergere dall’indirizzo secondo cui la perdita di “chance” deve essere “definitiva” rispetto all’interesse pretensivo azionato [21] . Oppure, implicitamente, la pronuncia intende affermare che l’illegittimità accertata della prima aggiudicazione, mentre riespande l’interesse pretensivo, ricostituendolo, non riespande affatto la “chance” originaria, che è definitivamente persa (e deve essere dunque risarcita); il nuovo procedimento, dunque, determina di fatto l’insorgere di una nuova “chance”, oggettivamente diversa da quella originaria e perduta giacché, a tacer d’altro, “conformata” dal giudicato. Nel caso di specie, giova precisare, l’obbligo conformativo si riferiva all’intera procedura valutativa, alla quale avrebbero dovuto applicarsi criteri necessariamente diversi da quelli originariamente utilizzati dalla Stazione appaltante. Tuttavia, nella sentenza si legge che il danno da perdita di “chance” consegue alla lesione “definitiva” dell’interesse pretensivo dell’impresa esclusa da una gara d’appalto, non soddisfatto attraverso il bene della vita cui il partecipante alla gara aspirava. Tale danno (perdita di “chance”) si distingue dalla lesione dell’interesse pretensivo, che si soddisfa di norma in forma specifica attraverso la rinnovazione dell’esercizio del potere e che, per tale ragione (per la possibilità di una diversa forma di tutela, in forma specifica), non deve essere risarcito. Solo dal nuovo esercizio del potere può, infatti, a rigore, derivare certezza in ordine alla spettanza del bene cui il privato aspira per la necessaria intermediazione del potere pubblico che deve essere ri-esercitato. Dunque, per definizione, non può dirsi spettante ex ante il bene della vita rivendicato (vertendosi in ipotesi di potere discrezionale) e non può dunque trovare risarcimento l’interesse legittimo leso. Ma ben può invece trovare tutela, invece, la perdita di “chance” [22] . La lesione da perdita di “chance” opererebbe, dunque, quando non sono più possibili il riesercizio del potere, quantomeno nella originaria conformazione, e la piena reintegrazione dell’interesse pretensivo [23] . Spiega la pronuncia in esame che, non essendovi prova possibile dell’aggiudicabilità della gara all’ATI ricorrente, in ragione del metodo discrezionale di aggiudicazione (in ragione, diciamo noi, della necessaria intermediazione del potere da riesercitare), l’interesse pretensivo violato deve essere stimato come perdita di “chance” di aggiudicazione, parametrabile non solo alla perdita di quote di mercato, ma anche alla probabilità di aggiudicazione concretamente raggiunta nella specie. In tali ipotesi, il risarcimento dei danni dovrebbe essere negato fino alla rinnovazione degli atti di gara che, tuttavia, avvenendo in un altro momento e contesto storico, “ non è detto che possa coinvolgere nuovamente le parti in causa nello stesso modo e sulla base dei medesimi presupposti che erano a base dell’azione amministrativa giudicata illegittima ”. Il giudizio sulla spettanza, si afferma significativamente nella richiamata sentenza, “ ossifica eccessivamente, in tali casi, l’azione amministrativa e posticipa irragionevolmente le possibilità di ottenere il risarcimento ”; il giudice sarebbe, dunque, costretto a pronunciare una sentenza di inammissibilità dell’azione risarcitoria per difetto di presupposti. Ove non sia agevole o possibile la rinnovazione delle attività amministrative o delle operazioni di gara nella stessa conformazione originaria, il danno lamentato dovrebbe essere visto, allora, unicamente nella prospettiva della perdita di “chance”, senza alcun collegamento con il bene della vita cui in concreto si aspira(va). Ritorna, quindi, la suggestione civilistica in ordine al riconoscimento della risarcibilità della “chance” in via autonoma laddove non sia possibile riconoscere la perdita del bene della vita sottostante, in difetto di prova certa della sua definitiva perdita; di più, la riespansa possibilità di conseguire il bene (per effetto della riapertura del procedimento), non esclude affatto la risarcibilità della perdita di “chance”, ma anzi, per così dire, la conferma. Naturalmente, aggiunge la sentenza, occorre una consistente possibilità di successo (una “seria chance”, si dovrebbe dire), onde evitare che diventino ristorabili anche mere possibilità statisticamente non significative [24] e, in tale prospettiva, resta comunque decisivo distinguere tra probabilità di riuscita (“chance” risarcibile) e mera possibilità di conseguire l’”utilità sperata” (“chance” irrisarcibile). Tra la certezza e la mera possibilità, avverte il Collegio, c’è la “probabilità relativa”, consistente in un rilevante grado di possibilità, che si quantifica tuttavia nella percentuale del 50 % (ancora secondo la collaudata tecnica del giudizio probabilistico del più probabile che non) [25] . Quel che resta certo è che, per rilevare ai fini risarcitori della perdita della “chance”, deve essersi verificata l’interruzione di una successione di eventi potenzialmente idonei a consentire il conseguimento di un vantaggio, generando una situazione con carattere di assoluta immodificabilità, consolidata in tutti gli elementi che concorrono a determinarla, in modo tale che risulti impossibile verificare compiutamente se la probabilità di realizzazione del risultato si sarebbe, poi, tradotta, o meno, nel conseguimento dello stesso [26] . A voler inquadrare la sistematica della pronuncia in commento, dovremmo ricondurla alla tesi ontologica, mediata dalla rilevanza percentuale del grado di probabilità dell’evento, non meramente ipotetica. In altri casi, il giudice amministrativo ha invece aderito alla tesi c.d. eziologica , in base alla quale la consistenza della “chance” rileverebbe ai fini della sua stessa configurabilità; la “chance” va valutata nella sua funzione prospettica, ossia nella probabilità di sussistenza del nesso di causalità rispetto alla situazione finale e la “chance” (e la sua risarcibilità) andrebbe esclusa ove si registri un grado di probabilità inferiore a quello minimo richiesto [27] . È chiaro che stabilire un limite percentuale di riconoscibilità del bene “chance” facilita il compito del giudice, che escluderà dalla risarcibilità tutte le “chance” che si dimostrino non adeguate rispetto al limite dato. Ma non di rado il giudice ha invece insistito sull’autonomia della figura della “chance” ai fini risarcitori della sua “perdita”, tanto da provocare anche l’intervento dell’Adunanza Plenaria, che non ha, allo stato, ancora preso posizione [28] . Il caso sottoposto alla Plenaria, diversamente che nel caso esaminato dalla sezione sesta sopra commentato, originava da un affidamento diretto contra legem . Si tratta dunque della perdita di “chance” nella forma della perdita della possibilità di potersi aggiudicare l’appalto, posto che nessuna gara, finalizzata all’aggiudicazione, era stata esperita, e questo in via reiterata, con frustrazione delle “potenzialità espansive” connesse alla situazione di operatore economico del settore. Il giudizio impugnatorio, giova segnalare, si concludeva con l’annullamento dell’affidamento diretto senza declaratoria di inefficacia del contratto. Era dunque chiaro che la “chance” fosse stata definitivamente perduta, non essendovi spazio per alcuna rinnovazione procedimentale, se non pro futuro, ma ovviamente con riferimento a condizioni diverse da quelle verificabili al momento della condotta illecita. Nel separato giudizio risarcitorio, era quindi prospettato il danno da perdita di “chances”, non come mancato conseguimento di un risultato futuro possibile, ma come sacrificio, acclarato e definitivo, di occasione favorevole attualmente (ossia, all’epoca) presente nel patrimonio dell’impresa ricorrente. Orbene, secondo il giudice di prime cure, a tal fine non sarebbe stato affatto necessario dimostrare la probabilità dell’aggiudicazione secondo una percentuale pari almeno al 50% [29] , considerato che, nel caso concreto, tale percentuale, sulla base del numero dei concorrenti, superiore a 2, era certamente inferiore a quel limite. Riconosciuta l’esistenza della lesione, in effetti, il TAR aveva in concreto quantificato il danno risarcibile da perdita di “chances”. In sede di appello, la sezione investita, dubitando invece della configurabilità di una “chances” in presenza di una percentuale inferiore al 50% (dunque, al “più probabile che non”) rispetto all’evento favorevole auspicato e non verificato (né più verificabile), consistente nell’affidamento in favore della ricorrente, ha posto il quesito se dovesse applicarsi la teoria ontologica , che in tesi non contempla un grado minimo di percentuale di verificabilità dell’evento favorevole, ovvero quella eziologica, che avrebbe comportato, nella specie, il rigetto della domanda, essendo il grado di probabilità, sulla base del numero dei concorrenti, inferiore al 50%. La Plenaria non ha preso posizione sulla questione, rimettendo gli atti alla sezione e assumendo che nella specie era già stata accertata la lesione con un grado di probabilità quantificato nel 20%. Tanto sarebbe stato ostativo all’opportunità di ridiscutere funditus la questione, e questo perché la teoria ontologica non richiederebbe affatto la verifica del grado percentuale di verificabilità dell’evento favorevole; dunque, l’aver già accertato il grado percentuale della “chance” favorevole avrebbe significato, secondo la Plenaria, già aver ritenuto rilevante tale grado e dunque, in tesi, aver già superato il limite della possibile adesione alla teoria ontologica. Peraltro, l’accertamento aveva avuto riguardo alla esistenza effettiva di una lesione e anche tale dictum sarebbe stato ostativo ad una eventuale ulteriore pronuncia che invece avesse richiesto, per la configurabilità di una lesione, una percentuale minima di verificabilità della “chance” positiva. Il problema posto dalla Sezione rimettente, e cioè “la questione dei limiti entro i quali è ammesso il risarcimento della chance”, non avrebbe, dunque, potuto “essere affrontata in modo avulso, ed anzi è inevitabilmente condizionata fino alla sua negazione dalla dimostrazione che l’illegittimità dell’amministrazione non ha inciso su un inesistente o trascurabile probabilità di risultato utile per l’operatore economico asseritamente leso, sub specie di conseguimento della commessa pubblica” [30] ; la questione, dunque, sarebbe stata posta male o, per meglio dire, le perplessità sulla scelta tra teoria ontologica ed eziologica sarebbero quantomeno tardive [31] . La apparente pronuncia di non liquet resa dalla Plenaria merita tuttavia, ad avviso di chi scrive, ulteriore approfondimento, segnatamente nella parte in cui segnala che l’opzione tra teoria ontologica e teoria eziologica non ha riferimento soltanto al problema dell’astratta risarcibilità della “chance”, ma “ implica rilevanti conseguenze in ordine alla qualificazione della natura giuridica della figura, all’identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie, all’accertamento dell’ingiustizia del danno e del nesso di causalità, all’accertamento probatorio e al grado di certezza con esso richiesto, alla determinazione della consistenza della situazione soggettiva vantata nei confronti del debitore, agli eventuali criteri di liquidazione del danno ” [32] . Sembra, dunque, che la Plenaria voglia riservarsi una pronuncia “a mani libere”, piuttosto che rimanere incagliata sulla questione in concreto sollevata, oggettivamente limitata alla sola alternativa tra teoria ontologica ed eziologica della “chance”. Non a caso, segnala che, astrattamente, sarebbero ben possibili “ percorsi ricostruttivi alternativi ovvero intermedi e comunque eclettici rispetto alla dicotomia tra teoria ontologica e teoria eziologica ”. Se il percorso “alternativo”, lungi dal concentrare la scelta tra teoria ontologica e teoria eziologica, sembra suggerire una soluzione ancora diversa e cioè una ricostruzione totalmente altra della “chance” perduta e dei presupposti del suo risarcimento, il percorso “intermedio” potrebbe invece, ad esempio, valorizzare l’elemento percentuale ai soli fini quantificatori del risarcimento, ferma la configurabilità della “chance” in quanto tale, mentre il percorso “eclettico” potrebbe combinare diversamente elementi delle due teorie. Quel che è certo è che alla Plenaria, e forse al giudice amministrativo, sta stretto il letto di “Procuste” delle teorie formate in ambito civilistico. VII. La perdita di chance al di fuori degli appalti Apparentemente estranea all’ambito che ne occupa è altra pronuncia dell’Adunanza plenaria [33] , che riguarda principalmente la definizione della responsabilità risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione come responsabilità extracontrattuale [34] . Per i rilevanti addentellati con la problematica all’esame, sembra tuttavia opportuno darne conto. Dunque, secondo la Plenaria, esclusa ogni altra ipotesi ricostruttiva (responsabilità contrattuale o para-contrattuale, da “contatto sociale” qualificato), la responsabilità della pubblica amministrazione è tout court responsabilità extracontrattuale, che presuppone l’accertamento di un bene della vita, con i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza. In un caso di ritardato provvedimento autorizzatorio relativo alla realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica con fonti rinnovabili, fino ad un certo tempo assistita da benefici incentivanti per legge, non è dubbio che il ritardo abbia inciso sulle concrete modalità di possibile acquisizione dei vantaggi sperati; nel caso esaminato, sulla stessa fattibilità dell’intervento, poi definitivamente precluso da intervenute modifiche normative che hanno cancellato le disposizioni incentivanti [35] . Il ritardo a ragione può essere ritenuto, dunque, “causa efficiente” della lesione del patrimonio del soggetto, che non potrà (più) ottenere il beneficio e che ha pure perso la “chance” di ottenerlo stante la modifica normativa. È dunque evidente l’impatto con la problematica all’esame. Come si pone l’accertata lesione dell’interesse pretensivo, attraverso la violazione dei tempi procedimentali (incidente sul mancato ottenimento del bene della vita), rispetto alla “chance” di ottenere il medesimo bene? La Plenaria non ha dubbi nel ritenere accertata la lesione dell’interesse pretensivo/bene della vita all’ottenimento del beneficio quantomeno per tutto il tempo in cui è rimasta in vigore la disposizione incentivante, dovendosi accertare, piuttosto, se anche per il futuro la ricorrente avrebbe potuto comunque fruirne. In ogni caso, afferma che: “ il danno va liquidato nelle forme del danno da perdita da chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa (come “lucro cessante”) e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione ” [36] . Accanto alla tradizionale tematica della natura della tutela risarcitoria come strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione [37] , è significativa l’affermazione che il requisito dell’ingiustizia del danno non è affatto assorbito dalla violazione della regola contrattuale, ma piuttosto il risarcimento è riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, e dunque solo se è configurabile una lesione della sfera giuridica del privato costui sarebbe legittimato a domandare il risarcimento per equivalente monetario. In altri termini, “ nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza ”. [38] Tale affermazione, come detto, non riguarda il danno da perdita di “chance” ma il danno da lesione dell’interesse legittimo “pretensivo”, e tuttavia quest’ultimo va risarcito secondo le tecniche di risarcimento del danno da perdita di “chance”, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, senza riguardo a quanto l’impresa avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dall’amministrazione, e ciò perché l’attività non è stata svolta, il procedimento non ha avuto seguito e non può darsi per verificato un evento – l’avvio e lo svolgimento per tutta la durata prevista dall’attività di impresa in regime di incentivo - nei tempi pregiudicati dall’attività amministrativa. VIII. Le prospettive La pronuncia della Plenaria in materia di perdita di “chance” risale ormai al 2018 e, nelle more, ha indotto qualche approfondimento sul tema. Una più recente sentenza [39] valorizza, ad esempio, per caratterizzare la fattispecie, l’accertamento della “ violazione di una norma di diritto pubblico, che, non ricomprendendo nel suo raggio di protezione l’interesse materiale, assicura all’istante soltanto la possibilità di conseguire il bene finale. L’ingiustizia del nocumento assume ad oggetto soltanto il quid giuridico, minore ma autonomo, consistente nella spettanza attuale di una mera possibilità ” [40] . Il Consiglio di Stato rimarca anzitutto la differenza tra le fattispecie civilistiche che ricostruiscono le vicende partendo dalla causalità (in avanti) rispetto al risultato sperato e dunque alla elevata probabilità di realizzazione dello stesso, specie in casi di deficit cognitivo sul processo eziologico [41] . La perdita di “chance” prospetta invece un’ipotesi assai ricorrente di danno solo ipotetico”, in cui non si può oggettivamente sapere se un risultato vantaggioso si sarebbe o meno verificato. In tali casi, pur essendo certa la contrarietà al diritto della condotta di chi ha causato la perdita della possibilità, non è conoscibile l’apporto causale rispetto al mancato conseguimento del risultato utile finale [42] . La conclusione è che il risarcimento della “chance” perduta è dunque “ il controvalore della mera possibilità già presente nel suo patrimonio, di vedersi aggiudicato un determinato vantaggio, e dunque l’an del giudizio deve consistere soltanto nell’accertamento del nesso causale tra la condotta antigiuridica e l’evento lesivo consistente nella perdita della possibilità. La tecnica probabilistica va quindi impiegata non per accertare l’esistenza della chance come bene a sé stante, ma per misurare in modo equitativo il valore economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile. Anche se commisurato ad una frazione probabilistica del vantaggio finale, il risarcimento è pur sempre compensativo non del risultato sperato ma della privazione della possibilità di conseguirlo ”. Ma, aggiunge il Collegio, “la chance perduta deve essere seria” e “la possibilità di realizzazione del risultato utile deve rientrare nel contenuto protettivo delle norme violate, onde evitare di riconoscere valore giuridico a chances del tutto accidentali”. Si tratta, a ben vedere, di indirizzo del tutto in linea con la giurisprudenza della Cassazione che esclude l’ammissibilità di azioni bagattellari o emulative e la risarcibilità delle chances se le probabilità perdute si attestino ad un livello del tutto infimo. Sulla stessa linea si pone altra recentissima pronuncia [43] , che anzitutto richiama la precedente sentenza n. 4247/2021 sulla astratta sussistenza dei presupposti per la tutela del danno da perdita di “chances” in capo al richiedente nella sua qualità di operatore specializzato [44 ] e rimarca che “ le norme sull’evidenza pubblica attribuiscono posizioni individuali ai privati e la loro violazione è fonte di lesione della chance di concorrere all’affidamento del contratto ad esse correlata ” [45] . Questo punto di partenza innesca un percorso argomentativo serrato che possiamo così sintetizzare: - la “chance” è già presente nel patrimonio dell’operatore economico, poiché insita nell’aspettativa, giuridicamente tutelata, al rispetto degli obblighi di evidenza pubblica da parte delle amministrazioni ad essi soggette; - detta “chance” costituisce una posizione giuridica soggettiva qualificata dalla legge e dunque suscettibile, se lesa, di integrare il presupposto del danno ingiusto ( contra ius ) richiesto dall’art. 2043 c.c.; - la lesione derivante dalla mancata attivazione dei moduli dell’evidenza pubblica consiste nel fatto illecito produttivo del danno ingiusto di tale aspettativa giuridicamente qualificata; - l’impossibilità, da parte dell’operatore economico, di dimostrare una “chance” superiore ad altri possibili concorrenti, ovvero un grado più o meno elevato di probabilità di conseguire l’aggiudicazione, è imputabile all’amministrazione che abbia violato tali schemi di azione (con significativa imputazione dell’onere probatorio sul danneggiante, benché si verta in tema di responsabilità aquiliana; una volta accertata la lesione, consistente nella violazione di legge a “protezione” della chance, incombe sull’Amministrazione la prova che la possibilità di conseguimento del vantaggio finale fosse in realtà insussistente o trascurabile); - non è pertanto esigibile dall’operatore economico danneggiato, se non attraverso una prova diabolica tale da vanificare i principi eurounitari di effettività e non discriminazione dei rimedi previsti in materia di procedure di affidamento di contratti pubblici, una dimostrazione ulteriore rispetto alla propria qualità di soggetto in grado di eseguire il contratto, (scorrettamente) affidato senza gara; - il mancato rispetto degli obblighi di evidenza pubblica costituisce la violazione più grave nel settore dei contratti della pubblica amministrazione; - il rimedio risarcitorio, quando non possono essere accordati quelli maggiormente dissuasisi della privazione degli effetti del contratto o delle sanzioni pecuniarie nei confronti dell’amministrazione, si pone come strumento fondamentale per assicurare l’effettività dei rimedi giurisdizionali in materia, in assenza del quale vi sarebbe un vuoto di tutela per una situazione giuridica qualificata dalla legge [46] ; - non è ravvisabile alcuna iperprotezione della “chance” di aggiudicazione rispetto al diritto dell’aggiudicazione in sé, ottenibile in caso di affidamento all’esito di procedura di gara dichiarata illegittima; nel secondo, l’equivalente monetario può giungere fino al 100% del mancato utile ritraibile dall’esecuzione del contratto, mentre nel primo questo va scontato in base al grado di incertezza degli esiti di una gara mai esperita a causa e per colpa dell’amministrazione; - il fattore di correzione quantitativa che rende la “chance” di aggiudicazione un minus rispetto al diritto all’aggiudicazione è dato dal numero di operatori economici potenziali aspiranti alla commessa pubblica affidata senza gara e che invece a quest’ultima avrebbero potuto concorrere se l’Amministrazione non si fosse sottratta agli obblighi su di essa gravanti; - ne segue una sentenza di condanna ex art. 34 c.p.a., individuando, quali criteri di determinazione del danno, l’entità della “chance” ricavabile dalle caratteristiche del mercato, l’andamento di procedure simili, le percentuali di utile sulla base dei dati ricavabili dalla gestione del servizio, la base dei costi differenziali connessi alle attività svolte, il valore dell’affidamento e la durata della convenzione. La materia degli appalti, naturalmente, non esaurisce il possibile perimetro di applicabilità della problematica. Il pubblico impiego , coerentemente con le applicazioni gius-lavoristiche, costituisce diverso altro ambito applicativo. Curiosamente, con esiti differenti. Una recente pronuncia, in materia di perdita di chances sui possibili sviluppi di carriera, ad esempio, prende decisa posizione in favore della teoria eziologica [47] . A valle della problematica all’esame sta poi la questione della quantificazione del danno da perdita di chances. Ove si ritenesse l’autonomia della figura, dovrebbe coerentemente scindersi il più possibile la quantificazione del danno dalla consistenza del bene della vita sperato e in alcuni casi il legislatore ha ipotizzato forme di indennizzo forfettario, presuntive dell’ammontare del pregiudizio correlato alla perdita di chance [48] . Si tratta però di settori speciali, essendo difficilmente ipotizzabile una generalizzazione. L’impressione è, però, che la giurisprudenza tenti di valorizzare il proprium del diritto pubblico a partire dall’individuazione della ratio delle relative norme. Il percorso suggerito dall’Adunanza Plenaria non è agevole e presuppone lo smarcamento dalla giurisprudenza civilistica ma anche la consapevolezza della praticabilità di percorsi alternativi e, per certi versi, del tutto inediti. Occorrerebbe, probabilmente, una riflessione più approfondita sulle peculiarità del rapporto di diritto amministrativo che già riconosce, nell’interesse procedimentale, una posizione legittimante e tutelabile quantomeno alla conclusione del procedimento, se non al suo esito, che attiene invece all’interesse legittimo sostanziale (nella forma pretensiva). L’interesse oppositivo, invece, forse potrebbe trovare qualche motivo di attinenza con la figura della “chance” conosciuta nel diritto civile, come naturale proiezione della situazione data, illegittimamente impedita dall’intermediazione pubblica. Il rilievo che potrebbe attribuirsi all’interesse procedimentale potrebbe, peraltro, costituire il grimaldello per distinguere la “chance” dall’interesse legittimo sostanziale (pretensivo o oppositivo). Resta forse da chiarire se la chance è da riconoscere in ogni interesse procedimentale, come suggerito da autorevole dottrina [49] o se una volta esclusa l’annullabilità per vizi meramente procedimentali debba essere esclusa anche la “chance”, per non incorrere nella iperprotezione della situazione non tutelata sostanzialmente dall’ordinamento; se l’esito non può essere diverso, infatti, ciò vale a significare che non vi è neppure la “minima chance”, se non a condizione di un “abuso” del procedimento, di ottenere il risultato utile. E naturalmente resta da chiarire il rapporto tra la chance/interesse strumentale e la quantificazione del danno in caso di sua lesione; se, come sembra probabile, non potrà essere eluso il riferimento al bene della vita cui in definitiva l’interesse è, per definizione, strumentalmente rivolto, potremmo invero ritrovarci con le medesime aporie con cui la tematica si è finora confrontata. [1] Come noto, le società di “rating” calcolano il valore di un sistema proprio sulla base delle sue potenzialità future. [2] “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. [3] Come hanno dimostrato i ben noti teoremi di incompletezza di Godel e il principio di indeterminazione di Heisemberg. [4] Cass., sez. lav., 10.1.2007, n. 238: “il danno derivante dalla perdita di chance non è una mera aspettativa di fatto, ma una entità patrimoniale a sé stante, economicamente e giuridicamente suscettibile di autonoma valutazione”. [5] Cass. civ., n. 23846/2008: “Quando sia fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di che trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione”. [6] Cass. civ., cit.: “La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla”. [7] cfr. sentenze riportate nelle note precedenti. [8] Cass. civ., n. 6488/2017, che cita la precedente Cass. civ., n. 1752/2005. [9] Ancora Cass. civ., n. 6488/2017. [10] Cass. civ., n. 7868/2011, secondo cui occorre considerare le “opportunità di guadagno e di lavoro, oltre che di maggiori gratificazioni personali e sociali, che il ricorrente avrebbe potuto conseguire con la prosecuzione degli studi”. [11] Così ancora la Cassazione civile nella sentenza citata nella nota precedente: “il danno risarcibile al lavoratore va ragguagliato alla probabilità di conseguire il risultato utile, al qual fine è sufficiente la ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole (non necessariamente superiore al 50%)”. [12] Potrebbe osservarsi che, ragionando in tal modo, la “chance” è solo un modo per compensare il “deficit” cognitivo riferito al nesso di causalità tra condotta lesiva ed evento dannoso; non potendo imputare con certezza l’evento finale alla condotta, si preferisce imputare a questa, anche a fronte di un giudizio di non piena certezza ma di sola probabilità, la “perdita di chance”, ossia una fase intermedia, più o meno avanzata, di acquisizione del bene. [13] Si accede così ad un “giudizio causale attenuato”, secondo l’indirizzo fatto proprio dalla Cassazione penale a sezioni unite nel leading case noto come “caso Franzese” (Cass., sez. u., pen., 10.7.2002, n. 31328), nel quale si è riconosciuta la perdita di guadagno come causalmente riconducibile alla condotta dell’agente, anche in carenza di alta probabilità o certezza logica sul piano causale. [14] Cass. 4 marzo 2004, n. 4400. [15] “Per questa via è dunque possibile ritenere sempre rilevanti quei comportamenti che diminuiscano in modo apprezzabile, ancorché non probabilisticamente rilevante, la possibilità di sopravvivenza”; cfr. Cass. cit. [16] Cass. civ.. 18 aprile 2007, n. 9238. [17] Cass., sez. lav., 18 gennaio 2006, n. 852. [18] P. Lotti, Il risarcimento del danno da perdita di chance in “Il Libro della giustizia amministrativa”, 2021, pag. 412 e segg.: “per un verso … le domande di risarcimento del danno da lesione di un diritto soggettivo e da lesione di un interesse legittimo non sono riconducibili ad un unico paradigma di risarcibilità, poiché le due posizioni soggettive non sono affatto omologhe ma, anzi, si distinguono profondamente. Alla differente tipologia di pregiudizio corrisponde un diverso criterio di quantificazione. Inoltre, è ovvio che l’accertamento del danno risarcibile per equivalente, non solo sotto il profilo dell’an, ma anche del quantum, pone problemi probatori differenziati a seconda che si verta in tema di interessi oppositivi o di interessi pretensivi”. Il risarcimento del danno da lesione di interesse oppositivo sarà intuitivamente più simile al risarcimento riconosciuto dalla giurisprudenza civile. Nel caso dell’interesse pretensivo, le regole saranno probabilmente diverse. [19] “La possibilità di conseguire un risultato utile, unita alla protezione normativa del connesso interesse, è connotato dell’interesse legittimo, ma l’analogia si ferma qui, giacché la chance nel significato tecnico che è proprio del linguaggio della responsabilità civile è un bene sui generis, che preesiste alla condotta lesiva ma che, al tempo stesso, prende consistenza giuridica nel momento nel quale viene sottratto illegittimamente: l’antigiuridicità della condotta che è causa della perdita costituisce elemento essenziale per il venir in essere della chance intesa come bene suscettibile di autonoma tutela (ancora Lotti, cit.). [20] Consiglio di Stato, VI, n. 5323/2006. [21] Ivi si legge: “Non essendovi prova possibile dell’aggiudicabilità della gara all’ATI ricorrente, in ragione del metodo discrezionale di aggiudicazione, l’interesse pretensivo violato deve essere stimato come una perdita di chance di aggiudicazione, parametrabile non solo alla perdita di quote di mercato, ma anche alla possibilità di aggiudicazione concretamente raggiunta nella specie.” [22] “La chance, secondo questa prospettiva ricostruttiva, si pone quale bene patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, e deve essere distinta, sul piano ontologico, dagli obiettivi rispetto ai quali risulti teleologicamente orientata e di cui possa costituire la condizione o il presupposto in potentia” (cfr. Cons. di Stato, cit.). Dunque, risarcibilità della perdita di chance scissa dall’interesse pretensivo, autonomamente tutelato e reintegrato in forma specifica con l’ordinata rinnovazione, che non riproduce la stessa situazione iniziale (la stessa chance, si direbbe) ma genera, di fatto, una “seconda chance”. [23] “Ne consegue che la lesione della “entità patrimoniale chance” formerà oggetto di valutazione ai fini del riconoscimento di un risarcimento del danno, in termini di probabilità, definitivamente perduta, a causa di una condotta illecita altrui, senza dover fare alcun riferimento al risultato auspicato e non più realizzabile ed alla consistenza del suo assetto potenziale”. Non si tratterebbe, dunque, di lucro cessante, risarcibile quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, la chance persa aveva notevole possibilità di giungere a buon fine. La richiamata sentenza, con evidenza, già ripercorre lucidamente tutte le questioni che si svilupperanno al riguardo ed anzi pone problematiche non più approfondite nel prosieguo. Quanto al sistema probatorio applicabile, ad esempio, perché, aderendo all’impostazione “ontologica”, sarebbe sufficiente dimostrare la semplice probabilità della chance, accompagnata dalla constatazione che il bene anelato è oramai irrimediabilmente perso e dall’accertamento del nesso eziologico tra la condotta e l’evento lesivo, consistente nell’elisione di quell’entità patrimoniale, avente autonoma rilevanza giuridica ed economica, rappresentata dall’utilità potenziale che si assume lesa; per la seconda ricostruzione interpretativa (tesi eziologica), sarebbe invece necessario provare che la chance persa avrebbe condotto al sorgere ex novo di una situazione soggettiva di vantaggio avente propria rilevanza patrimoniale con un grado di verosimiglianza vicino alla certezza; occorre cioè dimostrare che si sarebbe verificato un evento positivo per il danneggiato con rilevante probabilità, ove lo stesso non avesse subito il pregiudizio cagionato dalla condotta contra legem . [24] cfr. Cons. di Stato, VI, n. 686/2002. Del resto, anche il danno c.d. “bagattellare” (cioè quello di minima consistenza) è escluso dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. La differenza è che in questo caso il danno bagattellare è desunto dalla “minima possibilità di successo”, ad ulteriore riscontro della rilevanza, comunque, della consistenza probabilistica della chance. [25] Il Collegio si chiede anche come incida la discrezionalità sull’esito del giudizio prognostico, all’uopo distinguendo tra ipotesi di attività vincolata, tecnico-discrezionale e discrezionale pura. [26] cfr. Cons. di Stato, VI, 15.4.2003, n. 1945. [27] Evidente è l’aleatorietà, se non l’arbitrarietà, di siffatto criterio. La maggiore o minore probabilità del verificarsi di un evento non incide sulla “concretezza” della lesione, che va riguardata ex ante. Anche la “minima chance” può trovare possibilità di essere verificata. Manca poi un dato normativo al quale ancorare la percentuale minima di riconoscimento dell’entità chance, lasciando al singolo decisore la responsabilità di graduare l’entità della chance rilevante. [28] cfr. Adunanza Plenaria, ord. n. 7/2018. [29] TAR Lazio, n. 4997/2012. [30] Cfr. Cons. di Stato, V, sentenza n. 118/2018, non definitiva. [31] La stessa sentenza non definitiva (cfr. nota precedente) aveva accertato in effetti “un rapporto di causa ed effetto tra l’affidamento senza gara a T. e la perdita della chance di aggiudicazione dello stesso vantata da F. nell’eventuale procedura di gara, quale operatore economico del medesimo settore, (che) appare ravvisabile sulla base del fatto che l’illegittimità del primo - oramai non più controvertibile – ha impedito all’originario ricorrente di concorrere per lo stesso sulla base dei moduli di evidenza pubblica. Il profilo in questione è orami acclarato e non può ancora essere messo in discussione sulla base di diverse soluzioni “(cfr. Ad.pl. cit., punto V.15). Quantificava addirittura la consistenza della chance nella misura del 20%, “derivante dall’esistenza di cinque operatori qualificati nel mercato dei servizi di comunicazioni elettroniche per le pubbliche amministrazioni”. [32] Ad. Pl. cit., punto 2.1. della motivazione. [33] n. 7/2021. [34] Si può dire che riguardi il primo degli elementi della griglia indicata dalla Plenaria n. 7/2018, e cioè la “qualificazione della natura giuridica della questione”. [35] Caso originato dal ritardo (oltre tre anni) nel provvedere al rilascio di autorizzazione di realizzazione e gestione di impianti fotovoltaici, che aveva determinato la perdita di chance definitiva perché l’investimento sarebbe diventato antieconomico per effetto delle modifiche del regime di accesso al regime tariffario incentivante previgente. [36] Osserva opportunamente l’Adunanza plenaria che non può semplicisticamente ritenersi la sopravvenienza normativa (nella specie, abrogativa del regime incentivante) come automaticamente escludente la responsabilità della P.A: “se è vero che, nella dinamica dei rapporti giuridici, la sopravvenienza normativa è in sé un factum principis, in grado pertanto di escludere l’imputazione soggettiva delle relative conseguenze pregiudizievoli, nondimeno l’ingiustificato ritardo nel rilascio del provvedimento ingenera …una responsabilità in capo all’amministrazione coerente con la funzione dei termini del procedimento, consistente nel definire un quadro certo relativo ai tempi in cui il potere pubblico deve essere esercitato e dunque è ragionevole per il privato prevedere che sia esercitato nel settore della realizzazione degli impianti in questione .. a tali considerazioni di ordine generale si aggiunga che ilo regime incentivante connesso al ricorso a fonti rinnovabili di produzione energetica fa assurgere l’investimento privato a fattore chiave, destinato a ricevere tutela secondo le descritte norme di azione dei pubblici poteri principalmente attraverso la definizione di tempi certi per il rilascio dei necessari titoli autorizzatori. [37] Cfr. Corte. Cost., n. 204/2004. [38] Cfr. Ad. Pl. n. 7/2021. [39] Cons. di Stato, VI, 13 settembre 2021, n. 6268; si veda, in particolare, il paragrafo 6.1. [40] La sentenza riforma la pronuncia di primo grado che aveva sposato la tesi eziologica affermando che “al disotto del livello dell’elevata probabilità, non sussiste che la “mera possibilità” che è solo un ipotetico danno, non meritevole di reintegrazione, perché non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto. Anche in questo caso, si lamentava l’illegittimità di illegittime proroghe (relative a servizio di trasporto pubblico locale) e il mancato possibile affidamento diretto o in esito a procedura di gara. [41] Si pensi alle ipotesi civilistiche in cui su base probabilistica (del più probabile che non) è affermata la responsabilità dei sanitari sulla diminuzione delle chance di sopravvivenza rispetto alla somministrazione o meno di una determinata terapia ovvero alla ritardata erogazione delle cure. [42] Il caso, frequente nella casistica giudiziaria, potrebbe essere quello della mancata gara pubblica a fronte dell’incertezza sul numero dei possibili competitores ; sarebbe assai difficile, se non impossibile, calcolare le chances di successo se il riferimento fosse al bene finale (aggiudicazione). Non è dubbio, però, che, se la gara è mancata, il potenziale concorrente non è stato posto in condizione di parteciparvi; gli è stata preclusa la possibilità stessa di “giocare”. [43] Cons. di Stato, V, n. 2201/2022, pubblicata il 25 marzo 2022, che riforma TAR Lombardia – Milano, I, n. 645/2021. Il caso origina ancora da un affidamento senza gara (in tema di servizi automobilistici sub specie di gestione di tasse automobilistiche, concesse in via diretta all’ACI). Il primo giudice aveva respinto l’istanza cautelare stante la difficoltà di proseguire nelle more il servizio e aveva rigettato la domanda risarcitoria ritenendo soddisfatta la pretesa dalla possibilità per l’operatore economico di partecipare all’indicenda gara. Il giudice di appello accoglie l’appello incidentale, proposto dal ricorrente in primo grado (vittorioso nel segmento impugnatorio) ritenendo non integralmente satisfattiva la pronuncia di annullamento e la tutela specifica (costitutiva) dell’interesse pretensivo, [44] cfr. punto 9.5 della decisione. [45] cfr. punto 9.6 della decisione. [46] Il riferimento espresso è a Corte di giustizia UE 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz. [47] cfr. Cons. di Stato, V, n. 1277/2022, pubblicata il 22 febbraio 2022; “7.1. 2 superata la teoria ontologica secondo cui la risarcibilità sarebbe svincolata dalla idoneità presuntiva della chance ad ottenere il risultato finale, si è affermato il diverso indirizzo c.d. eziologico legato al criterio della c.d. causalità adeguata o regolarità causale e/o probabilità prevalente. Il danno da perdita di chance può essere in concreto ravvisato e risarcito solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto diritto di conseguire il bene della vita o cioè in ragione della maggiore o minore probabilità dell’occasione perduta.” In concreto viene negata la risarcibilità perché presuppone la concreta prestazione del servizio che non c’è stata e comunque manca una prova certa. Mi sembra, tuttavia, che il caso risenta dell’inerenza a controversia lavoristica e dunque dell’influenza della giurisprudenza della Cassazione. [48] cfr. art. 6 T.U. n. 165/2001, che individua una presunzione di legge circa l’ammontare del pregiudizio correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile in caso di mancata stabilizzazione del lavoratore impegnato in continui rinnovi di contratti a termine; su cui si veda Cass., sez un., n. 5072/2016). Sulla natura dell’istituto come strumento equivalente che esonera il lavoratore dell’onere della prova fermo il diritto di provare danni ulteriori si veda anche Cons. di Stato, VI, n. 2298/2022 [49] E. Follieri, “L’ubi consistam della perdita di chance nel diritto amministrativo”; relazione tenuta nel corso del medesimo incontro che ha originato il presente scritto e già pubblicata sul sito internet della G.A.
Autore: di Francesco Tallaro 01 giu, 2022
Un istituto di credito richiede al tribunale e ottiene un decreto ingiuntivo, in forza di un contratto stipulato con il debitore, un consumatore. Il decreto ingiuntivo non viene opposto e, pertanto, diviene definitivamente esecutivo, ai sensi dell’art. 647 c.p.c. L’istituto creditore avvia, dunque, la procedura esecutiva, ma il giudice dell’esecuzione rileva d’ufficio che l’entità del credito dipende da una clausola penale che deve essere considerata abusiva ai sensi dell’art. 33 ss. d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, recante il codice del consumo. Come noto, secondo il diritto processuale civile ogni questione relativa alla validità del contratto da cui deriva il credito è coperta dalla preclusione pro iudicato , che attribuisce al decreto ingiuntivo non opposto forza di giudicato. Il giudice dell’esecuzione, tuttavia, si interroga se tale assetto processuale sia in linea con la direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 , che obbliga gli Stati membri ad assicurare ai consumatori una tutela effettiva nei confronti delle clausole abusive contenute nei contratti da loro stipulati. Propone, quindi, questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea . Con la sentenza della Grande Sezione del 17 maggio 2022 , pronunciata nelle cause riunite C‑693/19 e C‑831/19 , la Corte ha quindi dato risposta alla questione pregiudiziale illustrata, che frattanto era stata sollevata anche da un diverso giudice. La Corte, pur riconosciuta l’importanza che l’autorità del giudicato ha per l’ordinamento europeo e per gli ordinamenti nazionali, ha tuttavia precisato che l’obbligo per gli Stati membri di garantire l’effettività dei diritti riconosciuti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione implica un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva . In assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto stipulato con il consumatore, il rispetto dei diritti conferiti al consumatore dalla direttiva 93/13, non può essere garantito [1] . Quindi, una normativa nazionale, come quella che in Italia disciplina il decreto ingiuntivo, secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta nel decreto monitorio, può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela del consumatore, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali. Ne consegue che, in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione. In sostanza, quindi, l’ autorità della cosa giudicata cede alle esigenze di tutela piena dei diritti dei consumatori , in ragione dell’importanza dell’interesse pubblico ad essi riconnesso. La presa di posizione della Corte di Giustizia non può sorprendere, perché è evidente che l’autorità del giudicato sta da tempo subendo una lenta, ma continua ed inesorabile erosione, derivante dal confronto tra le regole processuali nazionali e i principi europei, così come incarnati, nei due diversi ma osmotici ordinamenti continentali cui la Repubblica italiana aderisce, dal case law della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Lo smottamento del principio di intangibilità del giudicato, quindi, si verifica su due diversi versanti. Da un lato si staglia la necessità di rivedere il contenuto del giudicato nel caso in cui la Corte europea dei Diritti dell’Uomo abbia accertato che, nello svolgimento del processo che ha portato alla formazione della cosa giudicata, ci sia stata la violazione di un diritto fondamentale della parte che al giudicato è soggetta. In ambito penale, il bisogno è stato soddisfatto dalla Corte costituzionale [2] , che ha interpolato l’art. 630 c.p.p. per inserire, quale nuova ipotesi di revisione del processo, quella in cui occorra conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1 della Convenzione. Ciò avviene quando la sentenza della Corte sia stata resa sulla medesima vicenda oggetto del processo definito con sentenza passata in giudicato; oppure quando essa abbia natura di “sentenza pilota”, riguardante situazione analoga a quella oggetto del giudicato, verificatasi per disfunzioni strutturali o sistematiche all'interno del medesimo ordinamento giuridico; o, ancora, quando la Sentenza della Corte abbia accertato una violazione di carattere generale e ricorra una situazione corrispondente che implichi la riapertura del dibattimento [3] . Analogo intervento manipolativo è stato sollecitato con riferimento al giudicato amministrativo [4] , ma il giudice delle leggi, con un iter argomentativo che si applica tout court anche al giudicato civile, è, in questo caso, giunto a un esito diverso [5] . La Corte costituzionale, infatti, ha evidenziato che nei vari ordinamenti nazionali non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una sentenza della Corte che abbia accertato violazioni convenzionali e che, secondo la giurisprudenza di Strasburgo [6] , pur essendo opportuno che gli Stati contraenti adottino delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, è comunque rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguardi terzi con i propri legittimi interessi da tutelare. Ciò posto, nel processo amministrativo, così come nel processo civile, non si pone, come nel contesto penalistico, un problema di compressione della libertà personale che giustifichi il sacrificio della stabilità della res iudicata . Inoltre, nel processo amministrativo (e nel processo civile) è fisiologica la compresenza di una pluralità di soggetti portatori di diversi interessi, che non necessariamente sono coinvolti nel giudizio davanti alla Corte di Strasburgo. Di conseguenza, l’automatica caducazione del giudicato amministrativo contrastante con i diritti assicurati dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe comportare il sacrificio degli interessi di tali soggetti in assenza di un previo contraddittorio. Su questo versante, quindi, l’autorità del giudicato civile e amministrativo resiste, ma rimane – in dottrina [7] – il dubbio che non la si debba, con un intervento legislativo, allentare o superare per meglio conformare l’ordinamento italiano all’ordinamento derivato dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Sul versante dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, i fronti su cui l’autorità del giudicato vede degli smottamenti sono molteplici. Formalmente, la Corte di Lussemburgo presta ossequio all’ intangibilità del giudicato , ricordando puntualmente l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, posto che, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici tanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili, o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi, non possano più essere rimesse in discussione [8] . E tuttavia, l’ordinamento dell’Unione europea prevede la responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, anche quando tale violazione sia stata consacrata da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado [9] , persino se il contrasto sia emerso in forza di una pronuncia della Corte di Giustizia posteriore alla formazione del giudicato, e ciò perché il giudice di ultimo grado aveva l’obbligo di interrogare la Corte di Lussemburgo prima di decidere [10] . In tali ipotesi, è richiesto al giudice dell’azione risarcitoria di valutare la conformità del dictum , ormai divenuto cosa giudicata, al diritto europeo, con evidente dequotazione dell’autorità del giudicato, un tempo in grado di fare de albo nigro , ma ormai oggetto di nuova valutazione da parte di un giudice del merito. Come già anticipato, le deroghe all’autorità del giudicato che, via via, la Corte di Giustizia ha imposto sono però molteplici. In primo luogo, la Corte si è spinta ad affermare l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di rivedere una decisione confermata in sede giurisdizionale, quando l’interpretazione adottata dalla decisione divenuta cosa giudicata è risultata, in forza della giurisprudenza della medesima Corte europea, in contrasto con il diritto europeo, e purché il diritto interno consenta alle amministrazioni stesse di rivedere la loro decisione e l’interessato si sia rivolto ad esse tempestivamente [11] . Peraltro, la richiesta di riesame dell’atto da parte dell’interessato non è preclusa dal fatto di non aver sollevato, nella causa principale, la questione dell’incompatibilità dell’atto amministrativo col diritto europeo, essendo sufficiente che detta questione di diritto comunitario, la cui interpretazione si è rivelata erronea alla luce di una sentenza successiva della Corte, sia stata esaminata dal giudice nazionale che ha statuito in ultima istanza, oppure che avesse potuto essere sollevata d’ufficio da quest’ultimo [12] . Con riferimento all’obbligo, per gli Stati membri, di recuperare gli aiuti di Stato illegittimi , si ha, poi, un sostanziale superamento dell’autorità del giudicato, affermandosi che il diritto comunitario osta all'applicazione di una norma nazionale, come l'art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell'autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l'applicazione di tale norma impedisca il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto dell'Unione europea e la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva [13] . Peraltro, il giudicato non potrà essere opposto nemmeno se la decisione della Commissione europea, che accerta l’incompatibilità dell’aiuto di Stato con il mercato comune, sia posteriore alla formazione della res iudicata : l'esecuzione della decisione della Commissione europea, osserva la Corte, sarebbe destinata a fallire se fosse possibile opporle una decisione giurisdizionale nazionale che dichiara dovuto l’aiuto [14] . Più in generale, la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo è nel senso che, qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, e sempre che dette condizioni siano soddisfatte [15] . Estendendo tale principio, è stato affermato che, in occasione del controllo giurisdizionale della legittimità della decisione di rimpatrio dello straniero , adottata successivamente al rigetto di una domanda di protezione internazionale confermato da una decisione giurisdizionale munita dell’autorità di cosa giudicata, il giudice nazionale investito di un ricorso avverso la decisione di rimpatrio può, ai sensi del diritto dell’Unione e senza che a ciò osti l’autorità di cui è dunque munita la decisione giurisdizionale che conferma tale rigetto, esaminare, in via incidentale, la validità di un siffatto rigetto allorché sia fondato su un motivo contrario al diritto dell’Unione [16] . Ancora, in materia fiscale , la Corte ha ritenuto incompatibile con l’ordinamento comunitario l’interpretazione data dalla giurisprudenza italiana all’art. 2909 c.c., secondo cui il giudicato derivante dalla pronuncia definitiva relativa a uno specifico anno di imposta si estende, quanto agli elementi fattuali invariati, anche alle controversie relative ad altri periodi d’imposta, allorché siffatta estensione finisca per perpetrare una violazione del diritto europeo [17] . La recente sentenza della Corte di Giustizia della Grande Sezione del 17 maggio 2022 sembra fare ancora un passo in avanti, consentendo il superamento dell’autorità della cosa giudicata non già nei rapporti tra privati ed amministrazione pubblica, laddove quest’ultima è investita di una pubblica potestà nell’esercizio della quale essa deve garantire il rispetto del diritto europeo; ma in una controversia tra privati , nella quale il consumatore non ha utilizzato gli strumenti processuali accordatigli dall’ordinamento per far valere i diritti assegnatigli dal diritto europeo. Di fronte alla progressiva dissoluzione dell’autorità del giudicato, in caso di contrasto con il diritto di derivazione europea, l’interprete non può che interrogarsi su quale possa essere il destino di tale fondamentale istituto, anche sul piano del diritto meramente interno. Per esempio, è noto che i vincoli europei impongono agli ordinamenti degli Stati nazionali l’obbligo di assicurare alle posizioni di vantaggio attribuite dal diritto europeo una tutela efficace e non inferiore a quella riconosciuta alle situazioni giuridiche soggettive positive di rilievo interno. Ma, in forza del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., deve valere anche il contrario, e cioè che i diritti e le altre posizioni di interesse riconosciute dal diritto nazionale non possono ricevere tutela inferiore a quella accordata alle posizioni di vantaggio di derivazione europea. Quindi, una volta giustificata la cedevolezza del giudicato in nome del perseguimento di interessi essenziali per l’ordinamento europeo, anche a fronte di interessi essenziali per l’ordinamento nazionale, quali – ad esempio – la protezione della finanza pubblica, la forza del giudicato dovrà essere recessiva. Ed in effetti, già in qualche piega dell’ordinamento emerge una siffatta tendenza. In una vicenda recentemente esaminata dal Consiglio di Stato [18] si contendeva sull’esecuzione di una sentenza di una Corte d’Appello passata in cosa giudicata in ragione del rigetto del ricorso per cassazione proposto dalla parte, un’amministrazione pubblica, soccombente. La Corte territoriale aveva condannato l’amministrazione al pagamento di una somma di danaro a titolo di indennizzo per l’intervenuta espropriazione di un’area, rifiutando di esaminare la documentazione, tardivamente proposta, che dimostrava l’accettazione e la riscossione, ad opera della parte privata, dell’indennità di espropriazione. La Suprema Corte aveva ritenuto corretta la decisione del giudice del merito, in ragione delle preclusioni processuali che non consentivano la produzione di documentazione. Proposta azione di ottemperanza , l’amministrazione debitrice aveva sottoposto la questione dell’intervenuto parziale pagamento al tribunale amministrativo regionale, che però l’aveva rigettata. Il Consiglio di Stato, dal canto suo, ha accolto l’appello sul punto. La sentenza è motivata, tra l’altro, mediante l’affermazione del principio per il quale, qualora il creditore abbia ottenuto una sentenza di condanna e in sede di ottemperanza ne chieda l’esecuzione, senza tenere conto dell’adempimento parziale effettuato in precedenza, si sia in presenza di un suo comportamento non corretto, che abilita il debitore a chiedere al giudice di esecuzione – sostanzialmente con una exceptio doli - di rilevare il precedente pagamento parziale: una tale difesa, del resto, configura una eccezione in senso lato, dal momento che l’avvenuto pagamento, anche parziale, può essere rilevato anche d’ufficio, quando emerga dagli atti: l’aver agito in sede giurisdizionale per ottenere dall’amministrazione la totalità della somma dovuta, nonostante parte di essa sia stata in precedenza incassata, connota la condotta dei privati per mala fede e scorrettezza. Nel caso segnalato, benché il giudice dell’appello non affronti expressis verbis la questione, è evidente che la sua decisione ha ritenuto superabile il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Infatti, l’avvenuto parziale pagamento del credito era questione sicuramente deducibile, ed anzi dedotta – sia pure tardivamente – nel giudizio di merito e, perciò, tradizionalmente coperta dal giudicato. Nondimeno, l’approccio sostanzialistico del giudice amministrativo d’appello ha consentito di superare l’efficacia del giudicato in ragione di un valore – il divieto di comportamenti processuali malevoli – ritenuto evidentemente superiore. Una visione del sistema processuale, dunque, non dissimile da quella propria della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che pone l’ordinamento alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra esigenza di certezza e bisogno di giustizia, raggiungibile solo con il tempo. [1] CGUE 4 giugno 2020, nella causa C‑495/19. [2] Corte cost. 7 aprile 2011, n. 113. [3] Cass. Pen., Sez. VI, 2 marzo - 4 maggio 2017, n. 21635. [4] Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 4 marzo 2015, n. 2. [5] Corte cost. 26 maggio 2017, n. 123. [6] CEDU, Grande Camera, sentenza 5 febbraio 2015, Bocham c. Ucraina. [7] Si veda l’ampia e completa disamina di R. Conti, La giurisprudenza civile sull’esecuzione delle decisioni della Corte Edu, in La Corte di Strasburgo, speciale di Questione giustizia, aprile 2019, pp. 278 ss. [8] In proposito, vengono citale le sentenze del 6 ottobre 2009, nella causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, e del 26 gennaio 2017, nella causa C‑421/14, Banco Primus. [9] CGUE 30 settembre 2003, nella causa C-224/01, Köbler; CGUE 13 giugno 2006, nella causa C.173/03, Traghetti del Mediterraneo. [10] CGCE 6 ottobre 1982, nella causa 283/81, Cilfit; CGUE 15 marzo 2017, in C‑3/16, Aquino. [11] CGUE 13 gennaio 2004, nella causa C-453/00, Künhe & Heitz. [12] CGUE 12 febbraio 2008, nella causa C-2/06, Kempter. [13] CGUE 18 luglio 2007, nella causa C-119/05, Lucchini. [14] CGUE 11 novembre 2015, nella causa C-505/14, Klausner Holz. [15] CGUE 10 luglio 2014, nella causa C-213/13, Pizzarotti, in cui ha sottolineato la necessità di ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori. [16] CGUE 14 maggio 2020, nelle cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU, FMS e altri. [17] CGUE 3 settembre 2009, nella causa C-2/08, Olimpiclub; il principio è stato affermato anche con riferimento ad altri ordinamenti nazionali, come quello rumeno: cfr. CGUE 16 luglio 2020 nella causa C‑424/19, Cabinet de avocat. [18] Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 2021, n. 3058.
Autore: a cura di Stefano Tenca e Alessio Maria Ciacio, praticante notaio 26 mag, 2022
1. PREMESSA E LINEE GENERALI Il principio dispositivo, nella sua latitudine applicativa, cui risponde il processo amministrativo, può essere ricostruito su distinti piani: il primo, corrispondente al momento in cui si instaura il giudizio; il secondo, alla definizione del giudizio; il terzo, invece, al momento squisitamente istruttorio. Su ciascuno dei piani è possibile osservare l’esistenza di differenti poteri in capo al giudice e alle parti, taluni che si configurano come espressione dell’applicazione di un principio dispositivo pieno, talaltri che, invece, si risolvono in attività derogatorie dello stesso. Orbene, il presente scritto intende soffermarsi proprio su questa seconda prospettiva, e in particolare su quei profili riequilibrativi del giudice rispetto alla disponibilità processuale che, in forza del principio dispositivo, spetta alla parte. La fase iniziale sarà caratterizzata da un approccio volto a meglio comprendere l’essenza del principio dispositivo, inteso non solo e non tanto come tema di carattere strettamente processuale, ma anche come istituto che investe il modo di essere dell’interesse legittimo, vale a dire la posizione giuridica soggettiva attorno alla quale ruota il processo amministrativo, nonché la ragione d’essere della specialità della giustizia amministrativa. Si procederà, quindi, ad analizzare i profili derogatori al principio dispositivo attraverso un particolare focus giurisprudenziale. 1.1 GIURISDIZIONE DI DIRITTO SOGGETTIVO (EVOLUZIONE) La latitudine esistenziale ed applicativa del principio dispositivo risente, inevitabilmente, dalla dimensione, soggettiva od oggettiva, del modello processuale che si prende in considerazione. Una dicotomia, questa appena evidenziata, che emerge non solo e non tanto con riferimento alla contrapposizione tra due modelli qui ed ora esistenti e considerati, ma splende di propria luce, più che in qualsiasi altro giudizio, laddove ci si focalizzi sul modello processuale amministrativo, e ciò soprattutto qualora lo si faccia attraverso una chiave di lettura storico-comparatistica: non è nuova l’idea che, in passato, al giudizio amministrativo fosse ascritto il carattere di un giudizio particolarmente attento al rispetto e alla tutela del diritto oggettivo, ancor prima degli interessi dei singoli. Fin dal riconoscimento della natura giurisdizionale della IV sezione del Consiglio di Stato, infatti, i commenti hanno ricondotto l’originaria struttura del processo amministrativo ad un rimedio di natura oggettiva che, come noto, si caratterizza, in astratto, per la particolare attenzione rispetto all’interesse pubblico al ripristino della legalità violata, prima che alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive delle parti in causa; un giudizio in cui la domanda introduttiva non si sostanzia come affermazione della situazione giuridica azionata, bensì si risolve in una richiesta di provvedimento, sulla cui base il giudice si deve pronunciare non tanto al fine di accertare la titolarità degli interessi vantati dal ricorrente, piuttosto al fine di attuare l’interesse generale oggettivamente tutelato. Un giudizio, ancora, caratterizzato dall’ampiezza della cognizione del giudice, che travalica le domande di parte, alle quali è riservato un più limitato compito di impulso processuale, e investe la materia controversa nella sua oggettività. Coerentemente con ciò, l’operato del giudice amministrativo è stato in passato ricondotto alla visione di posizioni giuridiche funzionali a tutelare - in via prioritaria - l’interesse pubblico, a “discapito” dell’interesse del cittadino che, all’opposto, ha calzato le vesti di un interesse “occasionalmente protetto”, e dunque tutelabile nelle ipotesi in cui coesisteva, in un rapporto di stretta coincidenza, con l’interesse di cui l’amministrazione era portatrice. L’interesse individuale del singolo, allora, aveva il limitato ruolo di dare l’impulso processuale, e la tutela del privato, nello sfondo, trovava una importante mediazione del pubblico fine, configurato come principale centro di protezione del cittadino nei confronti dell’operato della pubblica amministrazione. Una dimensione, fra l’altro, coerente anche con l’idea, vigente in passato, di un interesse legittimo caratterizzato da una natura non sostanziale. Ben presto, però, lo scenario del giudizio amministrativo è stato interessato da una importante evoluzione sistematica, che ha aperto le porte ad una progressiva valorizzazione della dimensione soggettiva: sin dagli anni '70 si è consolidata la concezione del processo amministrativo come giudizio di parti in cui, queste, non tendono all'affermazione del diritto oggettivo, ma a far valere i propri interessi incisi o comunque coinvolti dall'azione amministrativa. Ed è proprio l’affermazione della visione sostanziale dell’interesse legittimo che ha segnato il passaggio da un giudizio sulla legittimità dell’atto, fortemente connotato da un carattere oggettivo, ad un giudizio incentrato sul rapporto, dal carattere soggettivo, volto alla tutela degli interessi dei soggetti litiganti, il cui giudizio è azionato a protezione della situazione giuridica soggettiva riconosciuta dal diritto sostanziale. L’interesse legittimo, infatti, non viene più considerato una mera facoltà, o ben diremo un “interesse occasionalmente protetto” e connesso alla legittimità dell’azione amministrativa, bensì emerge come interesse ad un bene della vita, situazione sostanziale riconosciuta dall’ordinamento. In tal senso, l'apertura alla risarcibilità dell'interesse legittimo a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n. 500 e poi con la L. n. 205/2000, prima legge organica sul nuovo processo amministrativo, ha segnato non tanto il superamento del tradizionale giudizio impugnatorio, ma quantomeno la sua evoluzione verso un giudizio che, muovendo dal carattere sostanziale della pretesa al bene della vita, appare incentrato sull'effettiva consistenza del rapporto giuridico amministrativo. In questa direzione si colloca l'accento sulla tutela sostanziale ed effettiva, scaturente a contrario dalla previsione introdotta dalla L. 15/2005 con l'aggiunta dell'art. 21-octies, comma 2, nella L. 241/90, che determina il venir meno di una tutela solo formale impendendo l'annullamento, qualora il contenuto sostanziale dell'atto, nonostante l'illegittimità, non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. 1.2 LA DIMENSIONE SOGGETTIVA NEL TESSUTO NORMATIVO Pare condiviso, oggi, che il processo amministrativo sia caratterizzato da una dimensione soggettiva, e dunque connotato da un modello in cui lo scopo è ravvisabile nella tutela degli interessi dei soggetti litiganti, e il cui giudizio è azionato a protezione della situazione giuridica soggettiva riconosciuta dal diritto sostanziale. Un processo, appunto, “di parti”, laddove sono proprio queste a costituire l’origine e lo sviluppo dell’iter processuale. Quanto fino ad ora detto trova solide fondamenta all’interno del tessuto positivo, e in particolare nel testo costituzionale, oltre che, a livello di rango ordinario, nel D. Lgs. 2 Luglio 2010, n. 104 (in proseguio “Codice del Processo Amministrativo”, o più semplicemente “C.p.a”). Quanto alla Costituzione, il modello amministrativo quale giudizio di diritto soggettivo orientato alla tutela di diritti soggettivi ed interessi legittimi trova specifica previsione negli artt. 24, 103 e 113. Nel dettaglio: l’art. 24, comma 1, Cost., afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”; l’art. 103, comma 1, Cost., nell’esplicitare i confini dell’oggetto della giurisdizione amministrativa, dispone che i giudici amministrativi hanno la cognizione delle controversie che intercorrono tra privati e pubblica amministrazione aventi ad oggetto “interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”; da ultimo, l’art. 113, comma 1, Cost., sottolinea che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”. Dal tessuto costituzionale si ricava, allora, che il ricorrente, per poter adire il giudice, deve essere titolare di una posizione giuridicamente rilevante, l’interesse legittimo o il diritto soggettivo, riconosciuta e garantita dall'ordinamento. Posizione di cui il promotore reclama tutela giurisdizionale attraverso un processo che proprio in tal senso è orientato alla sua protezione. Come si accennava, la dimensione soggettiva trova dimora anche all’interno del Codice del Processo Amministrativo. Nell’art. 1, infatti, si afferma che il giudice amministrativo “assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, corroborando dunque l’assunto per cui il processo amministrativo è orientato a proteggere l’interesse giuridicamente rilevante – sub specie, diritto soggettivo o interesse legittimo - del ricorrente. Non solo, ma anche gli artt. 2 e 7 del relativo testo, i quali affermano, rispettivamente, che “il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti” e che “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”. 1.3 L’EFFETTIVITA’ DELLA TUTELA Con l’introduzione del Codice del processo amministrativo, ad opera del D. Lgs. 104/2010, il giudizio appare, dunque, maggiormente incentrato sul rapporto e si pone, sin dal primo articolo, quale strumento per l'attuazione dell'effettività della tutela giurisdizionale, declinata nel successivo art. 2, nonché dei principi della parità delle parti, e del giusto processo previsto dall'art. 111, comma 1, Cost.. In questa prospettiva, rispetto al passato, è ampliato il ventaglio delle azioni proponibili davanti al giudice: oltre alla domanda di annullamento (art. 29 c.p.a.) e a quella di nullità (art. 31, comma 4, c.p.a.) si affianca l'azione avverso il silenzio, attraverso cui è richiesto l'accertamento dell'obbligo di provvedere dell'amministrazione (art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.); l'azione di condanna, che come noto può avere ad oggetto, oltre il pagamento di somme pecuniarie a titolo di risarcimento del danno (artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.), anche ogni misura idonea a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a.); l'azione di adempimento, avente per contenuto la condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, nei limiti di cui all'art. 31, comma 3, c.p.a., da esercitarsi contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio (art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a.); l'azione costitutiva di adozione di un nuovo atto, ovvero di modifica o riforma di quello impugnato, nei soli casi di giurisdizione di merito (art. 34, comma 1, lett. d), c.p.a.). Così, come ha osservato Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1036, “adendo la sede giurisdizionale, la parte ricorrente, in particolare, fa valere una pretesa sostanziale, avente ad oggetto la conservazione di un bene della vita già compreso nel proprio patrimonio individuale, pregiudicato dall'esercizio del potere amministrativo, ovvero l'acquisizione (o comunque la chance di acquisizione) di un bene della vita soggetto a pubblica intermediazione”. Come precisato dall'Adunanza Plenaria di questo Consiglio , inoltre, “nel nostro sistema di giurisdizione soggettiva, la verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice. Poiché il ricorso non è mera "occasione" del sindacato giurisdizionale sull'azione amministrativa, il controllo della legittimazione al ricorso assume sempre carattere pregiudiziale rispetto all'esame del merito della domanda, in coerenza con i principi della giurisdizione soggettiva e dell'impulso di parte” (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4). La pronuncia giudiziaria, dunque, risulta utile laddove, nel riscontrare l'illegittimità dell'azione amministrativa, consenta la realizzazione dell'interesse sostanziale di cui è portatrice la parte ricorrente, impedendo la sottrazione o la mancata acquisizione (o chance di acquisizione) di utilità, giuridicamente rilevanti, per effetto di azioni autoritative difformi rispetto al paradigma normativo di riferimento. Qualora, invece, tale interesse sia stato già realizzato, ovvero non possa più essere soddisfatto, il giudizio non può concludersi con l'esame, nel merito, delle censure svolte nell'atto di parte, la cui fondatezza non potrebbe, comunque, arrecare alcuna utilità concreta in capo al ricorrente. Sulla linea dell’effettività della tutela giurisdizionale, ancora, l’Adunanza Plenaria del 2011 riconosce l'ammissibilità di un'azione atipica di accertamento, che presuppone il sindacato pieno sul rapporto, questa negata in passato non solo in virtù della tradizionale qualificazione del giudizio amministrativo come giudizio sull'atto, e non sul rapporto, ma anche della configurazione dell'interesse legittimo quale posizione giuridica sostanziale non avente la stessa dignità del diritto soggettivo. In mancanza di espressa previsione codicistica, l'ammissibilità viene ricondotta all'esigenza costituzionale di una piena protezione dell'interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, in attuazione, quindi, sia delle norme costituzionali sulla pienezza della tutela giurisdizionale (artt. 24, 103 e 113), sia della disciplina comunitaria richiamata dall'art. 1 del codice. 2. IL PRINCIPIO DISPOSITIVO NELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. ALCUNI RICHIAMI ALL’ADUNANZA PLENARIA 27/4/2015 N. 5 Il riconoscimento dell’interesse legittimo come posizione giuridica non solo e non tanto autonoma, bensì paritaria e differente rispetto al diritto soggettivo ha generato terreno fertile, come visto, per l’affermazione di una dimensione soggettiva nella giurisdizione amministrativa. La giurisprudenza, con il supporto convinto della dottrina, ha sostenuto che il processo amministrativo ha natura di giurisdizione soggettiva ed è di tipo dispositivo. Il riferimento normativo è l’ art. 34 Cpa per cui il giudice, in caso di accoglimento del ricorso “nei limiti della domanda”, eroga le varie forme di tutela ivi disciplinate. Trattandosi di principio generale e, non rinvenendosi “... nel processo amministrativo una sufficiente ed esaustiva declinazione regolatoria” , è stato affermato che deve intendersi compreso nella clausola di rinvio esterno divisata dall'art. 39, co. 1, c.p.a. Si afferma, dunque, un processo amministrativo retto dal principio dispositivo nella sua duplice accezione di principio dispositivo sostanziale, inteso quale espressione del potere esclusivo della parte di disporre del suo interesse materiale sotto ogni aspetto, compresa la scelta di richiedere o meno la tutela giurisdizionale. L’Adunanza Plenaria 27/04/2015 n. 5, sul punto, osserva come “ una giurisdizione esercitata d’ufficio contrasterebbe con il moderno concetto di giudice, il quale, per essere neutrale, deve limitarsi a rendere giustizia solo a chi la domanda ”; si afferma, ancora, anche nella sua accezione istruttoria, sia pure con i temperamenti enucleabili dagli artt. 63 e 64 c.p.a., in relazione al processo impugnatorio, ed ispirati al c.d. sistema dispositivo con metodo acquisitivo. Il giudice, dunque, non può andare ultra petita partium ,, adottando pronunzie non richieste dal ricorrente, dal resistente e dal controinteressato. Una violazione che si risolverebbe ogni qual volta, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi identificativi dell'azione, cioè il petitum e la causa petendi , attribuendo un bene della vita diverso da quello richiesto, ovvero ponga a fondamento della propria decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, ma non anche, invece, quando procede alla qualificazione giuridica dei fatti e della domanda giudiziale, ovvero alla sua interpretazione. Come osserva il Consiglio di Stato (adunanza plenaria 27/04/2015 n. 5), “ il principio in esame è stato definito dalla dottrina come “architrave dello Stato liberale di diritto”; esso assurge a “garanzia di un giudice che non venga ad espandersi sino a farsi interprete delle esigenze della legalità al di là della domanda di giustizia, o della buona amministrazione o di un interesse pubblico indefinito. Impedisce che il giudice possa eventualmente dimenticarsi di essere solo chiamato ad esercitare una funzione anziché essere investito di una missione ”. Si è già enunciato dall’adunanza plenaria (4/2015, 9/2014, 7/2013 e 4/2011) “in ordine all'impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo e su come tale approdo sia coerente con il significato che assume il principio della domanda nel dettato dell'art. 24, co. 1, Cost. che affianca, sia pure prendendo atto per ciò solo della loro diversità, le due situazioni soggettive attive del diritto soggettivo e dell'interesse legittimo quali presupposti per l'esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale intesa come principio fondamentale costitutivo dell'ordine pubblico costituzionale (cfr. da ultimo le fondamentali conclusioni cui è pervenuta Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238)”. È assodato, pertanto, che il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, hanno dignità di Generalklausel nel processo civile (cfr. Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit.) ed in quello amministrativo (cfr. Ad. plen. n. 4 del 2015, n. 9 del 2014 e n. 4 del 2011). Una visione, quella evidenziata, a cui “ si saldano le ulteriori considerazioni sul ruolo del giudice amministrativo come giudice naturale degli interessi legittimi in virtù della diretta attribuzione costituzionale di tale competenza (art. 103 co. 1, Cost.), nonché le peculiari modalità di erogazione della tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo attraverso il controllo necessario sull'esercizio (o il mancato esercizio) della funzione pubblica financo all'interno dell'amministrazione (art. 100, co. 1, Cost.) e, ancora, l'importanza strategica dell'iniziativa della persona che agisce in giudizio perché, sia pure nei limiti della domanda, concorre a (e rende possibile la) tutela dell'interesse pubblico mediante il ripristino della legalità violata ”. Ora, nella prospettiva sin qui enunciata, il ricorrente ha il potere di dare avvio al processo, formulando le domande, e proponendo azioni tipiche, o atipiche. Qualora scelga di promuovere un'azione tipica, il giudice, accolto il ricorso, non può determinare effetti diversi dal tipo di domanda proposta, a meno che vi sia un'espressa, diversa, richiesta che riduca o ampli gli effetti tipici dell'azione proposta, che dunque viene ad assumere caratteri, per così dire, "misti": la tipicità, nel caso di specie, è corretta con alcuni elementi che non sono propri dell'azione tipica promossa. Secondo questa configurazione, il giudice non può, sostituendosi alla parte, aggiungere o togliere effetti alla domanda proposta, e ciò anche laddove assume che, nel modo da lui deciso, il suo interesse ottenga maggiore soddisfazione, a meno che non si sia di fronte a soluzioni strumentali che non pregiudichino in alcun modo l'interesse fatto valere, ma lo implementino e ne assicurino una tutela più efficace ed effettiva. Così, ad esempio, proprio in ragione della «natura della giustizia amministrativa quale giurisdizione soggettiva» e del «principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo», unitamente alla «regola secondo la quale nel processo amministrativo debba darsi al ricorrente vittorioso tutto quello e soltanto quello che abbia chiesto ed a cui abbia titolo» l’adunanza plenaria ha escluso la possibilità che il giudice amministrativo possa d’ufficio assegnare alla parte vittoriosa, una tutela risarcitoria anziché caducatoria, ritenendola non già più satisfattiva, ma più congrua al caso di specie . La medesima ha comunque riconosciuto la possibilità, da parte del giudice, di modulare la forma di tutela richiesta, a titolo esemplificativo, ridimensionando, con riferimento ai «motivi sollevati e riscontrati e all’interesse del ricorrente, la portata dell’annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l’annullamento parziale; nella parte in cui prevede; o non prevede; oppure nei limiti di interesse del ricorrente; e così via». D’altra parte, come anticipato, il ricorrente può proporre un’ azione atipica : ben può procedere per la dichiarazione di illegittimità dell'atto impugnato, chiedendo che produca effetti non immediati, ovvero ricorrere per l'annullamento con effetti differiti nel tempo, e ciò qualora esso ritenga tale soluzione funzionale e satisfattiva del suo interesse; in conseguenza, il giudice potrà, rispettivamente, dichiarare illegittimo l'atto, con effetti da prodursi in un momento successivo, ovvero annullare l'atto con procrastinazione della decorrenza degli effetti. Così, la giurisprudenza amministrativa ha ammesso la possibilità per il giudice di modulare gli effetti caducatori della pronuncia di annullamento di un atto amministrativo in ragione di una prospettiva di maggiore tutela, ovvero minore sacrificio, degli interessi coinvolti nel giudizio . Un modello decisionale, quello della graduazione/modulazione degli effetti, che a seguito della sentenza del Cons. Stato, Ad Plen. n. 13 del 2017, è stato esteso dalla sole norme processuali alle norme anche sostanziali, e ciò in ossequio al modello rimediale pluralistico o, se si preferisce, al sistema atipico di azioni contemplato dal codice del processo amministrativo del 2010. Si vedano, in tal senso, le ricche argomentazioni di cui al parere della prima sezione del Cons. Stato 30 giugno 2020, n. 1233 in cui si evidenzia come la prospecitve overruling costituisca rimedio atipico, sì, ma comunque direttamente funzionale al canone di effettività della tutela giurisdizionale. Con l'unica avvertenza che a tale strumento si ricorra in modo avveduto ed accorto, ossia soltanto dopo aver attentamente ponderato gli interessi pubblici e privati cui occorre fornire tutela nel giudizio stesso. Nelle ipotesi qui contemplate, del resto, in caso di mancato ricorso a tale meccanismo gli effetti della sentenza della Plenaria si sarebbero dispiegati sin da subito, e tanto con conseguenze ben peggiori per gli operatori soccombenti, ossia con caducazione immediata di tutti i relativi rapporti concessori già oggetto di proroga legale ( Massimo Santini “Save the date dalla plenaria per le gare balneari: prime note (su tasti bianchi) in Urbanistica e appalti, 2022, 1, 53 (nota a sentenza consiglio di Stato, adunanza plenaria – 9/11/2018 n. 17 e 18 ). Da ultimo, pare utile richiamare la puntualizzazione della Plenaria che, richiamando la Cassazione Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit., osserva che laddove il principio della domanda lo consenta, da un lato, è necessario evitare una disarticolazione, tramite il processo, di una realtà sostanziale unitaria onde evitare che esso si presti a tattiche dilatorie, opportunistiche o ad un vero e proprio abuso; dall'altro, si deve accettare una concezione del processo troppo semplicisticamente definita come “pubblicistica”, ma che, ad una più attenta analisi, trae linfa applicativa proprio nel valore di “giustizia” della decisione. Tale esigenza sarebbe ancor più avvertita nel processo amministrativo di legittimità concentrato sul controllo della legalità dell'azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell'interesse pubblico: sarebbe paradossale che quanto teorizzato per il processo civile circa l'importanza della dimensione pubblica dello stesso, non trovasse piena applicazione per il processo amministrativo come disegnato, nella sua genesi storica repubblicana, dalla Costituzione. Ad avviso della Plenaria, infatti, “ Il principio dispositivo non può cancellare il dato di fatto che l'interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti in causa rimane il convitato di pietra che impronta più o meno consapevolmente svariate disposizioni; la visione del processo amministrativo nella logica "parte privata contro parte pubblica", "interesse privato contro interesse pubblico", non considera, sullo sfondo, l'interesse generale dell'intera collettività da un lato ad una corretta gestione della cosa pubblica, e dall'altro ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività; il processo in cui sia parte una pubblica amministrazione deve consentire l'accertamento di una verità processuale vicina se non coincidente con quella storica perché è interesse della collettività la legittimità dell'azione amministrativa; si comprende così, alla fine, che effettività e giusto processo significano soddisfacimento della domanda di giustizia per i realmente bisognosi, senza incoraggiamento di azioni opportunistiche (specie sul piano risarcitorio come bene messo in luce dall'ordinanza di rimessione), emulative o pretestuose ”. 3. LE DEROGHE AL PRINCIPIO GENERALE Quanto fino ad ora detto rappresenta il modello di principio, astratto, di un sistema, quello amministrativo, che tuttavia, nelle singole realtà processuali, patisce necessariamente di deroghe ed eccezioni. Si è già anticipato, in esordio al presente testo, come la stessa adunanza plenaria, nella sentenza nn. 4 e 5 del 2015 , abbia riconosciuto, nel processo amministrativo, talune e limitate influenze di diritto oggettivo. Sul punto, Enrico Follieri, in Giurisdizione italiana 2015, 10, 2192, nota alla sentenza della plenaria, richiama quei punti che, come anche indicati in parte nella sentenza sopra citata, sostanzierebbero le “contaminazioni” del modello dispositivo, così come definite dal Consiglio di Stato: A) L'estensione della legittimazione ; - art. 21-bis della L. 287/90 sul potere dell’AGCOM di agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti delle amministrazioni pubbliche che sono adottati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato; - azione popolare nell'ordinamento degli enti locali (art. 9 del D. Lgs. 267/2000), irriducibile retaggio di una radice che rimonta ad antichi modelli di democrazia diretta caratteristici di taluni stati preunitari e soprattutto nel rito in materia elettorale (art. 130 c.p.a.); - il potere dell'Autorità dei trasporti che, ai sensi dell'art. 36 comma 2 lett. m) e n) del D.L. 24/1/2012 n. 1, convertito in L. 24/3/2012 n. 27, può impugnare le delibere regionali e comunali in materia di disciplina dei taxi; - il potere del Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica di impugnare gli statuti adottati dalle Università (art. 2 comma 7 della L. 30/12/2010 n. 240; art. 6 L. 9/5/1989 n. 68); - il potere del Ministero delle Finanze di impugnare, per vizi di legittimità, i regolamenti comunali in materia di entrate tributarie (art. 52 comma 4 D. Lgs. 15/12/1997 n. 446); - i poteri, previsti dall'art. 14 T.U. intermediazione finanziaria (T.U.B.) della Banca d'Italia e della CONSOB di impugnare le delibere e gli altri atti adottati da titolari di partecipazioni di una Sim (Società di intermediazione immobiliare), una società di gestione del risparmio o di una Sicav (Società di investimento a capitale variabile) privi dei requisiti di onorabilità; - il potere di ANAC di impugnare bandi, altri atti generali e provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 211 comma 1-bis D. Lgs. 50/2016); l'art. 211, comma 1-ter dispone che: "ANAC, se ritiene che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del presente codice, emette, entro sessanta giorni dalla notizia della violazione, un parere motivato nel quale indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati. Il parere è trasmesso alla stazione appaltante; se la stazione appaltante non vi si conforma entro il termine assegnato dall'ANAC, comunque non superiore a sessanta giorni dalla trasmissione, l'ANAC può presentare ricorso, entro i successivi trenta giorni, innanzi al giudice amministrativo. Si applica l'articolo 120 del codice del processo amministrativo di cui all'allegato 1 annesso al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104". Una visione che, a ben vedere, sembra pure essere accolta da autorevoli studiosi del processo amministrativo, i quali rilevano come, in generale, anche nell'ordinamento civile sono conosciute fattispecie nelle quali la legittimazione ad agire è attribuita a dei soggetti o in base alla legge o sulla base di una certa posizione istituzionale a tutela di interessi generali o pubblici (si pensi ai casi di azione popolare). Una parte della dottrina evidenzia, in particolare, che in questi casi non si tratta di giurisdizione “di diritto obiettivo”, ma di mera legittimazione oggettiva, che si contrappone alla legittimazione soggettiva come quella che, a differenza di quest'ultima, si esercita a tutela di interessi generali. Perciò, non è necessaria, in tali casi, perché possa validamente instaurarsi il processo amministrativo, la dimostrazione in capo al soggetto agente della titolarità di una situazione soggettiva protetta. D’altra parte, secondo altra dottrina, tali osservazioni rischiano di essere “sopravvalutate”, specie alla luce di un “problema” che, concretamente, pare non affiorare. A commento di Consiglio di Stato, sez. V – 3/11/2020 n. 6787, Maria Chiara Pollicino (giornale di diritto amm.vo 2021, 4, 509 ), in particolare, osserva come “ Una giurisdizione oggettiva […] si qualifica tale non solo mediante l'individuazione del fine a cui è rivolta (il ripristino della legalità) ma per mezzo dell'analisi della struttura. Per ricondursi un modello processuale ad uno di giurisdizione oggettiva bisogna, infatti, valutare se la struttura processuale ricalchi o meno un processo di tipo inquisitorio, con il venir meno del principio dispositivo. Aderendo a questa impostazione, invero, anche ove si ammettesse che non esista un interesse specifico e differenziato in capo alle Autorità, non potrebbe comunque parlarsi di giurisdizione oggettiva. Infatti, dal punto di vista strutturale, il processo amministrativo, anche se attivato dalle Autorità amministrative indipendenti, come l'Anac, o altro soggetto pubblico, rimane pur sempre un processo imperniato sul principio dispositivo e, quindi, "un processo di parti". Pertanto, forse, il dibattito relativo alla straordinarietà ovvero ordinarietà della legittimazione ad agire dell'Anac sembra, in questo senso, sopravvalutato ”. B) La valutazione sostitutiva dell'interesse pubblico in sede di giudizio di ottemperanza o in sede cautelare ; il giudice non può ignorare, in un processo teso a tutelare le situazioni giuridiche soggettive, gli interessi che fanno capo alle situazioni giuridiche soggettive delle parti, diverse dal ricorrente; e allora, il bilanciamento dell'interesse del ricorrente e di quello del resistente e del controinteressato in sede cautelare sono proprio espressione del processo dispositivo di parti e non manifestazione di giurisdizione oggettiva. C) L’esistenza di regole speciali come quelle contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a. , che consentono al giudice di modulare gli effetti dell'inefficacia sui contratti di appalto (attuazione della direttiva ricorsi 2007/66/CE). Sono tutte misure dirette a soddisfare il ricorrente vittorioso nella lite e ad assegnargli il bene della vita per il quale ha promosso la controversia. E, nel caso non sia possibile attribuire al ricorrente la specifica soddisfazione dell'interesse, per elementi di fatto e di opportunità rinvenienti dalla concreta fattispecie, è comunque prevista soddisfazione per equivalente pecuniario e anche con sanzioni amministrative a carico della stazione appaltante. D) La prioritaria assorbente considerazione di vizi di legittimità che esprimono una radicale alterazione dell'esercizio della funzione pubblica in quanto esercitate da autorità incompetente ; Il giudice, comunque, è tenuto a scrutinare, in caso di accoglimento del ricorso, tutti i vizi-motivi e le correlate domande di annullamento (con le eccezioni che la stessa sentenza poi precisa) e la parte può graduare i motivi o le domande di annullamento - ancorché in modo espresso - vincolando il giudice all'esame dei profili indicati come prioritari, con conseguente assorbimento di quanto domandato in via gradata e subordinata, se venga accolta la richiesta "principale". Il giudice non può invertire la espressa graduazione fissata dal ricorrente che ha, comunque, la facoltà di farlo, ben potendo non indicare alcuna scala tra le censure e le domande di annullamento. E) L’interesse della collettività alla legittimità dell'azione amministrativa . In quest’ultimo caso l'interesse della collettività è il criterio alla base dell'ordine dei motivi e delle domande di annullamento che il giudice deve seguire quando la parte non indichi espressamente la graduazione. L'adunanza plenaria, nello specifico, supera la tesi del soddisfacimento del massimo interesse della parte a favore dell'interesse generale dell'intera collettività ad una legittima gestione della cosa pubblica, in ragione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull'esercizio della funzione pubblica. E, quindi, il giudice stabilisce l'ordine di trattazione dei motivi e delle domande di annullamento “ sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra le stesse sul piano logico giuridico e diacronico procedimentale ”. Il modello di processo, dunque, è completamente ribaltato e diventa di giurisdizione oggettiva, quando il ricorrente non gradui motivi e domande di annullamento, perché è in funzione della legittimità dell'azione amministrativa, non a tutela dell'interesse del ricorrente. Il mancato esercizio del potere della parte di graduazione, allora, trasforma la funzione del processo. 4. LE DEROGHE PUNTUALI IN AMBITO PROCESSUALE Il potere del titolare dell’azione può incontrare dei limiti in ragione della concomitanza di interessi pubblici che sono ritenuti prevalenti dal legislatore, in particolare il valore della celere definizione del processo (che trova un risvolto concreto nel riconoscimento dell’equa riparazione per superamento del termine di ragionevole durata del processo – L. 89/2001). Nel quadro del paradigma soggettivistico, infatti, taluni particolari interessi rischierebbero di risultare sacrificati, sicché emerge talvolta la necessità di rispondere a tali ulteriori esigenze, senza necessariamente stravolgere la struttura del processo amministrativo improntato alla tutela della posizione giuridica soggettiva. 4.1 L’ECCEZIONALITÀ DEL RINVIO DELLA TRATTAZIONE DELLA CAUSA ( Dopo l’introduzione dell’art. 73, comma 1-bis c.p.a. ) Un primo limite, anzitutto, concerne l’inesistenza di uno specifico diritto, in capo alle parti, al rinvio della trattazione della causa. Nell’ordinamento processuale amministrativo, infatti, non esiste norma o principio che riconosca un tale potere, sicché fuori dai casi tassativamente previsti, ad esempio, in tema di diritto al rinvio per usufruire dei termini difensivi, le parti, come ormai consolidato in giurisprudenza, hanno solo facoltà di illustrare le ragioni che potrebbero giustificare un’eventuale differimento della trattazione della causa, rimanendo in capo al giudice la disponibilità dell’organizzazione e dei tempi processuali, potendo esso disporre un’eventuale rinvio solo in presenza di casi eccezionali. Un orientamento che, a ben vedere, ha trovato di recente un fondamento normativo: con l'entrata in vigore della novella all'art. 73 c.p.a. recata dal D.L. n. 80 del 2021 conv. in L. n. 113 del 2021 (che ha introdotto il comma 1 bis), infatti, il differimento della trattazione della causa riposa, oggi formalmente, su ragioni eccezionali. La norma in esame dispone espressamente che “Non è possibile disporre, d'ufficio o su istanza di parte, la cancellazione della causa dal ruolo. Il rinvio della trattazione della causa è disposto solo per casi eccezionali, che sono riportati nel verbale di udienza, ovvero, se il rinvio è disposto fuori udienza, nel decreto presidenziale che dispone il rinvio”. Si tratta, occorre qui precisarlo, di una novella particolarmente accolta con favore dal giudice amministrativo, e ciò laddove si consideri la collocazione sistematica all’interno del più ampio contesto di riforma del processo amministrativo che, come noto, è mosso da intenti volti a contrastare la formazione di arretrati, elemento che inevitabilmente influenza l’efficienza e l’affidabilità del sistema italiano. Si formalizza, così, la prevalenza della ragionevole durata del processo, in un’ottica di maggiore celerità della decisione, rispetto al potere di governo della parte, che inevitabilmente non può tradursi in un ostacolo alla stessa durata processuale. Così, ad esempio, il T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. II – 4/3/2022 n. 239 ha rigettato la domanda di rinvio di una causa avente per oggetto la determinazione del conguaglio per contributi di urbanizzazione collegato a un titolo abilitativo emesso per realizzare un complesso residenziale e commerciale in attuazione della variante a un Piano Urbanistico attuativo. Si controverteva dunque sul quantum dovuto. Ebbene, i giudici di prime cure non hanno accordato il rinvio per mancanza del requisito dell’eccezionalità. In particolare, hanno rilevato che già per 2 volte dal dicembre 2020 era stato concesso il rinvio delle udienze di trattazione e in una terza occasione era stata emessa un’ordinanza istruttoria. A sostegno della richiesta è stata invero invocata una nuova intesa urbanistica in corso di perfezionamento e tuttavia ad avviso del Collegio, malgrado l’avanzato iter del procedimento, “i tempi di rilascio e di conseguenza quelli per il vaglio delle nuove previsioni restano presunti e incerti, tanto che l’istanza di rinvio è per quasi 1 anno (fine 2022) e risulta inaccettabile”. Il Consiglio di Stato, sez. VI – 20/7/2021 n. 5458, ancora, ha esaminato l'istanza di rinvio dell'udienza della parte appellante avverso il diniego di condono edilizio, confermato dalla sentenza di primo grado. Dopo il nuovo strumento urbanistico e la modifica della fascia di rispetto cimiteriale, la Società interessata aveva chiesto il riesame in via di autotutela d’ufficio delle domande di condono edilizio già rigettate. Risultava peraltro che il Comune, all'esito dell'istruttoria svolta, si fosse pronunciato negativamente (l’atto sfavorevole era stato impugnato con nuovo ricorso al T.A.R.). L'istanza di rinvio per attendere la definizione di un giudizio pendente, nel caso di specie, non è stata accolta. Anzitutto è stato ritenuto che “l'oggetto del giudizio avviato dinanzi al Tar concerne l'esercizio del diverso potere di autotutela invocato, per un altro verso la questione evocata (relativa alla sopravvenuta riduzione della fascia di rispetto) ai fini di causa risulta essere già stata esaminata e rigettata dalla sentenza impugnata …”. Ma soprattutto, hanno ribadito che “la richiesta di rinvio della trattazione di una causa deve trovare il suo fondamento giuridico in gravi ragioni idonee ad incidere, se non tenute in considerazione, sulle fondamentali esigenze di tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantite, atteso che, pur non potendo dubitarsi che anche il processo amministrativo è regolato dal principio dispositivo, in esso non vengono in rilievo esclusivamente interessi privati, ma trovano composizione e soddisfazione anche gli interessi pubblici che vi sono coinvolti”. Ha concluso che “D'altra parte, rileva anche il principio della ragionevole durata del giudizio, che induce a respingere istanze volte a differire il suo esito”. In buona sostanza, dunque, il rinvio della decisione non può conseguire a una mera scelta di parte, ma deve trovare un fondamento giuridico in gravi ragioni, che, se non fossero tenute in considerazione, andrebbero a pregiudicare interessi di pari rango, ovvero in primo luogo il diritto di difesa costituzionalmente garantito (Consiglio di Stato, sez. VI – 9/10/2018 n. 5783). Il medesimo ragionamento è stato sviluppato da CGA Sicilia – 17/1/2022 n. 69, Consiglio di Stato, sez. VII – 15/2/2022 n. 1112 e in primo grado da T.A.R. Lombardia Milano, sez. II – 6/5/2021 n. 1139, che ha puntualizzato come ciò risponda “"all'esigenza di ordinato svolgimento della giustizia che i ricorsi, una volta fissati, siano decisi, poiché la fissazione di un ricorso preclude, con la saturazione del ruolo di udienza, la conoscenza di altra controversia" (Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 1997, n. 696)”. Così anche Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1039, che a fronte della impugnazione di una sanzione irrogata per la realizzazione di una serie di abusi edilizi in zona vincolata, ha ritenuto irrilevante ai fini di causa (cioè in merito alla legittimità della sanzione irrogata) l'invocata presunta pendenza del procedimento di elaborazione del nuovo strumento urbanistico comunale (nessun elemento e documento risultava prodotto in proposito): ciò sia in generale, a fronte della natura delle previsioni urbanistiche, aventi ordinaria validità de futuro, sia in relazione all'irrilevanza rispetto ad abusi realizzati in epoca ben anteriore alla (eventuale, ipotetica e futura) adozione delle nuove misure. Proseguendo nella rassegna giurisprudenziale, il Consiglio di Stato, sez. IV – 14/2/2022 n. 1040 ha fatto piena applicazione del principio per rigettare l’istanza di rinvio di una controversia riguardante le procedure di VIA e AIA ex D. Lgs. 152/2006 per la modifica sostanziale di un impianto di compostaggio da FORSU in fase di realizzazione. Il giudice d’appello si è soffermato inoltre – negandola – sulla richiesta di sospensione del processo per pregiudizialità, ex art. 295 c.p.c., che presuppone la pendenza delle due cause (pregiudicante e pregiudicata) in primo grado poiché la ragione fondante di tale previsione è quella di evitare il rischio di conflitti di giudicati. Il Collegio ha anzitutto osservato che laddove esista, fra due giudizi, un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non è doverosa, ma può essere disposta in via facoltativa, ai sensi dell'art. 337 c.p.c. Ha poi ravvisato un rapporto di mera connessione tra i due procedimenti, che non determina anche l'esistenza di un obiettivo rapporto di pregiudizialità giuridica il quale ricorre solo quando la definizione di una controversia costituisca l'indispensabile antecedente logico-giuridico dell'altra, l'accertamento del quale debba avvenire con efficacia di giudicato (si trattava di un atto di pianificazione urbanistica distinto dall’autorizzazione regionale e non appartenente alla medesima sequenza procedimentale). ( Prima dell’introduzione dell’art. 73, comma 1-bis c.p.a. ) A ben vedere, comunque, già prima dell’introduzione della novella dell’art. 71-bis è stato riconosciuto al giudice il potere di apprezzamento e di verifica circa l'effettiva opportunità di rinviare l'udienza. Ancorché motivato dall'esigenza di acquisire i mezzi istruttori necessari per la migliore difesa in giudizio, infatti, solo in presenza di situazioni particolarissime – direttamente incidenti sul diritto di difesa delle parti – il rinvio dell'udienza è per lui doveroso, e in tale ambito si collocano, fra l'altro, i casi di impedimenti personali del difensore o della parte, nonché quelli in cui, per effetto delle produzioni documentali effettuate dall'amministrazione, occorra riconoscere alla parte che ne faccia richiesta il termine di sessanta giorni per la proposizione dei motivi aggiunti (T.A.R. Lazio Roma, sez. II-bis – 2/5/2019 n. 5551 e l’ampia giurisprudenza evocata; Consiglio di Stato, sez. III – 3/3/2021 n. 1802; Consiglio di Stato, sez. VI – 23/12/2021 n. 8527). In alcuni casi il giudice amministrativo ha anche invocato “esigenze di economia processuale ed effettività di giudizio inducono quindi alla definizione parziale del giudizio ex artt. 33, comma 1, lett. a), cod. proc. amm. ("Il giudice pronuncia sentenza quando definisce in tutto o in parte il giudizio") e 36, comma 2, cod. proc. amm. ("Il giudice pronuncia sentenza non definitiva quando decide solo su alcune delle questioni, anche se adotta provvedimenti istruttori per l'ulteriore trattazione della causa"), riservando, invece, al prosieguo la decisione in ordine alla restante parte del gravame, facendo salva la facoltà della parte ricorrente di presentare la domanda ex art. 100 del D.L. 14 agosto 2020, n. 104” (T.A.R. Veneto, sez. I – 19/11/2020 n. 1091 su una controversia avente ad oggetto il canone di concessione di un’area appartenente al demanio marittimo). 4.2 La mancata concessione del rinvio e il diritto di difesa Ci si è chiesti, inoltre, se dalla mancata concessione del rinvio per impugnare altri atti possa derivare una compressione del diritto di difesa. Sul punto, il Consiglio di Stato, sez. VI – 4/2/2021 n. 1036 ha precisato che “La violazione del diritto di difesa è riscontrabile qualora la controversia sia definita senza assicurare alla parte l'esercizio dei poteri o delle garanzie espressamente riconosciute dall'ordinamento processuale ai fini di difesa nell'ambito del procedimento”, aggiungendo inoltre che < >. Sul punto, l'Adunanza Plenaria 30/7/2018 n. 10 ha anche chiarito che le ipotesi di lesione del contraddittorio e del diritto di difesa si differenziano tra loro quanto alla natura “genetica” o “funzionale” dell'illegittimità che lo ha causato. Così, mentre “la mancanza del contraddittorio è così essenzialmente riconducibile all'ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall'inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento”, “la lesione del diritto di difesa fa riferimento, invece, ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso delle svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive”. Sulla base di quanto osservato, pertanto, la mancata concessione di un termine a difesa risulta idonea ad integrare una violazione del diritto di difesa qualora privi la parte ricorrente dell'esercizio di un potere processuale riconosciuto dall'ordinamento e attinente alla propria difesa nell'ambito del procedimento, come tale influente, altresì, sulla perimetrazione del thema decidendum o del thema probandum, ovvero sulla possibilità di esaminare gli atti processuali o di argomentare a sostegno delle proprie conclusioni e/o a confutazione delle altrui deduzioni. Come statuito dal Consiglio di Stato con sentenza n. 4793 del 2019, qualora la parte ricorrente manifesti, anche in sede di udienza pubblica, l'esigenza di ampliare il thema decidendum mediante la proposizione di motivi aggiunti avverso atti sopravvenuti incidenti sul medesimo rapporto amministrativo dedotto in giudizio, salve richieste manifestamente dilatorie e idonee a concretizzare un abuso dello strumento processuale, il giudice procedente deve accogliere la richiesta, rinviando la causa ad un'udienza prossima alla scadenza dei termini di proposizione dei motivi aggiunti. Una diversa decisione si tradurrebbe nella violazione del diritto di difesa, in quanto priverebbe la parte, per effetto della decisione giudiziale di rigetto della richiesta di rinvio, di un potere processuale espressamente riconosciuto dall'ordinamento a tutela della propria posizione giuridica (ex art. 43, comma 1, c.p.a.). La possibilità per il ricorrente di tutelare, comunque, la propria sfera giuridica proponendo un ricorso autonomo avverso i sopravvenuti provvedimenti amministrativi incidenti sul medesimo rapporto dedotto in giudizio, non costituisce, peraltro, una ragione sufficiente per rigettare l'istanza di rinvio della causa, avanzata in ragione dell'esigenza di proporre motivi aggiunti nell'ambito dello stesso processo. Salve condotte abusive e sempre che l'ordinamento non preveda diversamente (imponendo l'utilizzo di un solo rimedio per contestare gli atti sopravvenuti), deve essere, infatti, salvaguardata la possibilità per la parte di scegliere i rimedi giudiziari offerti dalla disciplina di rito. Secondo i giudici d’appello, “Nel caso di specie, invece, il Tar, rigettando l'istanza di rinvio avanzata dagli odierni appellanti e motivata dall'esigenza di censurare i sopravvenuti provvedimenti sfavorevoli, ha precluso la possibilità di proporre motivi aggiunti, con l'effetto di limitare il potere processuale riconosciuto dall'ordinamento alla parte ricorrente”. La pronuncia d’appello ha annullato la sentenza di primo grado con rinvio ex art. 105 comma 1 Cpa. Parimenti, il Consiglio di Stato, sez. III – 25/6/2020 n. 4084 ha annullato la sentenza di primo grado con rinvio ai sensi dell'art. 105 comma 1 Cpa, ritenendo che nel giudizio si fosse effettivamente verificata una compromissione dei poteri e delle facoltà che la legge riconosce in capo alle parti in causa. Tra questi, l'art. 72, comma 2, c.p.a., attribuisce alle parti la facoltà di discutere sinteticamente nell'udienza, a garanzia del corretto svolgimento del dibattito processuale e nel rispetto del principio di parità delle armi delle parti in causa. Nel caso di specie, tuttavia, l’istanza di rinvio dell’udienza – avanzata dalla parte al fine di consentire al proprio difensore di presenziare ed ivi svolgere oralmente le proprie argomentazioni – era stata respinta dal giudice di primo grado. La pacifica natura di principio generale dell'ordinamento giuridico vale a conferire al diritto di difesa una pienezza ed una pretesa di assolutezza che non tollerano compressione né, tantomeno, soppressione alcuna, con la conseguenza che devono essere garantite, sempre e ad ogni livello, le condizioni migliori per consentirne l'esercizio: la qual cosa non può dirsi realizzata nel caso di specie, ove, al contrario, alla parte è stata negata in radice la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa nelle modalità che riteneva necessarie, vale a dire integrando le argomentazioni già svolte in atti con ulteriori considerazioni da sottoporre al dibattito processuale orale dinanzi al Collegio. A tal proposito, occorre chiarire che nessuna valutazione in ordine alla meritevolezza o alla reale necessità di svolgere difese orali può competere al giudice, né egli può scendere a sindacare nel merito le circostanze di fatto e, a maggior ragione, le scelte d'azione operate dal difensore della parte: cosicché, in un caso come quello di specie, occorreva concedere il rinvio richiesto sol perché finalizzato a garantire la presenza fisica in udienza del difensore che, avendone fatto espressamente richiesta, lo riteneva evidentemente funzionale alla miglior difesa del proprio assistito. Più in particolare, la scelta di presenziare vista la fissazione nella medesima mattina in una certa data, ad una delle udienze piuttosto che all'altra, rientra nelle valutazioni che legittimamente il difensore compie ai fini del miglior perseguimento dei diversi mandati difensivi affidatigli, e che sfuggono pertanto al sindacato del giudice. E' in altri termini preclusa al giudice la valutazione soggettiva sul dedotto impedimento e, nel caso di specie, non poteva negarsi la natura oggettiva dello stesso. 4.3 LA DOMANDA DI CANCELLAZIONE DELLA CAUSA DAL RUOLO Le medesime conclusioni già illustrate nel precedente paragrafo possono essere estese anche all’ulteriore deroga ravvisabile con riferimento alla domanda di cancellazione della causa dal ruolo. In particolare, il T.A.R. Puglia Lecce, sez. I – 27/7/2021 n. 1214, prestando adesione al suesposto orientamento che nega la sussistenza del diritto al rinvio della discussione o alla cancellazione della causa dal ruolo, ha disatteso l'istanza di cancellazione della causa dal ruolo, presentata in vista dell’udienza ad inizio 2021, a fronte di un ricorso risalente a 5 anni prima (era stato depositato nel 2016). Del medesimo segno è la decisione del T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV – 5/1/2021 n. 8, il quale ha osservato che “la cancellazione della causa non è atto dovuto che consegua alla semplice formulazione della relativa domanda. Trattasi invece di espressione del potere discrezionale del presidente del collegio, che qualora ritenga la causa matura per la decisione correttamente può ritenere di non rinviarne la trattazione, a meno che il ricorrente non eserciti il suo potere dispositivo sull'azione in toto, rinunciando ad essa definitivamente con gli istituti all'uopo predisposti: nel processo amministrativo vige sì il principio dispositivo dell'azione, ma nel giudizio vengono in rilievo, oltre agli interessi privati, anche gli interessi pubblici coinvolti nella controversia (Consiglio di Stato sez. II, 27/11/2019, n. 8100; Consiglio di Stato sez. III, 30/11/2018, n.6823)”. 4.4 L’EMISSIONE DELLA SENTENZA IN FORMA SEMPLIFICATA MALGRADO L’AVVENUTA RINUNCIA ALLA DOMANDA DI MISURA CAUTELARE Si rinviene un’ulteriore deroga volgendo lo sguardo al tema dell’emissione della sentenza in forma semplificata, anche in presenza di rinuncia alla decisione sull’istanza cautelare. Il punto da cui partire è l’art. 60 Cpa, il quale prevede che, “in sede di decisione della domanda cautelare”, purché siano trascorsi almeno venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con una sentenza in forma semplificata. Tutto ciò “salvo che una delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza ovvero regolamento di giurisdizione”. Lo schema della sentenza in forma semplificata, in sostanza, è adottabile in via generale dal giudice collegiale dopo l’audizione delle parti - dunque nella garanzia del contraddittorio orale - quando ritenga rispettato il diritto di difesa ed esaustiva l'istruttoria. In particolare, nel rito ordinario (art. 74 Cpa) il giudice decide la causa con pronuncia in forma semplificata laddove ravvisi la manifesta fondatezza o la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso e, allorché adotta lo schema della cd. sentenza breve, la motivazione di questa “può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”. Anche in sede cautelare la sentenza in forma semplificata rappresenta un modo ordinario di definizione del giudizio, fra l’altro già previsto espressamente quale regola in alcuni riti speciali: ad esempio quello dell'ottemperanza (art. 114, comma 3, c.p.a.), quello sul silenzio (art. 117, comma 2, c.p.a.), quello dei contratti pubblici (art. 120, comma 6, c.p.a., con deroga ai limiti di cui al primo periodo dell'art. 74 c.p.a., “di norma” già in esito all’udienza cautelare): è un modulo decisorio rapido e semplificato adoperabile tutte le volte in cui il giudice ritenga di potersi pronunciare sulla controversia, senza ulteriori approfondimenti istruttori o adempimenti processuali, in quanto di pronta soluzione. Come ha sottolineato il Consiglio di Stato, sez. III – 20/10/2021 n. 7045, la sentenza semplificata ha una ratio , insieme, acceleratoria del giudizio e semplificatoria della motivazione, consentendo la rapida definizione, in sintonia con il generale principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di quelle controversie che non presentano profili di complessità, in fatto e in diritto, tali da richiedere una motivazione articolata. Ciò in ossequio al più generale obbligo, che grava sul giudice, di "concisione" dei motivi, in fatto e in diritto, della decisione, anche con rinvio ai precedenti ai quali intende conformarsi, e in conformità al fondamentale principio di sinteticità, affermato dall'art. 3, comma 2, c.p.a., che non concerne solo gli atti di parte, ma anzitutto quelli del giudice, a cominciare dalla sentenza. La sentenza in forma semplificata – ha statuito il giudice d’appello – può essere censurata sul piano sostanziale sulla concreta sussistenza dei presupposti, quali la completezza di istruttoria e del contradditorio (diritto di difesa) nonché l'adeguatezza della motivazione. Tuttavia, sarebbe erroneo l’assunto “secondo cui il principio dispositivo, che vige con alcuni temperamenti anche nel giudizio amministrativo, conferisca alla parte un potere di impulso o di veto immotivato e incondizionato sul regolare e, ove possibile, sollecito andamento del processo che è, sì, tutela giurisdizionale di una situazione giuridica lesa, ma anche esercizio di una funzione pubblica, quella del ius dicere, che obbedisce a precise regole e a valori di rilievo costituzionale, i quali presidiano beni che non sono o, almeno, non sono del tutto nella disponibilità della parte”. E’ stato obiettato che al T.A.R. era precluso di trattenere la causa in decisione per emettere una sentenza breve in quanto avevano espressamente rinunciato alla domanda cautelare. Con la rinuncia all’istanza interinale il giudice sarebbe privato del potere di decidere la causa anche nel merito. Siccome l’art. 60 dispone che il Collegio può trattenere la causa nel merito “in sede di decisione della domanda cautelare”, se vi è stata rinuncia a quest’ultima nessun potere decisorio spetterebbe al giudice (su una domanda ormai venuta meno). Secondo il Consiglio di Stato, al contrario “la rinuncia alla domanda cautelare esonera il giudice dall'obbligo di pronunciarsi su questa, ma non gli sottrae la facoltà di pronunciare con sentenza in forma semplificata sull'intera controversia, se le parti non oppongano validi motivi a questa soluzione, legati alla volontà di proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione”. Le uniche cause ostative alla definizione sono quelle enunciate dalla disposizione del Cpa e cioè il difetto del contraddittorio e l’incompletezza dell'istruttoria, che spetta al Collegio decidente apprezzare, nonché la dichiarazione della parte circa la volontà di “proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale o regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione”. Ancora, sostengono i giudici d’appello che “Questo orientamento risponde al più generale principio secondo cui l'opportunità di una decisione nel merito della causa è rimessa dal legislatore al prudente apprezzamento del giudice e non già alla volontà delle parti, che possono, sì, rinunciare alla domanda cautelare, ma non già disporre come vogliono - in ragione di un malinteso senso del c.d. principio dispositivo - del funzionale e sollecito andamento del giudizio, informato ai valori del giusto processo e della ragionevole durata di questo (art. 111 Cost.). […] Questo Consiglio ha in più occasioni affermato che il rito previsto dall'art. 60 c.p.a. non ha natura consensuale (Cons. St., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178) e che nemmeno la mancata comparizione delle parti costituite all'udienza cautelare può impedire al Collegio di trattenere la causa in decisione per emettere sentenza in forma semplificata (Cons. St., sez. III, 7 luglio 2014, n. 3453)”. A suo avviso, l’espressione “in sede di decisione della domanda cautelare”, contenuta nell'art. 60 c.p.a., sta solo a significare che il Collegio chiamato a decidere la domanda cautelare, in sede di camera di consiglio fissata per la discussione orale e dopo aver sentito ovviamente le parti sul punto, può decidere immediatamente e interamente nel merito la causa, se ve ne sono i presupposti, e non già che gli sia consentito farlo solo unitamente alla domanda cautelare, che dunque può essere oggetto di rinuncia dalla parte ricorrente senza che ciò precluda al giudice l'esame contestuale del merito. Il Consiglio di Stato ha poi richiamato la ratio acceleratoria dell’art. 71, comma 5, c.p.a., il quale stabilisce che il termine di sessanta giorni per la comunicazione del decreto che fissa l'udienza di discussione di merito può essere ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l'udienza di merito è fissata “in seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare” (senza vietare la decisione immediata in seguito alla rinuncia). Lo schema della sentenza semplificata ha in definitiva valenza generale, ed è impiegato dal legislatore al di fuori del giudizio cautelare sia nell’ipotesi dell'art. 74 c.p.a. che dall’art. 71-bis c.p.a., che permette una definizione del merito, in seguito ad istanza di prelievo, mediante il rito camerale e secondo presupposto identici a quelli alla trattazione della domanda cautelare (completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e audizione delle parti costituite). Ha concluso la sentenza che < >. Su questa scia si collocano, rispettivamente, il T.A.R. Puglia Lecce, sez. II – 19/11/2021 n. 1685, ad avviso del quale le parti non avevano opposto validi motivi alla soluzione della sentenza in forma semplificata (es. volontà di proposizione di motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o di giurisdizione); il T.A.R. Sicilia Palermo, sez. – III – 27/9/2021 n. 2692 che, tra l’altro, ha rilevato che la necessità di proporre motivi aggiunti (o ricorso incidentale, o regolamento di competenza o giurisdizione) deve essere concreta e in quel caso la parte ricorrente si era riservata di proporre una domanda futura (ricorso per motivi aggiunti), rispetto a un provvedimento finale (l'aggiudicazione definitiva di una gara) che non risultava essere stato adottato. Dunque il giudice ha deciso. Ancora, il T.A.R. Calabria Reggio Calabria – 27/7/2021 n. 631 ha ravvisato la tassatività dei motivi ostativi, individuati dall'art. 60 Cpa. Essi integrano le uniche cause ostative alla definizione della causa nel merito, e ciò comporta che “i difensori delle parti devono essere consapevoli che nella camera di consiglio che era stata fissata (e che dunque ormai sarà celebrata) per la decisione dell'istanza cautelare questa non sarà vagliata, perché rinunciata, ferma restando la possibilità che il Collegio decida invece, nel merito, la controversia", anche "alla luce dei generali principi di economia processuale e ragionevole durata del processo”; allo stesso modo il T.A.R. Veneto, sez. III – 18/2/2019 n. 225, e il T.A.R. Friuli Venezia Giulia – 4/1/2022 n. 3, secondo cui l’art. 60 Cpa attribuisce al giudice un potere esercitabile d'ufficio, previa interlocuzione con le parti, ma senza necessità di acquisirne il consenso, e ciò anche ove le stesse abbiano scelto di non comparire all'udienza in camera di consiglio presumendo il legislatore che – fatta eccezione per i casi tipici indicati – la definizione immediata del giudizio risponda, oltre che al buon funzionamento della giustizia, allo stesso interesse dei contendenti. In senso contrario, invece, è un indirizzo minoritario della giurisprudenza. Facciamo riferimento al Consiglio di Stato, sez. III – 26/4/2019 n. 2682, secondo cui < >. Nella specie, invero, dopo la rinuncia il giudice di primo grado, alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, in luogo di prenderne atto, ha fissato una nuova camera di consiglio ai fini della decisione con sentenza in forma semplificata del giudizio; ancora, il Consiglio di Stato, sez. II – 2/12/2020 n. 7633, che ha rilevato come la rinuncia alla domanda cautelare è sempre possibile in forza del principio dispositivo che governa il processo amministrativo, come anche indirettamente riconosciuto dall'art. 71 comma 5 c.p.a. che, nel disciplinare i termini minimi di comunicazione del decreto di fissazione udienza, richiama la “rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare”. Il Collegio, comunque, ha ritenuto che la richiesta presentata dalla difesa ricorrente precludesse al giudice l'applicazione dell'art. 60 c.p.a., facendo venir meno il presupposto della decisione della domanda cautelare, “sedes materiae individuata dal legislatore quale unica ed eccezionale deroga all'udienza di discussione, con la conseguenza che la decisione definitiva di una causa senza celebrazione dell'udienza di discussione costituisce una compromissione del diritto di difesa ed è motivo di annullamento della sentenza, con conseguente rinvio della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 105, comma 3, c.p.a. (Cons. Stato Sez. IV, 5 giugno 2012, n. 3317 relativa ad una ipotesi di rinuncia alla domanda cautelare)”. Nel caso di specie, si era verificato poi un ulteriore profilo di violazione del diritto di difesa, rappresentato dalla tardiva ricezione del decreto di fissazione della camera di consiglio, a cui il difensore non ha potuto essere presente, anch'esso rilevante ai fini dell'art. 105 c.p.a. con rinvio del giudizio al giudice di primo grado. Il giudice d’appello ha poi concluso che “In ogni caso, la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata rappresenta una eccezione all'ordinario svolgimento del processo attraverso la celebrazione dell'udienza pubblica di discussione del merito. La natura eccezionale del rito che conduce a definire il merito all'esito della camera di consiglio cautelare (e la conseguente contrazione della possibilità delle parti di esercitare pienamente il diritto di difesa) non consente una lettura restrittiva dei limiti che il legislatore ha previsto alla utilizzabilità dell'istituto, in quanto attraverso quei limiti si tutela e si riespande il fondamentale valore, protetto dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali a tutela dei diritti fondamentali, del diritto di difesa riconosciuto alle parti del processo (Cons. Stato Sez. V, 15 gennaio 2018, n. 178)”. Si tratta di una lettura del diritto di difesa oltremodo estesa. 4.5 PRINCIPIO DI NON CONTESTAZIONE E FACOLTA’ DI DISPORRE ISTRUTTORIA DA PARTE DEL GIUDICE 4.5.1 Il principio dispositivo con metodo acquisitivo Ulteriore profilo di deroga è rappresentato dalla vigenza, nella giustizia amministrativa, di un principio dispositivo che, sul versante probatorio, incontra il temperamento del cd. metodo acquisitivo: a differenza del dispositivo secco, in cui la raccolta degli elementi di prova deve avvenire ad esclusiva iniziativa di parte, il principio dispositivo temperato dal metodo acquisitivo presuppone che il giudice possa pervenire d’ufficio alla conoscenza dei fatti. A ben vedere, infatti, pur spettando alle parti l’introduzione di un principio di prova (“elementi di prova” ai sensi dell’art. 64 comma 1 Cpa), permangono in capo al giudice rilevanti poteri istruttori. Siffatto assetto trova la propria ratio nella disparità che connota la posizione delle parti nel processo amministrativo, sicché è necessario evitare che l’eventuale inerzia processuale dell’amministrazione resistente comprometta la possibilità di difesa del ricorrente il quale, spesso, non è in grado di accedere al materiale probatorio. Vi è dunque un potere istruttorio d’ufficio del giudice il quale supplisce all’inerzia delle parti, e che ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di correggere l’istituzionale disuguaglianza tra le parti al di fuori del processo, la pubblica amministrazione che possiede il provvedimento e gli atti del procedimento, il privato che potrebbe incontrare difficoltà e subire ritardi per venirne a conoscenza. La giurisprudenza e la dottrina, con riferimento alle parti, parlano non tanto di onere della prova, bensì di “onere del principio di prova”, e ciò nel senso che il ricorrente è tenuto semplicemente a prospettare al giudice adito una ricostruzione attendibile sotto il profilo di fatto e giuridico delle circostanze addotte, potendo il giudice acquisire d’ufficio gli elementi probatori indicati dalle parti ovvero ritenuti comunque necessari. Un principio che, a ben vedere, si giustifica proprio in ragione della disponibilità degli elementi probatori documentali in capo alla pubblica amministrazione, ma che torna ad operare pienamente quando i fatti siano nella piena disponibilità del ricorrente, come nel caso del giudizio risarcitorio, ovvero in quello di annullamento o accertamento, vale a dire ipotesi in cui il privato, avendo partecipato al procedimento o avuto accesso agli atti, possa provare pienamente i fatti dedotti. Come ha recentemente statuito il Consiglio di Stato, sez. IV – 27/7/2021 n. 5560, infatti, “Nei giudizi su diritti soggettivi che si svolgono davanti al giudice amministrativo, la misura e l'ampiezza dell'onere della prova deve essere valutato caso per caso, avuto riguardo al dato sostanziale della disponibilità o meno delle prove in capo alle parti e, su questa base, tarare e calibrare, in modo assai rigoroso, l'esercizio istruttorio "suppletivo" condotto dal giudice”. Ad ogni modo, il T.A.R. Campania Napoli, sez. II – 27/12/2021 n. 8256 ha chiarito che “il principio dispositivo con metodo acquisitivo non può essere inteso nel senso che la parte privata che agisce in giudizio, la quale si dolga di un atto o dell'inerzia dell'autorità, possa limitarsi alla mera contestazione dei presupposti di fatto e/o di diritto sui quali si è radicata l'azione (o inazione) amministrativa ed attendere che sia il giudice ad acquisire il materiale probatorio necessario al giudizio, dovendo essa, invece, offrire a sostegno della sua domanda adeguati riscontri probatori quantomeno rispetto agli elementi dei quali abbia una disponibilità pressoché piena, come nel caso dell'estensione del diritto dominicale e dei vincoli sulla stessa incidenti […]. […] i poteri istruttori attivabili in via ufficiosa nel processo amministrativo, lungi dal supplire alle carenze difensive in termini sia di allegazioni che di prova, devono essere orientati solo a completare il quadro istruttorio già offerto dalle parti. Ne discende che il citato principio dispositivo con metodo acquisitivo trova ragion d'essere con riferimento solo ad atti e documenti formati ovvero custoditi dall'amministrazione, per i quali, non essendovi un immediato e generalizzato accesso da parte del privato, potrebbe risultare più difficile l'assolvimento dell'onus probandi nei rigorosi termini di cui all'art. 2697 c.c.” Appare chiaro, dunque, che la natura di giurisdizione soggettiva del processo amministrativo esclude che il giudice possa esaminare fatti diversi da quelli introdotti in giudizio ad opera delle parti, sia pure operando il temperamento del cd. metodo acquisitivo a favore del giudice. 4.5.2 Il fenomeno della non contestazione Invero, l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice amministrativo è condizionato anche dal fenomeno della non contestazione che ne costituisce un ulteriore limite. Come noto, l'art. 64 comma 2 Cpa ha introdotto nella disciplina positiva del processo amministrativo il principio di non contestazione. Il citato precetto, il quale riproduce quasi letteralmente il dettato dell'art. 115 C.p.c., così come modificato dall'art. 45 della L. n. 69/2009, stabilisce che «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita». Per la verità, anche prima della codificazione del processo amministrativo, avvenuta con il D. Lgs. 104/2010, la prevalente giurisprudenza era propensa ad attribuire rilevanza al contegno non contestato, assunto dalle parti nel corso del giudizio (Consiglio di Stato, sez. IV – 15/5/2008 n. 2247) quale corollario logico e naturale del principio della domanda. In ogni caso, la mancata presa di posizione su fatti rappresentati da controparte costituiva comportamento processuale dal quale si potevano trarre argomenti di prova ex art. 116 cpc. L’art. 64, comma 2, c.p.a. non chiarisce, però, quali siano le conseguenze che il difetto di contestazione comporta sui poteri istruttori esercitabili d'ufficio dal giudice, ossia sullo spazio residuo rimesso a quest’ultimo. La collocazione della disposizione porta la giurisprudenza a ritenere che i fatti non contestati confluiscano nel concetto di prova. Pertanto, una volta che la parte abbia adempiuto al suo onere di allegazione, la non contestazione specifica ad opera della controparte costituita farebbe assurgere a prova piena quanto dedotto, e non dovrebbe essere consentito al giudice di ricorrere ai suoi poteri acquisitivi per accertare quanto non oggetto di contestazione, come ordinare l'ingresso in giudizio di atti e chiarimenti su atti del procedimento incontestati, pena il sacrificio delle regole del giusto processo, della ragionevole durata dello stesso e della caratterizzazione del giudice amministrativo come terzo ed imparziale. D’altro canto, però, il potere officioso del T.A.R. e del Consiglio di Stato deve comunque poter consentire di verificare in giudizio la completezza dell'istruttoria compiuta dall’amministrazione. A sostegno di ciò, lo stesso Cpa, prevede che, «l’amministrazione, nel termine di cui al comma 1» (ossia entro sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notifica del ricorso) «deve produrre l’eventuale provvedimento impugnato, nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati, e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio» (Art. 46, comma 2); qualora l’amministrazione non provveda, «il presidente, o un magistrato da lui delegato ovvero il collegio ordina, anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni (art. 65 comma 3); inoltre, «fermo restando l'onere della prova a loro carico, il giudice può chiedere alle parti anche d'ufficio chiarimenti o documenti» (art. 63 comma 1), nonché «disporre, anche d'ufficio, l'acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione» (art. 64 comma 3). Ecco allora che, come emerge dalle norme adesso citate, il giudice deve ricercare un equilibrio tra il principio dispositivo in ambito istruttorio, l’asimmetria informativa (ove esistente) e l’inalterabile principio di parità delle parti. 4.5.3 (segue) I limiti della non contestazione L’operatività del principio di non contestazione, intanto, va incontro ad alcuni limiti. a) Innanzitutto, come prevede espressamente il comma 2 dell’art. 64, esso si applica unicamente nei confronti delle parti costituite, giacché solo esse sono processualmente tenute a conoscere quali fatti abbia allegato la controparte. Così il Consiglio di Stato, sez. VI – 6/2/2019 n. 903 ha statuito che “Deve, di conseguenza, ritenersi che la mancata contestazione di un fatto allegato dal ricorrente da parte dell'Amministrazione intimata ma non costituita in giudizio non rientri nel paradigma di operatività della richiamata disposizione”. A suo avviso “[…] il rilevante effetto del principio di non contestazione, che porta a ritenere provati fatti allegati dal ricorrente senza che questi ne fornisca una dimostrazione puntuale e specifica, induce a ritenere che la mancata contestazione debba essere univocamente indice della volontà dell'altra parte di ritenerli esistenti, situazione che può configurarsi solo nell'ipotesi in cui quest'ultima sia costituita in giudizio e non abbia mosso specifiche contestazioni”. In egual maniera si sono espresse anche T.A.R. Sicilia Catania, sez. III – 9/12/2021 n. 3722 e T.A.R. Lazio Roma, sez. II-ter – 12/11/2021 n. 11706 b) L’onere di contestazione può riguardare solo un'allegazione avversaria che presenti i caratteri della precisione e della specificità, escludendosi conseguentemente che una parte debba contestare anche le affermazioni generiche o, finanche, le mere difese spiegate dalla controparte (Consiglio di Stato, sez. III – 13/5/2015 n. 2410); c) Il principio di non contestazione non può operare in relazione a quegli elementi che occorre comunque dimostrare comprovare (ad esempio, attraverso la produzione del documento allorquando la forma scritta sia richiesta dall'ordinamento ad substantiam o ad probationem); d) Non vale poi il principio di non contestazione per elementi diversi dai «fatti» e, quindi, esso non può essere utilizzato per ritenere «provata» una tesi o una qualificazione giuridica sol perché non contestata dalla controparte, giacché l’individuazione e l’applicazione del diritto è una prerogativa riservata al giudice (secondo il brocardo iura novit curia). e) Infine, il giudice deve comunque tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti nel corso del processo e, quindi, non è vincolato al dovere decidere la base dei fatti non contestati, qualora a prescindere dall'inerzia di parte che non abbia adempiuto all’onere di contestazione i fatti non contestati risultino comunque smentiti da altre prove, in coerenza con il principio dell’acquisizione probatoria. La non contestazione pone problemi più delicati e deve essere attentamente valutata dal giudice, specie quando non attenga alla sussistenza di un fatto storico, ma riguardi un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei fatti-diritto. In particolare, in queste materie, hanno osservato le Sezioni Unite che "il semplice difetto di contestazione non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto" (Corte di Cassazione, sez. unite civili – 16/2/2016 n. 2951). Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116, c.p.c.), a fortiori ciò vale per la valutazione della mancata contestazione (Corte di Cassazione, sez. II civile – ordinanza 30/12/2021 n. 42035) . 4.5.4 La mancata costituzione in giudizio e l’operatività della non contestazione Si è evidenziato, inoltre, che la mancata costituzione, sempre considerata di per sé sola, non può rappresentare un comportamento valutabile, ex art. 64 comma 4 Cpa per trarne argomenti di prova in danno della parte non costituita. La contumacia del convenuto, di per sé sola considerata, non può assumere alcun significato probatorio in favore della domanda dell'attore, poiché, al pari del silenzio nel campo negoziale, non equivale ad alcuna manifestazione di volontà favorevole alla pretesa di controparte, ma lascia del tutto inalterato il substrato di contrapposizione su cui si articoli il contraddittorio (Corte d’Appello di Roma, sez. VI – 27/4/2021 r.g. 8418/2019). E' stato, pure affermato (cfr. Corte di Cassazione, sez. VI.2 civile – 29/8/2014 n. 18426) che la disciplina della contumacia non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'articolo 116, primo comma, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno del contumace. La contumacia esprime, in definitiva, un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti. In senso diverso, una parte della giurisprudenza di primo grado (T.A.R. Toscana, sez. I – 7/3/2018 n. 342; T.A.R. Molise – 9/12/2020 n. 358; T.A.R. Lazio Roma, sez. I-quater – 8/5/2018 n. 5074) la quale ha ritenuto, anche in caso di mancata costituzione, di fare applicazione del principio di non contestazione di cui all’art. 64 comma 4 Cpa “… dovendosi ragionevolmente dedurre che, rispetto a quanto dedotto in ricorso e riscontrato dal Collegio giudicante, l'amministrazione non avesse alcuna difesa utile da opporre”. Altra giurisprudenza recente ha invece affermato che “nel processo amministrativo lo strumento previsto dall'art. 116 c.p.c. (circa gli argomenti di prova che il giudice può desumere dal contegno delle parti), riprodotto dall'art. 64, comma 4, c.p.a., può essere utilizzato in assenza di costituzione della P.A. soltanto ove questa sia stata compulsata dal giudice amministrativo, mediante ordinanza istruttoria, a prendere posizione sui fatti di causa (C.d.S., Sez. VI, n. 6086/2019, cit.)”: è stato ritenuto che il mancato riscontro determini l'applicabilità, altresì, del principio di non contestazione ex art. 64, comma 2, c.p.a. T.A.R. Campania Napoli, sez. V – 17/7/2020 n. 3183; si veda anche T.A.R. Veneto, sez. II – 16/10/2019 n. 1094 5. CONCLUSIONI La declinazione del principio dispositivo nel processo amministrativo risente della regola per cui “il processo amministrativo è un processo di parte, ma non un processo delle parti”. Sicuramente spetta all’attore (ricorrente) l’input iniziale ed è titolare di poteri sull’andamento fino al momento in cui la causa passa in decisione (trattazione pubblica della causa). Tuttavia la disponibilità della lite non può spingersi fino al governo pieno del processo e delle sue dinamiche, avendo il giudice il ruolo di garante del corretto svolgimento del giudizio. Una volta incardinato il rapporto giuridico processuale con l’atto introduttivo, il suo sviluppo fuoriesce dalla totale padronanza delle parti e dell’attore in particolare, ed è viceversa modulabile dal giudice nel doveroso contemperamento del principio dispositivo con altri interessi pubblici compresenti (come il canone di ragionevole durata del processo). Il giudice allora diventa fondamentale in quanto non si limita al ruolo di arbitro-spettatore passivo – “che fischia poco e lascia giocare”, per usare un gergo sportivo – ma diviene un regolatore attivo, in grado di coniugare valori e principi e di trovare una soluzione alle frizioni che affiorano tra i contendenti.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 09 mag, 2022
Ed eccoci all'ultimo tagliando prima del ”liberi tutti”. Più che essere o non essere, la domanda del giorno è: mettere o non mettere la mascherina? Sguardi preoccupati si scorgono andando in giro per bar, farmacie, parrucchieri e luoghi di lavoro. L'esitazione è d'obbligo. Soltanto entrando al cinema si ha la liberatoria certezza, in questo particolare periodo storico, di dovere indossare ancora tutti la mascherina, per giunta la ffp2. Ma cosa sta realmente accadendo, giuridicamente parlando? Partiamo dalla fine. Il 28 aprile scorso il Ministro della Salute, terminato lo stato di emergenza, esauriti i decreti-legge a disposizione, e finita anche un po'la pazienza di quegli italiani che non vorrebbero essere da meno rispetto agli altri europei - ormai in gran parte tornati alla "normalità" -, ha tirato fuori l'ultima ordinanza covid dal suo capace "cilindro” emergenziale. Si leggono nella motivazione di questa ordinanza delle cose stupefacenti , e anche un po'preoccupanti, a volerla prendere sul serio, come peraltro sarebbe giusto che fosse. " Considerato che, in relazione all'attuale andamento epidemiologico, persistono esigenze indifferibili di contrasto al diffondersi della pandemia da Covid-19 ". Una tale premessa, peraltro non corroborata da nessuna reale spiegazione di quale sia l'attuale andamento epidemiologico, né dal richiamo di un parere tecnico sul punto (il CTS è stato ormai smobilitato), ma accostata all'utilizzo di un potere extra ordinem - la cosiddetta ordinanza contingibile e urgente, capace di derogare alla normativa vigente - dovrebbe essere seguita, nella normalità dei casi, se si fosse cioè davvero in una situazione seria di rischio sul territorio nazionale, da misure drastiche di contenimento della diffusione del virus, come nel recente passato abbiamo già conosciuto. Una tale premessa, inoltre, non sarebbe stata certamente plausibile se una popolazione quasi interamente vaccinata fosse anche sicuramente "protetta" contro la malattia grave, o ancora, ma è lo stesso, se fosse accertato definitivamente che il virus che oggi circola non cagiona una malattia grave ma una specie di raffreddore rinforzato. (1) E invece, alla giustificazione "catastrofista" dell'atto, segue semplicemente l'obbligo di indossare, astrattamente fino al 15 giugno 2022, le mascherine in aerei, treni, traghetti, autobus, ospedali, RSA, cinema e luoghi al chiuso dove si svolgono spettacoli dal vivo o eventi sportivi. Una sola domanda, dal punto di vista strettamente giuridico: siamo sicuri che la motivazione dell'ordinanza soddisfi i requisiti minimi stabiliti dalla giurisprudenza perché tale tipo di provvedimento possa incidere su diritti soggettivi costituzionalmente rilevanti? Si impone un facere invasivo della libertà personale con un atto amministrativo monocratico e non con una legge, senza che siano indicati, se non tramite una clausola di stile (”considerato che persistono esigenze indifferibili di contrasto…”), i reali presupposti di urgenza che devono assistere l’esercizio di un potere così penetrante. Si tratta di un comando che si pone addirittura in tensione con un paio di norme primarie di segno contrario ( art. 85 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e art. 5 della legge n. 152 del 1975 ), le quali pretendono che ordinariamente il viso non sia coperto in luoghi aperti al pubblico. Si tratta inoltre di un obbligo che per essere legittimamente imposto tramite atto amministrativo dovrebbe rivelarsi idoneo a fronteggiare una situazione di rischio imprevista e/o straordinaria ed essere confinato entro ragionevoli limiti temporali, dati dalla persistenza della situazione eccezionale, senza peraltro mai risultare sproporzionato, cioè eccedente le finalità del momento, o destinato a regolare stabilmente una situazione o un assetto di interessi. Lasciamo la risposta ai Tribunali, se mai si occuperanno della questione. E tuttavia, dal punto di vista pratico, la disposizione più criptica è quella contenuta nel secondo periodo del comma 2 dell’art. 2 dell’ordinanza ministeriale: “ È comunque raccomandato di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie in tutti i luoghi al chiuso pubblici o aperti al pubblico ”. Cosa significa, dal punto di vista giuridico? Niente, se non la “creazione” di una sorta di effetto di liceità che rende, ad esempio, giustificato coprirsi il volto in luoghi aperti al pubblico, ma che non potrebbe, per altro verso, obbligare utenti o lavoratori a soggiacere ad una sorta di misura “discriminatoria” in tali luoghi (del tipo: entri soltanto se hai la mascherina). Nei fatti, si è creata una curiosa disparità tra uffici pubblici e aziende private, oltre che, quanto ai primi, tra un ufficio pubblico e un altro. Il tutto nasce da una bizzarra combinazione tra quanto previsto dal legislatore con il suo ultimo decreto-legge anti-covid , attualmente in sede di conversione (“ Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell'epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza ”), e quanto previsto in ordine sparso dalle altre mille autorità, private e pubbliche, di questo Paese. L’ art. 5 del decreto-legge n. 24 del 24 marzo 2022 stabilisce come termine finale dell’utilizzo obbligatorio dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie il 30 aprile 2022, ma fa salvo l’ art. 3 del decreto-legge n. 52 del 2021 , secondo cui fino alla conclusione dell' anno scolastico 2021-2022 , nelle istituzioni e nelle scuole primarie e secondarie nonché negli istituti tecnici è fatto obbligo di utilizzo delle mascherine di tipo chirurgico, o di maggiore efficacia protettiva. A sua volta, l’art. 3 del d.l. n. 24 sopra citato affida al Ministro della Salute, a decorrere dal 1° aprile 2022 e fino al 31 dicembre 2022, in relazione all'andamento epidemiologico, un potere di ordinanza , di concerto con i Ministri competenti per materia o d'intesa con la Conferenza delle regioni e delle province autonome, al fine di adottare e aggiornare linee guida e protocolli volti a regolare lo svolgimento in sicurezza dei servizi e delle attività economiche, produttive e sociali. Nella realtà delle cose, negli ambienti di lavoro privati è stato prorogato fino al 30 giugno 2022 il “ Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 ”, che prevede la permanenza dell’obbligatorietà dell’uso delle mascherine per i lavoratori “in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, al chiuso o all'aperto” e fatti salvi i casi di “attività svolte in condizioni di isolamento”. Al contrario, per quanto riguarda gli ambienti di lavoro pubblici – ad eccezione, come visto, delle scuole -, il Ministro della Pubblica amministrazione ha emesso un’ ordinanza, in data 29 aprile 2022 , in cui, dopo avere ribadito che non sussiste per il personale alcun obbligo specifico di indossare dispositivi individuali di protezione delle vie respiratorie, ha distinto i casi in cui l’utilizzo della mascherina è raccomandato e i casi in cui tale utilizzo non è raccomandato (!), e ha lasciato alle singole amministrazioni la “patata bollente” di decidere quali misure in concreto adottare. La domanda sorge spontanea. Ma, se nei luoghi di lavoro pubblici le mascherine non sono più obbligatorie – e tutto depone, come visto, in tal senso –, quali dovrebbero essere le disposizioni adottate in materia dalle singole amministrazioni, se non quelle di specificare in quali ambienti sono raccomandate e in quali ambienti non sono raccomandate? E poi. Quanto incidono questi suggerimenti del datore di lavoro sulle singole sensibilità dei lavoratori? In questo particolare periodo storico, ognuno si è fatto la sua idea e ha creato la propria linea di condotta per proteggersi dalla malattia virale. In assenza di un dovere di protezione della collettività che venga cristallizzato in un obbligo giuridico, le raccomandazioni pubbliche lasciano il tempo che trovano. La verità è che forse la protezione dal virus pandemico – da tutti i virus – dovrebbe restare, in condizioni di normalità, affidata al buon senso e alla scelta individuale delle persone. Oggi abbiamo gli strumenti per proteggerci senza costringere gli altri a farlo a loro volta (mascherine ffp2 e vaccinazioni) e in questa prospettiva la raccomandazione odierna del Ministro della Salute ha senso, se rivolta a tutelare quella parte di popolazione – ancora consistente, in conseguenza delle fragilità individuali e dei risvolti psichici generati dalla pandemia – che ritiene di non essere al sicuro da un rischio esistente, seppure largamente ridimensionato; non ha senso, se è invece la spia di uno Stato paternalista che vuole continuare a condizionare la vita di tutti instillando esso stesso la paura. Nel frattempo, dalla Gran Bretagna (*) – ma lo stesso discorso vale anche per gli altri Paesi che hanno vaccinato molto e bene - giungono notizie di un drastico calo di contagi e morti nonostante l’eliminazione da tempo di tutte le misure obbligatorie di contenimento della diffusione del virus, ivi comprese le mascherine al chiuso. Sarà forse che il “covid italiano” è il più resistente di tutti? (1) Sul tema "pandemia" sono stati pubblicati sul sito i seguenti approfondimenti: - Sistema democratico e Diritto emergenziale - Vaccino e Covid-19: obbligo, raccomandazione o libero arbitrio? - La “guerra” di competenze tra Stato e Regioni - Concorsi, ricorsi e pandemia - Il cambio di passo. Coprifuoco e altri rimedi - L'ultimo miglio: dal piano al passaporto vaccinale - Responsabilità politica, responsabilità giuridica e responsabilità morale. Storia recente di uno Stato che non sa chiedere scusa - Le conseguenze del covid - Obbligo all'italiana. Green pass e libero esercizio dei diritti - Da Parigi a Strasburgo. La "via" giudiziaria del green pass, tra controlli di legalità e di necessità - Stato di emergenza - Zona franca. Regola e "fuoriregola" ai tempi dell’Omicron - Tutti contro tutti (Ma c’è un giudice anche a Melbourne) - Panzerotti e "boosterine". Profitti e prospettive della pandemia
Autore: dalla Redazione 01 mag, 2022
C’erano una volta i manicomi giudiziari . In caso di reato commesso in stato di infermità mentale tale da togliere la coscienza o la libertà dei propri atti, l’individuo, seppure prosciolto perché non punibile, poteva essere consegnato all’autorità di pubblica sicurezza, laddove il giudice ne avesse stimato pericolosa la liberazione. L’autorità competente provvedeva in seguito al ricovero provvisorio in un manicomio in stato di osservazione; se dopo tale periodo la prognosi di pericolosità veniva confermata, il giudice ne ordinava il ricovero definitivo. Con la riforma dell’ordinamento penitenziario , i manicomi giudiziari furono sostituiti dagli ospedali psichiatrici giudiziari , e sempre in funzione di protezione sociale rispetto a soggetti totalmente o parzialmente incapaci di intendere e di volere ma pericolosi per la privata e pubblica incolumità. Il ricovero in un ospedale psichiatrico era una delle misure di sicurezza disciplinate dagli articoli 199 e seguenti del codice penale . Ai sensi dell’ articolo 202, comma 1 , queste misure « possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato ». È considerato socialmente pericoloso l’autore di tale fatto « quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati » ( articolo 203, comma 1 ). Le misure di sicurezza (ordinate dal giudice penale nel suo giudizio di merito, o in un provvedimento successivo, nel caso di condanna, durante l’esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena – articolo 205) possono essere revocate solo se le persone ad esse sottoposte hanno cessato di essere socialmente pericolose ( articolo 207, comma 1 ). Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ciascuna misura di sicurezza, il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è sottoposta, per stabilire se essa sia ancora socialmente pericolosa. Qualora la persona risulti ancora pericolosa, il giudice fissa un nuovo termine per un esame ulteriore. Nondimeno, quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato, il giudice può, in ogni tempo, procedere a nuovi accertamenti ( articolo 208 ). Nei fatti, accadeva questo. Un soggetto che aveva commesso un reato grave e che non doveva espiare la sua pena in carcere per ragioni di infermità mentale, ma che veniva giudicato socialmente pericoloso, transitava per una casa di cura e custodia o per un ospedale psichiatrico, dove subiva un trattamento di contenimento e di aiuto farmacologico. Scaduto il periodo minimo di durata di detenzione (due anni, cinque anni o dieci anni per il ricovero in ospedale psichiatrico, a seconda della gravità della pena prevista per il reato commesso), il soggetto si ripresentava davanti al Giudice di sei mesi in sei mesi, per essere sottoposto a nuova valutazione di pericolosità, sulla base di una relazione medica che fotografava le sue condizioni psichiche del momento. Succedeva che, per i casi più eclatanti di “follia”, il rinvio era sine die – specie se ci si rendeva anche autori, durante il trattamento, di gesti di autolesionismo, di resistenza violenta verso il personale di sorveglianza o di crimini verso altri ospiti della struttura -; altri, apparentemente “guariti”, uscivano e commettevano nuovamente delitti; altri ancora, magari entrati per reati minori, si istituzionalizzavano e semplicemente non uscivano più, impossibilitati com’erano, dopo anni di privazione della libertà, ad affrontare la “realtà esterna”. Certo, c’erano anche esempi di ospedali psichiatrici “virtuosi” e all’avanguardia, come quello di Castiglione delle Stiviere ; questo ospedale ha rappresentato un’eccezione rispetto alla restante parte degli istituti italiani di questo tipo. Era l’unico a non essere gestito dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, bensì tramite una convenzione con l’Azienda Ospedaliera “Carlo Poma” di Mantova, ed è stato l’unico OPG (ospedale psichiatrico giudiziario) italiano con una sezione femminile. Era situato in un bel parco, richiamava per caratteristiche una struttura sanitaria più che una struttura detentiva, aveva stanze per gli ospiti in buone condizioni e tra di loro differenziate nella dotazione di accessori e arredamento, a seconda dell’indipendenza mostrata dall’internato e dell’affollamento della sezione. Gli spazi comuni interni ed esterni erano ampi e la capienza complessiva sostanzialmente rispettata; esisteva poi una struttura comunitaria esterna per l’esecuzione delle misure di sicurezza in “regime di licenza esperimento”: tale struttura era del tutto paragonabile ad una normale abitazione civile. Non erano stati segnalati, fino al 2015, per quantità e qualità, eventi critici tipicamente riscontrabili nelle strutture carcerarie; in particolare, erano stati rari i suicidi e l’applicazione sistematica di contenzioni. Eppure, a parte questo esempio a suo modo virtuoso, un'indagine parlamentare approvata nel 2011 dalla apposita commissione d’inchiesta istituita presso il Senato accertò le condizioni di estremo degrado degli ospedali psichiatrici giudiziari e la generalizzata carenza di quegli interventi di cura che avevano motivato l'internamento dei soggetti a rischio sociale. Il legislatore decise perciò di trasformare gli ospedali psichiatrici in REMS , acronimo che sta per Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le nuove residenze sono state concepite come strutture residenziali caratterizzate da una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, caratterizzati da una concezione (quasi) esclusivamente custodiale. Le REMS – pensate, invece, in funzione di un percorso di progressiva riabilitazione sociale -, sono strutture di piccole dimensioni che devono favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato mentale può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la pericolosità con strumenti alternativi, per esempio con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale. Correva l’ anno 2012 , quando la legge n. 9 del 17 febbraio , convertendo l'art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011 n. 211 (“Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri”), stabilì il “completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Termine per il definitivo completamento di tale processo: 31 marzo 2013. Il testo originario della norma (comma 4, art. 3-ter) prevedeva infatti che a decorrere da tale data le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia avrebbero dovuto essere eseguite “esclusivamente all'interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2”, ovvero le REMS. Successivamente, con locuzione più perentoria, il legislatore è nuovamente intervenuto stabilendo che “dal 1° aprile 2014 gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi”. L’espressione più decisa non è però servita, perché ci è voluto un nuovo termine ( 31 marzo 2015 ) e un nuovo atto normativo per ribadire la chiusura degli OPG. D’altra parte, il d.l. n. 52 del 2014 , che ha definitivamente (e apparentemente) chiuso la faccenda, aveva l’autoironico titolo “disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, cioè superamento di una cosa che era già stata normativamente superata. Le principali differenze “operative” tra le nuove REMS e i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari sono essenzialmente queste: - ogni residenza può ospitare, in teoria, un numero limitato di persone (20); - la gestione interna della residenza è di esclusiva competenza del sistema sanitario nazionale, con programmi di percorsi terapeutico-riabilitativi individuali predisposti dalle Regioni attraverso i competenti dipartimenti e servizi di salute mentale delle proprie aziende sanitarie; - il giudice penale dispone il ricovero in una residenza, quale misura di sicurezza, soltanto “quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale” (così la legge n. 81 del 2014); - il ricovero nella residenza non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima, fatta eccezione che per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, per i quali si continuano ad applicare le vecchie regole (si esce soltanto quando non si è più socialmente pericolosi). Obiettivo: focalizzarsi sulla malattia e non più soltanto sulla detenzione. Ma cosa è concretamente accaduto? Torniamo per un attimo a Castiglione delle Stiviere. A luglio del 2021, in Italia, erano attive circa 30 REMS con 600 posti letto. Regione Lombardia, invece di aprire più residenze nelle diverse province di competenza, aveva deciso di dividere l’ex ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere in 8 comunità, per un totale di 160 posti. Ne sono derivati problemi strutturali (adeguamento del vecchio edificio alla nuova realtà, con connessa realizzazione di adeguati lavori di ristrutturazione e ampliamento), problemi di sicurezza (assenza di vigilanza competente) e problemi di assistenza medica (carenza cronica di medici internisti o di medicina generale, accanto agli psichiatri e agli psicologi, con aumento esponenziale della frequenza degli invii in ospedale dei “residenti”). D’altra parte, la Corte costituzionale ha messo nero su bianco in una recente sentenza (1) – e dopo un’approfondita istruttoria – che l’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche presenta numerosi profili di frizione con i principi costituzionali, che il legislatore dovrebbe eliminare al più presto. Dall’istruttoria disposta dalla Corte è emerso, in particolare, che sono tra 670 e 750 le persone attualmente in lista d’attesa per l’assegnazione ad una REMS; che i tempi medi di attesa sono di circa dieci mesi, ma anche molto più lunghi in alcune Regioni; e che molte di queste persone – ritenute socialmente pericolose dal giudice – hanno commesso gravi reati, anche violenti. Dal momento che l’assegnazione alle REMS resta però nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico ma anche per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato, secondo la Corte è necessario rispettare il principio fondamentale vigente in ordine alle misure di sicurezza e ai trattamenti sanitari obbligatori, ovvero la riserva di legge. Vi deve essere, in altri termini, una legge dello Stato a disciplinare la misura, con riguardo non solo ai “casi” in cui può essere applicata ma anche ai “modi” con cui deve essere eseguita. Al contrario, oggi la regolamentazione delle REMS è solo in minima parte affidata alla legge, essendo per il resto rimessa ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da Regione a Regione. La Corte ha poi sottolineato che a causa dei suoi gravi problemi di funzionamento il sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società. Inoltre, la totale estromissione del Ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di REMS – e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale –, non è compatibile con l’ articolo 110 della Costituzione , che assegna a tale Ministro la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Come spesso ultimamente accade, però, la Corte ha ritenuto di non poter dichiarare illegittima la normativa in questione, perché da una simile pronuncia deriverebbe “l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG”, con la conseguenza di “un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. Di qui il monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri assieme: – un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; – la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; – forme di idoneo coinvolgimento del Ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario. Nel frattempo, però, la Corte europea dei diritti dell’uomo , molto più pragmaticamente, ha condannato lo Stato italiano per la violazione degli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione perpetrata ai danni di un cittadino sottoposto a misure detentive applicate in regime carcerario ordinario, nonostante le decisioni dei giudici che ne avevano accertato la responsabilità penale ne avessero disposto il ricovero in una REMS, rivelandoci al di là di ogni ragionevole dubbio la “mostruosità” del nuovo sistema creato dal legislatore (2) . Nel caso di specie, il ricorrente dinanzi alla CEDU ha contestato il suo mantenimento illegale in regime carcerario ordinario e l’inadeguatezza delle sue condizioni di detenzione, che si erano accompagnate alla carenza di un trattamento adeguato ai suoi disturbi psichiatrici. Si tratta di una vicenda giudiziaria alquanto complicata (vedi per approfondimenti l’articolo recentemente pubblicato sul sito), ma che si può riassumere così: un soggetto bipolare e dipendente da droghe commette crimini quando è fuori dal carcere e atti autolesionistici quando è dentro il carcere; il Giudice penale decide che per la sua pericolosità e la sua infermità mentale deve essere ricoverato in una REMS ma la lista di attesa è lunga e il soggetto, nel frattempo sottoposto a continue condanne e misure restrittive cautelari, continua a “rimbalzare” tra libertà vigilata e galera. I Giudici europei hanno affermato che il mantenimento in stato detentivo in ambiente penitenziario ordinario, nonostante il parere contrario degli psichiatri che lo seguivano, ha impedito all’interessato di beneficiare di una cura terapeutica adeguata al suo stato di salute mentale, così da aggravare le sue condizioni e da costituire un trattamento inumano e degradante, vietato dall’articolo 3 della Convenzione. Inoltre, la Corte EDU ha definito la privazione della libertà del ricorrente, subita a partire dal 21 maggio 2019, come “illegale”, condannando lo Stato italiano a versare a costui la somma di euro 36.400 per danno morale e di euro 10.000 per le spese. I passaggi importanti di questa sentenza, ai nostri fini, sono i seguenti: - la «detenzione» di un infermo di mente può essere considerata «regolare» soltanto se attuata in un ospedale, in una clinica o in un altro istituto appropriato e la misura della detenzione in una REMS ha lo scopo non solo di proteggere la società, ma anche di offrire all'interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e permettere in tal modo di attenuare o gestire la sua pericolosità; - tuttavia, nel caso di specie, è stato accertato che l’interessato, nonostante avesse bisogno di un trattamento appropriato al fine di ridurre il pericolo che egli rappresentava per la società, non era stato trasferito in una REMS, neanche dopo la sentenza con la quale ne era stata ordinata la sua liberazione, ed era stato mantenuto in detenzione in regime carcerario ordinario, in cattive condizioni, senza beneficiare di un percorso terapeutico individualizzato; - lo Stato è tenuto, nonostante i problemi logistici e finanziari, ad organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da assicurare ai detenuti il rispetto della loro dignità umana, di modo che il ritardo nell'ottenimento di un posto in una struttura adeguata è accettabile soltanto se breve e debitamente giustificato; - nel caso esaminato, le autorità competenti non hanno cercato attivamente una soluzione né hanno dimostrato di essersi sforzate di superare gli ostacoli che si frapponevano all'applicazione della misura disposta dal Giudice penale. Morale della favola: per più di un anno non sono stati creati nuovi posti all’interno delle REMS né è stata trovata un'altra soluzione per l'interessato, nonostante esigenze pressanti e richieste reiterate. E’ successo così che un individuo condannato per reati violenti, fuori controllo e socialmente pericoloso, invece di avere adeguata protezione per sé e per gli altri, ha continuato a sopravvivere fuori e dentro dal carcere in balia del sistema, e poi è stato addirittura risarcito dal suo Stato di appartenenza – e dunque da tutti noi - per la violazione dei suoi più basilari diritti umani. Sembrerebbe di poter concludere, alla luce di questa paradossale vicenda, che l’eliminazione dei brutali ospedali psichiatrici giudiziari in favore delle più moderne e umane residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza abbia partorito il classico topolino. L’infermo di mente, socialmente pericoloso, e che si è già macchiato di crimini violenti, è ancora più solo di prima. Né ricovero adeguato – la lista di attesa è infinita – né carcere, perché altrimenti occorre pure (e giustamente) risarcirlo. Forse qualcosa è sfuggito al nostro ineffabile legislatore, che ha fatto come al solito una bellissima riforma di principi e di sistema senza investire un euro. C’erano una volta i manicomi giudiziari. [1] Sentenza n. 22 del 2022 (camera di consiglio del 15 dicembre 2021, depositata il 27 gennaio 2022) [2] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 24 gennaio 2022 - Ricorso n. 11791/20
30 apr, 2022
Sentenza della Corte di Assise di Roma del 13/10/2020 - sentenza del 15/06/2021 della Corte di Assise di Appello di Roma - Cassazione penale sez. II, 16/02/2022, (ud. 16/02/2022, dep. 22/03/2022), n.9972 IL CASO E LA DECISIONE A seguito di una presunta sottrazione – con relativo incasso - di assegni ai danni di un centro sportivo, il gestore di tale centro ed altri soggetti suoi amici reagivano violentemente al fine non soltanto di rientrare in possesso della somma ma anche di ripristinare il prestigio del “gruppo criminale” di appartenenza all'interno del quartiere romano dove il circolo era ubicato. Il Giudice di primo grado , con condanna confermata in appello, non ha derubricato i plurimi episodi contestati dall’accusa come di estorsione , tentata e consumata, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., ritenendo che gli imputati avessero agito in qualità di terzi, per il recupero di una somma spettante al titolare della società che gestiva il centro sportivo al quale le somme erano state sottratte, pur nella convinzione dell'esistenza del diritto alla restituzione. Ha inoltre concluso nel senso che l'ingiusto profitto dell'estorsione consisterebbe non solo nella proiezione patrimoniale della condotta costrittiva ma anche in ogni utilità, materiale o spirituale, che l'agente intenda perseguire, compresa l'intenzione di tutelare il prestigio criminale nella zona d'influenza. Nel giudizio di cassazione , i ricorrenti hanno sostenuto che l'azione violenta sarebbe stata originata dal diritto di recuperare le somme sottratte alla società, riportate dagli assegni rubati e posti all'incasso, e che tale pretesa sarebbe stata fatta valere dal titolare del credito e dai terzi ai quali costui si sarebbe rivolto al solo fine di rientrare in possesso di quanto sottratto. Tuttavia, la Corte di ultima istanza ha ritenuto che nessun preteso diritto gli imputati potessero esercitare nei confronti delle persone offese, in quel preciso momento storico, posto che, in alcun modo, era stata accertata la responsabilità dei predetti per il pregresso fatto di furto in danno della società sportiva. Secondo la Cassazione, dunque, l'azione delittuosa era da considerarsi totalmente arbitraria, perché esercitata in presenza di un semplice sospetto. Sotto altro profilo - proseguono i Giudici di legittimità -, è solo ad esito di un accertamento nell'ambito delle indagini da parte dell'autorità giudiziaria che alle vittime avrebbe potuto essere rivolta una richiesta con contenuto legittimo, mentre, nel caso di specie, il privato non aveva alcun "diritto" a porre in essere una propria indagine personale esercitando violenza nei confronti del sospettato autore di un precedente furto per ottenere la restituzione di quanto sottratto illecitamente, proprio perché l'iniziativa volta alla individuazione degli autori di un fatto illecito e alla repressione degli stessi è integralmente attribuita alla pubblica autorità di polizia ed alla autorità giudiziaria e non può invece essere esercitata dai privati attraverso indagini autonome e la comminatoria di conseguenti sanzioni, da considerarsi certamente estranee all'ordinamento. La Corte di Cassazione ha dunque confermato le conclusioni sul punto dei giudici di merito, seppure con diversa motivazione, rigettando altresì anche il motivo imperniato sul mancato accertamento del profitto dell’estorsione, posto che una pretesa economica totalmente indebita, perché basata su un semplice sospetto, priverebbe di rilevanza l'ulteriore finalità delle azioni violente. ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITARIO DELLE PROPRIE RAGIONI L’ art. 393 del codice penale prevede una fattispecie incriminatrice in cui il bene protetto non è soltanto il buon andamento dell’amministrazione della giustizia ma anche la tutela della pubblica quiete e la pubblica e privata protezione da aggressioni morali e fisiche utilizzate per “regolare i conti” tra di loro dai consociati. La condotta consiste nel farsi arbitrariamente ragione da sé medesimi usando violenza o minaccia alle persone, e il presupposto di tale condotta è la possibilità di ricorrere al giudice per ottenere quanto reclamato. Si tratta di un reato con dolo specifico , perché caratterizzato dal fine di esercitare un preteso diritto, che nella sua versione “aggravata” può essere commesso con l’uso di armi. L’ art. 629 c.p. – delitto di estorsione – è invece ricompreso nella parte del codice dedicata ai reati contro il patrimonio (con un bene giuridico protetto che è senz’altro estraneo alla tutela di interessi specificamente pubblicistici), ma ha in comune con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone la condotta di violenza o minaccia, e la costrizione nei confronti di taluno a fare od omettere qualche cosa. A questa condotta, peraltro, deve aggiungersi anche quella di procurarsi, a mezzo delle modalità sopra descritte, un ingiusto profitto con altrui danno. Secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si distinguono tra loro in relazione all' elemento soggettivo . da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie. In particolare, ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume decisivo rilievo l'esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata. Nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l'agente in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell'estorsione, invece, l'agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all'ottenimento dell'evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli. Ai fini dell'integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall'agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all'oggetto della tutela apprestata in concreto dall'ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione , operata dall'agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l'agente deve quindi essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente. La pretesa non deve essere del tutto arbitraria - cioè sfornita di una possibile base legale -, in quanto il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo. D’altra parte, l' intensità della minaccia e della violenza esercitate non costituiscono elementi distintivi delle fattispecie, dal momento che la pena è aumentata se la violenza o minaccia è commessa con armi, senza legittimare distinzioni tra armi bianche ed armi da fuoco, di modo che è normativamente prevista la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, aggravato dall'uso di un'arma, anche di condotte poste in essere con armi tali da rendere la violenza o la minaccia di particolare gravità, ovvero costrittiva, e comunque sproporzionata, rispetto al fine perseguito. Questo riferimento appare dunque decisivo per non attribuire alcuna rilevanza al quantum di violenza esercitata oppure alla gravità della minaccia proferita. Pertanto, l’orientamento ad oggi assolutamente prevalente è quello secondo cui le due fattispecie in esame si distinguono in base al solo finalismo della condotta , che in un caso è mirata al conseguimento di un profitto ingiusto, e nell'altro allo scopo, soggettivamente concepito in modo ragionevole, di realizzare, pur con modi arbitrari, una pretesa giuridicamente azionabile. In questa prospettiva, il livello offensivo della coercizione finisce con l'incidere solo sulla gradazione della pena, ma non sulla qualificazione del fatto, di modo che non può mai essere annullata la funzione definitoria del corrispondente riferimento alla specifica connotazione del profitto perseguito dall'estorsore. Nel caso in commento, di conseguenza, la condotta tenuta dagli imputati è stata fatta rientrare nella fattispecie di estorsione, in quanto il fine perseguito dall'agente mirava al conseguimento di un profitto da qualificarsi come ingiusto, perché privo di qualsiasi fondamento giuridico (la pretesa restitutoria nei confronti delle persone offese era infatti basata su meri sospetti personali e non sugli esiti di un’indagine condotta dalla polizia giudiziaria o dalle autorità competenti). D’altra parte, la Cassazione ha osservato che i fenomeni di sostituzione delle indagini “private” alle indagini pubbliche compiute secondo le regole stabilite dall’ordinamento giuridico costituiscono la tipica manifestazione delle organizzazioni criminali che esercitano il controllo del territorio attraverso personali attività, rivolte alla repressione dei fatti commessi in danno di soggetti partecipi dell'organizzazione o che comunque alla stessa si rivolgano per la soluzione di problematiche, e ciò fanno senza avere alcun potere per l'effettuazione di indagini od attività di repressione del crimine. In altri termini, l'esercizio di "potestà" sostitutive dei pubblici poteri costituirebbe, secondo i Giudici, una delle più eclatanti manifestazioni delle realtà criminali, le quali in effetti mirano non soltanto all'arricchimento attraverso la consumazione di una o più fattispecie di delitto ma, anche, al controllo della popolazione vivente all'interno del territorio controllato, attraverso la repressione di quei piccoli fatti criminosi operati da soggetti estranei alle logiche criminali che vengono perseguiti e puniti sulla base di semplici sospetti od accertamenti compiuti con efferatezza. Applicando gli stessi principi, in fattispecie in cui la condotta di violenza, minaccia e costrizione sia consistita in un vero e proprio sequestro di persona , la giurisprudenza di legittimità ha tenuto ferma anche la distinzione tra il concorso con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il vero e proprio delitto di sequestro a scopo di estorsione . In particolare, è stato detto che quando la pretesa di adempimento di un credito sia effettuata con minaccia o violenza non nei riguardi del debitore, bensì di un terzo, ed a tale condotta seguano ulteriori violenze e minacce di terzi estranei verso soggetti diversi dal debitore , sicché la pretesa arbitraria si trasforma in richiesta estorsiva, sia a causa delle modalità e della diversità dei soggetti autori delle violenze, che per l'estraneità dei soggetti minacciati alla pretesa azionata, si rientra direttamente nella fattispecie di sequestro di persona a fini di estorsione, con esclusione della configurabilità di un’ipotesi di concorso del delitto di cui all’art. 393 c.p. con il reato di cui all’art. 605 c.p.. Sotto altro, concorrente profilo, nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, l'ingiusto profitto cui deve essere finalizzata la condotta dell'agente si identifica in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, che costituisca un vantaggio per il soggetto attivo del reato o per il terzo nel cui interesse egli abbia agito, rimanendo irrilevante, nel caso di concorso di persone nel reato , che lo scopo perseguito, ancorché comunque tipico, non sia identico per tutti i correi, in quanto risponde di concorso ex art. 110 c.p., in un reato a dolo specifico , anche il soggetto che apporti un contributo che non sia soggettivamente animato dalla particolare finalità richiesta dalla norma incriminatrice, a condizione che almeno uno degli altri concorrenti (non necessariamente l'esecutore materiale), agisca con tale intenzione e che della stessa il primo sia consapevole.
Autore: a cura degli Avvocati Daniela Anselmi, Chiara De Martino e Federico Smerchinich 24 apr, 2022
INTRODUZIONE Per Intelligenza artificiale (IA) si intende la capacità di un sistema tecnologico di risolvere problemi o svolgere attività tipiche della mente e dell’agire umano ed è utilizzata nei settori più disparati, da quello della medicina (già oggi esistono robot chirurgici che altro non sono che estensioni delle mani del chirurgo controllate da remoto, i quali consentono di effettuare interventi più precisi e meno invasivi di quelli tradizionali), della difesa (si fa riferimento a varie tipologie di robot, tra i quali sistemi d’arma letali autonomi destinati ad operare al posto dei soldati in missioni particolarmente rischiose), dei trasporti (treni metropolitani a guida automatizzata) a quelli della produzione a livello industriale di robot umanoidi, capaci di aiutarci in qualsiasi tipo di lavoro. I robot autonomi eseguono quanto programmato senza la partecipazione dell’uomo, ma elaborando i dati e le informazioni acquisite nel corso del tempo, adeguando il loro comportamento al contesto in cui si trovano ad agire. Secondo alcuni, il fatto che la macchina esegua scelte non condizionate dalle istruzioni date dall’uomo, ma autonome in quanto costruite dallo stesso robot, non eliminerebbe comunque il fatto che si stanno soddisfacendo bisogni ed esigenze pur sempre umani. Ad ogni modo, il mondo dei robot suscita comunque delle perplessità in materia di “biodigitale”, laddove bisogna classificare il ruolo di queste macchine all’interno di un complesso sistema fatto di responsabilità e doveri rispetto alle azioni poste in essere. Tali sistemi funzionano tramite gli algoritmi, cioè, nel linguaggio matematico, “una sequenza di passaggi elementari, secondo una sequenza finita e ordinata di istruzioni chiare e univoche (ognuna delle quali eseguibile entro un tempo finito e che produce un risultato in un tempo finito) per la risoluzione di un dato problema”. [1] Siccome ormai, sulla base di appositi algoritmi, si è giunti anche a formulare previsioni o assumere decisioni, si è posto il problema di applicare un sistema di IA anche in ambito giudiziario, alla luce delle Carta Etica Europea del 2018, la quale consente l’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi di giustizia penale, a condizione che vi sia un controllo costante, dovendosi sempre tenere in considerazione un limite fondamentale dell’IA, ovvero l’incapacità di adattare il suo funzionamento al di fuori del proprio modello. Tra i vari ambiti in cui si sta tentando di introdurre l’intelligenza artificiale vi è anche quello del diritto e in particolare della giustizia, tanto che si parla di “giustizia predittiva”. In generale, si distingue tra intelligenze artificiali “forti” (in grado di contestualizzare e risolvere in modo autonomo problemi specialistici molto diversi tra loro) ed intelligenze artificiali “deboli” o “moderate” (in grado di fornire prestazioni specifiche qualitativamente equivalenti e quantitativamente superiori a quelle umane, non raggiungendosi le reali capacità intellettuali tipiche dell’uomo). Le IA utilizzate per il trattamento e l’analisi della giurisprudenza, su cui si fondano le applicazioni di “giustizia predittiva” appartengono a questa seconda categoria e si basano in particolare su due tecniche: - il “natural language processing” (trattamento del linguaggio naturale): ci si riferisce al trattamento informatico del linguaggio umano; - il “machine learning” (apprendimento automatico): questa tecnica permette di costruire uno o più modelli matematici una volta identificate le correlazioni esistenti tra grandi masse di dati. La macchina, dunque, ricerca in modo autonomo le correlazioni e deduce delle regole dall’enorme quantità di dati forniti. Dal punto di vista storico , il primo modello di rete neurale risale alla fine degli anni ’50, il cd. “percettrone”, proposto da Frank Rosenblatt nel 1958, una rete con uno strato di ingresso ed uno di uscita ed una regola di apprendimento intermedia basata sull’algoritmo “error back-propagation” (minimizzazione degli errori). Alcuni esperti del settore riconducono proprio al percettrone la nascita della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale, anche se negli anni immediatamente successivi i due matematici Minsky e Papert ne dimostrarono i limiti: tale modello era in grado di riconoscere, dopo opportuno “addestramento”, solo funzioni linearmente separabili; inoltre, le capacità computazionali di un singolo percettrone erano limitate e le prestazioni fortemente dipendenti sia dalla scelta degli input sia dalla scelta degli algoritmi attraverso i quali “modificare” le sinapsi e quindi gli output. La prima svolta importante dal punto di vista tecnologico arriva tra la fine degli anni ’70 e il decennio degli anni ’80 con lo sviluppo delle Gpu che hanno ridotto notevolmente i tempi di addestramento delle reti, abbassandoli di 10/20 volte. È dunque quasi da cinquant’anni che esistono sistemi di intelligenza artificiale. Dal punto di vista delle abilità intellettuali, il funzionamento di un’IA si sostanzia principalmente attraverso quattro differenti livelli funzionali: 1) Comprensione; 2) Ragionamento; 3) Apprendimento; 4) Interazione; I programmi dotati di capacità di autoapprendimento informatico sono installati negli strumenti elettronici (telefono, pc, tablet) che ognuno di noi utilizza nella sua vita umana: i motori di ricerca, le piattaforme di commercio elettronico, i sistemi di riconoscimento facciale o di assistenza vocale, i software per l’individuazione di soluzioni economiche o logistiche. Gli esempi a tutti noti sono Facebook, Google, Amazon, Apple e Microsoft (si può far riferimento, al riconoscimento dei volti, delle immagini, alle applicazioni vocali, alle traduzioni linguistiche…), la potenzialità dell’IA si estrinseca in particolar modo nel mondo del business (vendite, marketing –con riferimento soprattutto all’Artificial Intelligence Marketing-, sanità, cybercrime, pubblica sicurezza…). Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale applicata alle vendite, si possono già riscontrare importanti risultati grazie all’utilizzo di sistemi esperti (in quanto riproducono le prestazioni di una persona esperta di un determinato dominio di conoscenza o campo di attività) per la configurazione delle proposte commerciali complesse, per la natura stessa dei prodotti commercializzati, per le combinazioni possibili delle soluzioni o per le variabili che possono incidere sul risultato finale, dovendo, dunque, il configuratore di prodotto assolvere il compito di semplificazione nella scelta di un bene da acquistare. L’IA esplica la sua massima potenza nell’ambito del marketing, facendo particolare riferimento all’ambito della gestione della relazione con gli utenti. Al riguardo è nata una vera e propria disciplina, l’“Artificial Intelligence Marketing” (AIM), una branca del marketing consistente nell’utilizzo degli algoritmi di Intelligenza Artificiale e Machine Learning con l’obiettivo di persuadere le persone a compiere un’azione, acquistare un prodotto o accedere ad un servizio (in altre parole, rispondere ad una “call to action”). L’IA ha poi avuto modo di addentrarsi nel mondo della sanità e dell’HealthCare, migliorando molti sistemi tecnologici già in uso da persone con disabilità o nel fare le diagnosi. Altro ambito applicativo riguarda la prevenzione delle frodi all’interno di altri contesti aziendali, per esempio la mitigazione dei rischi, la protezione delle informazioni e dei dati, la lotta al cybercrime. Insomma, la capacità di analizzare grandissime quantità di dati in tempo reale, attraverso la loro correlazione, abitudini, comportamenti e dati di geo-localizzazione e monitoraggio degli spostamenti di cose e persone, offre un potenziale enorme per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia della sicurezza pubblica. Dall’altra parte, però, rappresenta un sistema di controllo e schedatura di ogni singolo individuo, che necessariamente deve essere usato e approcciato con prudenza. Attualmente a livello europeo si sta accelerando verso sistemi basati su algoritmi, tanto che Margrethe Vestager, Vicepresidente esecutiva per Un'Europa pronta per l'era digitale, ha dichiarato: "Per quanto riguarda l'intelligenza artificiale, la fiducia non è facoltativa, è indispensabile. Queste regole rappresentano una svolta, che consentirà all'UE di guidare lo sviluppo di nuove norme globali per garantire che l'IA possa essere considerata affidabile. Definendo le norme possiamo spianare la strada a una tecnologia etica in tutto il mondo e garantire che l'UE rimanga competitiva. Le nostre regole saranno adeguate alle esigenze future e favorevoli all'innovazione e interverranno ove strettamente necessario: quando sono in gioco la sicurezza e i diritti fondamentali dei cittadini dell'UE." Thierry Breton, Commissario per il Mercato interno, a sua volta ha sostenuto: "L'IA è un mezzo, non un fine. Esiste da decenni, ma ora sono possibili nuove capacità alimentate dalla potenza di calcolo. Ciò offre un enorme potenziale in tanti settori diversi tra cui la sanità, i trasporti, l'energia, l'agricoltura, il turismo o la cibersicurezza, ma presenta anche una serie di rischi. Le proposte odierne mirano a rafforzare la posizione dell'Europa quale polo globale di eccellenza nell'IA dai laboratori al mercato, a garantire che l'IA in Europa rispetti i nostri valori e le nostre regole e a sfruttare il potenziale dell'IA per uso industriale." La Carta Etica Europea sull’applicazione dell’intelligenza artificiale alla giustizia La questione dell’applicazione dell’IA nel settore della giustizia non è nuova. Basti pensare all’emanazione, avvenuta il 4 Dicembre 2018, da parte della Commissione Europea per l’Efficacia della Giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa, della “Carta Etica Europea per l’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi di giustizia penale e nei relativi ambienti”. Si tratta di uno strumento non vincolante ma che ha il merito di enunciare principi sostanziali e metodologici applicabili sia agli attori privati (come le start-up attive sul mercato delle nuove tecnologie applicate ai servizi giuridici) sia alle autorità pubbliche. E’ la prima volta che a livello europeo vengono individuate alcune fondamentali linee guida, alle quali dovranno attenersi “i soggetti pubblici e privati responsabili del progetto e sviluppo degli strumenti e dei servizi della IA”. In particolare, la Carta Etica enuncia i seguenti principi: 1) principio del rispetto dei diritti fondamentali (diritti garantiti dalla CEDU e dalla Convenzione n.108 del Consiglio d’Europa sulla protezione dei dati personali); 2) principio di non discriminazione; 3) principio di qualità e sicurezza; 4) principio di trasparenza delle metodologie e delle tecniche utilizzate nel trattamento delle decisioni giudiziarie; 5) principio di garanzia dell’intervento umano, conosciuto anche come principio “under user control”, finalizzato a precludere un approccio “deterministico” ed assicurare che gli utilizzatori agiscano come soggetti informati ed esercitino il controllo delle scelte effettuate. L’auspicio della CEPEJ è che questi principi diventino l’asse portante di una “cybergiustizia” a livello europeo e che possano divenire un riferimento concreto per i magistrati, le autorità giudiziarie o politiche. A seconda della diversa tipologia dei dati inseriti nell’elaboratore (input), degli algoritmi di apprendimento utilizzati dal sistema (learning algorithms) e del risultato finale del procedimento di elaborazione (output), sono ipotizzabili tre diversi modi attraverso i quali la tecnologia delle machine learning può agevolare il lavoro degli operatori del diritto e, di conseguenza, rendere più efficiente la giustizia: -analisi e predisposizione automatica di atti e documenti; -previsione dell’esito di una causa; -formulazione di giudizi, seppur sotto il controllo umano; Dunque la funzione è principalmente servente e non sostitutiva. Ci si può soffermare, ora, sulle tre citate funzioni. Analisi e predisposizione automatica di atti e documenti La prima modalità trova preferibilmente applicazione nel campo del diritto civile e commerciale, segnatamente quando si tratta di analizzare documenti o predisporre atti per lo più ripetitivi, sebbene non possa precludersi l’utilizzo in ambito penale (ad esempio, per determinare il limite oltre il quale gli interessi pattuiti in contratti di mutuo sono da ritenersi usurari). Una recente applicazione dell’IA nel campo del diritto penale è quella del sistema “Toga”, consistente in un database nel quale sono censite tutte le fattispecie criminose disciplinate dal codice penale e dalla legislazione speciale, che permette di verificare, tra l’altro, la competenza, la procedibilità, l’ammissibilità a riti alternativi, i termini prescrizionali e di durata delle misure cautelari, nonché di calcolare la pena per ciascun tipo di reato. Altra recente applicazione, utilizzata in occasione del crollo del ponte Morandi, nell’ambito della quale la Procura di Genova ha deciso di utilizzare un software dell’FBI, dotato di algoritmi particolarmente complessi, con l’obiettivo di incrociare tutti i dati raccolti con quelli dei dispositivi elettronici sequestrati, con la documentazione tecnica ed i pareri dei consulenti sia del P.M che della difesa. Del resto, negli Stati Uniti esistono già da tempo servizi di intelligenza artificiale dedicati al mondo del diritto: si pensi, a titolo esemplificativo, al sito ROSS Intelligence che, munito di un ricco database di giurisprudenza, consente agli avvocati di redigere atti tenendo conto dell’orientamento dei giudici su un determinato argomento. Ma, di questo passo, con il progressivo sviluppo della tecnologia informatica e la prevedibile introduzione di nuovi e più perfezionati sistemi di IA capaci di rivaleggiare con le capacità umane (se non di superarle), non ci sarà pericolo per gli avvocati che il computer possa loro sostituirsi in un prossimo futuro svolgendo i medesimi compiti, con meno tempo, con minori costi e magari con maggiore precisione? Da alcune statistiche raccolte dall’Università di Oxford nel 2013, tenuta a verificare l’impatto dell’automazione su molti dei lavori esistenti, è emerso come almeno la metà sia destinata a scomparire. Il riferimento va, in primis, ad operatori di call center, bibliotecari, trascrittori, analisti finanziari, magazzinieri, autisti di taxi (minacciati dalla sperimentazione di auto a guida automatica, lavoratori edili (per prefabbricati costruiti in stabilimenti totalmente robotizzati) e cuochi (minacciati da robot chef, come accaduto alla Fiera di Hannover nel 2015). Nell’elenco dei lavoratori destinati ad essere sostituiti dal lavoro delle macchine non sono invece ricompresi insegnanti, medici, artisti, avvocati (almeno per ora), ed in genere coloro i quali svolgono attività che richiedono intense interazioni sociali. In realtà a mettere un freno ai timori che da mesi spopolano sul web in ordine alla responsabilità dell’IA nella “distruzione” di posti di lavoro (si sottolinea, inoltre, che secondo un report realizzato da McKinsey Global Istitute del Gennaio 2019, circa la metà dell’attuale forza lavoro possa essere impattata dall’automazione grazie alle tecnologie già in uso oggi), arrivano diversi studi, tra i quali spiccano: - lo studio di Capgemini (“Turning AI into concrete value: the successfull implementers’ toolkit”), l’83% delle imprese intervistate conferma la creazione di nuove posizioni all’interno dell’azienda, potendosi, inoltre, registrare un aumento delle vendite del 10% proprio in seguito all’implementazione dell’IA; - il report di The Boston Consulting group e MIT Sloan Management Review dimostra che la riduzione della forza lavoro è temuta solo da meno della metà dei manager (47%), convinti invece delle sue potenzialità; - la nuova ricerca di Accenture (“Reworking the Revolution: Are you ready to compete as intelligence technology meets human ingenuity to create the future workforce”) stima che i ricavi delle imprese potrebbero crescere del 38% entro il 2020, a patto che si investa nell’IA e su un’efficace operazione uomo-macchina. Previsione dell’esito di una causa Una seconda modalità applicativa dell’IA alla giustizia è quella “predittiva”, consistente, come già suesposto, nella capacità di elaborare previsioni mediante un calcolo probabilistico effettuato da algoritmi operanti su base semplicemente statistica o anche solo logica. Tale capacità, a seconda della tipologia di dati introdotti nell’elaboratore, può essere utilizzata in funzione di tre diverse finalità: - come strumento di prevenzione della criminalità; - come strumento integrativo dell’attività del giurista per l’interpretazione della legge e l’individuazione degli argomenti a favore della tesi che si intende sostenere; - nella capacità di “prevedere” l’esito di un giudizio. La giustizia predittiva è stata utilizzata in altri ordinamenti per ulteriori finalità: negli USA, ad esempio, per calcolare la probabilità di recidiva di un imputato al fine di decidere se rilasciarlo o meno su cauzione (cd. “algoritmo Compas”). Il tema della prevedibilità delle decisioni è già da tempo al centro di un vivace dibattito dottrinale: il fatto che sia possibile prevedere l’orientamento decisionale di un giudice è stato ritenuto per certi versi positivo, nella misura in cui può servire a migliorare il livello di efficienza della giustizia, e per altri versi negativo, per il rischio di riduzione ad una gestione automatizzata di affermazioni standardizzate. Formulazione di giudizi Da sempre, ci si chiede se una machine learning , dopo un adeguato periodo di apprendimento, possa emettere un giudizio. Forse, alcune tipologie di controversie ben potrebbero essere risolte automaticamente: si pensi, ad esempio, ad una causa di risarcimento danni da sinistro stradale in campo civile (sulla base dei rilievi compiuti dai verbalizzanti e della documentazione prodotta, un computer potrebbe sia individuare il responsabile del sinistro sia procedere alla quantificazione del danno risarcibile), oppure ancora al settore tributario (ad esempio, ricorsi avverso avvisi di accertamento originati da verifiche bancarie e fondati sulla presunzione secondo la quale sono posti a base delle rettifiche i movimenti finanziari che non trovano riscontro nelle scritture contabili). Tuttavia, l’impiego dell’intelligenza artificiale appare più problematico per la decisione nell’ambito di un giudizio civile, penale o amministrativo, dipenda principalmente dal fatto alla base della vicenda. L’algoritmo, benché in grado di incrociare dati ed informazioni, non può, difatti, apprezzare tutti gli spunti legati alla descrizione di un fatto di causa o alle prove a fondamento dello stesso. D’altronde, per un algoritmo che apprende risulta essere un “fatto” sia la norma giuridica che il fatto materiale. Novità in materia di intelligenza artificiale Lo stato dell’arte a livello europeo, fa registrare la proposta di un Regolamento del parlamento europeo e del consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'Unione. Tale regolamento basa l’uso dell’intelligenza artificiale sul rispetto della trasparenza, sull’analisi del rischio di utilizzo dell’IA e sulla compatibilità dell’intelligenza artificiale con i principi fondamentali dell’UE. L’adozione di questo regolamento è slittata nel corso del tempo soprattutto a causa di disaccordi politici relativi alle modalità di individuazione dei software da utilizzare o del delicato tema del riconoscimento biometrico che consente di identificare in tempo reale le persone. A tali rischi, si aggiunge quello legato alla riservatezza e alla privacy, considerando che la mole di dati elaborati dagli algoritmi non garantisce la protezione assoluta dei dati personali. Uno dei principali rischi riguarda, infatti, la sorte di tali dati e come gli stessi saranno gestiti. Il regolamento in questione è stato adottato proprio per superare i rischi suddetti e garantire una maggiore sicurezza nel ricorso all’intelligenza artificiale. In tale contesto, il regolamento tenta anche di porre degli obblighi a carico delle imprese fornitrici di software per l’elaborazione informatica, al fine definire degli standard di conformità che riducano al minimo i rischi e i costi per le aziende. In precedenza, nel 2020, era stato redatto il “Libro Bianco sull'intelligenza artificiale - Un approccio europeo all'eccellenza e alla fiducia”, al fine di assicurare un approccio normativo e orientato agli investimenti con il duplice obiettivo di promuovere l'adozione dell'IA e di affrontare i rischi associati a determinati utilizzi di questa nuova tecnologia. Lo scopo del Libro Bianco era di definire le opzioni strategiche su come raggiungere tali obiettivi. La Commissione ha invitato gli Stati membri, le altre istituzioni europee e tutti i portatori di interessi, compresi l'industria, le parti sociali, le organizzazioni della società civile, i ricercatori, il pubblico in generale e tutte le parti interessate, ad esprimersi in merito alle opzioni presentate di seguito e a contribuire al futuro processo decisionale della Commissione in questo settore. L’intelligenza artificiale applicata all’attività amministrativa Attualmente, il settore giuridico in cui l’intelligenza artificiale ha trovato già la sua estrinsecazione e applicazione pratica è quello delle scelte della pubblica amministrazione, soprattutto laddove si tratta di discrezionalità tecnica o vincolata (es. concorsi, punteggi, calcoli). Nel corso del tempo, difatti, è stata superata l’Amministrazione 1.0, basata unicamente su rapporti cartacei, per addivenire prima all’Amministrazione 2.0 che si avvaleva in modo servente di computer e altri mezzi tecnologici, e poi all’Amministrazione 3.0 che utilizza anche le risorse e le piattaforme fornite dalla rete web, per giungere all’Amministrazione 4.0 che affida alle macchine la realizzazione di scelte prima gestite unicamente dall’uomo. Il processo di automazione può incidere diversamente sul procedimento amministrativo. In alcuni casi, le macchine sono in grado di fornire come output il provvedimento finale, mentre in altri coadiuvano i funzionari o il RUP nella raccolta dei dati e delle informazioni necessarie a realizzare la scelta. In altre parole, le macchine possono aiutare gli amministratori nelle diverse fasi procedimentali, sostituendosi o affiancandosi ad essi. In tale scenario il ruolo dell’uomo si sposta dalla corretta esecuzione di tutti i passaggi procedimentali, alla legittima scelta del tipo di algoritmo e di macchina da utilizzare per farsi sostituire-aiutare nello svolgere il procedimento. Nel settore che cura gli interessi pubblici, dunque, le machine learning sono diventate oggetto di un sempre maggiore interesse, inizialmente nei paesi anglosassoni per poi giungere anche in Italia. Ad esempio negli Stati Uniti ed in Inghilterra, vi sono state le prime regolamentazioni di questi robot, ma successivamente il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione sulla disciplina robotica e i sistemi di intelligenza artificiale. In Italia, invece, l’AGID (Agenzia per l’Italia Digitale) ha pubblicato il Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale. Attualmente, il PNRR, come si vedrà ha posto degli indirizzi ed obiettivi, che spetterà alle singole amministrazioni raggiungere e realizzare. Calandoci nel contesto normativo, diversi articoli vengono in rilievo quando si applica l’automazione al procedimento amministrativo, potendosi ritenere che l’uso di macchine nell’attività amministrativa possa farsi rientrare all’interno delle scelte per perseguire il buon andamento amministrativo previsto dall’art. 97 Cost. E così, vi è l’art. 3 bis l. n. 241/1990 come modificato dal d.l. 76/2020, che lega l’efficienza delle pubbliche amministrazioni all’uso di “strumenti informatici e telematici” sia nell’attività interna all’ente che nei rapporti tra pp.aa. e privati. Oppure l’art. 50 ter d.lgs. n. 82/2005 che regola i rapporti di interconnessione tra pp.aa. disciplinando anche la Piattaforma digitale nazionale dati. Benché vi siano delle norme che legittimano l’uso delle risorse automatizzate nel procedimento amministrativo, è comunque importante prestare le giuste cautele in tale attività. Difatti, uno dei problemi più concreti che sorgono dalle scelte meccaniche è che non sempre esse forniscono la motivazione che la legge vuole alla base di ogni scelta e provvedimento amministrativo come previsto dall’art. 3 l. n. 241/1990. Come detto, infatti, le macchine fondano le proprie scelte su algoritmi che fanno della propria esperienze e dei dati acquisiti la base delle scelte future, senza però fornire alcuna giustificazione in merito al percorso logico e giuridico che ha fondato la decisione finale. Ne consegue, che è anche difficile poter sindacare se un algoritmo ha lavorato bene o male e se la scelta finale sia legittima rispetto al caso concreto. Certamente, si possono verificare quali informazioni e dati sono stati posti alla base dell’elaborazione elettronica, ma è complicato comprendere se la scelta abbia seguito dei criteri razionali oppure sia stata indotta da qualche incontrollabile incrocio di dati. Talvolta, è possibile che l’elaborazione di grandi flussi informativi e dati porti alla creazione di modelli che siano inverosimili e lontani dalla realtà, trasformando quello che può essere un aiuto in un ostacolo difficilmente superabile solo dall’algoritmo. È per tale motivo che ogni robot non può essere lasciato indipendente nel suo agire, ma ogni output prodotto deve essere sempre controllato dall’operatore umano che possa correggere l’errore, utilizzando la propria intelligenza ed esperienza. Ovviamente, tale difficoltà è direttamente proporzionale alla complessità del procedimento e alla quantità di dati ed informazioni che ogni elaboratore si trova a processare. Mentre è inversamente proporzionale rispetto alla qualità del robot o algoritmo prescelto. Ebbene proprio su tale ultima scelta si può ravvisare l’importanza del ruolo dell’uomo che deve comunque eseguire tutti i passaggi procedimentali per addivenire alla decisione di utilizzare un certo elaboratore rispetto ad un altro. Ed il percorso fatto in tale scelta dell’elaboratore deve essere pubblico e trasparente, nel senso che gli interessati devono poter controllare la legittimità dell’operato dell’amministratore ed eventualmente sindacarlo davanti al G.A. Proprio su tali aspetti, infatti, si è concentrata la giurisprudenza , andando ad indagare la correttezza delle scelte amministrative non solo rispetto alle decisioni finali, che di fatto sono prodotte da un algoritmo, ma soprattutto su quelle iniziali che hanno indotto a selezionare un certo robot o sistema elettronico rispetto ad un altro. Per il momento, la giurisprudenza ha deciso dei casi sull’utilizzo di algoritmi nella sostituzione e supporto delle scelte amministrative, mentre, per poter parlare della giustizia predittiva, nel senso di elaboratori che decidono l’esito delle controversie, si dovrà ancora attendere. (2) RESPONSABILITA' E GIUSTIZIA PREDITTIVA Uno dei problemi che l’intelligenza artificiale applicata ai procedimenti amministrativi porta con sé, attiene alla responsabilità dei funzionari amministrativi . Come evidenziato anche dalla giurisprudenza richiamata in nota, non tutte le scelte fatte dall’algoritmo possono essere ritenute corrette ed anzi capita che siano errate e cagionino danni al privato o alle risorse pubbliche, dando vita ad una responsabilità erariale (art. 28 Cost.). A ciò, bisogna aggiungere che il risultato fornito dall’algoritmo deve essere ufficializzato in un provvedimento da parte del funzionario o dirigente preposto (solitamente il RUP ai sensi dell’art. 6 l. n. 241/1990). Dunque, laddove l’amministratore umano formalizzi il risultato dell’algoritmo si assumerà la responsabilità di quanto affermato, anche se errato. Questo è il punto cruciale: attualmente, per quanto evoluto o affidabile possa essere un elaboratore elettronico, esso non potrà sostituire il ruolo, la responsabilità ed il potere dell’ente o dell’organo competente nell’adottare un certo provvedimento. Diversi sono i compiti che spettano all’operatore umano dell’amministrazione pubblica e che non possono in nessun caso essere sostituiti: selezione del programma software di elaborazione; scelta dei dati e delle informazioni da porre in elaborazione; controllo della conformità del trattamento dei dati personali da parte dell’elaboratore (privacy) e sulla loro riservatezza; verifica del risultato finale, eventuale approvazione di quelli validi e rigetto/correzione di quelli sbagliati, e sua formalizzazione. In questo ambito, si suole parlare di almeno due principi: - di “non discriminazione algoritmica” nel senso che l’amministrazione pubblica deve garantire una programmazione che non dia luogo ad una conclusione procedimentale erronea, contraddittoria, discriminatoria, illogica o irrazionale; - di “non esclusività della decisione algoritmica”, nel senso che l’operatore dell’amministrazione può sempre controllare e rivedere i risultati forniti dall’algoritmo, potendo correggerli, smentirli o approvarli. A questi principi si aggiunge la necessità che l’operatore umano garantisca la ricostruzione e l’accesso al ragionamento elettronico posto alla base dell’algoritmo nel caso concreto Insomma, per quanto l’elaboratore possa aiutare l’uomo nelle varie fasi procedimentali, bisogna sempre assicurare un’interazione tra attività elettronica ed umana. Proprio questa interazione, che non esclude il ruolo dell’uomo, fonda la responsabilità amministrativa anche nel caso dell’uso di tecnologie, programmi ed algoritmi che, per quanto si possano rivelare utili, non escludono l’importanza e la centralità del ruolo umano. Diversamente dall’intelligenza artificiale applicata al procedimento amministrativo, la giustizia predittiva rappresenta invece la possibilità tramite gli algoritmi di prevedere e calcolare in anticipo l’esito di un giudizio. Essa può seguire un modello induttivo o deduttivo. In generale, si parla di giustizia predittiva che si basa su un sistema induttivo , quando, dati una serie di precedenti giurisprudenziali che risolvono il caso in un certo modo, allora l’algoritmo prevede l’esito basandosi su detti precedenti. Questo sistema, traendo spunto da dati ed informazioni relativi al passato, sconta il fatto che il diritto è una materia in continua evoluzione sia normativa che giurisprudenziale e potrebbe così non cogliere l’effetto di nuove norme o il bisogno di un nuovo orientamento giurisprudenziale (nel nostro sistema di civil law il giudice non è vincolato al precedente come nella rule of law anglosassone). Un sistema diverso è quello deduttivo , che si basa su un modello matematico fatto di passaggi e sequenze per giungere ad un determinato risultato al ricorrere di certe variabili (es. art. 12 preleggi c.c.). Il problema di questo sistema è che se l’algoritmo sbaglia uno dei passaggi iniziali, riproduce l’errore in tutti quelli successivi. Per tale motivo, è importante che sia l’uomo ad inserire le variabili corrette e verificare la correttezza di tutti i diversi passaggi. Se vi è interazione tra uomo e macchina, il metodo deduttivo sembrerebbe essere migliore rispetto a quello induttivo. Tentando di applicare quanto detto, se si intendesse il diritto come una scienza esatta, basata su norme oggettive e su un’interpretazione univoca delle disposizioni legislative, allora ci si potrebbe in astratto immaginare di costruire un sistema che, tramite l’incrocio di dati e informazioni, può calcolare l’esito di una controversia, evitando gli errori. Tuttavia, nella pratica, il ruolo del giudice, così come degli avvocati, non è quello di applicare meccanicamente la legge, ma c’è una parte di discrezionalità e di conoscenza personale che consente di affermare che concretamente ogni caso è diverso dall’altro e deve, perciò, essere ponderato di volta in volta. Certo, conoscere già l’esito della propria controversia potrebbe indurre a trovare soluzioni alternative per risolvere determinati rapporti giuridici, ma come detto proprio la peculiarità di ogni caso rende impossibile anticipare l’esito di tutti i giudizi. Pertanto, allo stato, non può ritenersi esistente una giustizia predittiva nel senso suddetto. Diversamente, nel processo amministrativo esistono delle modalità meccaniche di interazione che potrebbero essere avvicinate alla giustizia predittiva in senso lato. Difatti, sono ormai alcuni anni che esiste il processo amministrativo telematico ( PAT ), in cui attraverso moduli, modelli e format è possibile depositare telematicamente atti e documenti ed ottenere, sempre in maniera automatizzata, il numero di ruolo e vedere indicato nel fascicolo sia l’oggetto della causa che tutto quanto depositato telematicamente. Con la conseguenza che se si sbaglia nell’eseguire ritualmente il deposito, il sistema informatico genererà una risposta automatica che comunica all’utente l’erroneo deposito o il rigetto della richiesta, costituendo di fatto una decisione. In tal caso, si sostituisce l’opera del cancelliere ed in parte del giudice, nel senso che in passato l’irritualità del deposito veniva rilevata direttamente in sede decisionale, mentre oggi è rimessa all’automatismo di un algoritmo. Quello che, invece, non è ancora possibile, è utilizzare la giustizia predittiva per sostituirsi al sindacato del giudice nella valutazione dell’operato dell’amministrazione, in quanto l’eccesso di potere o il cattivo uso del potere viene valutato attraverso la motivazione dell’atto amministrativo che deve essere apprezzata soggettivamente dal giudice che ne può cogliere i diversi aspetti. Oltre ai Paesi anglosassoni, in cui già da anni si sperimentano modelli di giustizia predittiva, dando uno sguardo a quello che succede in altri Paesi UE, risulta che in Olanda si sarebbero già sviluppati alcuni sistemi di algoritmi applicati ad alcune cause civili e commerciali, prevedendo un periodo di sperimentazione di alcuni anni, mentre in Francia si è tentato di utilizzare sistemi automatizzati in materia di privacy. Tuttavia, ancora l’utilizzo di sistemi di giustizia predittiva appare lontano, tanto che ha fatto scalpore la notizia che in Cina sarebbe stato realizzato un sistema automatico in grado di elaborare accuse con un’alta percentuale di precisione. Ad ogni modo, in Italia si stanno già attivando dei progetti di collaborazione per realizzare alcuni sistemi di giustizia predittiva, tra cui si può citare l’A ccordo Quadro stipulato tra la Corte Suprema di Cassazione e la Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia il 29 settembre 2021 al fine di attivare una collaborazione strategica, tra la stessa Scuola e il Centro Elettronico di Documentazione (C.E.D.) della Corte, per lo sviluppo di ricerca avanzata nel settore degli strumenti tecnici per la raccolta e l’organizzazione del materiale giuridico digitale. Lo scopo è la valorizzazione del patrimonio conoscitivo della giurisprudenza e della legislazione italiana e europea, “ attraverso l’uso degli strumenti di legal analytics (LA) e di intelligenza artificiale (AI), con l’obiettivo di estrarre e rappresentare la conoscenza giuridica, rinvenire correlazioni implicite, individuare tendenze circa gli orientamenti giurisprudenziali e/o legislativi in modo che sia meglio consultabile ed elaborabile in sede di attività giudiziaria e di ricerca scientifica. ” Interessante anche il progetto della scuola Sant’Anna di Pisa che sta elaborando, in collaborazione con alcuni tribunali, un programma che annoti l’esito di decisioni in alcune materie, tramite sistema di analisi semantica. Modello che poi verrà esteso a diverse materie del diritto, in modo da allenare l’algoritmo. Altri progetti sono quelli attivati sempre a livello universitario con il CINECA. Allo stato attuale, nonostante gli importanti progetti citati, si ritiene che in Italia la giustizia predittiva, salvo quanto già detto rispetto alla tematica dei depositi telematici o al PAT, non abbia ancora fatto il proprio ingresso nei tribunali e per il momento l’intelligenza artificiale può solo coadiuvare magistrati e avvocati cancellieri nella loro attività professionale. SPUNTI DI RIFLESSIONE Come visto, nell’ambito del procedimento amministrativo, l’uso di tecnologie deve essere coordinato con le norme di legge ed il principio del buon andamento dell'amministrazione. Quanto finora detto, consente altresì di fare delle riflessioni in ottica di utilizzo dell’intelligenza artificiale anche nella giustizia amministrativa. Da una parte, infatti, è noto che in molti auspicano un sempre maggiore ricorso alla giustizia predittiva, tanto che anche nel PNRR si parla di una progettualità nel senso di rafforzare i programmi di elaborazione dati per creare, in futuro, un sistema che predica l’esito delle controversie. Attualmente, il PNRR fa riferimento all’intelligenza artificiale nel reclutamento del personale amministrativo, nel miglioramento dell’efficacia e della qualità della regolazione amministrativa, digitalizzazione e rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni aggiudicatrici, in materia di tasse e controlli tributari, sull’analisi delle scelte degli utenti dell’amministrazione o sull’economia circolare. Quanto alla Giustizia amministrativa , il PNRR pone alcuni obiettivi tramite il programma elettronico: digitalizzazione del cartaceo residuo per completare il fascicolo telematico e progettualità di data lake (luogo o “lago” di archiviazione) per migliorare i processi operativi di Giustizia Ordinaria e Consiglio di Stato. Non si parla ancora di un modello di giustizia predittiva in senso stretto. Difatti la creazione di tale sistema non è così facile, come tanti sembrano far credere, in quanto sono diverse le criticità sottese all’utilizzo di un elaboratore tecnologico. Innanzitutto, abbiamo visto che per far crescere un algoritmo è necessario disporre di una grande mole di dati ed informazioni reali attraverso i quali il sistema si “allena” a sbagliare e poi trovare la soluzione corretta. Nella giustizia amministrativa tali dati possono essere reperiti dalle banche dati di giurisprudenza e normative. Ed ecco che qui sorge il primo problema, legato al tema della privacy. Difatti, per realizzare l’algoritmo, i dati e le informazioni dovrebbero essere messi a disposizione di coloro che ci lavorano. Nessun problema quando si tratta di leggi. Più dubbi, invece, quando si tratta di condividere dati relativi a sentenze e, dunque, a persone fisiche o giuridiche “reali”. Questi dati, infatti, verrebbero forniti ad una macchina, con tutti i rischi che ciò può comportare. Secondariamente, la giustizia amministrativa intesa come apparato non è in grado da sola di realizzare l’algoritmo di cui si parla, ma servono tecnici e specialisti in grado di comprendere l’esigenza e le finalità del sistema da realizzare. Molto spesso, infatti, gli stessi tecnici e specialisti contattati appartengono a società che svolgono la loro attività in settori diversi da quello prettamente giuridico e ciò comporta una difficoltà di interazione tra i due mondi (diritto e tecnologia) che potrebbe far diffidare l’uno dell’altro o, ancor peggio, far ritenere funzionante un sistema in realtà obsoleto che rischia di creare più problemi che vantaggi. Dunque, bisogna capire come individuare le realtà terze rispetto alla giustizia amministrativa o alla p.a. in grado di realizzare questo sistema di giustizia predittiva. In terzo luogo, uno degli aspetti più delicati è che il reperimento degli specialisti e la realizzazione degli algoritmi ha un prezzo, che difficilmente potrebbe essere sostenuto dalla spesa pubblica se si vuole creare un sistema all’avanguardia. Difatti, da una parte, la giustizia amministrativa ha mezzi limitati rispetto a colossi come Amazon o Apple che possono contare su risorse incalcolabili per sperimentare il sistema più innovativo e funzionante; dall’altra parte, non si può negare che la giustizia amministrativa non è il servizio di difesa o di intelligence , dove in effetti è giustificato investire risorse per garantire la sicurezza del Paese (soprattutto in questo periodo storico). Sotto questo punto di vista, in un'ottica di economicità della spesa pubblica, sarebbe più utile e proficuo utilizzare le risorse pubbliche per investire sull’ assunzione di magistrati che contribuiscano effettivamente a redigere sentenze e garantire una giustizia più veloce, rispetto che non spenderle per creare un sistema automatizzato che, ammesso che funzioni, rischia di incidere solo sulla qualità delle decisioni. Ad ogni modo, si potrebbe anche immaginare di creare dei consorzi tra più pubbliche amministrazioni, al fine di reperire risorse e personale in grado di realizzare le sfide tecnologiche sottese ad un sistema di giustizia predittiva. Da ultimo, bisogna fare anche un’altra riflessione che parte dalla domanda: ma effettivamente si vuole che l’intelligenza artificiale sostituisca l’uomo nella sua attività anche professionale? Difatti, tutto il discorso sulla giustizia predittiva parte dalla volontà di velocizzare il lavoro delle pubbliche amministrazioni e della magistratura o avvocatura. Ma non è che forse tale velocizzazione porta con sé anche una superficialità nello svolgimento delle mansioni di ciascuno ed un livellamento nella qualità di ogni professionista e nella capacità di ciascuno di usare il proprio intuito in modo vincente e proficuo? Se ben ci si pensa, quando si sceglie di affidare la decisione di una causa ad un sistema automatizzato, è pacifico che lo stesso non può cogliere le particolarità, anche soggettive, del caso di specie, ma deve affidarsi ad una generalizzazione di dati raccolti e incrociati che depersonalizza ogni controversia. Si rinuncia, insomma, a quella necessità di differenziare ogni caso dall’altro per renderlo “unico” e, dunque, teoricamente diverso nell’esito rispetto ai precedenti su casi similari. Bisogna evitare di diventare supini rispetto ad un algoritmo in grado di controllare più del necessario. Proprio per questo motivo, ciò di cui la giustizia amministrativa ha bisogno non è di un’intelligenza artificiale nel senso di giustizia predittiva. In tal senso sarebbe addirittura improprio parlare di “intelligenza”, che per sua natura appartiene solo agli umani. Ciò di cui c’è necessità è di un sistema che capisca ciò di cui ognuno (funzionario, avvocato o magistrato) ha bisogno, al fine di consentire un più agevole e veloce utilizzo delle proprie capacità professionali. Ad esempio una banca dati migliore con più filtri, o con più funzionalità, o con maggiori dati normativi e giurisprudenziali, o che colleghi le informazioni di ricerca per trovare proprio quello che ognuno cerca. In altre parole, serve un’intelligenza artificiale che sia ottimizzata nella sua funzione servente rispetto agli operatori al fine di contribuire effettivamente affinché ognuno di noi possa svolgere meglio il proprio mestiere. [1] Si veda in argomento: V. NERI, Diritto amministrativo e intelligenza artificiale: un amore possibile, in Urbanistica e Appalti n. 5/2021, pag. 581 e ss. S. DE FELICE Relazione al Convegno su Intelligenza artificiale e “Invalidità e giustiziabilità dinanzi al giudice amministrativo” 6 luglio 2021 D. PONTE, G. PERNICE L’intelligenza artificiale e l’algoritmo a contatto col diritto amministrativo: rischi e speranze Relazione di intervento al corso di formazione per i Magistrati organizzato dall’Ufficio studi, massimario e formazione della Giustizia amministrativa, tenutosi in data 8 giugno 2021. M. CORRADINO Intelligenza artificiale e pubblica amministrazione: sfide concrete e prospettive future, Trascrizione integrale dell’intervento al corso di formazione per i Magistrati organizzato dall’Ufficio studi, massimario e formazione della Giustizia amminisètrativa10 febbraio 2021. [2] Così il Consiglio di Stato, in merito all’affidamento automatizzato di dispositivi medicali: “ Il TAR, puntualizzato che “la legge di gara richiede unicamente la presenza di un algoritmo di trattamento (senza altro specificare)” ha definito il concetto di algoritmo, affermando che “con esso ci si richiama, semplicemente, a una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato (come risolvere un problema oppure eseguire un calcolo e, nel caso di specie, trattare un’aritmia)”. Ha aggiunto, il primo giudice, al fine di meglio circoscrivere il concetto, che “non deve confondersi la nozione di “algoritmo” con quella di “intelligenza artificiale”, riconducibile invece allo studio di “agenti intelligenti”, vale a dire allo studio di sistemi che percepiscono ciò che li circonda e intraprendono azioni che massimizzano la probabilità di ottenere con successo gli obiettivi prefissati….. sono tali, ad esempio, quelli che interagiscono con l’ambiente circostante o con le persone, che apprendono dall’esperienza (machine learning), che elaborano il linguaggio naturale oppure che riconoscono volti e movimenti ”. Definita la nozione di algoritmo, il primo giudice ha così concluso il suo percorso argomentativo: “l’algoritmo di trattamento dell’aritmia non è altro che l’insieme di passaggi (di stimoli creati dal pacemaker secondo istruzioni predefinite) necessari al trattamento del singolo tipo di aritmia. Questo concetto non include necessariamente, invece, come erroneamente ritenuto dalla stazione appaltante, che il dispositivo debba essere in grado di riconoscere in automatico l’esigenza (quindi di diagnosticare il tipo di aritmia) e somministrare in automatico la corretta terapia meccanica (trattamento). In altre parole, il dato testuale della lettera di invito non richiede che l’algoritmo di trattamento, al verificarsi dell’episodio aritmico, sia avviato dal dispositivo medesimo in automatico. Tale caratteristica attiene a una componente ulteriore, non indicata nella legge di gara, vale a dire a un algoritmo di intelligenza artificiale nella diagnosi dell’aritmia e avvio del trattamento. Fondatamente, pertanto, Abbott ha dedotto l’erroneità della valutazione della commissione di gara che – pur in presenza di un algoritmo di trattamento delle aritmie nel proprio dispositivo (vale a dire l’algoritmo NIPS, pacificamente definibile come tale) – ha attribuito soli 7 punti anziché 15 al dispositivo offerto. Infatti, la commissione ha confuso, sovrapponendoli indebitamente, il concetto di algoritmo con quello di avvio automatico del trattamento”. (…) Il Collegio dissente. Non v’è dubbio che la nozione comune e generale di algoritmo riporti alla mente “semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato” (questa la definizione fornite in prime cure). Nondimeno si osserva che la nozione, quando è applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione ossia a sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano. Il grado e la frequenza dell’intervento umano dipendono dalla complessità e dall’accuratezza dell’algoritmo che la macchina è chiamata a processare. Cosa diversa è l’intelligenza artificiale. In questo caso l’algoritmo contempla meccanismi di machine learnig e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole sofware e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo “tradizionale”) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico. Nel caso di specie, per ottenere la fornitura di un dispositivo con elevato grado di automazione non occorreva che l’amministrazione facesse espresso riferimenti a elementi di intelligenza artificiale, essendo del tutto sufficiente – come ha fatto – anche in considerazione della peculiarità del prodotto (pacemaker dotati, per definizione, di una funzione continuativa di “sensing” del ritmo cardiaco e di regolazione dello stesso) il riferimento allo specifico concetto di algoritmo, ossia ad istruzioni capaci di fornire un efficiente grado di automazione, ulteriore rispetto a quello di base, sia nell’area della prevenzione che del trattamento delle tachiaritmie atriali. I pacemakers moderni e di alta fascia sono infatti dotati di un numero sempre maggiore di parametri programmabili e di algoritmi specifici progettati per ottimizzare la terapia di stimolazione in rapporto alle caratteristiche specifiche del paziente. L’amministrazione ha espresso preferenza per la presenza congiunta di algoritmi di prevenzione e trattamento delle “tachiaritmie atriali”. ” (Consiglio di Stato, Sez. III, 25 novembre 2021, n. 7981). Ancora, Il Consiglio di Stato in tema di partecipazione a procedimenti basati sugli algoritmi ha affermato che: “ Non può quindi ritenersi applicabile in modo indiscriminato… all’attività amministrativa algoritmica, tutta la legge sul procedimento amministrativo, concepita in un’epoca nella quale l’amministrazione non era investita dalla rivoluzione tecnologica…. Il tema dei pericoli connessi allo strumento non è ovviato dalla rigida e meccanica applicazione di tutte le minute regole procedimentali della legge n. 241 del 1990 ( quali ad es. la comunicazione di avvio del procedimento sulla quale si appunta buona parte dell’atto di appello o il responsabile del procedimento che , con tutta evidenza, non può essere una macchina in assenza di disposizioni espresse ), dovendosi invece ritenere che la fondamentale esigenza di tutela posta dall’utilizzazione dello strumento informatico c.d. algoritmico sia la trasparenza nei termini prima evidenziati riconducibili al principio di motivazione e/o giustificazione della decisione ” (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 febbraio 2020 n. 881). In altro arresto, il Tar Lombardia, Milano ha ritenuto che: “ la nozione di ‘algoritmo’ con quella di “intelligenza artificiale”, è riconducibile invece allo studio di ‘agenti intelligenti’, vale a dire allo studio di sistemi che percepiscono ciò che li circonda e intraprendono azioni che massimizzano la probabilità di ottenere con successo gli obiettivi prefissati ” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 31 marzo 2021 n. 843) Il Consiglio di Stato, in tema di selezione per docenti alla scuola di secondo grado, ha declinato alcuni principi fondamentali nella valutazione della legittimità dell’uso dell’algoritmo e del suo rapporto con l’attività amministrativa: “ Per quanto attiene più strettamente all’oggetto del presente giudizio, devono sottolinearsi gli indiscutibili vantaggi derivanti dalla automazione del processo decisionale dell’amministrazione mediante l’utilizzo di una procedura digitale ed attraverso un “algoritmo” – ovvero di una sequenza ordinata di operazioni di calcolo–che in via informatica sia in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande. L’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale.(…) L’utilizzo di procedure “robotizzate” non può, tuttavia, essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa. infatti, la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva. Questa regola algoritmica, quindi: - possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale, come si è detto, deve soggiacere ai principi generali dell’attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza (art. 1 l. 241/90), di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.; - non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l’elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili (e ciò la rende in parte diversa da molte regole amministrative generali); la discrezionalità amministrativa, se senz’altro non può essere demandata al software, è quindi da rintracciarsi al momento dell’elaborazione dello strumento digitale; - vede sempre la necessità che sia l’amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning); - deve contemplare la possibilità che – come è stato autorevolmente affermato – sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano’, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”. In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”. Ciò comporta, ad avviso del collegio, un duplice ordine di conseguenze. In primo luogo, come già messo in luce dalla dottrina più autorevole, il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato. In altri termini, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile, sia per i cittadini che per il giudice. In secondo luogo, la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo. La suddetta esigenza risponde infatti all’irrinunciabile necessità di poter sindacare come il potere sia stato concretamente esercitato, ponendosi in ultima analisi come declinazione diretta del diritto di difesa del cittadino, al quale non può essere precluso di conoscere le modalità (anche se automatizzate) con le quali è stata in concreto assunta una decisione destinata a ripercuotersi sulla sua sfera giuridica. Solo in questo modo è possibile svolgere, anche in sede giurisdizionale, una valutazione piena della legittimità della decisione; valutazione che, anche se si è al cospetto di una scelta assunta attraverso una procedura informatica, non può che essere effettiva e di portata analoga a quella che il giudice esercita sull’esercizio del potere con modalità tradizionali. In questo senso, la decisione amministrativa automatizzata impone al giudice di valutare in primo luogo la correttezza del processo informatico in tutte le sue componenti: dalla sua costruzione, all’inserimento dei dati, alla loro validità, alla loro gestione. Da qui, come si è detto, si conferma la necessità di assicurare che quel processo, a livello amministrativo, avvenga in maniera trasparente, attraverso la conoscibilità dei dati immessi e dell’algoritmo medesimo. In secondo luogo, conseguente al primo, il giudice deve poter sindacare la stessa logicità e ragionevolezza della decisione amministrativa robotizzata, ovvero della “regola” che governa l’algoritmo, di cui si è ampiamente detto. Alla luce delle riflessioni che precedono, l’appello deve trovare accoglimento, sussistendo nel caso di specie la violazione dei principi di imparzialità, pubblicità e trasparenza, poiché non è dato comprendere per quale ragione le legittime aspettative di soggetti collocati in una determinata posizione in graduatoria siano andate deluse. Infatti, l’impossibilità di comprendere le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, siano stati assegnati i posti disponibili, costituisce di per sé un vizio tale da inficiare la procedura. ” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270)
Autore: di Roberto Lombardi 02 apr, 2022
“Nella paralisi del Parlamento, l’intervento diretto del popolo è la situazione considerata dalla Costituzione” (Gustavo Zagrebelsky) PREMESSA STORICA Il legislatore del 1930 ha ritenuto di dovere sanzionare con pene severe ogni forma di cooperazione al suicidio altrui. L’abdicazione volontaria alla propria vita era intesa, nella visione del regime fascista, come un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita, oltre che in disarmonia con gli obblighi sociali dell’individuo. Nel vigente codice penale – rimasto sul punto inalterato per quasi 90 anni -, l’art. 579 punisce l’omicidio del consenziente con la reclusione da sei a quindici anni e l’art. 580 punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio con la reclusione da cinque a dodici anni. E’ inoltre legalmente equiparato all’ipotesi di omicidio volontario l’omicidio a cui ha consentito una persona minore degli anni diciotto, una persona inferma di mente, che si trova in condizioni di deficienza psichica o il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno (art. 579, comma 3 c.p.). Questa scelta rigorosa di fondo ha dovuto però fare i conti, dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, con la diversa prospettiva (di libertà) di quelle sfortunate persone che, pur volendo consapevolmente porre fine ad una esistenza fonte di sofferenze e privazioni, erano restate prigioniere dei progressi della scienza medica e intrappolate in un corpo che non permetteva loro neppure la possibilità di farla finita in autonomia. Il diritto alla vita si è così contrapposto al diritto a vivere e a morire dignitosamente, ed è cominciata la ricerca normativa e giurisprudenziale di un punto di necessario bilanciamento tra esigenze diverse, nascoste nelle pieghe della Costituzione, così come interpretata dal Giudice delle leggi, e in presenza di un Parlamento incapace di normare compiutamente – per mancanza di volontà e sussistenza di pressioni esterne – un passaggio esistenziale così delicato. Riletta peraltro alla luce della Costituzione repubblicana, l’interpretazione rigorosa delle norme penali sopra enunciate contrasterebbe sia con il principio personalistico enunciato dall’ art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – che con quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’ art. 13 , dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza. In questa evoluzione, peraltro, incide anche la valorizzazione del diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, così come espressa nei casi giurisprudenziali Welby ed Englaro e dalla recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo esplicito il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonché il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato la dignità nella fase finale della vita. D’altra parte, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale pare rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. Con la sentenza n. 242 del 2019 , la Corte costituzionale, dopo avere inutilmente rinviato il suo giudizio di un anno per concedere al Parlamento la possibilità di intervenire in questa delicatissima materia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della citata legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Nella sua decisione, la Corte costituzionale ha dovuto prendere atto dell’orientamento giurisprudenziale (per la verità espresso da un risalente precedente) secondo cui la condotta di aiuto al suicidio punisce chiunque agevola, in qualsiasi modo, tale suicidio, e dunque anche chi, come nel caso Cappato , offra un minimo aiuto materiale necessario (accompagnamento in auto alla clinica dove eseguire il suicidio assistito), in quanto le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma penale in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, devono ritenersi punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida e la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso più ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all’attuazione del progetto della vittima, come fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l’obbligo giuridico di impedire l’evento. LA BATTAGLIA DI MARIO La sentenza della Corte costituzionale ha però lasciato fuori dal suo perimetro tutte le condotte che non consistano in un mero aiuto al suicidio (di un soggetto che è dunque ancora in grado di provvedere da solo all’ultimo fatale atto soppressivo) ma che implichino una forma di eutanasia per mano di un terzo. Non è stata in altri termini considerata l’ipotesi confinante a quella del suicidio assistito, e cioè l’omicidio del consenziente. La differenza tra le due fattispecie è più legata a dettagli esecutivi, che ai valori di libertà in gioco: l'aiuto al suicidio, diversamente dall'omicidio del consenziente, richiede che l'atto finale (come bere il veleno mortale o schiacciare il pulsante che attiva l'introduzione della sostanza letale) venga compiuto da chi vuole morire e non dal terzo che lo assiste. Tuttavia, quando è accertata inequivocabilmente la consapevolezza e la libertà di chi ha deciso di morire, non vi dovrebbe essere alcuna differenza tra le due ipotesi, con riguardo al grado di autonomia riconosciuto alla persona nel decidere come e quando morire. D’altra parte, la Corte costituzionale, nel suo pur apprezzabile intervento, ha ritagliato in limiti ristretti l’area fattuale in cui lo Stato rispetta l'autonomia della persona. Quanto ristretti siano questi limiti, è facilmente desumibile dalla vicenda di Mario (nome di fantasia), un quarantenne tetraplegico marchigiano che ha dovuto ingaggiare una vera e propria battaglia legale contro l’Azienda sanitaria competente per ottenere l’applicazione al suo caso della sentenza n. 242 del 2019 sul caso Cappato. Inizialmente, il Tribunale di Ancona ha respinto in sede cautelare la domanda avente ad oggetto la prescrizione del farmaco letale, ricordando che i principi stabiliti dalle recenti pronunce della Corte costituzionale devono ritenersi confinati ad ipotesi di esclusione della responsabilità penale, che la questione del “fine vita” attende ancora un’adeguata regolamentazione da parte del legislatore e che non sussiste il diritto del paziente di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza. In sede di reclamo avverso l'ordinanza cautelare (*) , peraltro, lo stesso Tribunale adito, stavolta in composizione collegiale, pur condividendo il ragionamento secondo cui non può essere accolta la richiesta di ordinare all’azienda sanitaria di provvedere alla somministrazione/prescrizione del farmaco letale prescelto – in assenza di accertamento della sussistenza dei presupposti indicati dalla Corte costituzionale ai fini della non punibilità penale di un aiuto al suicidio e in assenza di un obbligo giuridico di provvedere in tal senso a carico della struttura sanitaria pubblica -, ha precisato che è senz’altro tutelabile il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti necessari e sufficienti, secondo la Corte delle leggi, a permettere al malato di accedere al suicidio assistito in piena legalità e senza che nessuno sia accusato di aiuto illecito al suicidio. E’ stato pertanto riconosciuto a Mario sia il diritto di pretendere dall'Azienda sanitaria competente l'accertamento dell'esistenza, nel caso di specie, dei presupposti richiamati nella sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un "aiuto al suicidio" praticato in suo favore da un soggetto terzo, sia il diritto di pretendere - dalla stessa struttura pubblica - la verifica sull'effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco prescelti dall'istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente. Dopo una denuncia per tortura e omissione di atti di ufficio sporta dall’interessato, ormai esasperato dalla condotta ostruzionistica tenuta dagli organi sanitari individuati come competenti dal Tribunale di Ancona, e a distanza di più di un anno dall’inizio del contenzioso con la sua Azienda sanitaria di riferimento, il Comitato etico regionale ha infine individuato nella situazione del tetraplegico marchigiano la sussistenza delle condizioni richieste dalla sentenza della Corte Costituzionale, e un comitato di esperti incaricato dall’Azienda sanitaria procedente ha validato la scelta del farmaco individuato per il suicidio medicalmente assistito e le modalità di somministrazione di tale farmaco. Mario può dunque finalmente porre fine alle sue sofferenze, quando lo vorrà, senza che nessuno dei “collaboranti” al suo suicidio assistito venga perseguito per il reato di cui all’art. 580 c.p.. IL REFERENDUM ABROGATIVO Nel frattempo, il Parlamento continua a discutere in ordine alla regolamentazione del “fine vita” – con un testo imperniato sugli stessi limiti angusti già individuati dalla Corte costituzionale, e limitato all’ipotesi del suicidio assistito – e i sostenitori dell’eutanasia attiva hanno provato ad eliminare, tramite referendum abrogativo, la perdurante discriminazione esistente nei confronti di coloro che devono essere aiutati da un medico per ottenere di porre fine alla propria vita senza soffrire, non potendolo fare con un atto autonomo. Poiché tale discriminazione non può essere posta nel nulla senza il previo superamento del reato di omicidio del consenziente, così come attualmente previsto dall’art. 579 del codice penale, i promotori del referendum hanno costruito un quesito con la cosiddetta tecnica del ritaglio , ossia chiedendo l’abrogazione di frammenti lessicali della disposizione di interesse, in modo da provocare la saldatura dei brani linguistici che permangono. Per effetto del ritaglio e della conseguente saldatura tra l’incipit del primo comma e la parte residua del terzo comma, la disposizione dell’art. 579 c.p. risultante dall’abrogazione parziale sarebbe stata così riformulata: « Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno ». Il referendum abrogativo in Italia è l’unico strumento di esercizio diretto ed esclusivo della sovranità popolare, come richiamata dall’art. 1 della Costituzione, ed è regolato nei suoi tratti essenziali dall’art. 75 della Costituzione , che pone specifici paletti all’ammissibilità del referendum abrogativo (1) . Secondo l’ art. 2 della legge costituzionale n. 1 del 1953 , spetta alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso. LA SCELTA DELLA CORTE La Corte costituzionale ha bocciato il referendum abrogativo di parte dell’art. 579 c.p. (2) attraverso un ragionamento giuridico complesso, ma sulla base di un argomento molto semplice. Il bene primario della vita umana non può ammettere vuoti di tutela. Sopprimere sic et simpliciter il delitto di omicidio del consenziente creerebbe una falla non desiderabile nel complessivo sistema della protezione del diritto alla vita, dal momento che, quando viene in rilievo tale diritto, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima. Discipline come quella dell’art. 579 cod. pen., poste a presidio della vita, non potrebbero, pertanto, essere puramente e semplicemente abrogate, facendo così venir meno le istanze di protezione di quest’ultima a tutto vantaggio della libertà di autodeterminazione individuale. La soluzione della Corte è tecnicamente criticabile sotto una serie di profili, tra di loro concatenati, e il cui diverso apprezzamento avrebbe potuto portare all'ammissibilità del quesito. Occorre innanzitutto premettere che la proposta dei referendari era quella di una soppressione "chirurgica" del reato di omicidio compiuto nei confronti di chi avesse validamente espresso, al riguardo, un consenso di cui poteva disporre. Sarebbero restate fuori dall'ambito della depenalizzazione - continuando ad essere punite penalmente con il più severo delitto di omicidio volontario - tutte le condotte di soppressione di minorenne o di infermo mentale, o comunque di individuo in situazione di minorazione psichica o il cui consenso fosse stato estorto con violenza o inganno, secondo i rigidi paletti (*) già imposti dalla giurisprudenza di legittimità per fattispecie analoghe. Ancora, occorre tenere bene a mente che l'impianto stesso del quesito referendario (abrogazione parziale di norma penale) non implicava, quale conseguenza dell'abrogazione, il rilascio di una patente di liceità ad ogni atto consapevolmente consentito di omicidio, ma soltanto la non punibilità a livello penale di tale condotta. È infatti del tutto normale e ammissibile per il nostro ordinamento giuridico che la stessa fattispecie possa produrre conseguenze diverse in termini di liceità, risultando sanzionabile sotto il profilo civilistico o amministrativo ma non sotto il profilo penale. Si potrebbe allora obiettare che, in questo caso, si tratta di aggressione a un diritto fondamentale, e che tale aggressione non può restare per definizione sprovvista di una tutela anche penale. Tuttavia, è la stessa Corte costituzionale ad aver negato in un recente arresto ( sentenza n. 37 del 2019 * ) la sostenibilità in assoluto di questo argomento, a proposito della depenalizzazione dell’ingiuria, quando ha ritenuto che il legislatore è sempre libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se, invece, il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei. D'altra parte, la soppressione del reato di cui all'art. 579 c.p. non avrebbe implicato, dal punto di vista civilistico, il venire meno dell' art. 5 del codice civile , secondo cui “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica”, e l'omicidio del consenziente, nella sua ipotesi '"pura" (consenso libero e consapevole) è soltanto uno strumento per così dire accessorio ed eventuale, in aggiunta alle necessarie repressioni penali dell'omicidio volontario, dell'omicidio colposo e dell'istigazione al suicidio, apprestate dall'ordinamento per proteggere da aggressioni ingiustificate il bene-vita. Ancora, per una fattispecie del tutto affine - quanto meno nello "spirito referendario" -, ovvero il suicidio assistito, la Corte ha già posto in discussione - seppure, come visto, a determinate condizioni - la tenuta costituzionale della norma penale incriminatrice “accessoria”. Si tenga conto, poi, che la sanzione penale in presenza di un consenso liberamente prestato è una deviazione rilevante dai principi generali del nostro ordinamento e in particolare del diritto penale, che trova giustificazione soltanto nella fondamentale importanza del bene protetto ma che non rinviene alcuna sponda diretta nella Costituzione repubblicana, dove il diritto alla vita e il diritto alla dignità della persona sono posti implicitamente sullo stesso piano, tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’ art. 2 della Costituzione . E qui giungiamo all'ultimo motivo di perplessità - forse il più democraticamente sensibile - della scelta operata dalla Corte. Il referendum abrogativo è uno dei modi attraverso i quali viene esercitata la sovranità popolare. La norma dell'art. 75 della Costituzione viene subito dopo le disposizioni in materia di esercizio della funzione legislativa da parte delle Camere ed è ricompresa nell’unitaria sezione denominata “formazione delle leggi”. Tra i limiti di ammissibilità riguardanti le materie oggetto di referendum non vi è il divieto di abrogazione di sanzioni penali. Tale divieto non è neanche desumibile dagli ulteriori limiti enucleati nel tempo dalla Corte costituzionale, ovvero dalla necessità di tutelare, escludendone la possibile abrogazione per referendum, quelle norme a contenuto costituzionalmente vincolato , da cui promanano valori di ordine costituzionale, e la cui esistenza garantisce la mancata lesione di specifici disposti della Costituzione. In particolare, è stato lo stesso Giudice delle leggi a premettere, nella sentenza che ha dichiarato l'inammissibilità del quesito referendario, che la sua valutazione preliminare è volta a verificare se il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale. Secondo la Corte, questo pregiudizio non c'è, se ci fermiamo alle implicazioni più naturali derivanti dalla sussistenza di una normativa costituzionalmente necessaria. In particolare, non si tratta, nel caso dell'art. 579 del codice penale, né di legge ordinaria che contiene l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale che protegge il bene della vita umana, né di legge ordinaria la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione. Tuttavia, la Corte ha fatto leva su quei precedenti (in particolare, sentenza n. 35 del 1997 e sentenza n. 49 del 2000 ) in base ai quali esistono leggi ordinarie la cui mera eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, e che tali sono le leggi volte a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona. Questi precetti normativi, una volta venuti ad esistenza, possono essere soltanto modificati o sostituiti dal legislatore con altra disciplina, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento. Tra tali precetti secondo la Corte vi è anche la norma penale incriminatrice dell'omicidio del consenziente, la quale riconosce alla libertà di autodeterminazione individuale una incidenza limitata, che si risolve nella mitigazione della risposta sanzionatoria, in capo all’autore del fatto di omicidio, in ragione del consenso prestato dalla vittima. Insomma, secondo la Corte, non è una norma a contenuto costituzionalmente vincolato, trattandosi di una disciplina non necessariamente da modularsi nel senso fatto proprio dal legislatore del 1930, per essere conforme a Costituzione, ma non può neanche essere semplicemente abrogata, "perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali" si salda. SOVRANITA’ POPOLARE E BILANCIAMENTO DEI VALORI Il ragionamento della Corte non convince appieno. Innanzitutto, la categoria delle leggi non costituzionalmente necessarie ma non semplicemente abrogabili sembra introdurre un ulteriore limite, questo sì, incompatibile con la sovranità popolare diretta, che è già stata di per sé limitata dal Costituente alla sola abrogazione, senza possibilità di modifica, delle leggi. La conseguenza astratta di tale limitazione è che tutta una serie di referendum astrattamente ammissibili sono subordinati per la loro celebrazione alla sensibilità del momento della Corte e condizionabili per sempre dalla volontà del legislatore, che potrebbe comodamente restare inerte e non modificare mai la disciplina oggetto del referendum. In secondo luogo, colpisce l'argomentazione implicita secondo cui il bilanciamento tra il valore del bene vita e il valore della libertà di autodeterminazione individuale sarebbe già stato correttamente operato dal legislatore fascista con una rigorosa sanzione di natura penale, quando è invece chiaro che tale bilanciamento andrebbe cercato nella Costituzione repubblicana e in un'ottica di più ampio respiro ordinamentale. D'altra parte, se è vero che " l’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili ", potendo afferire anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale ed economica, sino al mero taedium vitae ), è altresì vero che andare a guardare dallo spioncino i possibili e invero residuali risvolti distorsivi dell'abrogazione della norma penale (come il caso del consenso prestato per errore spontaneo o l'uccisione tramite l'uso di arma da fuoco) è un po' come pronunciare l'incostituzionalità di una norma di favore ragionevole perché qualcuno può sfruttarne illecitamente i benefici. Sarebbe a quel punto, come normalmente accade nelle democrazie moderne, senz'altro onere del legislatore porre rimedio a tali effetti distorsivi. Perché allora i cittadini sono stati privati della possibilità di scegliere di abrogare una norma non costituzionalmente necessaria, in costanza di una formidabile inerzia del legislatore? Sfiducia e paura. Che sia un caso di sfiducia nei confronti di una rappresentanza popolare ai minimi termini o un caso di sfiducia nei confronti della capacità di decidere degli elettori, resta l'amara sensazione che la Corte abbia fatto una scelta, pur comprensibile, di paura, invece che una scelta di coraggio. Mentre il mondo dei diritti va avanti, si complica e si arricchisce, in Italia viviamo e moriamo ancora alle condizioni imposte dal legislatore penale degli anni '30, dopo lunghe battaglie legali per avere un farmaco, e soltanto se resta al malcapitato la possibilità di compiere da solo l'atto finale di assunzione di quel farmaco. Nel frattempo, però, la Corte costituzionale tedesca, con sentenza del 26 febbraio 2020 (3) , ha dichiarato illegittima la disposizione penale interna che puniva l'aiuto offerto come "opportunità commerciale" al soggetto avente intenti suicidari. Il ragionamento della Corte, seppure limitato ad una ipotesi affine a quella del nostro art. 580 c.p., e non a quella dell'omicidio del consenziente, è dotato di ampio respiro, con riferimento al bilanciamento dei valori coinvolti da questo tipo di scelte. Le ragioni poste alla base della invalidità della norma penale esaminata sono riconducibili, infatti, alla limitazione sproporzionata del pieno ed effettivo esercizio del diritto della persona ad auto-determinarsi alla morte. Questo diritto, secondo la Corte tedesca, trova diretto addentellato nel più ampio diritto inviolabile della personalità individuale, il cui rispetto implica che un soggetto in grado di agire responsabilmente non debba subire condizionamenti esterni nelle proprie scelte esistenziali, specie se tali condizionamenti lo costringano a scelte inconciliabili con l'idea che ha di sé. E la scelta di porre fine alla propria vita, sempre secondo la Corte, è la massima espressione, seppure drammatica, del diritto di autodeterminarsi, a cui è connessa una valutazione circa il significato dell'esistenza in cui nessuno può sostituirsi al singolo: in questa prospettiva, non vi è condizione di salute, fase della vita o giudizio di valore - sui motivi della volontà suicidaria - che possano costituire ostacolo al pieno realizzarsi del diritto a una morte auto-determinata, né alla libertà di cercare e avvalersi dell'aiuto prestato da terzi. L’ex Presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, nel commentare questa pronuncia (4) , prima del giudizio di ammissibilità negativo sul quesito referendario, si era così espresso: ”(…) una limpida sentenza della Corte costituzionale tedesca (…) ha considerato centrale il tema riguardante la qualità della decisione di morire, la cui maturità, consapevolezza e libertà sono non solo necessarie, ma anche alla fine sufficienti. Poiché lo Stato è tenuto a mettere in opera ogni mezzo per escludere vizi di quella drammatica decisione, offrendo anche alternative utili (…), ma non spetta allo Stato sostituirsi alla persona nel valutarne le ragioni e ancor meno nel decidere in quali situazioni rispettare la volontà della persona e in quali no. La sentenza della Corte tedesca non può essere ignorata in Italia: il tema dei diritti fondamentali della persona e la circolazione degli argomenti è tanto più importante nell’area d’Europa. I quesiti che con il referendum si pongono al voto popolare tendono al superamento dell’attuale incostituzionale limitazione della autonomia delle persone. Nella paralisi del Parlamento, l’intervento diretto del popolo è la situazione considerata dalla Costituzione ”. (1) “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. (art. 1 della Costituzione) “È indetto referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum” (art. 75 della Costituzione). (2) Corte costituzionale, sentenza n. 50 del 15 febbraio 2022, depositata il 2 marzo 2022. (3) Bundesverfassungsgericht, Corte costituzionale federale tedesca, 26 febbraio 2020 (2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16). (4) " Perché sul fine vita deve decidere il popolo " - articolo apparso su La Stampa del 27 giugno 2021
Autore: a cura di Nicola Fenicia 16 mar, 2022
Dagli atti del Convegno sul PNRR del 18 febbraio 2022 organizzato da PrimoGrado Al fine del raggiungimento dell’obiettivo indicato dal PNRR per la Giustizia amministrativa dell’abbattimento del 70% dei ricorsi pendenti al 31 dicembre 2019 e al fine di una generale velocizzazione dei tempi del processo, il legislatore (art. 12 del d.l. n. 80 del 2021) ha puntato sul rafforzamento dell’ Ufficio per il processo , e cioè sul reclutamento di 326 nuovi addetti, da assumere - in due scaglioni - con contratto di lavoro a tempo determinato, non rinnovabile, della durata massima di due anni e sei mesi. Per il primo scaglione di 168 unità, formato da 120 funzionari amministrativi, 7 funzionari informatici, 3 funzionari statistici e 38 assistenti informatici, le procedure concorsuali si sono per la gran parte concluse entro il 2021, e tali addetti hanno preso servizio nelle varie sedi giudiziarie nel gennaio di quest’anno. In particolare il legislatore ha inteso realizzare un rafforzamento degli Uffici per il processo in otto Uffici giudiziari, nei quali maggiore è l’arretrato pendente e che sono: • le Sezioni II, III, IV, V, VI e VII del Consiglio di Stato; • il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma; • il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano; • il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto; • il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli; • il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione staccata di Salerno; • il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo; • il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania; presupponendo dunque la preesistenza degli Uffici per il processo in tutti gli Uffici giudiziari della G.A. . Ed infatti, già nel 2016 (con il d.l. n. 168 del 2016) era stato introdotto nella legge sull’ordinamento della giurisdizione amministrativa n. 186 del 1982, un articolo 53 ter rubricato appunto “Ufficio per il processo”, definito come una “struttura organizzativa interna degli uffici di segreteria” del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana e dei T.A.R., che avrebbe dovuto essere realizzata mediante l’utilizzo di personale di segreteria di area funzionale III e dei tirocinanti; ma tutto ciò senza la previsione di nuove assunzioni, da cui la ragione dell’insuccesso di tale struttura organizzativa che, nella pratica, nonostante l’adozione di norme regolamentari interne (si veda ad es. il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato 25 maggio 2017 n. 69), non è stata resa operativa. Oggi invece la Giustizia amministrativa può concretamente beneficiare innanzitutto del primo contingente di 168 nuovi addetti e ha il dovere e la responsabilità di organizzare in maniera efficiente e proficuo il loro lavoro. Si pone quindi il problema delle modalità di organizzazione dell’Ufficio per il processo. Al riguardo si registrano una scarsezza di indicazioni di tipo operativo provenienti dagli Uffici centrali della G.A., un dibattito interno piuttosto languido e una mancanza totale di scambio di informazioni fra Uffici giudiziari. Per tentare di ravvivare il dibattito sul tema e colmare, sia pure in minima parte, tali lacune attraverso un confronto dialettico fra i vari operatori della Giustizia amministrativa, PrimoGrado ha inteso organizzare il convegno del 18 febbraio 2022, del quale è disponibile l’integrale registrazione su questo sito. Allo stato il lavoro dello smaltimento dell’arretrato è indirizzato dalle Linee Guida per lo smaltimento dell’arretrato della Giustizia amministrativa adottate con decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 28 luglio 2021, aggiornate nel febbraio di quest’anno. In esse si prevede una disciplina di base, comune a tutti gli Uffici per il processo, relativa alla struttura e all’attività di quest’ultimi, mentre la disciplina di dettaglio viene rimessa ai singoli Presidenti degli Uffici giudiziari, trattandosi dell’organizzazione dell’attività giudiziaria. Quanto alla struttura, si prevede che gli Uffici per il processo siano composti dai funzionari e dagli assistenti neoassunti oltre che dai tirocinanti, ed inoltre che siano incardinati presso l’Ufficio di Segreteria delle Sezioni e dipendano funzionalmente dal Presidente della Sezione, che può delegare tale attività ad un magistrato in servizio presso il medesimo Ufficio giudiziario. Si può però verificare il caso che in qualche Ufficio giudiziario non si riesca a costituire un Ufficio per il processo con le risorse a disposizione e in tal caso si potrebbe realizzare un’unica struttura a servizio di più Sezioni. Problematica può essere anche la delega al magistrato dell’attività organizzativa dell’Ufficio per il processo, non potendo trattarsi di una delega in bianco, dovendo quantomeno le scelte fondamentali di politica giudiziaria afferenti lo smaltimento essere assunte dal Presidente di Sezione (ad esempio, quale arretrato aggredire con priorità: se dare prevalenza al criterio meramente cronologico della “anzianità” del fascicolo, ovvero privilegiare inizialmente uno smaltimento “di massa” individuando dei filoni di cause seriali pendenti e delle sentenze “pilota”; in quale misura percentuale dare prevalenza allo smaltimento rispetto all’esame delle cause successive al 2019; se lasciare in sospeso i ricorsi per i quali è prossima l’ultraquinquennalità e dunque è probabile la perenzione; quale modello di scheda del fascicolo di causa adottare; se i fascicoli oggetto di studio debbano essere assegnati all’Ufficio per il processo da parte del Presidente, del magistrato delegato o del personale di Segreteria; etc…). Occorrerà poi realizzare una rotazione fra i magistrati nell’espletamento del suddetto incarico e introdurre dei meccanismi compensativi nell’assegnazione delle cause al magistrato delegato che tengano conto della gravosità dell’incarico, che comunque comporta lo svolgimento di attività giurisdizionale. Quanto invece all’attività dell’Ufficio per il processo nelle Linee Guida si prevede che essa deve essere diretta sia nei confronti dei ricorsi appena depositati attraverso un esame “quotidiano” (ma si può pensare anche ad una selezione dei ricorsi da parte del Presidente/magistrato addetto e ad una assegnazione settimanale), sia nei confronti dei vecchi ricorsi. Nei confronti dei nuovi ricorsi - che dovrebbero forse essere diversi da quelli che godono di una corsia preferenziale (ricorsi con domanda cautelare o assoggettati a riti speciali accelerati), perché per essi occorre fissare udienza in tempi ravvicinati ed è necessario uno studio diretto e immediato da parte del Collegio - l’attività dell’Ufficio per il processo deve essere diretta ad accertare se sussistano profili d’immediata definizione in rito o in merito (e dunque al fine dell’assoggettamento del ricorso al rito di cui all’art. 72 bis del c.p.a.); ed inoltre a verificare se occorra acquisire documentazione istruttoria o disporre l’integrazione del contraddittorio. Nei confronti dei ricorsi già pendenti , invece, l’attività dell’Ufficio per il processo si dovrà indirizzare, oltre che sui suddetti aspetti, anche sulla verifica della permanenza delle cause che abbiano determinato la sospensione o l’interruzione del giudizio (e ciò in base al nuovo art. 80 comma 3 bis del c.p.a. che ha introdotto la possibilità per il Presidente di disporre istruttoria al riguardo) ovvero sulla verifica della necessità di disporre la sospensione o l’interruzione del giudizio; nonché sull’eventuale esistenza di ricorsi connessi o di ricorsi identici o analoghi già decisi dalla Sezione. Le Linee Guida affidano poi all’Ufficio per il processo il compito di analizzare le pendenze e i flussi delle sopravvenienze nonché l’organizzazione delle udienze tematiche e per cause seriali, la predisposizione di relazioni quadrimestrali di rendicontazione sull’attività svolta, ed infine la compilazione della scheda del fascicolo di causa. A tale riguardo, va segnalato che il T.A.R. del Veneto ha adottato un modello di scheda che pare molto ben strutturato. Tale modello di scheda è suddiviso in due parti, una di “analisi formale” (che potrebbe eventualmente essere compilata anche dal personale delle Segreterie), e una di “analisi del contenuto”, che implica conoscenze di carattere giuridico e quindi deve essere affidata ai funzionari assunti per il PNRR. La scheda è composta da dei quesiti ai quali deve essere data risposta mediante il riempimento di “campi” editabili che si ampliano in automatico a seconda di quanto si deve scrivere, o l’inserimento di crocette cliccando sulle risposte SI ☐ NO ☐. Affinché il lavoro delle schede sia sufficientemente curato, in modo che in seguito queste possano essere effettivamente utili per l’individuazione di cause o questioni seriali, o per la stesura delle sentenze, sarebbe opportuno che le schede venissero validate dal magistrato delegato. L’esame congiunto delle schede compilate potrebbe essere svolto in videoconferenza da remoto, tra il funzionario che le ha compilate e il magistrato delegato, al fine di verificare se siano complete, se ci siano dei dubbi da sciogliere, o se servano delle integrazioni (questo confronto potrebbe avere cadenza settimanale). Una volta validate, le schede potranno essere archiviate in apposite sottocartelle. Si pone a questo punto il problema dell’abbinamento della scheda (la quale deve rimanere un atto interno) al fascicolo digitale, in quanto il sistema informatico della G.A. (SIGA) consente alle Segreterie di compilare solo il campo “Note” del fascicolo che non è visibile ai difensori, e allo stato non consente l’inserimento di file che non siano visibili anche all’esterno. Il T.A.R. del Veneto ha però individuato una soluzione per associare ciascuna “scheda del fascicolo” al ricorso al quale si riferisce; infatti dalla Home page di intranet è possibile accedere a “Microsoft OneDrive”, dove possono essere caricate cartelle condivise. Per cui, una volta validata la scheda del singolo fascicolo e salvata questa nel cloud , in un’apposita sottocartella, è sufficiente che la Segreteria incolli nella sezione “Note” di SIGA, non visibile all’esterno, il link che porta alla scheda condivisa sul cloud. A quel punto il magistrato interessato, copiando la stringa di quel link su un qualsiasi broswer di internet ed inserendo le proprie credenziali, può consultare la scheda del fascicolo direttamente dal cloud . Da segnalare infine la creazione (a partire dall’ottobre del 2021) presso il Segretariato della Giustizia Amministrativa di una struttura di missione, composta dal personale di Segreteria del Segretariato, da funzionari informatici e da funzionari statistici, dedicata al monitoraggio dell’attività degli Uffici del processo e al rispetto del cronoprogramma indicato dal PNRR; struttura che ha però anche compiti di supporto dell’attività degli Uffici per il processo e anche degli Uffici giudiziari che non siano riusciti a comporre un Ufficio per il processo.
Autore: a cura di Paolo Nasini 16 mar, 2022
Una recente decisione del Tribunale di Treviso, in data 9 gennaio 2022 , si è inserita in un filone giurisprudenziale che, in materia, ha visto pronunciarsi in vario modo sia giudici ordinari che giudici tributari, e, soprattutto, la Corte di Cassazione. Si tratta della problematica connessa alla c.d. “addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica”, così come disciplinata dall'art. 6 d.l. 28 novembre 1988, n. 511, sostituito, a decorrere dal 10 giugno 2007, dall'art. 5 d.lgs. 2 febbraio 2007, n. 26, nonché dagli artt. 52,53,53-bis e 54, d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 [1] . Tale disciplina è stata abrogata dal d.l. n. 16 del 2012, ed è stata specificamente interessata da alcune decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea [2] . Come emerge dalla giurisprudenza che si è andata stratificando in materia, al “consumatore” finale è data la possibilità di esperire la propria azione nei confronti del proprio fornitore di energia, ovvero, a determinate condizioni, direttamente dell’Amministrazione finanziaria, con due azioni giuridicamente distinte in relazione alle quali viene a configurarsi la giurisdizione di Autorità Giurisdizionali differenti. La fattispecie in esame, infatti, vede coinvolti più soggetti, ovverosia il soggetto erogatore dell'energia elettrica che riscuote l'accisa, il consumatore finale che rimane inciso dal tributo e l'erario quale destinatario finale del tributo stesso. Si tratta di due distinti rapporti: il primo di tipo privatistico, riferito alla fornitura dell'energia da parte del soggetto erogatore e al pagamento, da parte dell'utilizzatore, del prezzo corrispettivo del servizio ricevuto comprensivo dell'accisa; il secondo rapporto, di tipo tributario, prevede l'esercizio del potere impositivo dell'erario nei confronti del soggetto erogatore [3] . In caso di lite tra i soggetti del rapporto privatistico, quindi, le controversie relative al legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa dei tributi inclusi nel prezzo di cessione, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario perché non riconducibili né allo schema tipico di un rapporto tributario [4] , né al catalogo degli atti impugnabili previsto dall'art. 19, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 [5] . Il consumatore finale, in tal caso, non esercita un'azione tributaria di rimborso, ma chiede all'altro contraente la restituzione della parte del prezzo non dovuta. La richiesta di rimborso di un tributo derivante dall'esercizio del potere impositivo da parte dell'erario rientra, invece, nello schema della potestà-soggezione tipico del rapporto tributario [6] , con conseguente giurisdizione del giudice tributario [7] . La legittimazione del consumatore finale ad avanzare la richiesta di rimborso delle accise versate direttamente all'erario, e, quindi, ad agire in giudizio, anche nei confronti della P.A. e avanti al giudice tributario, è stata riconosciuta non solo dalla giurisprudenza tributaria [8] , ma anche dalla Suprema Corte, ancorché, in via eccezionale, a determinate condizioni. Gli obbligati al pagamento dell'accisa sull'energia elettrica sono, tra gli altri, " i soggetti che procedono alla fatturazione dell'energia elettrica ai consumatori finali, di seguito indicati come venditori" (art. 53, comma 1, lett. a), mentre "i crediti vantati dai soggetti passivi dell'accisa verso i cessionari dei prodotti per i quali i soggetti stessi hanno assolto tale tributo possono essere addebitati a titolo di rivalsa " (art. 16, comma 3); all'art. 56 si precisa, altresì, che le società fornitrici "hanno diritto di rivalsa sui consumatori finali" (art. 56). Ai sensi dell'art. 14, "l'accisa è rimborsata quando risulta indebitamente pagata", ma il rimborso [9] deve essere richiesto, a pena di decadenza, entro due anni dalla data del pagamento, e, qualora al termine di un procedimento giurisdizionale il soggetto obbligato al pagamento dell'accisa sia condannato alla restituzione a terzi di somme indebitamente percepite a titolo di rivalsa dell'accisa, il rimborso è richiesto dal predetto soggetto obbligato, a pena di decadenza, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza che impone la restituzione delle somme. Il diritto al rimborso è, dunque, regolato, in via generale, dall'art. 14 TUA, mentre il D.L. 30 settembre 1982, n. 688, art. 19, comma 1, conv. con modif. in L. 27 novembre 1982, n. 873 [10] , è applicabile unicamente "quando i tributi riscossi non rilevano per l'ordinamento comunitario" [11] . Per il rimborso dei tributi rilevanti per l'ordinamento comunitario l’art. 29, comma 2, l. n. 428 del 1990, stabilisce che: " i diritti doganali all'importazione, le imposte di fabbricazione, le imposte di consumo, il sovrapprezzo dello zucchero e i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti, circostanza che non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni ". Pertanto, il primo soggetto passivo del rapporto tributario è il fornitore di energia, tenuto verso il fisco per il pagamento dell'accisa ovvero della relativa addizionale. La Corte di Cassazione, con riferimento al gas metano, ha affermato che "il rapporto tributario inerente al pagamento dell'imposta si svolge solo tra la Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente il gas metano ai consumatori e ad esso è del tutto estraneo l'utente consumatore" [12] , sicché "il solo soggetto obbligato verso l'amministrazione finanziaria è l'ente comunale che immette in consumo il gas e riscuote l'accisa inglobata nel prezzo (è una peculiarità che non incide sulla natura del tributo che resta distinto dal prezzo del gas) (...)" [13] . Uno schema del tutto analogo è seguito per il versamento delle imposte addizionali di cui al D.L. n. 511 del 1988, art. 6, comma 3, secondo cui dette imposte sono dovute, dai soggetti obbligati di cui all'art. 53 TUA (società fornitrici), al momento della fornitura dell'energia elettrica ai consumatori finali e che "le addizionali sono liquidate e riscosse con le stesse modalità dell'accisa sull'energia elettrica". L'imposta è dovuta dai soggetti che forniscono direttamente il prodotto ai consumatori, sicché soggetto passivo dell'imposta è il fornitore del prodotto; quanto all’utilizzatore finale, l'onere corrispondente all'imposta è su di lui traslato in virtù e nell'ambito di un fenomeno meramente economico. Ne deriva che il rapporto tributario inerente al pagamento dell'imposta si svolge soltanto tra l'Amministrazione finanziaria ed i soggetti che forniscono direttamente i prodotti, essendo ad esso estraneo l'utente consumatore. Come sopra detto, "i due rapporti, quello fra fornitore ed amministrazione finanziaria e quello fra fornitore e consumatore, si pongono quindi su due piani diversi: il primo ha rilievo tributario, il secondo civilistico" [14] . Vi è quindi una separazione tra il rapporto di imposta (corrente tra erario e fornitore) e il rapporto di rivalsa (corrente tra fornitore e consumatore), e l'art. 14 TUA prevede implicitamente la possibilità per il consumatore di far valere l'illegittima traslazione del tributo nei confronti del fornitore. Infatti, una volta esercitata vittoriosamente da parte del consumatore finale l'azione di rimborso nei confronti del fornitore, è quest'ultimo che ha novanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza per far valere il diritto al rimborso nei confronti dell'Amministrazione finanziaria, attribuendosi, quindi, espressamente l'azione di rimborso al fornitore che abbia traslato l'imposta sul consumatore all'esito dell'azione da questi vittoriosamente esercitata nei suoi confronti. Come sottolineato dalla Corte di Cassazione [15] , pertanto: 1) obbligato al pagamento delle accise nei confronti dell'Amministrazione doganale è unicamente il fornitore; 2) il fornitore può addebitare integralmente le accise pagate al consumatore finale; 3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale e fornitore e consumatore finale sono autonomi e non interferiscono tra loro; 4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere direttamente all'Amministrazione finanziaria il rimborso delle accise indebitamente corrisposte; 5) il diritto al rimborso spetta unicamente al fornitore, che può esercitarlo nei confronti dell'Amministrazione finanziaria: a) nel caso in cui non abbia addebitato l'imposta al consumatore finale, entro due anni dalla data del pagamento; b) nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti azione di ripetizione di indebito, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza; 6) nel caso di addebito delle accise al consumatore finale e delle addizionali, quest'ultimo può esercitare l'azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore, salvo chiedere eccezionalmente il rimborso anche nei confronti dell'Amministrazione finanziaria allorquando alleghi che l'azione esperibile nei confronti del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, ad esempio, nell'ipotesi di fallimento del fornitore). La Suprema Corte, quindi, ha avuto modo di precisare che < >; << il consumatore finale dell'energia elettrica, a cui sono state addebitate le imposte addizionali sul consumo di energia elettrica di cui al D.L. n. 511 del 1988, art. 6, comma 3 (nel testo applicabile ratione temporis) da parte del fornitore, può agire nei confronti di quest'ultimo con l'ordinaria azione di ripetizione di indebito e, solo nel caso in cui tale azione si riveli impossibile o eccessivamente difficile con riferimento alla situazione in cui si trova il fornitore, può eccezionalmente chiedere il rimborso nei confronti dell'Amministrazione finanziaria, nel rispetto del principio unionale di effettività e previa allegazione e dimostrazione delle circostanze di fatto che giustificano tale legittimazione straordinaria >> [16] . La ripetibilità delle somme pagate a titolo di addizionale sull’accisa, priva di una finalità specifica, è stata affermata dalla Suprema Corte con una serie di decisioni [17] che, sulla scorta delle citate sentenze della CGUE, ha affermato che " l'addizionale provinciale alle accise sull'energia elettrica di cui al D.L. n. 511 del 1988, art. 6, nella sua versione, applicabile ratione temporis, ...... va disapplicata per contrasto con l'art. 1, par. 2, della direttiva 2008/118/CE, per come interpretato dalla Corte di Giustizia U.E. con le sentenze 5 marzo 2015, in causa C-553/13, e 25 luglio 2018, in causa C-103/17 " [18] . Perché le addizionali provinciali siano legittime ai sensi della direttiva 2008/118/CE occorre il cumulativo riscontro di due requisiti, cioè: 1) il rispetto delle regole di imposizione dell'Unione applicabili ai fini delle accise o dell'IVA per la determinazione della base imponibile, il calcolo, l'esigibilità e il controllo dell'imposta; 2) la sussistenza di una finalità specifica. Sotto il primo profilo, il D.L. n. 511 del 1988, art. 6, comma 3, ultimo periodo, chiarisce che "Le addizionali sono liquidate e riscosse con le stesse modalità dell'accisa sull'energia elettrica", sicché è rispettata la prima condizione. Con riguardo al secondo profilo, per il diritto eurounitario, una imposizione indiretta, aggiuntiva sul consumo di energia elettrica, consumo già colpito dalle accise armonizzate, è possibile, a termini dei paragrafi 1 e 2 della Direttiva 2008/118/CE, ove tale imposizione aggiuntiva sia, da un lato, rispondente a una o più finalità specifiche e, dall'altro, rispetti le regole di imposizione dell'unione applicabili ai fini delle accise o dell'IVA per la determinazione della base imponibile, del calcolo, dell'esigibilità e del controllo dell'imposta, ciò in quanto occorre evitare che le imposizioni indirette supplementari ostacolino indebitamente gli scambi [19] . Occorre una finalità specifica, intendendosi come tale una finalità che non sia puramente di bilancio [20] . Perché un'imposta possa garantire la finalità specifica invocata, occorre che il gettito di tale imposta sia obbligatoriamente utilizzato " al fine di ridurre i costi ambientali specificamente connessi al consumo di energia elettrica su cui grava l'imposta in parola nonché di promuovere la coesione territoriale e sociale, di modo che sussista un nesso diretto tra l'uso del gettito derivante dall'imposta e la finalità dell'imposizione in questione " [21] . Tra queste finalità specifiche non può rientrare la generica previsione che una parte del gettito di una imposta addizionale si risolva in una contribuzione al bilancio interno di uno Stato, come di un Ente Locale, "poiché ogni Stato membro può decidere di imporre, a prescindere dalla finalità perseguita, l'assegnazione del gettito di un'imposta al finanziamento di determinate spese" [22] . Come sottolineato dalla Corte di Cassazione, le addizionali alle accise sull'energia elettrica, già disciplinate dal D.L. 28 novembre 2011, n. 511, art. 6, conv. con l. 27 gennaio 1989, n. 20, dal D.Lgs. n. 504 del 1995, artt. 52, 56 e 60 come modificati dal D.Lgs. 2 febbraio 2007, n. 26, art. 1, non hanno finalità specifiche a termini dell'art. 1, par. 2, Dir. 2008/118/CE, avendo come finalità una mera esigenza di bilancio degli Enti locali [23] . Ne consegue che il D.L. n. 511 del 1988, art. 6, comma 2, va disapplicato in ossequio al principio per cui l'interpretazione del diritto comunitario fornita dalla Corte di Giustizia della UE è immediatamente applicabile nell'ordinamento interno ed impone al giudice nazionale di disapplicare le disposizioni di tale ordinamento che, sia pure all'esito di una corretta interpretazione, risultino in contrasto o incompatibili con essa [24] . Né la disposizione di cui all'art. 6, né il decreto 11 giugno 2007 del capo del Dipartimento per le politiche fiscali del Ministero dell'Economia e delle Finanze, previsto dal comma 2 del medesimo articolo, chiariscono in alcun modo le specifiche finalità che le addizionali dovrebbero soddisfare. In particolare, tenuto conto delle sentenze della Corte di Giustizia in materia, non può essere ritenuta finalità specifica la destinazione (evincibile dalla premessa del D.L. n. 511 del 1988) delle imposte addizionali ad "assicurare le necessarie risorse agli enti della finanza regionale e locale, al fine di garantire l'assolvimento dei compiti istituzionali", non essendo tale finalità realmente distinta dalla generica finalità di bilancio. Altrettanto deve dirsi per quanto riguarda i riferimenti alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 54, al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 149 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, T U.E.L.) ovvero all'art. 19 T U.E.L.: le indicazioni che si traggono da tali norme sono infatti del tutto generiche e non in grado di distinguere la finalità specifica cui l'addizionale provinciale intende soddisfare. Ancora, la circostanza che in tema di bilancio degli enti locali non sia possibile destinare o vincolare a spese analiticamente individuate i proventi dell'addizionale, da un lato, non giustifica la violazione del diritto unionale e, dall'altro, non impedisce al legislatore di individuare una finalità specifica che i proventi dell'addizionale debbano soddisfare, indipendentemente dalla diretta correlazione tra entrata e spesa in sede di bilancio. Il D.L. n. 511 del 1988, art. 6, comma 2, indipendentemente da qualsiasi questione sul carattere self-executing della direttiva 2008/112/CE, peraltro integralmente recepita dalla normativa interna, va disapplicato in ossequio al principio per cui l'interpretazione del diritto comunitario fornita dalla Corte di Giustizia U.E. è immediatamente applicabile nell'ordinamento interno e impone al giudice nazionale di disapplicare le disposizioni di tale ordinamento che, sia pure all'esito di una corretta interpretazione, risultino in contrasto o incompatibili con essa [25] . La Corte di Giustizia UE, con le sentenze 5 marzo 2015, in causa C-553/13, e 25 luglio 2018, in causa C-103/17 , ha affermato che le norme interne che istituiscono, come ha fatto l'art. 6, comma 2, DL 511/88, un'imposta addizionale priva di finalità specifica, si pongono in contrasto con il diritto unionale e, in particolare, con la Direttiva 2008/118/CE, in tal modo sancendo l'illegittimità dell'addizionale provinciale all'accisa. Il principio di diritto sancito dalla Corte di Giustizia UE è di per sé idoneo e sufficiente ad imporre al giudice nazionale di disapplicare, anche nell'ambito di controversie che coinvolgono soltanto soggetti privati, l'art. 6, comma 2, DL 551/88, in quanto norma interna che si pone, in base ai principi enunciati dalla Corte, in contrasto con il diritto dell'Unione. Tuttavia, se il rimborso da parte del soggetto passivo risultasse impossibile o eccessivamente difficile, segnatamente in caso d'insolvenza di quest'ultimo, il principio di effettività impone che l'acquirente debba essere in grado di agire per il rimborso direttamente nei confronti delle autorità tributarie e che, a tal fine, lo Stato membro preveda gli strumenti e le modalità procedurali necessari." (CGUE sentenza del 20.10.2011, nella causa C-94/10, punti 28 e 29; evidenza della scrivente). Il versamento del corrispettivo della prestazione, comprensivo dell'addizionale, non configura una condotta che può essere interpretata come rinuncia a far valere il diritto alla restituzione di quanto indebitamente corrisposto, in applicazione della disciplina in materia di indebito oggettivo, mentre il nostro ordinamento giuridico prevede che un diritto si possa estinguere, per effetto del suo mancato esercizio, soltanto nelle specifiche ed espresse ipotesi in cui la legge sanziona l'omesso esercizio con la prescrizione o la decadenza. Dalla necessaria disapplicazione dell'art. 6, comma 2, del d.l. 511/1988, su cui si fonda l'addebito a titolo di addizionale provinciale all'accisa, consegue il diritto dell’utente finale a vedersi restituite le somme pagate a tale titolo. [1] Sulla natura del tributo e sulle problematiche costituzionali relative, si veda Fedele, Progressività del tributo, progressività del sistema tributario e principi costituzionali, in Giur. Cost., fasc.2, 2019, 1182, in commento a, Cass. Civ., sez. trib., 12 febbraio 2019, n. 4037. [2] In particolare, 5 marzo 2015, causa C-555/13 e 25 luglio 2018, causa C-103/17. [3] Mauro Tortorelli, Soggetti legittimati alla richiesta del rimborso delle accise non dovute e giudizio di equità, in Iltributario.it, fasc., 26 LUGLIO 2016. [4] Cass. civ., ss.uu., 8 aprile 2010, n. 8312; Cass. civ., ss.uu., 26 giugno 2009, n. 15032; Cass. civ., ss.uu., 28 gennaio 2011, n. 2064 [5] Cass. civ., ss.uu., 19 dicembre 2009, n. 26820. [6] Cass. civ., ss.uu., 16 gennaio 2015, n. 640, v. art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, c.d. “limite esterno” alla giurisdizione; Il rigetto espresso della richiesta di rimborso è inserito nel catalogo degli atti impugnabili innanzi al giudice tributario (v. art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, c.d. “limite interno” alla giurisdizione). [7] Cass. civ., ss.uu., 1 febbraio 2016, n. 1837, Cass. civ., 6 agosto 2014, n. 17627, Cass. civ., ss.uu., 25 maggio 2009, n. 11987, Cass. civ., 23 febbraio 2006, n. 3994. [8] Tra le altre, Comm. trib. reg. Basilicata, sez. III, 24/03/2016, n.119, secondo la quale, ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 504/1995, il diritto al rimborso dell'accisa erroneamente versata non compete al solo produttore di energia, ma deve intendersi esteso al soggetto che in concreto, quale consumatore finale, abbia assolto all'obbligo fiscale. Da parte dell'ente impositore, la contestazione della pretesa di rimborso limitata al solo difetto di prova del “quantum”, comporta che deve ritenersi non controverso lo stato di creditore del contribuente. Il giudice è legittimato alla quantificazione del credito in via equitativa in forza delle prove acquisite al processo. Contra, Comm. Trib. Venezia, sez. VI, 13 aprile 2018, n.444. [9] Previsto in via generale dall'art. 9, par. 2, della direttiva n. 2008/118/CE, che fa riferimento alle modalità stabilite dai singoli Stati membri. [10] Secondo cui "chi ha indebitamente corrisposto diritti doganali all'importazione, imposte di fabbricazione, imposte di consumo o diritti erariali (...) ha diritto al rimborso delle somme pagate quando prova documentalmente che l'onere non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti, salvo il caso di errore materiale". [11] L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29, comma 3. [12] Cass. S.U. 25 maggio 2009, n. 11987. [13] Cass. S.U. 19 marzo 2009, n. 6589. [14] Cass. n. 9567 del 2013, cit.. [15] Cass. Civ. sez. trib., 23 ottobre 2019, n. 27099. [16] Cass. Civ. sez. trib., 23 ottobre 2019, n. 27099; Cass. Civ., sez. trib., 19 novembre 2019, n.29980. [17] In particolare, Cass. civ., sez. trib., 04 giugno 2019, n.15198, in Giust. civ. mass., 2019 e n. 27101/2019 [18] Si vedano, Cass. 22343/2020; Cass. 16142/2020; Cass. 10691/2020; Cass. 27101/2019; Cass. 15198/2019. L'art. 3, par. 2, della direttiva 92/12/CEE afferma che "I prodotti di cui al paragrafo 1", tra i quali rientra anche l'energia elettrica in ragione dell'estensione di cui all'art. 3 della direttiva 2003/96/CE del 27 ottobre 2003, "possono formare oggetto di altre imposizioni indirette aventi finalità specifiche, nella misura in cui esse rispettino le regole di imposizione applicabili ai fini delle accise o dell'IVA per la determinazione delle base imponibile, il calcolo, l'esigibilità e il controllo dell'imposta". Tale disposizione è pressoché sovrapponibile alla formulazione dell'art. 1, par. 2, della direttiva 2008/118/CE, nella specie applicabile ratione temporis, per la quale "Gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l'imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell'imposta; sono escluse da tali norme le disposizioni relative alle esenzioni". Perché gli Stati membri possano prevedere sul consumo di energia elettrica altre imposte indirette oltre alle accise devono, pertanto, essere rispettate due condizioni, applicabili cumulativamente [....] 1) le imposte addizionali devono rispettare le regole di imposizione dell'Unione applicabili ai fini delle accise o dell'IVA per la determinazione della base imponibile, il calcolo, l'esigibilità e il controllo dell'imposta; 2) le imposte addizionali devono avere una finalità specifica, intendendosi come tale una finalità che non sia puramente di bilancio (C.G.U.E., 24 febbraio 2000, in causa C¬434/97, Commissione/Francia, punto 19; C.G.U.E., 9 marzo 2000, in causa C437/97, EKW e Wein & Co., punto 31; C.G.U.E., 27 febbraio 2014, in causa C-82/12, Transportes Jordi Besora, punto 23). La già citata sentenza della Corte di Giustizia del 25 luglio 2018, punti 38 e 39, chiarisce poi che affinché un'imposta possa garantire la finalità specifica invocata, occorre che il gettito di tale imposta sia obbligatoriamente utilizzato "al fine di ridurre i costi ambientali specificamente connessi al consumo di energia elettrica su cui grava l'imposta in parola nonché di promuovere la coesione territoriale e sociale, di modo che sussiste un nesso diretto tra l'uso del gettito derivante dall'imposta e la finalità dell'imposizione in questione" [...]. Peraltro, "un'assegnazione predeterminata del gettito di una tassa rientrante in una semplice modalità di organizzazione interna del bilancio di uno Stato membro, non può, in quanto tale, costituire una condizione sufficiente a siffatto riguardo, poiché ogni Stato membro può decidere di imporre, a prescindere dalla finalità perseguita, l'assegnazione del gettito di un'imposta al finanziamento di determinate spese" [...]. La direttiva 2003/96/CE, che ha sottoposto anche l'energia elettrica ad accisa armonizzata secondo le previsioni della direttiva 92/12/CEE, è stata recepita in Italia dal D.Lgs. 2 febbraio 2007, n. 26, il cui art. 5 ha sostituito il D.L. n. 511 del 1988, art. 6, istituendo in favore dello Stato e delle province imposte addizionali alle accise, stabilendo che le stesse "sono liquidate e riscosse con le stesse modalità dell'accisa sull'energia elettrica" (comma 3). La direttiva 2008/118/CE è stata invece recepita dallo Stato italiano con D.Lgs. 29 marzo 2010, n. 48 [...]. Successivamente, con decorrenza 1 gennaio 2012, il D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 2, comma 6, ha abrogato l'addizionale provinciale per le regioni a statuto ordinario e, a far data dal 1 aprile 2012, il D.L. n. 511 del 1988, art. 6 è stato abrogato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. con modif nella L. 26 aprile 2012, n. 44. [...] [19] Corte di Giustizia UE, 5 marzo 2015, C-553/13, Statoil Fuel & Retail, punti 35 - 36; analogamente Corte di Giustizia UE, 25 luglio 2018, C-103/17, La Messer France SAS, punti 35 ss.; Corte di Giustizia UE, 27 febbraio 2014, C82/12, Transportes Jordi Besora, punto 22. [20] Corte di Giustizia UE, 24 febbraio 2000, C-434/97, Commissione/Francia, punto 19; Corte di Giustizia UE, 9 marzo 2000, C-437/97, EKW e Wein & Co., punto 31; Corte di Giustizia UE, 27 febbraio 2014, C-82/12, Transportes Jordi Besora, cit., punto 23. [21] Corte di Giustizia UE, 25 luglio 2018, cit., punto 38 - 39; Corte di Giustizia UE, 27 febbraio 2014, cit., punto 30; Corte di Giustizia UE, 5 marzo 2015, cit., punto 41 [22] Corte di Giustizia UE, 27 febbraio 2014, cit., punto 29. [23] Cass 15198 del 2019 cit. [24] ex multis, Cass., Sez. V, 31 ottobre 2018, n. 27822; Cass., Sez. V, 10 agosto 2016, n. 16923. [25] Corte Cost., 8 giugno 1984, n. 170 e successive; C.G.U.E., 22 giugno 1989, in causa C103/88, Fratelli Costanzo, punti 30 e 31; in materia tributaria, Sez. U, 12 aprile 1996, n. 3458.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 04 mar, 2022
“ Ne usciremo migliori ”. La frase è stata pronunciata dallo stesso personaggio pubblico che prima dell’arrivo della pandemia in Italia disse che eravamo “ prontissimi ”. Eppure non si tratta di un tizio di passaggio o di contorno della vita politica italiana, né di un soggetto incontrato casualmente al bar. Si tratta di colui che ha svolto il delicatissimo compito di governare il Paese – spesso a colpi di decreti solitari - durante lo tsunami di morti del 2020 e di inizio 2021. Al di là dei meriti e demeriti storici delle scelte governative italiane in materia di pandemia – che arrivati a questo punto interessano fino in fondo soltanto gli studiosi e le vittime “reali” della mancata prevenzione e delle carenze strutturali del sistema sanitario -, occorre chiedersi se è vero che ne siamo usciti migliori. Sicuramente non è vero che eravamo prontissimi. Non c’erano tamponi, né mascherine, né terapie intensive sufficienti, né protocolli sanitari adeguati. Qualcuno però ha sostenuto, non senza un minimo di fondamento filosofico, che la solidarietà sviluppatasi tra i cittadini nel periodo più buio avrebbe eliminato almeno nell’immediato futuro le zavorre più tipicamente italiche , tra cui furbizia opportunistica e ruberie. Forse è anche su questo presupposto di buona fede che il Governo Conte II, nel suo cosiddetto decreto rilancio ( d.l. n. 34 del 2020 ) aveva deciso di mettere un fiume di denaro pubblico a disposizione di chi avesse prima e meglio capito come “mungere” illecitamente lo Stato durante l’emergenza. L’ art. 121 del citato decreto-legge aveva infatti disposto che, per tutta una serie di interventi (spese per l’efficienza energetica, recupero o restauro della facciata di edifici esistenti, ecc.), le più che favorevoli detrazioni concesse dallo Stato avrebbero potuto essere fruite dai beneficiari anche tramite un credito d’imposta da cedere ad altri soggetti, senza presidi di garanzia (ad es.: visti di conformità) e senza limitazioni né sul numero di cessioni né sulla natura soggettiva dei cessionari. A sua volta, l’ art. 122 dello stesso decreto aveva disposto che i beneficiari dei crediti d’imposta introdotti per fronteggiare l’emergenza economica seguita alle misure restrittive dettate dall’emergenza epidemiologica potevano optare per la cessione, anche parziale, di tale credito ad altri soggetti, anche qui senza alcuna regola. E’ stata una manna dal cielo per i furbetti del Belpaese. Secondo un’indagine della Guardia di Finanza, la truffa era iniziata sfruttando il bonus locazione e individuando aziende in crisi o sull’orlo del fallimento che avessero in corso contratti di locazione. I truffatori entravano in queste società per assumerne la guida, ottenevano dall’Agenzia delle Entrate, come previsto dal bonus, l’erogazione del 60% dell’ammontare dell’affitto sotto forma di credito d’imposta e cedevano tale credito a una società compiacente che a sua volta lo rivendeva, ad un valore nominale inferiore, a un’ulteriore società, non necessariamente consapevole del primo illecito. Il credito, una volta “ripulito”, poteva essere utilizzato dall’azienda acquirente come detrazione sulle tasse da pagare. Allargando le maglie della truffa, e sfruttando la complicità di professionisti del settore, i furbetti sparsi per la penisola avevano cominciato a dichiarare lavori di ristrutturazione, a volte anche all’insaputa dei proprietari degli immobili coinvolti, che non erano mai stati eseguiti. Stesso sistema. Acquisizione di credito di imposta sui lavori e cessione, indiscriminata e a catena, di tale credito. Nel linguaggio intercettato degli imbroglioni di turno, i soldi diventano panzerotti , e il coronavirus una vittoria al superenalotto, così come fu all’epoca, per gli imprenditori che ci ridevano su, il terremoto che distrusse L’Aquila. Secondo il Direttore dell’Agenzia delle Entrate - Agenzia che per lungo tempo non ha goduto di alcun potere di intervento preventivo sulla cessione di questo tipo di crediti -, il sistema dei bonus edilizi all’italiana ha generato un valore di almeno 4,4 miliardi di crediti d’imposta inesistenti. Quattro virgola quattro miliardi di euro. Alla faccia del PNRR e della crisi. Il Governo attualmente in carica ha provato a metterci una pezza, dopo un intervento a novembre volto ad allineare la procedura su visti di conformità e asseverazioni di tutti i bonus edilizi a quella già prevista in materia di superbonus edilizio (con aliquota del 110%) , mediante il cosiddetto decreto sostegni ter . Il decreto legge n. 4 del 27 gennaio 2022 , in corso di conversione al Senato, ha infatti stabilito che il beneficiario delle detrazioni fiscali per gli interventi previsti dalla normativa sui bonus può ancora optare, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione spettante, per la cessione di un credito d’imposta di pari ammontare ad altri soggetti, ma tale credito non può poi successivamente essere nuovamente ceduto. I contratti di cessione del credito conclusi in violazione di questo divieto sono nulli. Il decreto legge in questione risulta però già superato da un ulteriore decreto legge (il n. 13 del 25 febbraio 2022 ). Secondo il comunicato stampa del 18 febbraio 2022 – visionabile sul sito istituzionale del Governo -, il nuovo provvedimento “ interviene per sbloccare il processo di cessione del credito dei bonus edilizi che ha subìto un rallentamento a seguito delle indagini in corso. La disposizione prevede che sarà possibile cedere il credito per tre volte e solo in favore di banche, imprese di assicurazione e intermediari finanziari e che lo stesso non possa formare oggetto di cessioni parziali successivamente alla prima comunicazione dell'opzione all'Agenzia delle entrate. A tal fine viene introdotto un codice identificativo univoco del credito ceduto per consentire la tracciabilità delle cessioni ”. Cosa significa? Come mai dopo soli venti giorni viene nuovamente stravolto il sistema della cessione del credito sui bonus , foriero di così tante truffe? E come è possibile scrivere una norma e riscriverla daccapo dopo appena due settimane, mentre il Parlamento neanche ha verificato gli effetti e la congruità della prima disposizione? Delle due l’una. O la norma è stata poco meditata in precedenza, o è stata riscritta su pressioni “esterne” dopo. Di fatto, in ogni caso, viene introdotta la possibilità di due ulteriori cessioni del credito, dopo la prima, ma soltanto se effettuate a favore di banche e intermediari autorizzati. Restando in tema di fritti, si potrebbe ironizzare sul fatto che i “panzerotti” sono stati semplicemente istituzionalizzati. Il Ministro dell'Economia e delle Finanze Franco, intervenendo in Parlamento il 3 marzo appena trascorso ai fini di "informativa del Governo sui bonus edilizi", dopo avere platealmente riconosciuto che il meccanismo introdotto dal Governo Conte II - e a lungo conservato dal Governo Draghi - aveva di fatto creato un mercato dei crediti non regolamentato e trasformato il relativo credito d'imposta in una sorta di titolo circolante , ha testualmente riferito che " il potenziamento delle agevolazioni edilizie e la facilitazione della cessione dei crediti di imposta miravano ad accrescere la qualità e l'efficienza energetica del patrimonio abitativo, e a sostenere il settore delle costruzioni. (...) L'intervento per le cessioni ha tuttavia consentito l'emergere di condizioni particolarmente permeabili a comportamenti illeciti. L'esito delle frodi e il potenziale danno per l'erario derivante dalle false cessioni ha assunto proporzioni estremamente rilevanti (...). La rilevanza e la diffusione delle frodi (...) ha imposto a tutela dei conti dello Stato e dei contribuenti l'attivazione di contromisure volte a contrastare e a prevenire i comportamenti illeciti, e contestualmente a consentire ai cittadini onesti di fruire della misura agevolativa ". (1) Nel frattempo, l’epidemia batte in ritirata, ma i vertici del nostro Ministero della Salute non ne traggono ancora le dovute conseguenze, nonostante perfino in televisione il problema covid è sparito in favore della più "interessante" (e spaventosa) guerra in Ucraina. Fioccano dichiarazioni in ordine alla prudenza e alle cautele da mantenere, mentre in molti Paesi del mondo, in primis l’Inghilterra - ma adesso anche la Francia e gli Stati Uniti del democratico Biden -, la maggior parte delle restrizioni della socialità sono ormai basate soltanto su scelte volontarie. Ma siamo ancora in stato di emergenza ? Nonostante l'attuale forte rallentamento della somministrazione dei booster vaccinali e le aperture generalizzate i numeri del contagio (compresi ricoveri e terapie intensive) continuano a calare, e così come la curva ascendente sembrava in precedenza insensibile alle misure prudenziali adottate, allo stesso modo oggi la curva discendente sembra insensibile al permanere delle stesse misure e alla minore incidenza, in termini assoluti, della somministrazione della terza dose di vaccino. Lasciando per un attimo da parte l’inutile obbligo delle mascherine all’aperto – adottato peraltro a singhiozzo nell’ultima fase della pandemia –, tutte le altre misure restrittive paiono restare in piedi soltanto in forza della permanenza dello stato di emergenza, prorogato per legge oltre i due anni dalla prima dichiarazione, fino al 31 marzo 2022 . Sgomberato il campo dagli equivoci sui vaccini – che sono risultati effettivamente molto efficaci nel limitare morti e terapie intensive dei soggetti più a rischio, meno efficaci nel preservare dal contagio -, e assodato che la variante omicron causa poco più di un'influenza e ha ormai contagiato la parte preponderante della popolazione (ma guai a parlare di immunità di gregge o di massa), sembra quasi che il mantenere o meno determinate misure restrittive (a partire dall’uso obbligatorio delle mascherine al chiuso) sia ormai legato ad un fatto puramente ideologico. Non è tanto più prudenza contro imprudenza – come era stata “catalogata” inizialmente la contrapposizione tra regole dall’opinione pubblica dominante, anche a seconda del colore dei Governi che affrontavano la pandemia -, quanto individualismo/liberalismo contro comunitarismo . Per chi ha aderito al criterio della massima prudenza sempre – un criterio tendenzialmente insensibile alla realtà dei numeri – la politica delle “boosterine” (ipotesi di neologismo che sta a indicare la combinazione cautelativa di mascherine e booster ), è diventata una specie di mantra non negoziabile. Eppure, occorrerebbe riflettere su alcuni dati interessanti, prima di scegliere da quale parte della barricata stare. Primo. E’ già da novembre del 2021 che la ricercatrice sudafricana che per prima ha identificato la variante omicron e la sua capacità di diventare dominante ha indicato tale variante come una probabile via di uscita dalla pandemia, a causa della sua scarsa aggressività e letalità, come confermato poche settimane dopo anche dal direttore dell'Africa Health Research Institute, il prof. Willem Hanekom (2) . Pare però che nell'immediato alcuni Governi europei e la cosiddetta comunità scientifica internazionale abbiano fatto pressione per non diffondere la notizia della tenuità dei sintomi causati dalla nuova variante. Secondo. Alcuni report dell’Istituto Superiore di Sanità hanno svelato che per la popolazione più giovane (cioè quella ricompresa tra i 12 e i 39 anni) non è stata provata un’efficacia della terza dose – quanto a riduzione del tasso di ospedalizzazione – significativamente superiore all’efficacia del ciclo primario di vaccinazione (due dosi effettuate da meno di 120 giorni). Successivamente, lo stesso ISS ci ha tenuto a smentire il dato (che era in realtà oggettivo), offrendone una particolare interpretazione di lettura. D’altra parte, diversi studi ipotizzano che la stimolazione ripetuta del sistema immunitario possa portare a una sua compromissione. E l’11 gennaio 2022 il capo della strategia vaccinale dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha espresso seri dubbi sulla somministrazione ripetuta delle dosi di richiamo, che potrebbero «sovraccaricare il sistema immunitario» (3) . In altri termini, il naturale processo di endemizzazione del virus, pronosticato già da un anno da un team di ricercatori statunitensi (4) , ci spinge prepotentemente a rivedere tutto l’armamentario protettivo concepito durante la pandemia, politica delle boosterine compresa. Sotto questo profilo, è stato argutamente detto che somministrare la terza dose è come giocarsi un jolly , a cui segue la fine delle fiches a nostra disposizione. Eppure, sul piano normativo, fare o non fare il booster comporta ancora rilevantissime conseguenze sulla vita quotidiana del singolo, in quanto, ai sensi del d.l. n. 221 del 24 dicembre 2021 , convertito, con modificazioni, dalla L. n. 11 del 2022, tutta una serie di attività sociali e lavorative (ivi compresa la possibilità di accesso ai luoghi di lavoro degli ultracinquantenni non vaccinati o non in possesso di un certificato di guarigione) sono interdette fino al 31 marzo 2022 - e fino al 15 giugno 2022 per i lavoratori ultracinquantenni -, ai soggetti che non siano in possesso del green pass rinforzato (che a sua volta si rinnova a tempo indeterminato soltanto se entro sei mesi si completa il ciclo vaccinale primario con la dose di richiamo, o terza dose, o booster che dir si voglia). Ma, mentre continuiamo a ragionare, almeno qui in Italia, sulla corretta via di uscita dalla battaglia contro il virus - battaglia da cui chi ne ha tratto e ne sta traendo profitto personale, politico ed economico non ha alcun interesse reale ad uscire -, la guerra, quella vera, portata da Putin nel cuore dell’Europa, ci offre un ulteriore spunto di riflessione su chi siamo e chi vogliamo diventare. Si dimostra ancora una volta errata la previsione di chi pensava che vivere eventi funesti debba provocare necessariamente un cambiamento positivo in noi. Al contrario, come suggeriva in tempi non sospetti Socrate, i cambiamenti non procedono mai dall’esterno verso l’interno ma sempre dall’interno verso l’esterno, e il fuori cambia solo se prima cambia il dentro. E cioè gli occhi con cui guardiamo la realtà.
Autore: a cura di Francesco Tallaro 02 mar, 2022
« Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano », si legge nella quarta strofa del Canto degli Italiani, scritto da Goffredo Mameli. Legnano è, quindi, l’unico comune italiano, esclusa – ovviamente – Roma, ad avere l’onore di essere citato nell’inno nazionale italiano. Ed in effetti la portata – nella storia patria, ma anche nella storia del diritto pubblico – della battaglia di Legnano, cui il canto si riferisce, è di primo piano. Il contesto è la contrapposizione tra l’imperatore Federico I Hohenstaufen, meglio noto come Barbarossa, e i Comuni italiani, che nella crisi del feudalesimo avevano trovato spazio politico e avevano via via acquisito autonoma potestà normativa, fiscale e giurisdizionale. Nel tentativo di restaurare il potere imperiale sull’Italia del nord, il Barbarossa valicò per cinque volte le Alpi con i suoi eserciti, ma l’ultima avventura bellica nella Penisola si concluse il 29 maggio 1176, allorché le milizie della Societas Lombardiae , la Lega Lombarda, sconfisse le truppe imperiali. L’imperatore fu quindi costretto, con la Pace di Costanza sottoscritta il 25 giugno del 1183, a concedere «l e regalie e le vostre consuetudini, tanto in città che fuori della città (…) in modo che nella stessa città abbiate tutto come finora lo avete avuto o lo avete; mentre fuori possiate praticare senza contrasto tutte le consuetudini che per tradizione avete praticato o praticate, per quanto riguarda il fodro e i boschi, i pascoli e i ponti, le acque e i mulini (…), l'esercito, le fortificazioni della città, la giurisdizione tanto nelle cause penali che nelle civili, all'interno e all'esterno, e le altre cose che si riferiscono al buono stato delle città ». In sostanza i Comuni acquisirono un’ampia autonomia quanto alla propria organizzazione, anche militare, rispetto alla gestione delle risorse del territorio, e finanche nell’esercizio dello ius dicere in materia civile e penale. La rievocazione di una battaglia di cui le nebbie del tempo non hanno cancellato il ricordo testimonia come la natura e le caratteristiche delle autonomie comunali italiane rappresentino una questione complessa nella teoria generale dello Stato. I comuni preesistono a qualsiasi forma di Stato moderno. E tuttavia, una concezione monolitica, kelseniana dello Stato non può che inquadrarli come articolazione dell’unica, originaria struttura amministrativa statale; articolazione la cui autonomia si sviluppa esclusivamente nell’ambito delle attribuzioni di competenza operate dalla legge. Invece, una ricostruzione pluralistica degli ordinamenti, secondo la teorizzazione di Santi Romano, restituisce ai Comuni, anche sul piano teorico, quello spazio di autonomia conquistato sul campo della Storia . Al primo modello sembra riconducibile la struttura delineata dallo Statuto albertino , che dei Comuni si occupa solo all’art. 74 per attribuire alla legge (statale) il compito di regolare «le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei comuni e delle provincie». Al secondo modello si rifà apertamente la Costituzione repubblicana , che fin dall’ art. 4 , «riconosce» (verbo dall’evidente peso specifico) e promuove le autonomie locali e impegna l’ordinamento ad adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento [1] ; e che, con la riforma, nel 2001, del Titolo V della Costituzione, vede le Autonomie locali riconosciute come componente costitutiva, insieme allo Stato, della Repubblica. Cartina al tornasole della concezione degli Enti locali è l’ampiezza del potere regolamentare ad essi riconosciuto [2] . Va premesso, in proposito, che già sotto l’ordinamento statutario si ritenevano ammissibili sia i regolamenti comunali che si riferissero all’organizzazione e ai mezzi di attività dei propri uffici, sia i regolamenti che stabilissero limitazioni alla libertà e alla proprietà dei singoli (i c.d. regolamenti di polizia), soprattutto in materia di edilizia, polizia urbana, igiene e sanità [3] . Nel regime costituzionale, come risultante dalle riforme del 2001, è dato acquisito che i Comuni siano enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione ( art. 114, comma 2 ); e che abbiano potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite ( art. 117 ), con la particolarità che funzioni amministrative debbono essere di regola attribuite ai Comuni, salvo che non emerga la necessità di attribuirle a un livello di governo più esteso ( art. 118 ). La posizione dei Comuni nell’ordinamento, peraltro, non è argomento che riguardi solo i teorici del diritto; dalla ricostruzione adottata possono dipendere anche rilevanti effetti pratici, come risulta evidente dallo studio della sentenza dello scorso 29 novembre 2021 pronunciata dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia , sede di Milano [4] . Il giudice amministrativo, nel caso di specie, è stato chiamato a decidere del ricorso proposto da un fumatore e dal titolare di una rivendita di tabacchi contro il Regolamento per la qualità dell’aria, adottato dal Consiglio comunale di Milano . Con esso, l’assemblea elettiva meneghina ha previsto, con decorrenza dal mese di gennaio 2021, il divieto di fumo nei parchi e nei giardini comunali, presso le fermate dei mezzi pubblici, nelle aree cimiteriali e nelle strutture sportive della città; divieto che, dal 1° gennaio 2025 è esteso a tutte le aree pubbliche o ad uso pubblico, ivi incluse le aree stradali. Per quel che rileva ai fini del presente commento, i ricorrenti, rivolgendosi al Tribunale Amministrativo Regionale, hanno contestato in radice il potere dell’Ente comunale di regolare una materia afferente alla tutela della salute, attribuita dalla Costituzione alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni. A dire di parte ricorrente, infatti, il legislatore, con l’ art. 50 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 , recante il Testo Unico degli Enti Locali, avrebbe sì attribuito ai Comuni limitati poteri di regolamentazione in tema di salute pubblica, ma nei soli casi di sussistenza di un’emergenza sanitaria. Inoltre, le disposizioni contestate sarebbero illegittimamente lesive della libertà personale, tutelata dall’art. 13 Cost., e della libertà di iniziativa economica privata, presidiata invece dall’art. 41 Cost. La sentenza in commento ha affrontato le questioni proposte riconducendo correttamente la vicenda contenziosa ai principi di autonomia degli Enti locali , di cui la potestà normativa rappresenta riflesso, e ricollegando il potere di regolazione alla rappresentatività di cui i Consigli comunali, cui spetta di adottare i regolamenti, sono dotati. In sostanza, ribadita la necessaria osservanza del principio di legalità da parte dell’amministrazione in quanto titolare di poteri autoritativi che, imponendosi ai destinatari, devono necessariamente rinvenire il presupposto legittimante nella volontà popolare espressa attraverso le leggi, viene sottolineato il diverso modo di atteggiarsi del principio di legalità, allorché vengano in rilievo le Autonomie locali. In tali casi, il principio subisce un temperamento che è strettamente correlato al riconoscimento costituzionale dell’autonomia e, quindi, alla loro rappresentatività, insita nel fatto che l’organo di base negli enti in questione è anch’esso eletto. Tali argomentazioni sarebbero forse bastate per ritenere che il Comune di Milano sia competente a imporre il divieto di fumo, adottando una regolamentazione più restrittiva di quella vigente sul restante territorio nazionale. Nondimeno, il Tribunale ha ancorato l’esercizio di potere regolamentare anche all’espressa previsione legislativa di cui all’ art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000 . Il comma 5 di tale articolo disciplina il potere sindacale di ordinanza contingibile e urgente , autorizzando l’adozione di tali atti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, nonché al fine di superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o, ancora, di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti. Il successivo comma 7-ter , invece, prevede che nelle materie appena specificate «i Comuni possono adottare regolamenti ». Sulla base di tali previsioni, è opinione del TAR Lombardia che il potere regolamentare del Comune non possa essere riduttivamente interpretato nel senso di limitare l’esercizio del predetto potere ai casi di «urgente necessità»; piuttosto, il potere d’intervento si estrinseca con lo strumento regolamentare per disciplinare le funzioni volte a fronteggiare le «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana»; rimanendo lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente riservato alle situazioni che richiedono una «urgente necessità d’interventi». Il potere regolamentare comunale, quindi, ben radicato nel tessuto costituzionale, trova nella materia specifica anche fondamento in una legge dello Stato, cosicché perdono di consistenza anche le censure volte a far emergere una – insussistente – illegittima compressione della libertà personale e della libertà di iniziativa economica. [1] Per un approfondimento, si rinvia a E. Giardino, voce Regolamenti comunali, in Digesto discipline pubblicistiche, agg. Tomo II, 2008 [2] Su cui si rinvia a M.Alì, voce regolamenti degli Enti territoriali, in Enciclopedia del diritto, agg. VI, 2002; si v. anche M. C. Romano, Regolamenti dei Comuni (I agg.), in Digesto delle Discipline pubblicistiche, 2015 [3] G. Zanobini. Voce Regolamento, in Nuovo Digesto Italiano, 1939, p. 320 [4] Sentenza n. 2631 del 2021
26 feb, 2022
Tribunale ordinario di Milano - VI Sezione penale, ordinanza del 27 gennaio 2022 nel p.n. 11850/2021 reg. dib. IL CASO E LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE Un soggetto viene chiamato a rispondere del reato di cui all' art. 38 del R.D. 773/1931 perché, quale detentore di alcune armi, già regolarmente custodite presso la propria abitazione, come da prima denuncia tempestivamente presentata presso la Stazione Carabinieri di competenza, aveva omesso di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza il trasferimento di dette armi, in data successiva, presso la propria nuova residenza. Alla prima udienza dibattimentale, la difesa dell’imputato ha avanzato richiesta di definizione del processo mediante oblazione, ai sensi dell’ articolo 162 bis cod. pen. , e il Giudice, rilevando l’insussistenza di elementi ostativi di carattere oggettivo o soggettivo, ha determinato la somma da corrispondere in euro 103 (metà della sanzione massima prevista dal combinato disposto degli articoli 38 e 17 r.d. 773/1931 ), oltre spese di rito. Successivamente, è stata richiesta la declaratoria di estinzione del reato e la restituzione degli otto fucili da caccia e da tiro sportivo in sequestro, anche in virtù dell’assenza di precedenti dell’imputato, della sua titolarità di porto di fucile, e del fatto che sia stato lo stesso imputato a segnalare all’Autorità di pubblica sicurezza quanto poi contestatogli. Il Tribunale di Milano, a fronte di una giurisprudenza granitica della Corte di Cassazione, secondo cui nel caso di specie sussisterebbe una ipotesi di confisca obbligatoria delle armi il cui trasferimento non era stato denunciato, da ritenersi necessaria anche nel caso di declaratoria di estinzione del reato per qualsiasi causa - e dunque anche nel caso di oblazione -, e restando la stessa esclusa solo nelle ipotesi di assoluzione nel merito dell’imputato o di appartenenza dell'arma a persona estranea al reato medesimo, ha dubitato della costituzionalità di siffatta interpretazione delle norme di interesse. In particolare, l’ art. 6 della legge n. 152/1975 – che recita testualmente che “ il disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi ” - sarebbe illegittimo, secondo il Giudice procedente, per contrasto rispetto ad una pluralità di disposizioni della Carta, sotto due distinti profili: a) in ordine alla possibilità da parte del Giudice di disporre la confisca delle armi anche in assenza di una pronuncia di condanna (o ad essa equiparabile), e in particolare tramite una pronuncia con la quale ci si limiti a dichiarare l’estinzione del reato per oblazione; b) in ordine alla natura obbligatoria della confisca e all’assenza di rimedi in capo all’imputato per evitarla, anche nel caso di ipotesi contravvenzionali. L’obbligo di disporre tale confisca anche in assenza di una pronuncia di condanna (e nello specifico anche nel caso di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per oblazione), sebbene non strettamente imposto dal dato testuale - atteso che la richiamata disposizione di cui all’ art. 240, comma 2 del codice penale prevede una pluralità di ipotesi di confisca, una sola delle quali da disporre “anche se non è stata pronunciata condanna”, ovvero l’ipotesi di cui al comma II n. 2) - costituirebbe “ diritto vivente ”, costantemente ribadito, da decenni, dalla Corte di legittimità. Tuttavia, il Tribunale di Milano ritiene che l’art. 6 della L. n. 152 del 1975, così interpretato, sia in contrasto, innanzitutto, con l’ art. 27 II co. Cost. e 11, 117, primo comma, Cost. , in relazione all’art. 6 par. 2 della CEDU e 48 della CDFUE (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), che sanciscono una presunzione di innocenza dell’imputato fino all’accertamento della sua colpevolezza, e con gli articoli 42 II co. Cost. e 11, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e 17 della CDFUE, che tutelano e garantiscono la proprietà privata . L’obbligatorietà della confisca e l’assenza di qualsiasi rimedio riconosciuto all’imputato per poter evitare il pregiudizio del proprio patrimonio, inoltre, anche nel caso di contravvenzioni connotate da minima offensività come quella prevista dall’art. 38 r.d. n. 778/1931, contrasterebbero, ad avviso del Giudice di merito, con gli articoli 3, 27, 42 Cost., nonché 11, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 1 Primo protocollo addizionale CEDU, 17 e 49 CDFUE, che, nel riconoscere e tutelare la proprietà privata, impongono al legislatore di prevedere che le sanzioni, di carattere penale o anche solo amministrativo, che incidono su beni tutelati dall’ordinamento costituzionale o convenzionale, siano ragionevoli, individualizzanti e proporzionate in rapporto alla gravità del fatto e alla personalità del reo, e che le stesse siano altresì congrue e coerenti rispetto agli scopi perseguiti dal legislatore. IL REATO E L’IPOTESI DI CONFISCA L’ art. 17 del r.d. n. 773 del 1931 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede che, salvo quanto previsto dall'art. 17-bis, le violazioni alle disposizioni del testo unico , per le quali non è stabilita una pena od una sanzione amministrativa, ovvero non provvede il codice penale, sono punite con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a lire quattrocentomila. Tra le ipotesi che rientrano in tale tipologia “aperta” di reato contravvenzionale, vi è anche quella desumibile dal combinato disposto del primo e ultimo comma dell’ art. 38 del r.d. n. 773 del 1931 , secondo cui chiunque detiene armi da fuoco, parti di esse, munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve farne denuncia entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità, all'ufficio locale di pubblica sicurezza, o comunque nelle 72 ore successive al trasferimento dell’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia. Si tratta di un reato di mera condotta (di inazione consapevole, si direbbe), consistente nell’omesso rispetto di una regola di comportamento stabilita dall’ordinamento, con condotta che si traduce in una inerzia che rileva in senso assoluto, a fronte di un obbligo stabilito dalla legge a tutela del sensibile interesse alla difesa dell’incolumità pubblica e privata. In questo caso, in realtà, la violazione penalmente rilevante può prescindere addirittura dalla detenzione illecita, in quanto il possesso di armi da fuoco potrebbe essere già stato nel frattempo autorizzato (ad esempio, tramite licenza di porto di fucile per uso di caccia), e in ogni caso la denuncia deve essere effettuata entro il termine stabilito dalla legge. D’altra parte, in termini più generali, non esclude il dolo del delitto di detenzione illegale di arma l'erroneo convincimento dell'agente circa l'obbligo di denunciare il possesso dell'arma all'autorità competente, trattandosi di errore su norme che integrano il precetto penale e che dunque non possono essere ricondotte alla disciplina di cui all' art. 47, comma 3, c.p. , così come, in caso di morte del soggetto che ha denunciato il possesso di un'arma alla competente autorità, grava sull'erede l'obbligo di ripetere tale denuncia, perfino quando l'accettazione dell'eredità sia avvenuta con beneficio di inventario, che ha il solo effetto di tenere separati, ai fini civilistici, il patrimonio del de cuius e quello dell'erede. A maggior ragione, nell’ipotesi in cui sussista il mero trasferimento dell’arma denunciata, la denuncia va immediatamente ripetuta, pur in presenza di una regolare licenza. La ratio di tutela è dunque, in modo ancora più radicale e preventivo di quanto ordinariamente giustificato dal principio di offensività – in termini di protezione del bene-interesse di rilievo –, quella connessa a ineludibili motivi di ordine pubblico , secondo cui è necessario conoscere, con l’immediatezza imposta dall’importanza della notizia, sia chi è il detentore dell'arma sia il luogo nel quale l'arma è detenuta, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza, e ciò in funzione della necessità di intervenire tempestivamente, laddove le circostanze lo richiedano. D’altra parte, la "buona fede" potenzialmente e implicitamente ravvisabile nell'omissione consistente nel non denunciare una seconda volta la medesima detenzione già denunciata sottintende anche quell'inescusabile ignoranza della legge penale, che rende altrettanto indifferente ai fini dell'eventuale condanna un'analoga buona fede nell'omissione della prima denuncia. Sussiste peraltro un profilo di dubbio di ragionevolezza della sanzione penale in rapporto al rilievo secondo cui il luogo di trasferimento dell'arma, in caso di trasferimento della residenza di chi già ne abbia inizialmente denunciata la detenzione, può essere di regola accertato attraverso gli uffici anagrafici, ma il suddetto rilievo, oltre a scontrarsi con una realtà fattuale che non sempre corrisponde ad un funzionamento ottimale dell’amministrazione pubblica nel suo insieme, si contrappone anche alla esigenza irrinunciabile - in vista dell'esercizio di altri poteri, come quelli previsti negli artt. 39 e 40 regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 -, che l'autorità locale di polizia sia posta in grado di conoscere tempestivamente quali e quante armi si trovano nel territorio di propria competenza, i luoghi della connessa detenzione ed i nominativi dei rispettivi detentori. Del resto, solo un controllo locale, periferico e capillare, può rivelarsi in grado, almeno in via di principio, di soddisfare la necessità di avere strumenti effettivi di controllo in tema di armi, munizioni e materie esplodenti, e la razionalità di tale esigenza sembra far rientrare la normativa de qua negli ambiti di quella discrezionalità legislativa nella determinazione delle pene che non è sindacabile in sede di legittimità costituzionale. Diversa questione afferisce alla congruità della norma contestata dal Giudice a quo in materia di confisca , ovvero l’ art. 6 della legge n. 152/1975 , che prevede, come visto, che “Il disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi”. Detta norma, come pacificamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, impone, nel caso di contestazione di un qualsiasi delitto o contravvenzione “concernente le armi”, la confisca obbligatoria delle stesse, pur nel caso di dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta oblazione. E’ un’ipotesi di confisca che ha natura sanzionatoria , in quanto strettamente legata alla commissione astratta di un fatto costituente reato, disposta da un Giudice penale all’esito di un procedimento penale e avente funzione ablatoria di beni acquisiti in modo legittimo dall’imputato, da questi legittimamente detenuti e, in ipotesi, ulteriormente detenibili regolarmente, con una mera comunicazione all’Autorità di P.S.. D’altra parte, il rispetto di uno statuto minimo di garanzie di carattere sostanziale e processuale si estende a qualsiasi misura che comprima diritti costituzionalmente tutelati (come il diritto di proprietà ), anche se tale misura sia di carattere amministrativo, e l’effetto ablativo di beni di proprietà del singolo avviene, nel caso di specie, in conseguenza di una pronuncia (quella dichiarativa dell’estinzione del reato per oblazione) che non presuppone un accertamento pieno in ordine alla sussistenza del reato e alla responsabilità dell’imputato. Al riguardo, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che gli articoli 7 e 6 par. 2 della Convenzione Edu impongono che una pronuncia ablatoria venga adottata con una sentenza di “condanna” o comunque a seguito di un accertamento garantito , non essendo sufficiente, ad esempio, una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato, a meno che la stessa non sia stata preceduta da un accertamento equivalente ad una pronuncia di condanna, per la sua latitudine e modalità di formazione. Ma ciò presupporrebbe un vero e proprio giudizio caratterizzato dalla partecipazione in contraddittorio delle parti, non ravvisabile nel rito nostrano di oblazione . E’ vero invece che la contravvenzione prevista dall’art. 38 del r.d. n. 773 del 1931, nella sua versione meno offensiva (ritardata nuova denuncia dopo il trasferimento di arma legittimamente detenuta e già in precedenza denunciata), pur essendo un reato “concernente le armi” - secondo il disposto della norma di cui il Tribunale ha posto in discussione la legittimità costituzionale -, non sorregge, in termini di proporzionalità e ragionevolezza , una ulteriore automatica sanzione (confisca punitiva), senza consentire al Giudice di valutare concretamente le diverse circostanze del caso prima di applicare la misura afflittiva aggiuntiva, sul piano sostanziale e processuale della condotta accertata, della personalità del reo, della concreta previsione sul suo futuro comportamento. D’altra parte, nel caso esaminato dal Tribunale rimettente, dovrebbe applicarsi un’ipotesi di confisca obbligatoria nei confronti di un soggetto che non solo potrebbe legittimamente acquistare altre armi, ma che continua anche ad essere titolare di licenza e che dunque deve ritenersi offra sufficienti garanzie di affidabilità sul piano della sicurezza pubblica, fatte salve le ulteriori valutazioni sulla permanenza dei requisiti di “fiducia”, a seguito della mancata comunicazione, da parte dell’autorità amministrativa competente. Resta in ogni caso forse aperto uno spiraglio interpretativo – ma questo è un punto che solo la Corte costituzionale potrà chiarire –, in base al quale il richiamo al disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale fatto dall’art. 6 della L. n. 152 del 1975 debba essere inteso, nel caso in cui manchi una vera e propria condanna, soltanto alla confisca di cose la cui mera detenzione costituisca reato, con esclusione, dunque, di tutte quelle cose già detenute lecitamente e a cui si riconnettono soltanto obblighi di comunicazione penalmente sanzionati.
21 feb, 2022
Tribunale di Napoli – Settima Sezione Civile, ordinanza del 3 febbraio 2022 nel ricorso n. r.g. 21817/2021 IL CASO E LA DECISIONE Il 3 agosto del 2021 l’assemblea degli iscritti all’Associazione MOVIMENTO 5 STELLE ha deliberato la modifica dello statuto associativo. Il successivo 5 agosto 2022, sulla base delle modifiche appena approvate, è stato nominato il Presidente dell’ente, nella persona dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Contestualmente, a seguito della modifica statutaria, il Presidente dell’Associazione è divenuto un vero e proprio organo – dotato di poteri e competenze autonome – e l’automatica esclusione della partecipazione degli iscritti da meno di sei mesi, prima prevista soltanto per le “consultazioni” di cui all’art. 4 del vecchio statuto, è stata estesa anche alle assemblee dell’associazione, senza più la necessità che ciò fosse disposto ad hoc sulla base di un regolamento adottato dal comitato di garanzia su proposta del comitato direttivo. Tre iscritti del “movimento” hanno tuttavia impugnato e chiesto la sospensione delle sopra citate deliberazioni di modifica dello Statuto in data 2/3 agosto 2021 e di nomina del Presidente in data 5/6 agosto 2021, ai sensi dell’ art. 23 del codice civile . Secondo i ricorrenti, l’assemblea del 3 agosto 2021 era stata erroneamente indetta, con l’esclusione dall’assemblea stessa degli iscritti da meno di 6 mesi. Tale esclusione era avvenuta sulla base dell’art. 4, lett. c) dello statuto all’epoca vigente, che avrebbe però disciplinato, come visto, le modalità di effettuazione delle “consultazioni” e non delle assemblee degli iscritti dell’associazione. L’esclusione degli iscritti da meno di sei mesi dall’assemblea, in effetti, statuto alla mano, avrebbe potuto essere deliberata, in quel frangente, e prima delle modifiche, soltanto sulla base di un “regolamento adottato dal Comitato di Garanzia, su proposta del Comitato direttivo”, di cui non vi era traccia negli atti processuali. Il Giudice di merito adito, in sede cautelare, non ha accolto la domanda di sospensione delle delibere impugnate. In fase di reclamo, peraltro, il Tribunale di Napoli – stavolta in composizione collegiale – ha dato ragione ai ricorrenti, aderendo alla loro interpretazione giuridica, e pervenendo alla conclusione che la delibera assembleare di modifica dello statuto dell’Associazione MOVIMENTO 5 STELLE del 3 agosto 2021 sia stata adottata in assenza del quorum richiesto dalla disciplina applicabile ratione temporis . A quell’epoca – prima cioè dell’approvazione delle modifiche allo statuto associativo - per escludere dalla partecipazione assembleare gli iscritti da meno di sei mesi occorreva, come visto, l’adozione di un apposito regolamento, e tale ipotesi di esclusione non avrebbe potuto dunque essere assimilata a quella “automatica” di cui all’art. 4, prevista per le consultazioni, anche perché, in seguito, la suddetta assimilazione ha avuto necessità di un’espressa modifica statutaria, con l’introduzione del nuovo art. 10. Nello statuto così modificato, invero, è prevista per le assemblee dell’associazione resistente l’automatica esclusione della partecipazione degli iscritti da meno di sei mesi, analogamente a quanto disposto per le “consultazioni” (di cui all’art. 4 del vecchio statuto), e non vi è più la necessità che ciò sia disposto sulla base di un regolamento adottato dal comitato di garanzia su proposta del comitato direttivo. Secondo il Tribunale, l’illegittima restrizione dalla platea dei partecipanti all’assemblea del 3 agosto 2021 (con l'esclusione degli iscritti all’associazione MOVIMENTO 5 STELLE da meno di sei mesi) ha determinato l’alterazione del quorum assembleare nella deliberazione di modifica del proprio statuto, in quanto tale delibera risulta adottata sulla base di un’assemblea formata da soli 113.894 iscritti in luogo dei 195.387 associati iscritti a quella data. Vi è dunque stata un’illegittima esclusione di 81.839 iscritti all’ente dal quorum costitutivo e deliberativo, numero che peraltro è risultato maggiore di quello degli associati che hanno poi partecipato all’assemblea. La partecipazione di un numero di iscritti inferiore a quello richiesto in prima convocazione (metà più uno) determina dunque, secondo il Giudice adito, la violazione delle disposizioni contenute nello statuto dell’associazione e dunque, ai sensi dell’art. 23 c.c., il possibile annullamento, su domanda di qualunque associato, della relativa deliberazione. L’invalidità della delibera della modifica statutaria ricade a sua volta negativamente sulla legittimità della delibera del 5 agosto 2021 con cui è stato nominato il presidente dell’ente, figura che prima della modifica invalida neppure esisteva. Considerando peraltro la fase in cui si è trovato a doversi pronunciare (cautelare e non di merito), il Tribunale partenopeo ha dovuto verificare anche se sussistessero i “ gravi motivi ” che ai sensi dell’art. 23 c.c. giustificano la sospensione cautelare degli atti impugnati. La risposta è stata positiva. Secondo i giudici, la persistente efficacia della delibera che ha illegittimamente modificato l'ordinamento dell’associazione, così come la permanenza in carica di un organo invalidamente nominato, comportano dei pregiudizi molto rilevanti per la stabilità della stessa organizzazione associativa. E la convergenza dell’interesse degli associati con l’istituzionale interesse dell’associazione al suo regolare funzionamento, ivi incluso il rispetto delle regole statutarie che nel loro insieme ne sovraintendono la forma, lo scopo e l’agire, deve considerarsi prevalente rispetto ad un presunto interesse alla “attuale” stabilità dell’ente, specie se ciò si fonda, come nel caso di specie, su comportamenti che risultano contrari alle regole che fondano l’esistenza stessa dell’associazione. LA NORMA INVOCATA. RIFLESSI SOSTANZIALI E PROCESSUALI L’ art. 23 del codice civile – norma dettata in materia di impugnazione degli atti di fondazioni e associazioni -, così dispone: “ Le deliberazioni dell'assemblea contrarie alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell'ente, di qualunque associato o del pubblico ministero. L'annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima. Il presidente del tribunale o il giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell'associazione, può sospendere, su istanza di colui che ha proposto l'impugnazione, l'esecuzione della delibera impugnata, quando sussistono gravi motivi. Il decreto di sospensione deve essere motivato ed è notificato agli amministratori. L'esecuzione delle deliberazioni contrarie all'ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall'autorità governativa ”. Sebbene la norma richiamata faccia riferimento alle deliberazioni dell'assemblea, dottrina e giurisprudenza sono consolidate nel ritenere ammissibile l'impugnazione di delibere anche di organi diversi dall'assemblea, allorché siano tali da incidere sulla struttura e sull'ordinamento della associazione o sui diritti degli associati. Altro principio consolidato è quello in forza del quale le decisioni dell'assemblea e degli altri organi di un'associazione possono essere annullate nei limiti di motivi di legittimità (contrarietà alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto) e non di merito, al fine di impedire ingerenze nell'esercizio del diritto di liberamente associarsi. Invero, la disciplina dell'annullamento di cui all'art. 23 c.c. si ritiene frutto di una scelta legislativa di conversione delle cause di nullità in cause di annullabilità per salvaguardare la volontà della maggioranza assembleare e degli altri organi dell'associazione, fatte salve le ipotesi di delibere che, per vizi talmente gravi da privare l'atto dei requisiti minimi essenziali, siano affette da radicale nullità od inesistenza , denunciabile in ogni tempo, da qualsiasi interessato. Quanto al profilo della legitimatio ad causam , l'art. 23 c.c., comma 1, in tema di associazioni, attribuisce tale legittimazione ad un numero limitato di soggetti, tra i quali non rientra l'associazione stessa. Sotto questo profilo, la disciplina risulta sostanzialmente analoga a quanto era previsto dall'art. 2377 c.c. - nel testo vigente anteriormente alle modifiche apportate dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 - che prevedeva in ambito societario al comma 1 che "Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale." In relazione all'ambito societario, è stato chiarito che " L'art. 2377 c.c. (anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 6 del 2003) non annovera tra i soggetti legittimati all'impugnazione di una deliberazione assembleare la società dalla quale tale deliberazione promana, attribuendo tale norma la legittimazione, oltre che ai soci assenti o dissenzienti, agli amministratori o ai sindaci della società stessa. La società è legittimata passiva nel giudizio di impugnazione, proprio perché da essa promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell'impugnazione, e sarebbe quindi inammissibile attribuirle la legittimazione ad insorgere giudizialmente contro la sua stessa volontà " (Cass. n. 17060 del 05/10/2012). Tale principio, sempre secondo la Cassazione, trova applicazione anche in tema di associazioni, in quanto l'art. 23 c.c. non annovera tra i soggetti legittimati all'impugnazione di una deliberazione assembleare l'associazione dalla quale tale deliberazione promana, attribuendo tale norma la legittimazione, oltre che a qualunque associato, agli organi dell'ente stesso ed al pubblico ministero. E questo, perché l'associazione è legittimata passiva nel giudizio di impugnazione, proprio perché da essa promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell'impugnazione, e sarebbe quindi inammissibile attribuirle la legittimazione ad insorgere giudizialmente contro la sua stessa volontà. Ciò non toglie, peraltro, che, come nel caso esaminato dal Tribunale di Napoli, l’elemento che risulta condizionante l’impugnazione delle delibere dell’associazione che violano lo statuto ai sensi dell’art. 23 c.c. da parte di “qualunque” associato non è l’interesse del singolo associato ovvero un suo particolare pregiudizio conseguente all’adozione della delibera, bensì l’interesse dell'associazione al suo regolare funzionamento, di cui il singolo associato si fa “strumento”. In effetti, laddove vi siano violazioni dello statuto, ciascun partecipante all’ente avrà il diritto di reagire alle delibere che ne sono il frutto in quanto ciò rappresenta, appunto, l’interesse della stessa associazione. Anche sotto un diverso profilo, più squisitamente processuale, la centralità nella norma de qua dell’associazione e del suo regolare funzionamento dovrebbe condizionare in modo decisivo la competenza territoriale del Giudice dell’impugnazione, radicandola - come ordinariamente previsto - presso la sede dell’associazione stessa. Tuttavia, nel caso esaminato dal Tribunale partenopeo, la questione della competenza territoriale della causa di merito non ha avuto rilievo, in quanto si trattava di giudizio cautelare proposto in corso di causa . Premesso che le regole contenute negli artt. 669 bis e ss. c.p.c. si applicano a tutti i provvedimenti cautelari in modo generale, ivi compresi quelli contenuti nelle leggi speciali e nel codice civile – e dunque anche all’ipotesi di domanda di sospensione delle delibere impugnate ex art. 23 c.c.. -, quando la domanda cautelare è proposta in corso di causa, competente a conoscerla può essere soltanto il giudice dinanzi al quale – di fatto - pende la causa di merito. La norma citata individua infatti la competenza “per relationem”, a prescindere dal fatto che la competenza territoriale venga poi disattesa nella causa di merito, e con unico riferimento alla “attuale” investitura del giudice della causa di merito. D’altra parte, il provvedimento cautelare non perde efficacia nel caso di dichiarazione di incompetenza da parte del giudice del merito, cui faccia seguito la tempestiva riassunzione.
Autore: Federico Smerchinich e Roberto Lombardi 18 feb, 2022
Le nomine dei vertici della Corte di Cassazione, dopo Consiglio di Stato, Sez. V, 14.01.2022, nn. 267-268 LE SENTENZE (a cura di Federico Smerchinich) Ha fatto molta eco la notizia secondo cui il Supremo Consesso della giustizia amministrativa avrebbe di fatto "sconfessato" la scelta operata dal CSM con riferimento ai magistrati ritenuti idonei a ricoprire i due posti direttivi apicali della Corte di Cassazione. Nello specifico, uno dei candidati esclusi dall'incarico di vertice messo a bando ha contestato la legittimità delle nomine, ponendo in discussione le valutazioni fatte dall’Organo di autogoverno della magistratura ordinaria e le conclusioni a cui esso è addivenuto alla luce di dati esperienziali, qualitativi e temporali che avrebbero dovuto portare ad altri esiti. In questa sede, è interessante vedere in sintesi quale è il contenuto di queste decisioni e capire la loro portata, anche alla luce del fatto che, recentemente, il CSM ha riesercitato il proprio potere, confermando, con diversa motivazione, le due nomine censurate dal Consiglio di Stato. Il fatto e le decisioni Il Consiglio Superiore della Magistratura, nell’ambito di una procedura comparativa tra diversi candidati, ha scelto con voto unanime della Commissione due nomi per ricoprire due importanti incarichi direttivi presso la Corte di Cassazione: Primo Presidente della Corte di Cassazione e Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione . In sede di plenum , poi, tali incarichi sono stati confermati, questa volta non più all’unanimità. Avverso dette delibere, ha proposto ricorso al TAR Lazio un altro magistrato, che aspirava agli incarichi direttivi di cui sopra. In primo grado, tuttavia, i ricorsi sono stati respinti. Non soddisfatto della decisione, il magistrato escluso dalla nomina ha appellato le sentenze del TAR Lazio, deducendo una serie di motivi volti a colpire, in particolare, l’agire discrezionale del CSM che, a suo dire, avrebbe erroneamente interpretato la norma del d.lgs. n. 160/2006 sul conferimento di funzioni e scorrettamente applicato alcune disposizioni del testo unico sulla dirigenza giudiziaria; l'Organo di autogoverno sarebbe inoltre incorso in un manifesto eccesso di potere, fornendo una motivazione carente. Il Consiglio di Stato, nel procedere all'esame dei ricorsi, si è soffermato inizialmente sulle questioni di rito, ritenendo ammissibili i gravami e rigettando le eccezioni sulla non specificità dei motivi di appello, sull’impossibilità di sindacare il merito amministrativo della scelta del CSM e sulla mancata contestazione della valutazione espressa dal CSM stesso. Superati tali aspetti preliminari, il giudice di secondo grado è entrato nel merito della vicenda, ritenendo fondati i gravami. Difatti, sono stati accolti i motivi volti a censurare il procedimento valutativo e motivazionale posto in essere dal CSM, nonché l’utilizzo dei criteri di cui al testo unico della dirigenza giudiziaria. In particolare, il candidato escluso dalle nomine aveva contestato al CSM di avere trascurato gli indicatori di professionalità: non sarebbe stato correttamente valorizzato il fatto che l'interessato aveva esercitato le funzioni di legittimità per più tempo rispetto ai magistrati nominati; vi sarebbe stato un errore nel valutare le esperienze giudiziarie ed ordinamentali dei controinteressati, così come non sarebbe stato valorizzato il numero di sentenze, redatte in veste di estensore in Sezioni Unite dal magistrato "perdente", che risulta oggettivamente maggiore rispetto a quelle dei magistrati nominati; infine, il CSM avrebbe errato nell’individuare i requisiti preferenziali per accedere alla nomina. Nel dettaglio, l’appellante ha dedotto che sarebbe stato dato maggiore valore all’esperienza come Presidente della Sezione filtro della Corte di Cassazione, cioè una Sezione priva di potere nomofilattico, o come componente del CSM, rispetto alle funzioni ordinamentali ed organizzative svolte dall'appellante stesso presso le Sezioni nomofilattiche o l’Ufficio del Massimario. Infine, è stata censurata la circostanza secondo cui non sarebbe stata svolta alcuna disamina incrociata tra i candidati rispetto ai profili e criteri indicati nel testo unico sulla dirigenza giudiziaria. Il Consiglio di Stato, prima di esporre i motivi della sua decisione, favorevole al ricorrente in primo grado, si è soffermato sulla descrizione del quadro giuridico di riferimento, evidenziando che il testo unico sulla dirigenza giudiziaria è da ritenersi un atto amministrativo di autovincolo nella futura esplicazione della discrezionalità, e non un atto normativo in senso stretto (1) . Di conseguenza questo testo non porrebbe delle vere e proprie norme, ma piuttosto dei criteri per l’esercizio della discrezionalità, con la conseguenza che non potrebbe ravvisarsi alcuna violazione di legge, ma uno eventuale scostamento dai criteri anzidetti. Dopodiché, il giudice di secondo grado ha analizzato le disposizioni del testo unico che vengono in rilievo nel caso di specie e come le stesse devono essere interpretate, puntualizzando, però, che il CSM gode di ampia discrezionalità amministrativa, in quanto compie scelte che possono essere sindacate solo per irragionevolezza, omissione, travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione. Pertanto, non è l’opportunità che deve essere giudicata in tale sede, ma la legittimità estrinseca delle nomine effettuate. Entrando in media res dell’attività valutativa svolta dal CSM, e soprattutto della motivazione fornita a suffragio della scelta, il Consiglio di Stato ha concluso che il giudizio espresso dall’organo di autogoverno della magistratura risulta manifestamente irragionevole e carente nella parte motiva rispetto ad alcuni indicatori, in particolare lettera a) e b), di cui all’art. 21 del testo unico della dirigenza giudiziaria . Ricordiamo che questa disposizione prevede: “ Indicatori specifici per gli Uffici direttivi giudicanti di legittimità 1. Costituiscono specifici indicatori di attitudine direttiva per il conferimento degli incarichi direttivi giudicanti di legittimità: a) l’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità almeno protratto per sei anni complessivi anche se non continuativi; b) la partecipazione alle Sezioni Unite; c) l’esperienza maturata all’ufficio spoglio; d) l’esperienze e le competenze organizzative maturate nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, anche con riferimento alla presidenza dei collegi. ” Andando con ordine, sul criterio sub a), relativo alla permanenza nelle funzioni di legittimità, il magistrato escluso risulta avere un’esperienza più lunga rispetto ai magistrati nominati. Quanto al criterio sub b), l’appellante ha preso parte, sia come consigliere che come presidente, ad un numero di provvedimenti maggiore rispetto agli appellati, avendo redatto più sentenze presso le Sezioni Unite (172, di cui 103 massimate). Ne conseguirebbe che nel suo giudizio il CSM, a fronte di dati obiettivi, avrebbe dovuto favorire il ricorrente in primo grado e non determinarsi a favore di un’equivalenza tra le attività volte dai vari candidati. Infatti, secondo il giudicante, pur se i dati qualitativo-temporali non comportano un automatismo in termini di nomina, tuttavia essi dimostrano che il magistrato escluso ha una permanenza maggiore presso le funzioni di legittimità ed ha una maggiore esperienza nelle Sezioni Unite, rispetto ai magistrati nominati. Un dato che non può essere superato se non attraverso una motivazione ragionevole ed adeguata, che giustifichi una scelta di nomina difforme rispetto alle “(univoche) emergenze dei dati oggetti” (Cons. Stato, n. 267/2022). Il particolare tipo di nomina, che si basa principalmente sul curriculum dei candidati, impone, infatti, al CSM di redigere una motivazione puntuale ed analitica che faccia emergere in modo esauriente la prevalenza di un candidato sull’altro. Continua il Consiglio di Stato, ravvisando anche un deficit motivazionale rispetto al criterio c) dell’art. 21 sopra citato, cioè quello relativo all’attività presso l’Ufficio spoglio della Cassazione. In particolare il CSM non avrebbe correttamente valutato che l’appellante ha svolto un periodo importante presso l’Ufficio del Massimario, svolgendo funzioni analoghe (“fogliettazione” e “relazione”) rispetto a quelle dell’Ufficio spoglio. Infine, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 267/2022, ha rilevato anche un altro importante aspetto della decisione del CSM che difetterebbe di legittimità. A parere del giudice amministrativo, infatti, l’Organo di autogoverno della magistratura ordinaria avrebbe sopravvalutato le funzioni svolte dal soggetto nominato presso la Sezione filtro della Corte di Cassazione, creando una discriminazione rispetto alle funzioni svolte dall'appellante presso altre Sezioni e Uffici della stessa Cassazione. Diversamente, nella sentenza n. 268/2022, il giudice amministrativo ha osservato che, rispetto all’indicatore sub d) dell’art. 21 del testo unico di riferimento, cioè quello relativo all’esperienza maturata nello svolgimento delle funzioni giudiziarie, la cui valutazione, considerando il particolare posto messo a concorso, non deve essere astrattamente limitata a quelle di legittimità, manca una motivazione ragionevole ed adeguata che consenta di giustificare la scelta del CSM di dare maggior peso alle funzioni esercitate dalla controinteressata presso corti d’appello territoriali, rispetto a quelle svolte dal ricorrente presso la Corte di Cassazione. Ulteriormente, sempre nella sentenza n. 268/2022, il Consiglio di Stato ha affrontato la tematica dei requisiti preferenziali di cui all’ art. 34 del testo unico sulla dirigenza giudiziaria secondo cui: “ Criteri di valutazione per il conferimento delle funzioni direttive superiori e delle funzioni apicali giudicanti e requirenti di legittimità 1. Per il conferimento delle funzioni direttive superiori giudicanti e requirenti di legittimità (Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, Presidente del Tribunale Superiore delle Acque e Procuratore Generale Aggiunto) e delle funzioni apicali giudicanti e requirenti di legittimità (Primo Presidente della Corte di Cassazione e Procuratore Generale della Corte di Cassazione) costituisce elemento di valutazione positiva la possibilità che l’aspirante assicuri, alla data della vacanza dell'ufficio, la permanenza nello stesso per un periodo non inferiore a due anni, salvo che ricorrano particolari circostanze ed esigenze che facciano ritenere necessario un periodo più lungo o adeguato un periodo più breve. 2. Costituisce, di regola, elemento preferenziale per il conferimento delle funzioni direttive apicali di legittimità il positivo esercizio, negli ultimi quindici anni, per almeno un biennio, di funzioni direttive di legittimità nonché le significative esperienze in materia ordinamentale. ” In particolare, il ricorrente ha censurato in primo grado la scelta del CSM di dare maggiore valore alle funzioni svolte dalla controinteressata come componente dell’Organo di autogoverno della magistratura e del Consiglio Giudiziario, che però sarebbero ordinamentali e, dunque, “esogene” rispetto alle funzioni giudiziarie in sé. Il Consiglio di Stato, valorizzando la natura nomofilattica delle posizioni messe a concorso, ha accolto il motivo affermando che l’essere stato componente del CSM o del Consiglio Giudiziario non rientra tra i titoli preferenziali di cui al citato art. 34, bensì sono esperienze apprezzabili secondo gli ordinari criteri per valutare le funzioni ordinamentali ed organizzative. In conclusione, il CSM, pur godendo di ampia discrezionalità amministrativa, nei casi esaminati ha in realtà compiuto una scelta sulle nomine che si presenta, a dire del Consiglio di Stato, come manifestamente irragionevole e sproporzionata, senza che alcuna motivazione analitica potesse consentire di comprendere il percorso logico per giungere a designare gli uni in luogo degli altri, né di legittimare le scelte fatte in tal senso. Nella parte finale della sentenza, il Giudice di appello precisa che l’accoglimento del gravame comporta il riesercizio del potere amministrativo nel rispetto della parte motiva della sentenza. Dunque, dopo queste sentenze, la questione è tornata in seno al CSM per una nuova valutazione dei candidati, anche in considerazione delle precisazioni e delle critiche riportate nelle decisioni. LA "RIEDIZIONE" DEL PROCEDIMENTO DI NOMINA DEL PRIMO PRESIDENTE DELLA CASSAZIONE (a cura di Roberto Lombardi) L'Organo di autogoverno della magistratura ordinaria ha premesso, nella proposta di delibera con cui - presente alla seduta di trattazione anche il Capo dello Stato - ha riesercitato il suo potere, che avrebbe rinnovato il giudizio comparativo in conformità alla statuizione del giudice amministrativo, espungendo i profili di illegittimità evidenziati dal Consiglio di Stato. Ha quindi ripercorso il curriculum professionale dei due candidati alla nomina di Primo Presidente della Corte di Cassazione e prima ancora ribadito che la normativa consiliare applicabile alla valutazione da effettuare è quella contenuta nella circolare consiliare P-14858-2015 del 28 luglio 2015 e succ. mod. , recante il nuovo Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria, che individua nella Parte I, sui Principi generali, le precondizioni (indipendenza, imparzialità ed equilibrio) e i parametri generali per il conferimento di tutti gli incarichi dirigenziali, che sono costituiti dal merito e dalle attitudini. Il profilo del merito investe la verifica dell’attività giudiziaria svolta e ha lo scopo di ricostruire in maniera completa la figura professionale del magistrato. Quanto alle attitudini , il nuovo T.U. affianca agli indicatori generali, disciplinati nella Sezione I della Parte II, alcuni indicatori specifici, ai quali è dedicata la Sezione II. Dopo un riepilogo corposo delle esperienze professionali e organizzative meritevoli di valutazione per ciascuno dei candidati in comparazione, è stata effettuata la comparazione tra i due profili, con scelta che è nuovamente ricaduta sul magistrato "bocciato" dalla sentenza del Consiglio di Stato. Emerge dalla motivazione della conferma della precedente nomina che, nonostante vi fosse da parte dei componenti della Quinta Commissione del CSM la consapevolezza che il Consiglio di Stato aveva annullato la prima delibera di nomina in considerazione della più lunga esperienza di legittimità del candidato escluso, la mancata sollecitazione da parte dello stesso Consiglio di Stato della riedizione del potere in un senso piuttosto che in un altro avrebbe lasciato libero l'Organo di autogoverno procedente di porre nel nulla il dictum giudiziale con una nuova, articolata e puntuale motivazione. In particolare, secondo la Commissione proponente, l'indicatore valutativo inerente all’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità (protratto per almeno sei anni complessivi anche se non continuativi) sarebbe stato da considerarsi rilevante, nella scelta dell'uno o dell'altro candidato, soltanto se uno dei due candidati avesse raggiunto un'esperienza inferiore alla soglia minima dei sei anni, in quanto, sempre secondo la Commissione, con interpretazione che il Plenum ha poi avallato, l' art. 21, lett. a) , del Testo Unico, a differenza di altre previsioni del medesimo che danno specifico rilievo - nella valutazione comparativa - alla maggiore durata di una determinata esperienza giudiziaria, non attribuirebbe rilevanza a tale profilo, sul presupposto che lo svolgimento di determinate funzioni specialistiche, nella specie quelle di legittimità, comporta un significativo arricchimento professionale del magistrato soprattutto nella fase iniziale di approccio al settore di attività, fino al raggiungimento di quella soglia di adeguatezza nell'esperienza puntualmente collegata dalla normativa consiliare al periodo individuato. Il "rinominato" alla carica, dunque - secondo questa impostazione -, considerato il carattere di assoluta eccellenza nella professionalità maturata nelle funzioni considerate, non avrebbe potuto trarre alcun ulteriore "arricchimento" da una maggiore anzianità nelle funzioni di legittimità. Ne consegue, secondo il CSM, che nonostante l'oggettiva esistenza di un divario quantitativo temporale nella permanenza in tali funzioni fra i due candidati, entrambi possiederebbero nel massimo grado di intensità possibile l'indicatore attitudinale richiesto, risultando quindi equivalenti sotto tale profilo. Il Consiglio Superiore ha poi riaffermato la prevalenza del magistrato "confermato" alla nomina con riferimento all'indicatore sub c) dell'art. 21 del Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria (esperienza presso l'Ufficio spoglio), contestando, di fatto, l'accostamento operato dal giudice amministrativo tra attività compiuta presso l'Ufficio del Massimario (c.d. fogliettazione) e attività di "spoglio" in senso stretto. La prima consiste nella predisposizione di una relazione per ognuno dei ricorsi da trattare, dapprima per le tre sezioni civili c.d. generaliste e poi esclusivamente al servizio della prima sezione civile, nonché nella redazione per particolari ipotesi di relazioni per le Sezioni Unite. La seconda è intimamente collegata alla preventiva valutazione di inammissibilità, manifesta fondatezza e fondatezza dei ricorsi ai fini di una sollecita decisione fondata su questi presupposti, nonché alla formazione di ruoli omogenei e alla valutazione ponderale dei ricorsi. Secondo il CSM, il candidato escluso non avrebbe sviluppato concreta attività di esame preliminare dei ricorsi, perché si sarebbe limitato a svolgere l'attività di "fogliettazione", e, ad ogni modo, tale attività assumerebbe valore decisamente meno pregnante dell'attività di spoglio propriamente detta, prima svolta direttamente come consigliere e poi addirittura coordinata in qualità di Presidente della sesta sezione dal candidato "vincente". Tuttavia, non tutto il Plenum è rimasto persuaso dalla modalità di riedizione del potere suggerita dalla Commissione. E' stato in particolare rammentato che i tempi assolutamente contingentati con i quali si è dovuto affrontare la delicata pratica, scaturita da una sentenza di annullamento del Consiglio di Stato fornita di una dettagliata motivazione, hanno senz'altro comportato pregiudizio a lla puntualità e completezza della nuova delibera. Secondo questa impostazione critica, nonostante il giudice amministrativo avesse censurato la motivazione della delibera, in quanto, in presenza di alcuni indicatori specifici che risultavano prevalenti per un candidato - indicatori peraltro stabiliti in sede di autovincolo dallo stesso CSM -, si era scelto un candidato diverso, nella nuova delibera sarebbero mancati proprio gli argomenti richiesti dalla sentenza di annullamento per colmare contraddizioni e lacune, in conseguenza della assenza di una riflessione approfondita e completa. In effetti, è chiaro, esaminando il dibattito svoltosi in Plenum e la proposta della Commissione - che ha riesaminato in tempi record la pratica - che il peso della natura del CSM, quale organo di rilevanza costituzionale posto a presidio dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura, e la indubbia forte discrezionalità della sua naturale componente valutativa, hanno prevalso sulle indicazioni fornite dal Consiglio di Stato, indicazioni che, pur non potendo sostituirsi alle scelte di merito da adottarsi in materia di nomina, sono pur sempre da ritenersi coordinate vincolanti nel riesercizio del potere. In particolare, se il Consiglio di Stato fonda la sua decisione su una determinata interpretazione giuridica delle norme e dei criteri di autovincolo, offrire nel riesame una diversa "visione" del diritto applicabile al caso di specie è già di per sé una violazione del disposto del giudice amministrativo. Un conto è infatti ripercorrere la comparazione tra candidati alla luce delle indicazioni fornite dall'organo giurisdizionale, un altro è rifare tale comparazione soltanto perché è necessario rifarla da un punto di vista degli obblighi ordinamentali, ma "ad occhi chiusi", senza cioè farsi guidare dall'impostazione giuridica ritenuta corretta dal soggetto che istituzionalmente ha il potere di imporsi (ovvero, in questo caso, l'organo giurisdizionale adito dal candidato escluso). In altri termini, il fatto che il CSM sia Organo di autogoverno di uno dei tre poteri dello Stato non implica che lo stesso sia legibus solutus o che possa considerare una sentenza di annullamento di una sua delibera come un mero incidente di percorso. E se è vero che le sentenze che hanno annullato le due nomine non potevano anche "scegliere" il candidato da nominare, è altresì vero che una riedizione del potere che pervenga a una nuova proposta in favore degli stessi candidati deve soddisfare criteri di ponderatezza e di adeguatezza superiori alla media. Nel caso di specie, invece, l'approvazione-lampo di nuove motivazioni sostitutive di quelle a suo tempo molto meditate e, nonostante ciò, ritenute carenti dal Consiglio di Stato, è indice di una tempistica che non appare oggettivamente congrua rispetto a qualsiasi delibera di nomina e a maggior ragione nel caso di specie, vista l'importanza e la delicatezza degli incarichi da conferire. L'impressione, rilevata nel dibattito in Plenum anche da un Consigliere, è che le nuove motivazioni, anziché costituire una reale ottemperanza delle sentenze del Consiglio di Stato, che prescriverebbero una riformulazione idonea a superare le censure di carenze e di sostanziale tautologia delle delibere annullate, si limitino a riproporre in forma diversa le stesse argomentazioni contenute nelle motivazioni originarie. D'altra parte, i temi da trattare erano di grande complessità, inerendo all'eventuale superamento dei confini della giurisdizione del giudice amministrativo o dei limiti di razionalità e coerenza logica imposti al Consiglio non solo dalle norme primarie ma anche dalla normativa interna , e il rischio concreto per il CSM è adesso quello di una nuova soccombenza in un successivo giudizio (che pare essere già stato intentato), con inevitabile ulteriore compromissione della sua credibilità nei confronti dei cittadini e di tutti i magistrati. Il fatto che ad alcuni degli stessi Consiglieri partecipanti al voto le nuove delibere di incarico sembrino una riproduzione delle precedenti con l'inserimento, in relazione ai punti oggetto di annullamento, di argomenti non decisivi e non sufficienti a superare le censure formulate dal giudice amministrativo nelle due sentenze di annullamento, può pericolosamente trasformarsi nella spia di una possibile elusione delle decisioni del giudice amministrativo. Il che è un male già soltanto sotto il profilo dell'apparenza, perché è sul rispetto delle decisioni di "tutti" gli organi di giustizia - rispetto che il CSM è solito pretendere anche per le proprie decisioni -, che si fondano i principi della Costituzione e il senso stesso dell'esperienza giuridica. (1) "... per consolidata giurisprudenza il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, difettando la clausola legislativa a regolamentare e riguardando comunque una materia riservata alla legge (art. 108, 1° comma, Cost.), non costituisce un atto normativo, ma un atto amministrativo di autovincolo nella futura esplicazione della discrezionalità del Csm a specificazione generale di fattispecie in funzione di integrazione, o anche suppletiva dei principi specifici espressi dalla legge: vale a dire si tratta soltanto di una delibera che vincola in via generale la futura attività discrezionale dell’organo di governo autonomo (...)" (Cons. di Stato, sentenza n. 267 del 2022)
Autore: dalla Redazione 17 feb, 2022
Questo articolo costituisce un aggiornamento di analogo contributo già comparso sul sito in data 1 agosto 2021 Premessa La Corte Costituzionale, con decisioni assunte tra il 15 e il 16 febbraio 2022, si è pronunciata sull'ammissibilità degli otto quesiti referendari che le sono stati sottoposti. Concentrandosi soltanto su quelli in materia di giustizia, ne sono stati ammessi cinque su sei, con esclusione del quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati, che peraltro riguarda un tema molto complesso e "sensibile", rispetto al quale si rinvia all'approfondimento specifico rinvenibile, sul sito, al seguente link: https://www.primogrado.com/la-responsabilita-diretta-dei-magistrati I quesiti referendari sulla giustizia erano stati presentati dalla Lega e dai Radicali il 2 luglio 2021. Il primo e il terzo quesito si proponevano di contrastare la supposta logica corporativa che condizionerebbe la scelta dei componenti togati del CSM e le valutazioni di professionalità dei magistrati. Il secondo e quarto quesito investivano direttamente lo “status” del magistrato, mirando da un lato a stabilire l’immodificabilità in corsa della carriera del magistrato ordinario – chi comincia a svolgere funzioni di P.M. non potrà mai svolgere le funzione di Giudice, e viceversa -, e dall’altro a parificare il magistrato ad ogni altro funzionario pubblico, sotto il profilo della diretta e immediata responsabilità per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni. Il quinto quesito referendario si proponeva di diminuire le ipotesi di esigenze di prevenzione sociale (le cosiddette “esigenze cautelari”) previste dal codice di procedura penale, e che devono necessariamente ricorrere per disporre misure cautelari. Il sesto quesito chiedeva, infine, l’abrogazione sic et simpliciter della cosiddetta "legge Severino", ovvero del decreto legislativo che ha stabilito disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. 1.Scelta dei componenti togati del CSM e valutazioni di professionalità dei magistrati (quesiti n. 1 e n. 3) Con il primo quesito si propone una modifica del procedimento di elezione del singolo magistrato a componente dell’Organo di autogoverno – ovvero la partecipazione al consesso a cui spettano secondo Costituzione le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati -, tramite soppressione dell’obbligo di presentare, unitamente alla propria candidatura, una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. L’effetto diretto è la possibilità per chiunque aspiri ad essere eletto al CSM di proporre la propria candidatura individuale senza dovere già dimostrare una base di consenso (ovvero la lista dei “magistrati presentatori”), il che è in sé astrattamente coerente con una maggiore autonomia e indipendenza nella corsa al CSM del magistrato stesso; l’effetto indiretto, che poi è quello dichiaratamente perseguito dai promotori del referendum, è quello di cercare di depotenziare il ruolo delle correnti nella scelta dei rappresentanti dei magistrati che compongono il CSM. L’idea è che se non si deve presentare una lista di sostenitori già in partenza, non si dovrà essere necessariamente fedeli a una corrente per essere competitivi. L’assunto prova troppo, se si pensa che il consenso per essere eletto occorre comunque averlo, e che anche una candidatura “indipendente” dalle correnti deve potere contare su una base elettorale solida, poco importa se formatasi precedentemente o successivamente alla presentazione della candidatura stessa. In altri termini, forse potrà correre “da solo” un candidato molto autorevole e già noto ai magistrati – magari per iniziative interne, indagini o processi importanti -, ma tutti gli altri dovranno necessariamente avere il sostegno, per essere eletti, di quelle formidabili fonti di consenso, a volte “acritico”, che sono le correnti. L’obiettivo sarebbe dunque da ritenersi neanche parzialmente raggiunto, in caso di abrogazione della norma. Con il terzo quesito si propone una modifica delle competenze spettanti ad avvocati e professori universitari in materie giuridiche all’interno dei Consigli giudiziari – che sono quegli organismi territoriali, istituiti presso ogni Corte di Appello, a cui spetta, tra l’altro, il parere motivato sulla valutazione pluriennale di professionalità dei magistrati -, cancellando la loro attuale esclusione dalle discussioni e deliberazioni che riguardano il suddetto parere. In altre parole, il giudizio di merito sull’attività svolta nel quadriennio dal magistrato ordinario, ai fini della sua progressione in carriera, non spetterebbe più soltanto ad altri magistrati – che compongono per due terzi il Consiglio Giudiziario – ma vedrebbe il coinvolgimento anche di soggetti esterni alla magistratura. Il raggiungimento del risultato che il quesito ha di mira – depotenziamento dell'autovalutazione all'interno della magistratura -, seppure coerente con la necessità di aprire una breccia nella supposta autoreferenzialità di essa, sembra peraltro in contrasto con l’articolo 105 della Costituzione, che riserva al CSM le promozioni dei magistrati. Attualmente, il Consiglio giudiziario adotta un parere obbligatorio che di fatto vincola, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2005, la decisione finale del CSM. Ma, mentre la presenza nel CSM di soggetti estranei alla magistratura è prevista dalla Costituzione e legittima tale organo, nella sua composizione mista, a deliberare sulle promozioni dei magistrati, la presenza di soggetti estranei alla magistratura non legittimati dalla Costituzione nell’iter della valutazione sulle promozioni dei magistrati – e sulla base di una legge ordinaria – sembra minare il principio di autonomia e indipendenza da ogni altro potere della magistratura previsto dall’art. 104 della Costituzione. 2. Impossibilità di passaggio durante la carriera da una funzione all’altra (quesito n. 4) Con il quarto quesito i promotori del referendum intendono espungere dall’ordinamento tutte quelle norme che consentono, seppure con particolari cautele e limiti, il passaggio dalle funzioni requirenti (pubblico ministero) alle funzioni giudicanti (giudice civile e penale) – e viceversa – durante la carriera del magistrato. Si dice che il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. L’abrogazione delle disposizioni elencate dal quesito referendario farebbe sì che al magistrato che sia stato destinato, all’atto dell’assunzione in servizio, a una funzione – P.M. o giudice -, sia precluso definitivamente di chiedere il passaggio all’altra. L’effetto di tale abrogazione implica indubbiamente una rilevante distorsione rispetto all’unicità di concorso che caratterizza l’ingresso in magistratura. Si pensi soltanto che la scelta della sede e della funzione, dopo un periodo di tirocinio in cui il neo-magistrato “sperimenta” tutte le funzioni, non dipende nella grande maggioranza dei casi da una effettiva volontà di volere fare il lavoro di giudice piuttosto che quello di pubblico ministero, ma dalla necessità di recarsi in un luogo, tra i tanti sparsi su tutta la Penisola, che non sia eccessivamente lontano da quello in cui è già radicata la vita personale e familiare del neo-assunto. In altri termini, un magistrato in tirocinio che preferirebbe fare il giudice ma che vuole o deve restare vicino ai propri affetti, in prima battuta potrebbe essere costretto a scegliere di svolgere la meno gradita funzione di pubblico ministero, seppure con la riserva mentale di cambiare le funzioni assunte non appena possibile, magari in conseguenza di una maggiore anzianità di servizio conseguita. In egual modo, privare l’interessato della possibilità di un cambio di funzioni nel corso della carriera significa depotenziare la professionalità del magistrato, che può soltanto “arricchirsi”, come per ogni altra professione, a seguito della “sperimentazione” di tutti i risvolti pratici e giuridici di un lavoro che resta di fatto unitario nella sua componente culturale e tecnica. L’attuale normativa segna un punto di corretto equilibrio tra tali esigenze e il pericolo di contiguità tra il pubblico ministero e il giudice (penale), fermo restando che non vi è materia di antagonismo tra poteri, trattandosi di soggetti che sono comunque al servizio dell’interesse pubblico nell’ambito del potere giudiziario. Il d.lgs. n. 160 del 2006, infatti, dispone, in linea generale, che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di Corte di Appello che ha competenza, per i reati commessi dai magistrati, sul distretto in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. E’ previsto inoltre che tale passaggio può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del Consiglio giudiziario. L’effetto dell’abrogazione richiesta sarebbe inoltre di dubbia costituzionalità, in quanto non si interviene contestualmente sulle modalità di accesso alla magistratura: resterebbe un unico concorso di magistratura che consente di accedere sia alle funzioni giudicanti che a quelle requirenti, a cui seguirebbe una scelta definitiva del vincitore di concorso nell’ambito delle sedi individuate dal CSM, con illegittima compressione dei diritti di quei neo-magistrati “costretti” a scegliere sulla base delle sole sedi disponibili al momento della prima scelta. Al riguardo, vale la pena di ricordare che l’art. 106 Cost. stabilisce che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e l’art. 107 co. 3 Cost. prevede che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. A Costituzione invariata, pertanto, ed essendo unico il concorso, chi accede alla magistratura ha il diritto di svolgere entrambe le funzioni. Le disposizioni attualmente vigenti – oggetto del quesito referendario – hanno solo la funzione di porre le condizioni per l’esercizio di un diritto costituzionalmente fondato. 3. Riduzione delle ipotesi in cui possono essere disposte le misure cautelari e soppressione della legge Severino (quesiti n. 5 e 6) Secondo i promotori dei referendum (quesito n. 5), vi sarebbe in Italia un gravissimo abuso della custodia cautelare. Per limitare tale (presunto) abuso, si propone di ridurre la possibilità per il Giudice di disporre (qualsiasi) misura cautelare (e non solo la custodia, che corrisponde alla traduzione in carcere o agli arresti domiciliari), quando vi è il pericolo che l’indagato possa commettere reati della stessa specie. Più in particolare, si consentirebbe la possibilità di disporre misure cautelari (dall’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria alla custodia preventiva in carcere), oltre che in caso di pericolo di fuga e di possibile inquinamento probatorio, soltanto nei casi in cui sussista “il concreto e attuale pericolo” che l’indagato “commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. In pratica, il corruttore seriale e l’estorsore seriale tramite minaccia, tanto per fare un paio di esempi di facile comprensione, non potrebbero mai essere sottoposti a nessuna misura cautelare, se si tratta di soggetti socialmente “validi”, come spesso accade in caso di delitti dei colletti bianchi. Se non vi è pericolo di inquinamento probatorio (che è già di per sé soggetto a limiti molto stringenti) o pericolo di fuga (difficile da ipotizzarsi per una certa tipologia di individui ben inseriti in società), niente misure preventive, perfino a fronte di clamorose violazioni di legge e “ruberie” nei confronti della collettività. Invero, sembra che nel bilanciamento fra il diritto di libertà dell’indagato/imputato prima della condanna definitiva e le esigenze di sicurezza sociale sulle quali si fondano le esigenze cautelari, l’intervento proposto provoca un pesante squilibrio in danno delle seconde. Viene cancellata con un tratto di penna ogni cautela nei confronti di soggetti che spesso e volentieri, anche per le loro connivenza con la criminalità organizzata, sono molto più pericolosi per la società dell’extracomunitario che – non avendo magari nessun radicamento con il territorio nazionale -, ricade sempre, ricorrendone i presupposti di legge, nell’ipotesi del “pericolo di fuga”, anche qualora commetta delitti di scarso impatto sociale. Viene altresì cancellata la possibilità di disporre misure cautelari nei confronti di coloro per i quali sussistono gravi indizi di avere commesso il delitto di finanziamento illecito dei partiti, mentre ad esempio la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnata dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, con la modifica referendaria diventerebbe un reato per cui l’arresto in flagranza (cioè con l’intervento diretto della polizia giudiziaria durante lo scambio) potrebbe essere paradossalmente seguito dalla immediata rimessione in libertà dell’arrestato. Va bene la sfiducia in giudici e P.M., ma forse nel dubbio resta meglio affidare a loro – e in ultima analisi alla Cassazione in sede di controllo de libertate – il bilanciamento in concreto delle esigenze di protezione della società, caso per caso. Ciliegina sulla torta, i promotori del referendum propongono la soppressione integrale del cosiddetto decreto Severino (decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235), cioè delle norme pensate in funzione del contrasto alla corruzione e del rafforzamento della trasparenza della e nella pubblica amministrazione (quesito n. 6). Si dice che le norme da abrogare avrebbero valore retroattivo e prevedrebbero ingiustamente, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare anche solo se il soggetto in questione venga condannato in primo grado per determinati reati contro la pubblica amministrazione. Ma la ratio della sospensione sta proprio nell’evitare fenomeni di degenerazione della cosa pubblica con la permanenza nella carica di amministratori che hanno subito una condanna per fatti anche gravi, condanna che, se è vero che non è definitiva, ha comunque già subito il vaglio del dibattimento, dinanzi ad un Giudice terzo, e all’interno di un processo che è tendenzialmente garantista. E’ un errore poi qualificare come retroattiva una norma che stabilisce semplicemente che chi non può essere candidato perché raggiunto da una determinata condanna per reati contro la pubblica amministrazione, non può per gli stessi motivi restare al suo posto. In caso contrario, si perverrebbe all’assurdo per cui basta “anticipare” la condanna con l’elezione, in relazione a fatti magari commessi molto tempo prima, per sfuggire poi definitivamente ad ogni tipo di “sanzione”, così incentivando fenomeni di candidature “strategiche” di soggetti in odore di condanna. E’ paradossale, infine, e fa un po’ sorridere, che i promotori del referendum sostengano che con il sì verrebbe cancellato l’automatismo del decreto Severino (condanna uguale sospensione) e si restituirebbe ai Giudici la facoltà di decidere se, di volta in volta, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici. Ma non si era detto che i sei quesiti referendari in materia di giustizia sono nati con l’obiettivo di ridimensionare l’arbitrio e lo strapotere della magistratura italiana?
Autore: di Sergio Conti, già Presidente di TAR 14 feb, 2022
Prologo Luigi Pirandello nel saggio “ L’umorismo ” [1] tratteggia le caratteristiche di questo genere letterario, che risulta caratterizzato da un sentimento particolare, nutrito di riflessione, quale quello del “contrario”. Secondo lo scrittore, l’umorista, infatti, non procede a un’armonizzazione dei contrasti, ma fonda la propria arte sulla dissonanza e sulla scissione, sulla contraddizione, sulla presenza irrisolta di opposizioni. Anche le vicende istituzionali attuali possono essere lette alla stregua di tale genere letterario? Parrebbe di sì, posto che nei giorni scorsi vi è stata, dopo che l’interessato aveva più volte escluso una siffatta possibilità, la rielezione del Presidente Mattarella alla suprema magistratura della Repubblica. I fatti All’approssimarsi della scadenza del settennato, il Presidente della Repubblica Mattarella – come è stato ampiamente riportato dai quotidiani - ha affermato la sua indisponibilità ad un secondo mandato, richiamando anche le considerazioni svolte a suo tempo, con un messaggio alle Camere, dal Presidente A. Segni [2] . Il 2 dicembre 2021 veniva depositato, dai senatori Parrini, Zanda e Bressa del PD, il disegno di legge costituzionale n. 2468 , recante “Modifiche agli articoli 85 e 88 della Costituzione in materia di non rieleggibilità del Presidente della Repubblica e di esercizio del potere di scioglimento delle Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato” [3] . La proposta è di due soli articoli: “Art. 1. (Non rieleggibilità del Presidente della Repubblica) 1. Al primo comma dell'articolo 85 della Costituzione sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e non è rieleggibile.». Art. 2. (Abolizione del cosiddetto «semestre bianco») 1. Il secondo comma dell'articolo 88 della Costituzione è abrogato”. All’esito di una tormentata settimana [4] nella quale si è visto di tutto (per usare un eufemismo), all’ottava votazione, pare su indicazione del Presidente del Consiglio Draghi [5] , vi è stata la rielezione del Presidente Mattarella, il quale, su richiesta dei capi gruppo di maggioranza, aveva nel frattempo manifestato la propria disponibilità al riguardo [6] . In data 3 febbraio 2022, giorno del giuramento del Presidente Mattarella, il deputato F. Lollobrigida di FDI ha depositato alla Camera una proposta di legge costituzionale per introdurre il divieto di rielezione del Capo dello Stato [7] , sostanzialmente simile a quella dei tre senatori del PD. Il commento Sugli avvenimenti “rocamboleschi” che hanno caratterizzato l’elezione del Presidente della Repubblica e si sono conclusi con la rielezione del Presidente Mattarella potranno sicuramente scriversi libri sia di cronaca politica (alla ricerca dei retroscena) sia approfonditi saggi dottrinali (di scienza della politica, di diritto costituzionale, di sociologia politica e, fors’anche, di antropologia). Nel breve spazio di questo commento è utile soffermarsi, in un’ottica strettamente giuridica, sulla questione della possibilità di rielezione del Presidente della Repubblica. Breve rassegna della dottrina Se si scorre la manualistica, si può notare che la questione è solitamente trattata in poche righe, nelle quali si pone in rilievo che l’ art. 85 della Costituzione non vieta la rielezione [8] . Al massimo si evidenzia la sussistenza di “ragioni di opportunità e di correttezza costituzionale , ma non giuridiche, che potrebbero limitare la rieleggibilità del Presidente” [9] . Anche nelle voci sul Presidente della Repubblica delle enciclopedie giuridiche si perviene prevalentemente alle stesse conclusioni. Nel Novissimo Digesto Italiano, P. Barile (1966) dedicava poche righe all’argomento, concludendo in favore della rieleggibilità, senza destinare particolare spazio ad opinioni contrarie (cfr. par. 3) [10] , C. Rossano (2002) sull’ Enciclopedia Giuridica osserva che “Il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni e può essere rieletto, anche più volte, alla scadenza del mandato. In proposito va sottolineato che sono rimasti senza esito progetti di legge costituzionale diretti ad introdurre il divieto di rielezione del Presidente in carica” (par. 6). Più problematico sull’ Enciclopedia del diritto, L. Paladin (1968) che considera l’ipotesi della rielezione con sostanziale sfavore e riconducibile al novero degli eventi politicamente improbabili [11] . Sul Digesto delle discipline pubblicistiche S. Galeotti e Pezzini (1996) [12] osservano: “la Costituzione non ha posto alcun limite alla rieleggibilità del Presidente, benché consistenti obiezioni possano essere proponibili su questo terreno, sia per la già lunga durata del mandato, che convertirebbe il doppio mandato da elemento di equilibrio in elemento di freno, sia soprattutto per la migliore garanzia di indipendenza che il divieto di rielezione saprebbe offrire”. In sostanza, i costituzionalisti si sono posti in una linea interpretativa strettamente letterale dell’art. 85 della Costituzione, che non vieta la rielezione. Solo alcuni si limitano a rilevare l’inopportunità della rielezione. Peraltro, sotto un profilo sistematico, ben si sarebbero potute sollevare obiezioni serie alla possibilità di rielezione. I lavori dell’Assemblea costituente Invero, la questione era stata disaminata in sede di redazione della Carta costituzionale. E’ estremamente utile richiamare quanto emerge dal Dossier del Servizio Studi del Senato “Brevi note sul 'semestre bianco” [13] , nel quale vengono riassunte ed esaminate anche le questioni relative alla possibilità della rielezione del presidente e al quale sono allegati interessantissimi documenti. Dal citato Dossier emerge che in Assemblea costituente venne dapprima approvato (in via emendativa dalla Prima sezione della Seconda Sottocommissione, nella seduta del 19 dicembre 1946) il divieto della rieleggibilità. Nella discussione furono prospettate le tre opzioni: tacere sulla rieleggibilità; prevedere un divieto di rieleggibilità; prevedere un divieto di rieleggibilità immediata. Per la prima propendeva il relatore Tosato, anche tenuto conto, dopo il ventennio fascista, della “situazione attuale di penuria di uomini politici”. Lami Starnuti (allora PSI) propose invece un emendamento prescrivente la non rieleggibilità. Esso fu approvato (respinto invece altro emendamento di Fuschini, DC, per la non rieleggibilità solo immediata). Insieme, fu approvata la durata settennale del mandato presidenziale (analogamente a quanto previsto dalla Costituzione della IV Repubblica francese). Tosato (nella seduta del 20 dicembre 1946) aveva ritenuto “non … conforme al sistema del Governo parlamentare stabilire un'eguale durata per tutti gli organi supremi costituzionali, specialmente per quanto riguarda il Presidente della Repubblica, che deve rappresentare un elemento di continuità e di stabilità nella vita dello Stato”. L'espunzione fu effettuata dalla Commissione dei Settantacinque nella sua adunanza plenaria (seduta del 21 gennaio 1947). Palmiro Togliatti ritenne “troppo restrittiva” la previsione di un divieto di rieleggibilità tout court . Da parte sua, Aldo Moro suggerì che la Carta non recasse previsione sulla rieleggibilità o meno. Ed in Assemblea plenaria un emendamento ancora di Lami Starnuti, volto a prescrivere la non rieleggibilità, fu ritirato. Evidentemente fu raggiunto un accordo politico (del quale gli atti dell'Assemblea Costituente non danno però alcuna indicazione), tra orientamenti di fondo che erano discordi: quello favorevole ad un rafforzamento della figura presidenziale e quello sfavorevole ad una paventata degenerazione personalistica del potere presidenziale. Dietro quella espunzione del divieto di rieleggibilità vi sarebbe - è stato rilevato in dottrina [14] - “il ripensamento delle sinistre, e in particolare dei comunisti, sulla questione”, spiegabile col “fatto che, una volta delimitato il ruolo del Presidente e stabilita la sua derivazione parlamentare, emergeva tra i comunisti la preoccupazione politica di permettere la rielezione di un Presidente che avesse operato come garante del patto costituzionale che si andava concordando”. Va soggiunto che, in Assemblea, l’on. Tosato rilevava come la durata settennale fosse stata prescelta “per rafforzare i poteri e il prestigio del Presidente della Repubblica” (seduta del 19 settembre 1947) [15] . Lo stesso Tosato si oppose all’emendamento dell’on. Nitti che fissava in quattro anni la durata della carica di Presidente della Repubblica con le seguenti parole: “[i]l fatto che il Presidente sia eletto per sette anni, mentre le Camere sono elette rispettivamente per cinque e sei anni, serve a soddisfare l’esigenza di una certa permanenza, di una certa continuità nell’esercizio delle pubbliche funzioni, mentre contribuisce a rafforzare l’indipendenza rispetto alle Camere che lo eleggono. Che le Camere si rinnovino e il Presidente resti significa svincolare il Presidente dalle Camere, dalle quali deriva, e rinvigorirne la figura” (Atti A.C., 22 ottobre 1947, p. 1435) [16] . Il messaggio alle Camere del Presidente Segni Il Presidente Antonio Segni il 16 settembre 1963 inviò un messaggio - ex art. 87 c. 2 della Cost.- alle Camere con riguardo alla questione della rieleggibilità [17] . Premesso che “dopo 15 anni di applicazione della Costituzione, si impone la considerazione se la esperienza non abbia rilevato in essa qualche manchevolezza che, per gli inconvenienti che ne derivano, è opportuno con sollecitudine apprestarsi ad eliminare”, il Presidente Segni invitava le Camere ad apportare modifiche su due questioni: a) le modalità di rinnovo dei giudici costituzionali; b) l’introduzione del divieto di rielezione del Presidente della repubblica. In relazione a tale secondo aspetto, che qui interessa, dopo avere fatto un excursus storico sulla rieleggibilità del Presidente negli Stati Uniti sino alla introduzione del 22° emendamento del 27 febbraio 1951 che vietava la terza rielezione, il Presidente A. Segni evidenziava che “E’ contemperata, in tal modo, la stabilità dell’esecutivo, perché i due mandati durano complessivamente otto anni, con la necessità che vi sia un rinnovamento, a non grandi intervalli, nella persona che riveste la funzione di Capo dello Stato repubblicano, per evitare il danno delle continuità personali proprie dei regimi ereditari e innaturali in un regime repubblicano”. Il presidente Segni osservava poi che “la nostra Costituzione non ha creduto di stabilire il principio della non immediata rieleggibilità del Presidente della Repubblica, ma mi sembra opportuno che tale principio sia introdotto nella Costituzione, essendo il periodo di sette anni sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato. La proposta modificazione vale anche ad eliminare qualunque, sia pure ingiusto, sospetto che qualche atto del Capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione”. Concludeva il Presidente Segni: “Una volta disposta la non rieleggibilità del Presidente, si potrà anche abrogare la disposizione dell’ art. 88 comma 2 della Costituzione , il quale toglie al Presidente il potere di sciogliere il Parlamento negli ultimi mesi del suo mandato. Questa disposizione altera il difficile e delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti”. Nonostante che il messaggio fosse di cristallina chiarezza - e nonostante che, a seguito dello stesso, il Presidente del Consiglio dei ministri A. Leone, avesse presentato il 16 ottobre 1963 un disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 85 della Costituzione [18] - non se ne fece nulla. Ulteriori proposte seguirono negli anni seguenti Di particolare interesse - non potendosi esaminare qui partitamente tutte le fasi del dibattito politico e istituzionale che si sono susseguite nei quasi sessanta anni successivi al 1963 - è la relazione (datata 28 febbraio 1991) alla 1° Commissione permanente del Senato del sen. L. Elia [19] , nella quale si pone in luce che “lo sfavore [alla rielezione] si spiega e si giustifica, non solo per ragioni pratiche, bensì per motivi di ordine istituzionale. Praticamente, quattordici anni sono molti, per non dire troppi. Ciò che più conta, istituzionalmente l'alternativa della non rielezione è quella che meglio si conforma al modello costituzionale di Presidente della Repubblica. Che occorra assicurare l'indipendenza e l'imparzialità del Presidente rispetto alle Camere, e che una tale esigenza sia particolarmente viva in prossimità della scadenza del settennato, non risulta soltanto da particolari esperienze dell'Italia repubblicana, ma è stabilito autenticamente dalla Costituzione, là dove si preclude ~ appunto ~ lo scioglimento delle Assemblee parlamentari negli ultimi sei mesi del mandato presidenziale”. Più avanti si rileva che: “Certo, non esiste sul piano logico un nesso inscindibile tra divieto di rieleggibilità e caduta del limite relativo al semestre bianco: in effetti alcuni autori, minoritari, si sono pronunciati per il mantenimento della rieleggibilità con l'eliminazione del semestre bianco ed altri per la soluzione opposta. Ma storicamente, e nella logica della razionalizzazione, non si può negare che le due scelte siano da considerare contestualmente connesse. La loro adozione conferirebbe maggiore armonia e funzionalità alla nostra forma di governo, senza compromettere da nessun punto di vista il delicato equilibrio di poteri su cui essa si fonda”. E’ interessante notare che Elia, dopo aver lucidamente enunciato alcune problematicità di ordine strettamente politico sul c.d. “ingorgo istituzionale”, concludeva la relazione con la perentoria affermazione: “Il Parlamento scioglierà questi nodi.” Purtroppo il Parlamento non è stato in grado, dal 1963, non già di sciogliere i nodi, ma neppure di affrontare in qualche modo la situazione, tanto è vero che nel 2013 ha poi proceduto per la prima volta alla rielezione del Presidente in scadenza di mandato (Napolitano), così facendo venir meno la prassi precedente e infrangendo quelle “ragioni di opportunità e di correttezza costituzionale” di cui parlavano i “vecchi” manuali di diritto costituzionale. Ad oggi resta quindi l’anomalia di una repubblica che consente una reiterata rielezione, di sette anni in sette anni, del Presidente, al riguardo è interessante – sotto il profilo comparativo, per evidenziarne l’assoluta anomalia - la visione della la tabella contenuta nel Dossier Senato, che riporta le modalità previste dai vari ordinamenti nazionali al riguardo. [20] Considerazioni finali Probabilmente la soluzione, apparentemente semplice, della questione - oltre che a scontrarsi, come è sostanzialmente avvenuto durante la c.d. 1° Repubblica, con la contingenza politica del momento – non troverà il via libera sino a che non sarà affrontato il connesso tema della posizione istituzionale del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano. Tanto più che da Cossiga in poi il ruolo del Presidente è stato ben differentemente inteso, rispetto all’epoca precedente, dagli stessi Presidenti della Repubblica succedutisi. Circa la posizione istituzionale del Presidente va ricordato – richiamando quanto esposto da F. Di Donato in Osservatorio costituzionale AIC 2016 [21] - che questa è riconducibile a tre distinti filoni dottrinari: a) neutralistico, b) garantistico, c) non garantistico. La tesi neutralistica prende le mosse dalle teorie di Benjamin Constant, il quale auspicò che il Capo dello Stato (monarchico o repubblicano) incarnasse un “potere neutro”, posizionato al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri teorizzata da Montesquieu. La neutralità del Capo dello Stato rappresenterebbe la caratteristica dell'intera attività istituzionale del Capo dello Stato medesimo, avulsa rispetto a quella condotta da altri organi. Secondo Crisafulli [22] il Presidente della Repubblica si configurerebbe quale un “organo indipendente dalla maggioranza”, chiamato a garantire, “al di sopra degli orientamenti politici contingenti e particolari, gli interessi unitari e permanenti della comunità statale”. Per G. Guarino [23] è l'organo costituzionale che, più di ogni altro, rappresenta gli interessi “vivi” della Nazione, per il fatto di essere “l'unico, nell'ordinamento, che accetti di restare estraneo all'attività di governo, e che non sia in grado d'influire su di essa” in maniera “positiva”. Secondo la tesi garantistica , il Capo dello Stato risulterebbe il garante supremo della Costituzione “nei suoi valori obiettivi e permanenti” [24] . La teoria prende le mosse dal pensiero di Carl Schmitt, il quale individuò nel Presidente del Reich tedesco il “custode della Costituzione” (Hüter der Verfassung) della Repubblica di Weimar. Secondo la tesi garantistica il Capo dello Stato sarebbe radicalmente indipendente rispetto ad ogni altro potere dello Stato, ed il suo operato sarebbe caratterizzato dalla piena imparzialità rispetto alle contese politiche. Del pari, al medesimo competerebbe lo svolgimento di un ruolo “attivo” – ma non “politico” – di altissima rilevanza, potendo vigilare sul rispetto della legalità costituzionale da parte degli organi abilitati alla produzione di formali atti giuridici. Secondo un primo filone dottrinario non garantistico , il Presidente sarebbe invece titolare di un “indirizzo politico generale o costituzionale”, finalizzato all'attuazione dei fini permanenti previsti nella Costituzione [25] . Un secondo filone non garantistico è rinvenibile nelle tesi dell’Esposito [26] , secondo il quale il Presidente della Repubblica sarebbe il “reggitore dello Stato” nei momenti di crisi del sistema (e cioè quando si verifichi una “oggettiva, certa ed incontrovertibile impossibilità di funzionamento degli altri organi costituzionali”) alle quali gli altri organi costituzionali non riescano in alcun modo a far fronte. Va sottolineato che - al di là del larghissimo dibattito sulle funzioni del presidente della Repubblica come modificatesi con l’avvento della c.d. 2° Repubblica e poi con la crisi istituzionale continua post 2011 [27 ] – la nuova elezione è avvenuta al termine di due anni caratterizzati dalla emergenza Covid 19, che da sanitaria si è trasformata in istituzionale, essendo non solo stati “trasformati” (per usare un eufemismo) i rapporti fra tutti gli attori istituzionali - Presidente, Governo, Parlamento, partiti -, ma soprattutto con i cittadini ridotti a sudditi necessitanti (a detta di autorevoli giuristi [28] ) della “patente”, intesa come autorizzazione del Potere per poter esercitare i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta costituzionale. Epilogo Conclusivamente, un sistema che aveva comunque un suo equilibrio e una sua filosofia [29] viene di fatto ad essere sconfigurato , senza alcuna riforma sistematica, ma solo per assicurare determinati obiettivi di politica contingente [30] . Tornando all’esordio e all’umorismo pirandelliano, viene da chiedersi se non avesse ragione Ennio Flaiano, quando osservava che “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria.” [31 ] [1] Carabba editore Lanciano 1908 [2] Per un’ampia rassegna delle dichiarazioni fatte si veda l’articolo di M. Scopece “Quando Mattarella bocciava i bis al Quirinale” www.startmag.it/mondo/quando-mattarella-bocciava-i-bis-al-quirinale/ [3] www.repubblica.it/politica/2021/12/02/news/pd_deposita_ddl_vieta_rielezione_presidente_repubblica-328639061/ [4] Un rapido riassunto su www.corriere.it/politica/elezioni-presidente-repubblica-2022/notizie/mattarella-presidente-repubblica-e56a5308-8117-11ec-97ae-7cc35437dc27.shtml [5] Così M. Guerzoni in www.corriere.it/politica/elezioni-presidente-repubblica-2022/notizie/mattarella-ruolo-draghi-rielezione-ora-governo-riparte-5a5b0a52-8151-11ec-97ae-7cc35437dc27.shtml [6] www.rainews.it/articoli/2022/01/quirinale-elezione-presidente-della-repubblica-maggioranza-chiude-intesa-sul-mattarella-bis-c6d62475-bcdf-4fc0-9ecc-99c80f7bd424.html In proposito riferisce il notiziario RAI che << I leader di maggioranza hanno chiuso l'intesa per una seconda elezione di Sergio Mattarella. La prima richiesta in qualche modo formale al Presidente della Repubblica è arrivata dal presidente del Consiglio, Mario Draghi: resti per "il bene e la stabilità del Paese", gli avrebbe detto nel colloquio di venti minuti al termine della cerimonia al Quirinale di giuramento del nuovo giudice costituzionale, Filippo Patroni Griffi. I capigruppo della maggioranza sono usciti insieme dal Colle dove si sono recati per chiedere la disponibilità a Mattarella. Per Forza Italia: Paolo Barelli e Anna Maria Bernini mentre per la Lega, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari. Per i 5stelle, Davide Crippa e Mariolina Castellone, per il Pd, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Per Italia Viva. Maria Elena e Boschi e Davide Faraone. Proprio la Malpezzi - rivolgendosi ai cronisti - ha detto che è andato "tutto bene". "Il Presidente Mattarella ci ha detto che aveva altri piani per il suo futuro, ma vista la situazione ha detto che serve una mano lui c'è, si è messo a disposizione". Lo ha riferito la capogruppo delle Autonomie al Senato Julia Unterberger lasciando il Quirinale. "Lo abbiamo pregato, vista la situazione, di restare per un altro mandato" ha riferito ancora Unterberger al termine del colloquio. Ora è una delegazione delle Regioni, tra cui il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga, ad essere ricevuta dal Capo dello Stato.>>  [7] www.huffingtonpost.it/politica/2022/02/03/news/fdi_deposita_proposta_contro_la_rielezione_del_capo_dello_stato_nel_giorno_del_giuramento_di_mattarella-8650657/ [8] P. Biscaretti di Ruffia Diritto costituzionale XIV ed. Napoli pag. 460 “non vige alcun divieto per la rielezione di chi abbia già ricoperto l’ufficio stesso”; T. Martines, Diritto costituzionale, XII ed., integralmente riveduta da G. Silvestri, Milano, 2010, p. 441 “la Costituzione non pone alcun divieto alla rieleggibilità del Presidente alla scadenza della carica”. [9] G. Balladore Pallieri Diritto costituzionale X ed. Milano 1972 pag. 181,182. Ivi si sostiene: “Non essendovi fra i requisiti quello di non avere ricoperto la carica, il presidente è rieleggibile indefinitamente.” [10] P. Barile (voce) Presidente della Repubblica, in Novissimo Digesto Torino (1966) [11] L. Paladin (voce) Presidente della Repubblica, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, p. 183. [12] S. Galeotti B. Pezzini (voce) Presidente della Repubblica nella Costituzione Italiana, in Digesto delle discipline pubblicistiche XI Torino 1996. [13] Dossier XVIII legislatura “BREVI NOTE SUL 'SEMESTRE BIANCO” gennaio 2022 n. 495 SERVIZIO STUDI Ufficio ricerche sulle questioni Istituzionali, giustizia e cultura, reperibile sul sito del Senato all’indirizzo https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01330971.pdf [14] M. Volpi, Considerazioni sulla rieleggibilità del Presidente della Repubblica, in “Quaderni costituzionali” 1985). [15] Dossier Senato cit. [16] riportato in V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 1976, pp. 242-243). [17] Il messaggio è riportato nel Dossier Senato cit. pag, 17/21. [18] A seguito del messaggio presidenziale il presidente del Consiglio dei ministri A. Leone, presentò il 16 ottobre 1963 un disegno di legge costituzionale per la modifica dell’art. 85 della Costituzione. Il testo e la relazione illustrativa sono riportati in Dossier Senato cit. alle pag. 23-24. [19] Esame dei disegni di legge costituzionale n. 845 del 1988 dei senatori MANCINO, FABBRI, CARIGLIA e MALAGODI e n. 168 del 1987 FILETTI, BIAGIONI, FLORINO, FRANCO, GRADARI, LA RUSSA, MANTICA, MISSERVILLE, MOL TISANTI, PISANÒ, PONTONE, POZZO, RASTRELLI, SIGNORELLI, SPECCHIA e VISIBELLI. Riportata dal Dossier Senato cit. Alle pag. 25-32. [20] Dossier cit. alle pagg. 12,13 e 14 https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01330971.pdf [21] F. Di Donato Brevi riflessioni a margine del primo anno del Presidente Mattarella al Quirinale: tra riforme costituzionali, lotta alla corruzione e terrorismo internazionale in Osservatorio costituzionale AIC 2016 n. pag, 11 in n. 28. [22] V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Jus, 1958, p. 174 [23] G. Guarino, Il Presidente della Repubblica Italiana, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1951, pp. 963-4 [24] S. Galeotti-B. Pezzini, Il Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, Torino, 1996, pp. 9-11; G.U. Rescigno, Il Presidente della Repubblica – Art. 83, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Società editrice del Foro Italiano, Bologna-Roma, 1978, p. 143; [25] P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1958, p. 295 ss.; . P. CalamandreI, Viva vox Constitutionis, in Il Ponte, 1955, n. 6, p. 809 ss.; C. Lavagna, Diritto costituzionale, Milano, 1957, I, p. 432; P. Barile, Presidente della Repubblica, in Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1966, p. 715 ss.; A.M. Sandulli, Il Presidente della Repubblica e la funzione amministrativa, in Scritti giuridici, Napoli, I, p. 239 ss.; O. CHESSA, Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un'interpretazione della forma di governo, Napoli, 2010; [26] C. Esposito Capo dello Stato, controfirma ministeriale, Milano, 1962 [27] Cfr. ex multis G. De Vergottini Il ruolo del Presidente della Repubblica negli scritti di Giustino D’orazio in Nomos le attualità nel diritto, quadrimestrale 1/2017 ove fra l’altro si osserva: “tale espansione presidenziale ha potuto valersi anche della tolleranza o addirittura di una sorta di connivenza del sistema dei partiti e degli altri organi costituzionali”. [28] https://www.tecnicadellascuola.it/cassese-green-pass-come-la-patente [29] B Pezzini, Intervento al Forum “La coda del Capo. Presidente della Repubblica e questioni di fine mandato” Nomos 3/2021, ove si rileva che lo schema interpretativo della presidenza della repubblica come istituzione essenzialmente garantistica costituisce “lettura sistematicamente necessaria e coerente al funzionamento, o forse meglio sarebbe dire alla riattivazione, del circuito di responsabilità politica e rappresentatività che riguarda parlamento e governo (nel rapporto con il corpo elettorale); un circuito che il Presidente della Repubblica, capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale, è chiamato ad attivare e far funzionare, restando ad esso estraneo”. [30] Sul punto, con un approccio politico piuttosto che giuridico, si veda T. Montanari “Il bis di Mattarella: una mina (reale) per la Costituzione”. Su Il Fatto Quotidiano 1 febbraio 2022 pag. 11 https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/01/il-bis-di-mattarella-una-mina-reale-per-la-costituzione/6475834/ ; si veda ora il presunto retroscena tratteggiato da B.Frucci La rielezione di Sergio Mattarella è stata pianificata a tavolino in il Tempo 7 febbraio 2022 www.iltempo.it/politica/2022/02/07/news/sergio-mattarella-bis-rielezione-tutto-gia-deciso-pianificata-tavolino-proposta-legge-retroscena-30391444/ [31] E. Flaiano, Diario notturno, Taccuino 1954 p. 165.
Autore: Paola Malanetto – Consigliere Tar Piemonte 03 feb, 2022
Riflessioni a margine dalla sentenza Corte di Giustizia Grande sezione 21 dicembre 2021 in causa C-497/20 1. I presupposti del rinvio pregiudiziale ed i quesiti posti alla Corte di giustizia. In una procedura di appalto indetta dalla Azienda USL Valle d’Aosta per individuare una agenzia cui affidare la somministrazione di lavoro temporaneo, la legge di gara fissava un punteggio tecnico minimo di sbarramento per accedere all’aggiudicazione. Solo due degli otto concorrenti superavano tale sbarramento e la prima delle imprese escluse per questa ragione contestava, innanzitutto, la propria esclusione e, quindi, l’intera disciplina di gara sotto plurimi profili (suddivisione in lotti, criteri di aggiudicazione, composizione della commissione giudicatrice). In primo grado il Tar Valle d‘Aosta, con la sentenza n. 13 del 22 marzo 2019, respingeva nel merito tutte le censure, disattendendo l’eccezione della controinteressata di inammissibilità dei motivi di ricorso volti a censurare lo svolgimento della gara, per carenza di legittimazione ad agire della ricorrente, una volta che fosse stato respinto il primo motivo relativo al punteggio tecnico e l’impresa ricorrente fosse quindi risultata legittimamente esclusa. Entrambe le parti proponevano appello al Consiglio di Stato che, con sentenza sez. III, n. 5606 del 7 agosto 2019, confermava la reiezione nel merito delle censure volte a contestare il mancato superamento del punteggio tecnico minimo e, quindi, ritenuta l’originaria ricorrente legittimamente esclusa dalla procedura, decretava l’inammissibilità delle ulteriori censure dalla medesima proposte per carenza di legittimazione ad agire. La sentenza di appello veniva impugnata con ricorso per Cassazione per asserita violazione del diritto ad un ricorso “effettivo”, come declinato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con le sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C‑100/12), del 5 aprile 2016, PFE (C‑689/13), nonché del 5 settembre 2019, Lombardi (C‑333/18), assumendo che il principio di diritto ivi affermato, e non fatto proprio dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, integrasse un parametro riconducibile ad un “motivo inerente la giurisdizione” ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. La Corte di Cassazione, con ordinanza SU 19598/2020 , prendendo atto che la lettura dell’ art. 111 della Costituzione estesa sino a permettere un sostanziale sindacato sul merito delle decisioni del giudice amministrativo – se pure per profili di diritto eurounitario – risulta nel nostro ordinamento superata alla luce della giurisprudenza costituzionale, ha interpellato la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE circa la conformità di tale assetto istituzionale interno ai parametri eurounitari. Evidenziava nel proprio rinvio pregiudiziale il giudice del riparto che, in base all’attuale giurisprudenza costituzionale, il difetto di giurisdizione contemplato dall’art. 111 della Costituzione si riscontra solo nei casi in cui un giudice esorbiti in termini assoluti dalla giurisdizione (in senso positivo affermandola, là dove sussiste invece una sfera riservata al legislatore o all’amministrazione, ovvero, in senso negativo, assumendo l’esistenza di tale riserva in ambiti in cui essa non sussiste) o lo faccia in termini relativi affermando (o, simmetricamente, negando) la sua giurisdizione là dove operi (o, simmetricamente, non operi) quella di altro plesso giurisdizionale. Lo stesso giudice del rinvio ricordava che la propria giurisprudenza precedente alla pronuncia della Corte Costituzionale 18 gennaio 2018 n. 6 aveva ricondotto le ipotesi di applicazione del diritto processuale interno in modo non conforme al principio del ricorso effettivo, come declinato dalla giurisprudenza eurounitaria, ad una forma di denegata giustizia e, quindi, ad una violazione dell’art. 111 della Costituzione; tale soluzione sarebbe stata tuttavia preclusa dalle più recenti pronunce del giudice delle leggi, sicchè la Corte di Cassazione, per il tramite del primo quesito in rinvio pregiudiziale, ha, in sostanza, chiesto alla Corte di Giustizia, di sconfessare la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, riaprendo la via a questo rimedio. Con un ulteriore quesito la Corte di Cassazione ha stigmatizzato il fatto che il Consiglio di Stato non si fosse avvalso, nel caso specifico, dell’onere/dovere, nella propria qualità di giudice di ultima istanza, di interpellare la Corte di giustizia in presenza di un dubbio di interpretazione circa la corretta applicazione della normativa eurounitaria in un ambito, quale quello delle gare pubbliche , in cui detta normativa trova applicazione con principio di primazia; ha quindi evidenziato che, ammettendo la denuncia di tale mancanza con ricorso per cassazione, il giudice del riparto potrebbe, in ultima istanza, rimediare a tale omissione foriera di responsabilità per lo Stato. Da ultimo, con un terzo quesito, la Corte di Cassazione ha nuovamente sollecitato la Corte di giustizia sulla vexata questio della possibilità o meno, per una impresa che risulti legittimamente esclusa da una gara o comunque che non abbia avuto legittimamente accesso ad una fase successiva della stessa (nel caso di specie per mancato raggiungimento del punteggio tecnico minimo), di contestare la procedura nel suo complesso e nei suoi sviluppi successivi, così da aspirare, non ad una aggiudicazione o miglior collocamento in graduatoria (stante la acclarata legittimità della sua esclusione), bensì ad una complessiva riedizione dell’intero confronto concorrenziale. L’ordinanza e la sentenza della Corte di giustizia che ne è derivata rappresentano una sorta di sintesi di tensioni istituzionali, nazionali e sovranazionali, che interpellano i massimi equilibri dei rapporti tra le giurisdizioni. 2. Il tormentato rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo italiano. Con le tre sentenze citate dalla Corte di Cassazione nel proprio rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia ha sostanzialmente ridisegnato l’assetto che era stato raggiunto dalla giurisprudenza nomofilattica italiana per quanto concerne il rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo. Limitandosi ai più recenti arresti dell’adunanza plenaria, il sistema era stato faticosamente ricostruito dal giudice nazionale come segue. La decisione dell’ adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 11/2008 aveva dato atto della “risalente pacifica giurisprudenza” per la quale, per economia processuale, il ricorso incidentale cosiddetto paralizzante, cioè volto a contestare l’ammissione in gara e quindi la stessa legittimazione ad agire della ricorrente principale, ben poteva essere valutato per primo quando, anche in esito all’eventuale esclusione tanto dell’aggiudicataria e ricorrente incidentale che della ricorrente principale, quest’ultima non avrebbe potuto ottenere alcuna utilità, perché sarebbero residuate da prendere in esame le ulteriori offerte valide presentate, senza dunque alcun automatico effetto di riedizione della gara. In ipotesi di questo tipo, l’ordine di esame delle questioni non avrebbe in effetti inciso sulla parità delle parti (tutte teoricamente da escludere); tale regola avrebbe potuto trovare eccezione in una gara con due soli partecipanti i quali, simmetricamente, contestassero le rispettive ammissioni; in tal caso, infatti, qualora entrambe le impugnative fossero state fondate, la scelta del giudice di privilegiarne nel merito una a discapito dell’altra la cui analisi restava preclusa da questioni di rito avrebbe avuto incidenza sul pari diritto delle parti di vedere tutelato l’interesse alla riedizione della gara; ne veniva desunto il principio per cui la riconosciuta tutela dell’interesse alla riedizione della gara comportava, per il giudice, l’obbligo di analizzare tanto il ricorso principale che quello incidentale nelle ipotesi di gara con due sole concorrenti e simmetriche impugnative volte a contestare la reciproca ammissione. La successiva decisione dell’ adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011 ha ridimensionato il principio; ha osservato che il principio di parità delle parti, che informa tutta la disciplina processuale, e la tutela dell’interesse strumentale - qui definito non come “autonoma posizione giuridica soggettiva” ma come “rapporto di utilità tra l’accertata legittimazione al ricorso e la domanda formulata dall’attore” - dovevano trovare sintesi in “un sistema di giurisdizione soggettiva, ove la verifica di legittimità dei provvedimenti amministrativi non va compiuta nell’astratto interesse generale ma è finalizzata all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice”; ciò in quanto un ricorso non è mera “occasione del sindacato giurisdizionale sull’azione amministrativa”. Da tale premessa l’adunanza plenaria del 2011 ha fatto discendere il dovere del giudice di preliminarmente verificare la sussistenza delle condizioni dell’azione (come in generale di tutte le questioni preliminari di rito) tra cui, appunto, la legittimazione ad agire della parte, garantita dalla idoneità dell’offerta dalla stessa presentata ad essere ammessa in gara. Siffatta verifica sarebbe stata imposta in caso di presentazione di un ricorso incidentale volto a contestare l’ammissione in gara del ricorrente principale e conseguentemente la sua legittimazione ad agire. Ancora la plenaria ricordava come, da un lato, un soggetto definitivamente escluso da una gara con provvedimento inoppugnabile/inoppugnato non avrebbe più potuto, per pacifica giurisprudenza, contestarne gli esiti e, dall’altro, non vi sarebbero state ragioni per differenziare tale posizione da quella di colui che, pur avendo beneficiato di una illegittima ammissione da parte della stazione appaltante, era risultato effettivamente privo dei requisiti di partecipazione all’esito dell’accoglimento di un ricorso incidentale. L’eventuale diversità di trattamento di queste posizioni sarebbe stata infatti frutto, non di una diversa consistenza sostanziale delle rispettive posizioni giuridiche soggettive, ma del diverso “casuale” andamento della gara, che avrebbe visto, nel primo caso, la stazione appaltante legittimamente escludere il concorrente con atto divenuto definitivo e, nel secondo caso, illegittimamente ammetterlo, con atto la cui illegittimità era tuttavia emersa in esito al ricorso incidentale. La plenaria concludeva con un revirement in senso più restrittivo rispetto al precedente assetto, affermando il principio di diritto secondo il quale: “il ricorso incidentale, diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, mediante la censura della sua ammissione alla procedura di gara, deve essere sempre esaminato prioritariamente, anche nel caso in cui il ricorrente principale alleghi l’interesse strumentale alla rinnovazione dell’intera procedura”. Da ultimo la sentenza dell’ adunanza plenaria del Consigilo di Stato n. 9/2014 rimeditava ancora l’indirizzo nomofilattico, alla luce dei contemporanei sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia. La decisione è stata infatti emessa dopo la pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia Fastweb (su cui infra). L’adunanza plenaria ricordava che il pur affermato “principio di autonomia processuale nazionale” degli Stati membri (sentenza 22 dicembre 2010 Commissione contro Repubblica slovacca, in causa C-507/08, e 30 settembre 2010 Stadt Graz contro Strabag, in causa C314/09) deve conciliarsi con i principi di effettività di tutela delle posizioni giuridiche soggettive di derivazione eurounitaria, declinati, tra l’altro, come non discriminazione ed accesso a un ricorso realmente effettivo negli ordinamenti nazionali. Analizzando la sentenza della Corte di giustizia la plenaria giungeva alla conclusione che la necessità di analizzare tanto il ricorso principale che quello incidentale era stata affermata nella sentenza Fastweb limitatamente al caso in cui gli operatori rimasti in gara fossero due e i vizi che affliggevano le offerte fossero esattamente identici. La plenaria riaffermava per contro il principio per cui la parità delle parti nel processo non esclude la sussistenza di legittime asimmetrie decisionali, in particolare là dove l’attore, la cui posizione è afflitta da un vizio che ne precluderebbe la partecipazione, non può invocare un interesse contra ius (vedersi aggiudicata una gara cui non aveva titolo a partecipare) o comunque tenere atteggiamenti che sono legittimamente sospettabili di rappresentare forme di abuso del diritto e alimentare contenzioso artificiale. D’altro canto, precisava sempre la plenaria, “l’interesse ad agire va valutato nella sua concretezza, ricercando un punto di equilibrio tra interesse pubblico e privato nel contesto di un processo governato dal principio della domanda, evitando la torsione del sistema verso una giurisdizione di tipo oggettivo”. Per contro la peculiarità della decisione Fastweb (avente ad oggetto l’identico vizio dedotto per le due uniche offerte) avrebbe fatto sì che l’accoglimento dell’identica censura dedotta da entrambe le parti fosse automaticamente ad indifferentemente predicabile per entrambe, rendendo, nello specifico caso, preminente il principio di parità, sì da superare di fatto la problematica dell’ordine di analisi delle questioni; si affermava invece che restasse fermo il principio di prioritaria analisi del ricorso incidentale paralizzante in tutti gli altri casi. L’adunanza plenaria procedeva quindi a meglio disegnare i confini dell’“eccezione” Fastweb, individuando il “motivo identico” nell’ipotesi in cui sussistessero identità del vizio ed identità del suo effetto escludente; identici sarebbero stati non i vizi assolutamente sovrapponibili nella loro causa ma quelli afferenti alla medesima sub-fase del procedimento, oltre che ugualmente idonei a comportare una esclusione. Per delimitare le sub-fasi nel cui contesto potevano essere dedotte censure qualificabili “di identico contenuto” la sentenza proponeva la seguente scansione del procedimento di gara: 1. valutazione di tempestività della domanda di partecipazione di integrità dei plichi; 2. valutazione dei requisiti soggettivi generali e speciali di partecipazione (economici, finanziari, tecnici, organizzativi e di qualificazione); 3. valutazione di eventuali carenze di elementi essenziali dell’offerta previsti a pena di esclusione (ivi inclusa l’incertezza assoluta dell’offerta). Il potenziale accoglimento di entrambi i ricorsi sarebbe stato ammissibile se i vizi dedotti fossero stati riferibili alla medesima sub-fase, come sopra disegnata; in mancanza di tale “simmetria escludente”, e per i vizi afferenti a diverse fasi, sarebbe tornata applicabile la regola processuale della previa analisi del ricorso incidentale, con possibile preclusione di vaglio del ricorso principale. 3. Il rapporto tra ricorso principale e incidentale sotto la lente della Corte di giustizia. Sull’assetto come sopra elaborato dalla giurisprudenza nazionale ha avuto un evidente impatto la parallela evoluzione della giurisprudenza eurounitaria. Come già ricordato, il primo intervento della Corte di giustizia in materia risale alla nota sentenza Fastweb del 4 luglio 2013, in causa C-100/12 , sentenza sollecitata da un rinvio pregiudiziale del Tar Piemonte. Essa ha, in verità e come rilevato anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, analizzato una fattispecie molto peculiare; si trattava della deduzione, con ricorso tanto principale che incidentale, di censure sostanzialmente speculari afferenti le due uniche offerte in gara; in tale ipotesi urtava, in senso logico prima che giuridico, contro il principio di parità delle parti l’eventuale affermazione della sussistenza del vizio per una sola delle due offerte, con effetti paralizzanti del ricorso principale. In questa evenienza la Corte, richiamata la disciplina dettata in materia di appalti dalla direttiva 89/665, che riconosce ad ogni concorrente escluso la possibilità di proporre ricorsi efficaci ed accessibili qualora “abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto” o “rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”, ha affermato che l’art. 1 par. 3 della direttiva “deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale.” Il principio a quel momento affermato poteva, come visto, essere reso compatibile con la ricostruzione prospettata dall’adunanza plenaria sino al 2014; in tali casi, in effetti, ciò che stride è l’esito in un certo senso di casualità del risultato paralizzante in quanto, acclarata necessariamente contestualmente la sussistenza del vizio delle offerte tecniche, essa verrebbe poi sanzionata in capo a solo una delle parti. Con la successiva sentenza 5 aprile 2016 Puligienica Facility Esco s.p.a., in causa C-689/13 , provocata da un rinvio pregiudiziale del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, il principio enunciato nella sentenza Fastweb è stato esteso oltre la sua iniziale portata; nel caso specifico il ricorso principale e incidentale miravano alla reciproca esclusione dei concorrenti ma, alla gara, avevano partecipato più imprese; tuttavia le imprese non coinvolte nel contenzioso erano a loro volta state escluse dall’amministrazione. La Corte di Giustizia ha comunque affermato l’estensione del principio definibile “Fastweb”, sostenendo che “ciascuna delle parti della controversia ha un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri concorrenti”, e ciò tanto più in quanto “non è escluso che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicataria quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto, circostanza che potrebbe comportare la necessità per tale amministrazione di avviare una nuova procedura”. Concludeva la sentenza che “il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico, così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai medesimi dedotti sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che risulta dalla sentenza Fastweb”. Nella medesima occasione il giudice comunitario ricordava anche che il giudice del rinvio pregiudiziale è tenuto ad applicare il principio enunciato dalla Corte anche qualora in ipotesi esso si presenti in contrasto con la giurisprudenza (nel caso di specie nomofilattica) in precedenza o successivamente affermata nel proprio ambito nazionale. In sintesi, e benchè la fattispecie presupposta vedesse comunque i concorrenti di fatto ridotti a due, il principio della necessaria esaustiva indagine delle incrociate censure di potenziale esclusione veniva affermato in termini ampi. Nella successiva pronuncia Lombardi s.r.l. del 5 settembre 2018, in causa C-338/18 , su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, la Corte di Giustizia ha ulteriormente esteso il principio ad una gara con più concorrenti in cui le imprese postergate a quelle coinvolte in giudizio vedevano il loro inserimento in graduatoria consolidato, non essendo la loro posizione stata attinta da alcun ricorso o annullamento da parte dell’amministrazione. L’estensione del principio è stata ribadita sostenendo che “in tal caso non si può escludere che l’amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare l’impossibilità di scegliere un’altra offerta regolare e proceda di conseguenza all’organizzazione di una nuova procedura di gara”; ancora “qualora il ricorso dell’offerente non prescelto fosse giudicato fondato, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe prendere la decisione di annullare la procedura e di avviare una nuova procedura di affidamento a motivo del fatto che le restanti offerte regolari non corrispondono sufficientemente alle attese dell’amministrazione stessa”. La Corte ne inferiva complessivamente che l’effetto utile dalla direttiva 89/665 può essere pregiudicato dal fatto che la ricevibilità di un ricorso sia subordinata alla previa constatazione che “tutte le offerte classificate alle spalle di quella dell’offerente autore di detto ricorso sono anch’esse irregolari. Tale ricevibilità non può neppure essere subordinata alla condizione che il suddetto offerente fornisca la prova del fatto che l’amministrazione aggiudicatrice sarà indotta a ripetere la procedura di affidamento di appalto pubblico. L’esistenza di una possibilità siffatta deve essere considerata in proposito sufficiente”; infine la Corte ricordava come il principio di autonomia processuale degli Stati membri non può giustificare disposizioni di diritto interno che rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione. La Corte precisava anche che tale principio non sarebbe in contrasto con quanto in precedenza affermato nella sentenza 21 dicembre 2016 Bietergemeinshaft Technische Gebäudebetreuung GesmbH, in causa C-355/15, che ugualmente si è occupata dell’estensione del principio “Fastweb”; in quella occasione il concorrente che contestava l’aggiudicazione e invocava l’azzeramento della procedura era una impresa che era già stata esclusa della stazione appaltante, aveva in separato giudizio contestato la propria esclusione ed era ivi rimasta soccombente, sicchè la stessa doveva considerarsi definitivamente esclusa. La Corte non riteneva la posizione del soggetto definitivamente escluso dalla gara (con atto non contestato o non più contestabile) assimilabile a quella dei concorrenti le cui offerte fossero state in prima battuta ritenute ammissibili dall’amministrazione e fossero poi state messe in discussione in un unico contestuale giudizio. Si potrebbe agevolmente replicare che la fragilità di questo distinguo è già stata stigmatizzata dall’Adunanza plenaria, là dove ha evidenziato che esso può dipendere dal mero “caso” per cui la stazione appaltante, in prima battuta, si avveda o non si avveda del vizio che preclude l’ammissione in gara del concorrente. Con la pronuncia del 27 dicembre 2021 , ora in commento, la Corte non ha fatto altro che ribadire i propri precedenti in materia, riaffermando la non conformità all’ordinamento eurounitario di una decisione che non abbia valutato le contestazioni mosse avverso la posizione dell’aggiudicatario da parte di una impresa la cui esclusione dalla gara di appalto, in quanto anch’essa contestata, non poteva in quella fase dirsi definitiva, ancorché in ipotesi fosse risultata corretta in corso di giudizio. Pertanto, anche se nel caso di specie il problema di legittimazione/interesse ad agire non nasceva dalla dinamica ricorso principale/incidentale ma investiva gli stessi graduati motivi proposti da un’unica ricorrente principale, il sotteso principio di diritto processuale appare sovrapponibile. Per questo specifico profilo la decisione in analisi si colloca dunque nel percorso di progressiva estensione del principio “Fastweb”, che ha reso necessario il superamento del sistema disegnato dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel 2014 in tema di equilibrio tra ricorso principale e ricorso incidentale e, più in generale, ha indotto un ampliamento dell’interesse ad agire in materia di appalti; l’estensione è stata, come visto, sempre giustificata con l’esigenza di garantire l’effetto utile delle direttive appalti, declinato in termini di effettività di tutela e parità di trattamento. 4. Le “questioni inerenti la giurisdizione” ai sensi dell’art. 111 della Costituzione all’attenzione della Corte di giustizia. La seconda questione portata all’attenzione della Corte di giustizia in questo contenzioso ha una valenza squisitamente nazionale ed attiene al rapporto tra giurisdizioni. Nel dibattito relativo all’ordine di valutazione di ricorso principale ed incidentale da parte del giudice amministrativo, a livello nazionale, si era da tempo inserita la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, ha portato alla sua massima espressione un conflitto tra giurisdizioni, conflitto che ha trovato nella specifica problematica di diritto processuale una mera “occasione”. A partire dalla sentenza n. 2242/2015 [1] le Sezioni Unite della Cassazione hanno cassato, per asserita violazione dell’art. 111 della Costituzione, diverse sentenze del Consiglio di Stato che avevano scelto di analizzare prioritariamente il ricorso incidentale e, riscontratane la fondatezza, avevano dichiarato inammissibile il ricorso principale per carenza di legittimazione della parte ricorrente, il tutto in ossequio agli orientamenti più rigorosi in termini di preliminare vaglio delle condizioni dell’azione assunti in sede nomofilattica. La ricostruzione elaborata dalla Sezioni Unite è stata la seguente: benchè il controllo dei limiti esterni della giurisdizione non includa le scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori in iudicando o in procedendo non sindacabili dal giudice del riparto, resterebbero salvi “i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali e dell’Unione) tali da ridondare nella denegata giustizia, ed in particolare, sarebbe salvo il caso di errore “in procedendo” costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizione nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione europea, direttamente applicabili secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia.” L’orientamento della Corte di giustizia sulla specifica problematica del rapporto tra ricorso incidentale e principale si era consolidato tra il 2013 e il 2018, finendo per impattare pesantemente sul diverso e più restrittivo orientamento ancora seguito del Consiglio di Stato nello stesso periodo. La soluzione di ammettere un ulteriore grado di giudizio per rimediare al contrasto via via consolidatosi è risultata avere un indiretto avallo anche nella pronuncia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato del 9 giugno 2016, n. 11, (resa in materia del tutto diversa), chiamata a confrontarsi con la problematica del potenziale conflitto tra un giudicato amministrativo e sopravvenute decisioni della Corte di giustizia. Tra i possibili rimedi l’adunanza plenaria ricordava, in quel contesto, appunto, l’orientamento in gestazione presso la Corte di Cassazione. La posizione del Consiglio di Stato si giustificava anche per ragioni pratiche di superamento di decisioni del plesso che avevano finito per trovarsi, per effetto della sovrapposizione cronologica degli sviluppi giurisprudenziali, in contrasto con le più recenti pronunce della Corte di giustizia. La via della riconduzione di possibili violazioni del diritto eurounitario a vizi di giurisdizione è stata sbarrata della sentenza della Corte Costituzionale n. 6 del 18 gennaio 2018 . Il giudice delle leggi, sollecitato tra l’altro proprio dalla Cassazione con ordinanza n. 107 dell’8 aprile 2016, evidenziava come l’interpretazione “evolutiva” o “dinamica” del concetto di giurisdizione propugnata dalla Cassazione, estesa cioè non solo ai presupposti di attribuzione della giurisdizione ma anche “alle forme di tutela” in cui l’attività dei giudici speciali si estrinseca, finirebbe per “mettere in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni”; proseguiva la Corte evidenziando come la giurisprudenza costituzionale avrebbe più volte esplicitato che, nel nostro ordinamento, l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni e che la sentenza resa in tema di riparto di giurisdizione “può vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione.” Ancora si precisava che non vi è dubbio che il giusto processo e l’effettività della tutela vadano garantite ma ciò “a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione”. Pertanto una violazione delle norme dell’Unione Europea o della CEDU resterebbe un motivo di “illegittimità (sia pure particolarmente qualificata) estranea alla problematica della giurisdizione”. D’altro canto, ha proseguito la Corte Costituzionale, “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive [2] ”. Ne è conseguita una serie di pronunce del giudice del riparto che, adeguandosi alla lettura dell’art. 111 fornita dalla Corte Costituzionale, hanno dichiarato inammissibili i ricorsi per cassazione proposti per sollecitare un riesame di ricorsi che erano stati ritenuti inammissibili dal giudice amministrativo [3] . Con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia la Corte di Cassazione ha, di fatto, scelto di riaprire il conflitto, demandandone la soluzione ad un giudice sovranazionale [4] . L’esito auspicato, disegnato nell’ordinanza di rimessione, presentava, ove portato ad estremi sviluppi, evidenti rischi di esplosione del contenzioso e stravolgimento dell’assetto del riparto di giurisdizione disegnato dalla Costituzione, di fatto assegnando alla Cassazione, per il tramite dell’effettività della tutela, il ruolo di giudice di terzo grado in ogni ambito del diritto amministrativo che intersechi materie di rilevanza eurounitaria, ossia in grande parte del contenzioso che caratterizza questa giurisdizione. Della potenziale vis espansiva di questa impostazione sono chiaro sintomo diversi passaggi dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale in cui si legge testualmente, con riferimento all’orientamento delle sezioni unite formatosi prima dell’intervento della Corte costituzionale del 2018, che esso era: “fondato sulla decisiva considerazione che il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali e processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell’Unione applicabili nella controversia, come intrepretate dalla Corte di giustizia, esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione – per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale – censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione. Diversamente dalla sentenza affetta da semplice violazione di legge in fattispecie regolate dal diritto nazionale, ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, di regola (tranne in casi eccezionali), pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato, nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell’Unione.” Ancora, si legge sempre nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale: “la nozione di giurisdizione è sufficientemente ampia da fare ritenere a queste Sezioni - le quali vigilano sul “rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni” - che il ricorso per Cassazione costituisca l’estremo rimedio apprestato dall’ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell’Unione.” Nella propria ordinanza, non potendo ignorare la sentenza dalla Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ne ha derubricato il contenuto a “prassi giurisprudenziale” (così qualificando l’unica giurisprudenza nazionale che ha natura esplicita, quantomeno atipica, di fonte del diritto, presentando l’effetto proprio di abrogazione di norme vigenti) e ha sollecitato la Corte di giustizia ad entrare in conflitto con la giurisprudenza del giudice costituzionale italiano (di cui per altro non ha ricostruito, nell’ordinanza di rimessione, il contenuto), ricordando al giudice europeo che: “è inammissibile che norme di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, possano menomare l’unità ed efficacia del diritto dell’Unione (Corte di giustizia 8 settembre 2010, Winner Wetten Gmbh in causa C-409/06)” e che “all’applicazione del diritto comunitario non è di ostacolo l’esistenza di disposizioni nazionali contrastanti, anche se conformi a (o esecutive di) principi costituzionali”. [5] Da ultimo la Corte estendeva il proprio quesito alla possibilità di offrire rimedio anche al caso di semplice omesso rinvio pregiudiziale obbligatorio da parte del Consiglio di Stato, fattispecie in verità distinta e ulteriore rispetto anche alla tradizionale elaborazione del concetto dinamico di giurisdizione da parte del giudice di legittimità, che era ancorata non alla mera omissione del rinvio ma quantomeno ad una obiettiva violazione di principi già elaborati dalla Corte [6] . 5. La procedura davanti alla Corte di giustizia. Nella propria richiesta di rinvio pregiudiziale la Corte di Cassazione ha invocato l’applicazione della procedura accelerata prevista dall’ art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia che recita: “ 1. Su domanda del giudice del rinvio o, in via eccezionale, d’ufficio, quando la natura della causa richiede un suo rapido trattamento, il presidente della Corte, sentiti il giudice relatore e l’avvocato generale, può decidere di sottoporre un rinvio pregiudiziale a procedimento accelerato, in deroga alle disposizioni del presente regolamento. 2. In questo caso il presidente fissa immediatamente la data dell’udienza, che sarà comunicata agli interessati menzionati dall’articolo 23 dello statuto, contestualmente alla notifica della domanda di pronuncia pregiudiziale. 3. Gli interessati menzionati nel paragrafo precedente possono depositare, entro un termine fissato dal presidente e che non può essere inferiore a 15 giorni, memorie od osservazioni scritte. Il presidente può invitare detti interessati a limitare le loro memorie od osservazioni scritte ai punti di diritto essenziali sollevati dalla domanda di pronuncia pregiudiziale. 4. Le eventuali memorie od osservazioni scritte sono comunicate anteriormente all’udienza a tutti gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello statuto. 5. La Corte statuisce, sentito l’avvocato generale. ” L’istanza è stata supportata assumendo che le problematiche involgessero delicati equilibri costituzionali, coinvolgessero un gran numero di vertenze pendenti presso la Corte di Cassazione e riguardassero un settore, gli appalti pubblici, fisiologicamente soggetto ed esigenze di celerità di giudizio. La Corte di giustizia, facendo appello alla propria giurisprudenza, ha ricordato che la procedura accelerata viene ammessa esclusivamente in ipotesi eccezionali (sentenza 15 luglio 2021 Commissione contro Polonia, in causa C‑791/19, in tema di regime disciplinare dei giudici), mentre tutte e tre le ragioni poste a supporto dell’istanza sono già state ritenute inidonee a tal fine nella giurisprudenza della Corte stessa. In particolare non è stato ritenuto sufficiente per invocare “l’eccezionale” esigenza di rapida trattazione né il fatto in sè che la questione incida sull’ordinamento giudiziario, né il fatto che riguardi un numero potenzialmente elevato di interessati (ordinanza del presidente della Corte del 18 settembre 2018, Tedeschi e Consorzio Stabile Istant Service, C‑402/18), né la sua attinenza alla materia degli appalti (ordinanza del presidente della Corte del 13 novembre 2014, Star Storage, C‑439/14). Esclusa la procedura accelerata il presidente dalla Corte ha ritenuto che la causa, ai sensi dell’ art. 53 co. 3 del regolamento di procedura , meritasse la “decisione in via prioritaria”, tenuto conto “della natura e dell’importanza delle questioni sollevate.” Il Governo italiano ha, infine, chiesto l’applicazione dell’ art. 16 co. 3 dello Statuto della Corte di giustizia che prevede che: “La Corte si riunisce in grande sezione quando lo richieda uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione che è parte in causa”. La Corte ha inoltre preliminarmente riformulato alcune delle questioni come prospettate dal giudice del rinvio, escludendo i richiami alle disposizioni ritenute non pertinenti; in particolare ha evidenziato che non risultava pertinente la prospettata violazione, da parte dell’assetto raggiunto dal nostro ordinamento, dell’art. 267 del TFUE in quanto tale. Esso infatti rappresenta uno strumento di cooperazione tra Corti volto a rafforzare il controllo giurisdizionale del rispetto del diritto dell’Unione, anche per il tramite dei giudici nazionali; la problematica posta dal giudice del rinvio, come ben compresa dal giudice europeo, chiamando in causa il rapporto, tutto interno allo Stato membro, tra “organo giurisdizionale supremo nazionale” e “supremo organo della giustizia amministrativa nazionale”, è stata ritenuta estranea a questioni di cooperazione tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, che la Corte necessariamente considera nel loro insieme. 6. Le risposte della Corte di giustizia. Per quanto in specifico concerne l’aspetto processuale amministrativo, ossia il rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale , la Corte di giustizia non ha potuto che ribadire, nella sostanza, i propri precedenti, ed affermare la non conformità all’ordinamento eurounitario di una decisione che non valuti le contestazioni mosse da un concorrente di una gara di appalto la cui esclusione dalla stessa, in quanto impugnata, non possa dirsi definitiva (sul punto si veda supra § 2 e 3). Più interessante, per l’attualità del dibattito anche all’interno del nostro ordinamento, l’analisi della decisione per i profili inerenti i necessari rimedi che lo Stato membro deve approntare a fronte di decisioni nazionali potenzialmente in contrasto con il diritto UE e la valutazione della soluzione proposta dalla Corte di Cassazione La Corte di giustizia ha preliminarmente ricordato il noto principio secondo cui la direttiva 89/665 sancisce l’obbligo per gli Stati membri di prevedere ricorsi efficaci in materia di appalti ; ciò implica che le modalità di ricorso interno in tali materie debbano conformarsi all’esigenza di un ricorso effettivo innanzi a un giudice imparziale, sancito anche dall’art. 47 della Carta, il tutto in base al principio del primato del diritto dell’Unione, non pregiudicabile neppure da norme di rango costituzionale (sentenza 22 giugno 2021 B. contro Latvijas Republikas Saeima, in causa C-439/19; sentenza 18 maggio 2021 Asociatia “Formul Judecatorilor din Romania, in causa C-83/19); ne discende il connesso obbligo di eventuale disapplicazione di norme costituzionali e superamento di orientamenti giurisprudenziali contrastanti con il preminente diritto comunitario (sentenza 5 aprile 2016 Puligienica Facility Esco s.p.a., in causa C-689/13). Tuttavia, fermo e ribadito il principio della tutela giurisdizionale effettiva delle posizioni giuridiche soggettive di derivazione europea in quanto principio generale del diritto dell’Unione coerente con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (sentenza 15 luglio 2021 Commissione contro Polonia, in causa C-791/19), secondo altrettanto consolidata tradizione della Corte “ spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia procedurale, stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali, a condizione che tali modalità, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione ”. Infatti, ricorda la Corte, “il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri limitino o subordinino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purchè siano sati rispettati i principi di effettività ed equivalenza (sentenza 17 marzo 2016 Bensada Benallal, in causa C -161/15)”. La Corte ha poi preso atto che i limiti del ricorso per cassazione per motivi attinenti la giurisdizione previsti nel nostro ordinamento relativamente alle sentenze del Consiglio di Stato risultano disegnati in modo simmetrico, indipendentemente dal fatto che si tratti di disposizioni di diritto nazionale o di diritto dell’Unione; ne ha inferito il rispetto del principio di equivalenza. Quanto al principio di effettività, il diritto dell’Unione non obbliga gli Stati membri ad istituire mezzi di ricorso ad hoc, a meno che non risulti che nell’ordinamento nazionale non esista “alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione (sentenza 14 maggio 2020 FMS, FZ, SA, SA junior, in causa C-924/19)”; in presenza di un rimedio giurisdizionale è stato quindi ritenuto “perfettamente ammissibile” “che lo Stato membro interessato conferisca al supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi e di impedire, di conseguenza, che quest’ultima possa ancora essere esaminata nel merito nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi all’organo giurisdizionale supremo dello stesso Stato”. La Corte ha così riconosciuto anche il rispetto del principio di effettività da parte dell’attuale assetto dell’ordinamento italiano. Né tale conclusione può essere messa in discussione dall’art. 4 par. 3 del TFUE che obbliga gli Stati membri ad “adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione, in quanto lo stesso non può essere interpretato nel senso di imporre l’obbligo di istituzione di nuovi rimedi giurisdizionali”. La stessa direttiva 89/665 prescrive che la decisione di una amministrazione aggiudicatrice possa essere oggetto di un ricorso efficace e rapido accessibile “quantomeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione; assumendo nel caso concreto che i singoli abbiano accesso, con il ricorso al giudice amministrativo, ad un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, il fatto che le decisioni di quest’ultimo non siano ulteriormente sindacabili innanzi al giudice supremo non rappresenta una limitazione dell’accesso al giudice che possa dirsi incompatibile con l’ordinamento comunitario”. Da ultimo la Corte ha concluso che, nel caso di specie, essendosi verificata una violazione del diritto eurounitario all’esito della decisione del giudice amministrativo di appello, pur non imponendo il diritto dell’Unione quale rimedio la possibilità di un ulteriore ricorso innanzi all’organo giurisdizionale supremo se tale mezzo di impugnazione non è ordinariamente previsto nello Stato membro, il sistema si chiuderà o con l’obbligo dello Stato membro, compreso lo stesso supremo giudice amministrativo, di disapplicare la giurisprudenza non conforme al diritto dell’Unione o, in caso di inosservanza di tale obbligo, con la possibilità per la Commissione europea di proporre ricorso per inadempimento contro lo Stato; quanto al singolo pregiudicato, questi potrà far valere la responsabilità dello Stato, purchè siano soddisfatte le condizioni relative al carattere sufficientemente qualificato della violazione e all’esistenza di un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito (sentenza 30 settembre 2003 Kobler, in causa C-224/01). La Corte di giustizia ha posto, si spera, la parola fine al tentativo per via giudiziaria di instaurare un sindacato generalizzato dalla Corte di Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato. Quanto infine all’omessa attivazione dell’obbligo da parte del Consiglio di Stato, in qualità di giudice di ultima istanza, di interpellare la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, la Corte ha rilevato che, dagli atti, non risultava che il Consiglio fosse stato sollecitato sul punto dalle parti e avesse omesso di proporre il rinvio pregiudiziale. In effetti, dalla lettura della pronuncia, non risulta una espressa contestazione di parte (che per altro, si ricorda, in primo grado era anche rimasta soccombente sul merito delle censure) volta a sollecitare un rinvio pregiudiziale, verosimilmente perché la questione non era emersa nelle forme “canoniche” del rapporto tra ricorso principale e incidentale ma, più semplicemente, in relazione alla legittimazione/interesse alla proposizione di più motivi di ricorso da parte di uno stesso soggetto. La questione dell’ omesso rinvio pregiudiziale è quindi stata ritenuta irricevibile dalla Corte nel caso di specie, in quanto priva di attinenza con l’oggetto della controversia. Sull’esatta perimetrazione degli obblighi di rinvio pregiudiziale la giurisprudenza eurounitaria è tuttavia in questo momento particolarmente attiva; per alcuni spunti di riflessione si rinvia al paragrafo successivo. 7. Le molteplici riflessioni che la decisione della Corte di giustizia sollecita. Delle due grandi questioni che sono state oggetto della decisione della Corte di giustizia - quella, di prospettiva interna, del riparto tra giurisdizioni e quella, di prospettiva esterna, dei rapporti tra ordinamento nazionale ed ordinamento europeo - pare che la prima, che pure ha destato tanto dibattito a livello nazionale, sia in verità la meno significativa, perché ancorata più al passato che ad una prospettiva ordinamentale moderna. 7.1 Il riparto di giurisdizione a confronto con la giurisprudenza europea. Il sistema di doppia giurisdizione rappresenta una scelta della nostra Costituzione, storica, legittima, magari opinabile come ogni scelta, ma che ha ormai raggiunto un suo assetto ed una effettività di tutela che non è seriamente discutibile, se non per petizioni di principio. Non era destinata a particolare successo la richiesta, rivolta ad un giudice che si rapporta fisiologicamente con diversi ordinamenti, molti dei quali strutturati con doppia giurisdizione di cui riconosce piena legittimità storica ed operativa, di veicolare tesi di presunta necessità/opportunità di unificazione del sistema delle giurisdizioni; né migliore sorte poteva avere, a fronte di un sistema che nega l’obbligatorietà financo del doppio grado di giudizio [7] , il tentativo di introdurne un terzo, con buona pace della ragionevole durata dei processi. La Corte, che bene ha inteso il quesito, non ha potuto che replicare che spetta allo Stato membro scegliere come organizzare il proprio sistema di giurisdizione, salvo il limite di effettività di tutela che i plessi giurisdizionali devono garantire; su quest’ultimo punto l’Avvocato generale presso la Corte ha osservato, nelle proprie conclusioni, che: “ è pacifico che in Italia esiste un procedimento di controllo dinanzi a giudici indipendenti e che il dibattito verte non sull’istituzione di un mezzo di ricorso, bensì sul modo in cui tale mezzo di ricorso è attuato .” Quanto al numero dei gradi di giudizio la migliore replica si legge sempre nelle conclusioni presentate dall’Avvocato generale; innanzitutto egli ha ricordato che la giurisprudenza della Corte, oltre alla limitazione dei gradi di giudizio, ammette la limitazione dei motivi di ricorso per cassazione [8] , con il solo vincolo che al ricorrente sia garantito almeno un esame di merito della controversia [9] . Ha aggiunto che: “ in ogni caso, se una norma processuale quale la limitazione del diritto di ricorrere in cassazione di cui trattasi nel procedimento principale dovesse essere considerata una limitazione del diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice ai sensi dell’articolo 47 della Carta, si dovrebbe ammettere che si tratta di una misura, da un lato, prevista «per legge» e, dall’altro, in grado di dissuadere la presentazione di ricorsi pretestuosi e di garantire ai singoli, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, la trattazione dei loro ricorsi nel più breve termine possibile, conformemente all’articolo 47, primo e secondo comma, della Carta. Infine, la norma di cui trattasi non eccede quanto necessario per raggiungere tale obiettivo ”. Infine, sempre l’Avvocato generale, non ha mancato di osservare che, per quanto concerne l’estremo tentativo di correggere un eventuale errore giudiziario, non è certo la moltiplicazione dei gradi di giudizio che garantisce la correttezza di ogni decisione. Simile prospettiva si basa sull’indimostrato assunto dell’infallibilità del giudice di ultimo grado, quale che esso sia; la pluralità dei gradi di giudizio non può, in nessun ordinamento, garantire che ogni decisione di ultimo grado sia, sol perché tale, sempre giusta, essendo molto più prosaicamente funzionale alla “chiusura del sistema” ed alla stabilizzazione dei contenziosi e dello loro soluzioni. Il rimedio per l’errore giudiziario, purtroppo non eliminabile in assoluto, resta, come indicato dalla Corte di giustizia, la via risarcitoria per il singolo e/o, qualora la distonia assuma caratteri di tipo sistemico da parte di uno Stato membro, la procedura per inadempimento da parte della Commissione. 7.2 I delicati equilibri tra ordinamenti nazionali ed ordinamento eurounitario. La pronuncia in commento offre poi ben più moderni spunti di riflessione sulle problematiche, ancora da affinare, di coordinamento tra ordinamenti in un sistema multilivello , quale quello europeo, in particolare per quanto concerne i rispettivi formanti giurisprudenziali. La Corte di giustizia ha inteso, da sempre, imporre e rafforzare il proprio ruolo a garanzia del rispetto del diritto dell’Unione in modo omogeneo su tutto il suo territorio, ciò anche a costo di obiettive tensioni con i sistemi processuali nazionali astrattamente predicati appartenere alla sovranità degli Stati membri. I giudici territoriali sono attori dell’interpretazione comunitariamente conforme, funzione cui sono non solo legittimati ma tenuti, per l’impossibilità, pratica prima che giuridica, che la Corte di giustizia garantisca da sola l’applicazione effettiva del diritto UE su tutto il territorio dell’Unione e perché la Corte, secondo i Trattati, non definisce il caso concreto ma offre l’interpretazione ortodossa delle norme rilevanti per la sua definizione da parte del giudice nazionale. Le direttrici di sviluppo della giurisprudenza europea sono pertanto inevitabilmente plurime, posto che il rapporto tra giudice nazionale e Corte di giustizia è di complementarietà, non di alternatività. La stessa Corte di giustizia riconosce di non avere il monopolio assoluto dell’interpretazione ma solo quello dell’interpretazione definitiva, sicché la polifonia ermeneutica è, entro certi limiti, fisiologica. [10] Il coordinamento di questo delicato equilibrio passa proprio attraverso l’ art. 267 del TFUE , ossia il rinvio pregiudiziale , strumento di “leale collaborazione” tra Stati. “Il procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati, instaura un dialogo da giudice a giudice tra la Corte e i giudici degli Stati membri che mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati ” ( sentenza 6 marzo 2018 Achmea, in causa C-284/16). In questo contesto, del tutto legittimamente, un giudice nazionale elabora ed applica la propria giurisprudenza, nel rispetto del canone dell’interpretazione conforme alla normativa europea, salvo correre il rischio di essere sconfessato da una successiva (e prevalente) lettura delle norme proposta dalla Corte di giustizia. La Corte di giustizia, per parte sua, in materia processuale procede lungo il delicato crinale di separazione tra la predicata autonomia degli ordinamenti (che inevitabilmente produrrà soluzioni variegate) e la necessaria coerenza con i “principi” di tutela unionale di ogni singolo ordinamento. In materia di appalti occorre, inoltre, confrontarsi con la direttiva 89/665 , che appronta, nello specifico settore, puntuali strumenti di tutela intestati direttamente agli operatori del mercato unico. Il complesso meccanismo incide sull’affidamento delle parti e sulla certezza del diritto (che pure rappresentano pilastri del giusto processo secondo il modello europeo), poiché gli utenti, nel rapporto con le Corti nazionali, calibrano ragionevolmente le loro scelte sull’interpretazione da queste ultime avallata; un revirement indotto dalla Corte di giustizia, tanto più con riferimento alle norme processuali, cioè alle stesse “regole del gioco”, non potrà che avere un forte impatto sulle attese dell’utenza. La ricerca di possibili soluzioni di equilibrio tra interessi antagonisti affiora nella stessa giurisprudenza della Corte di giustizia. Sono interessanti, ad esempio, le decisioni rese in relazione alle esplicite richieste di giudici del rinvio pregiudiziale di, qualora la normativa o giurisprudenza nazionale in analisi fosse riscontrata incompatibile con il diritto eurounitario, limitare pro futuro gli effetti dell’obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale, il tutto proprio in ossequio ad esigenze di certezza del diritto e tutela dell’affidamento maturato dagli interessati (sentenza 22 giugno 2021 Latvijas Republikas Saeima, in causa C-439/19). La richiesta, in relazione ad una giurisprudenza fonte del diritto, evoca meccanismi - quali quello del prospective overruling - che sono fisiologici negli ordinamenti di common law , ben più adusi a confrontarsi con le problematiche che questa fonte può comportare in ipotesi di revirement . Pur non predicando l’estraneità sistematica del principio al proprio ordinamento, la Corte ne ha ammesso una applicazione circoscritta, nel rispetto della sua centralità. Pertanto, la valutazione della necessità di limitare l’applicazione della decisione pro futuro deve essere lasciata al monopolio della Corte; il giudice del rinvio non può, di sua iniziativa, fare una applicazione circoscritta nel tempo dei principi elaborati dalla Corte, potendo solamente chiedere, nel contesto del rinvio pregiudiziale, proprio a quest’ultima di autorizzare questa operazione (sentenza 8 settembre 2010 Winner Wetten, in causa C-409/06), il tutto a ragionevole garanzia della parità di trattamento dei vari soggetti dell’ordinamento eurounitario rispetto agli obblighi derivanti dall’Unione (sentenza 23 ottobre 2021 Nelson e a., in causa C-581/10). Ancora, siffatta limitazione può essere ammessa in presenza di due requisiti essenziali: la buona fede degli ambienti interessati e il rischio di gravi inconvenienti (sentenza 6 marzo 2007 Meilicke, in causa C-292/04; sentenza 22 gennaio 2015 Balzas, in causa C-401-13). Questi presupposti vengono specificati nei seguenti termini: “rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente” nonchè “quando risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati indotti ad un comportamento non conforme al diritto dell’Unione in ragione di una oggettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni del diritto dell’Unione, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati Membri o dalla Commissione” (sentenza 10 maggio 2012 Santander Asset Management SGIIC SA ed altri, in cause C-338/11 e C-347/11). Non sono per contro rilevanti le conseguenze di bilancio che potrebbero derivare a carico dello Stato membro (sentenza 15 marzo 2005 Bidar, in causa C-209/03). Astrattamente affermato il principio, la Corte di giustizia quasi mai ha riconosciuto che gli Stati avessero dato prova della sussistenza di obiettive condizioni che giustificassero una limitazione nel tempo degli effetti della sua giurisprudenza (per un caso di limitazione pro futuro degli effetti della decisione si veda la sentenza 16 luglio 1992 Léopold Legros, in causa C-163/90). Deve tuttavia osservarsi che la Corte si è confrontata con queste istanze con riferimento principalmente ad interpretazioni di diritto sostanziale e una riflessione con diverso esito potrebbe essere sollecitata con specifico riferimento al diritto processuale, proprio per la peculiarità della sua valenza quale “regola del gioco” e per la fisiologica autonomia di cui gli Stati membri godono in materia. Non pare casuale, ad esempio, che, anche nell’ordinamento italiano, il quale, non contemplando almeno formalmente la giurisprudenza quale fonte del diritto ha maturato solo recentemente riflessioni in tema di prospective overruling , l’istituto abbia trovato ingresso proprio a partire dal diritto processuale. Volendo provare a porsi nella prospettiva della Corte, è un fatto storico che il processo di integrazione europea ha seguito percorsi a geometrie variabili ; gli Stati sono entrati nell’Unione a decine di anni di distanza gli uni dagli altri, e alcuni di essi si sono visti imporre condizioni di importanti modifiche ordinamentali proprio ai fini dell’adesione. I diversi ordinamenti si trovano dunque ad un diverso stadio del loro percorso di integrazione. Nella recente casistica della Corte risulta che alcuni Stati membri tuttora contestano in toto la possibilità della Corte di intervenire in materia di organizzazione giudiziaria , anche per l’indiretto fine di garantire l’affermazione dello Stato di diritto (sentenza 18 maggio 2021 Asociatia “Formul Judecatorilor din Romania, in causa C-83/19); né sfugge che vi siano ordinamenti nazionali che, anche per via processuale, manifestano tendenze centrifughe e strategie incompatibili con i principi fondamentali dell’Unione, che quest’ultima legittimamente contrasta per la sua stessa sopravvivenza. E’ interessate la lettura della sentenza 2 marzo 2021 A.B. e altri, in causa C-824/18 , che delinea un quadro del sistema giudiziario polacco non rassicurante, nel cui contesto sembra contrastarsi, se non punirsi, l’uso del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici. In simili ipotesi, nessun affidamento sul persistere di sistemi processuali distonici con le esigenze dell’adesione ad un’Unione sovranazionale potrà essere avallato e risulta comprensibile una restrittiva impostazione della Corte, anche sul piano processuale; d’altro canto il rinvio pregiudiziale ha appunto il fisiologico scopo di “evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie” (sentenza 12 giugno 2008 Skatteverket contro Gourmet Classic Ltd., in causa C-458/06). Si comprende così anche perché nei precedenti citati nella sentenza in commento, la Corte di giustizia abbia ricordato che: “ l’att. 49 TUE, che prevede la possibilità per ogni Stato europeo di chiedere di diventare membro dell’Unione, precisa che quest’ultima riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni attualmente previsti dall’art. 2 TUE, che rispettano tali valori e che si impegnano a promuoverli. In particolare dall’art. 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. Va rilevato, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione di fonda…Il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’art. 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati..Uno Stato membro non può modificare la propria normativa in modo da determinare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto .” Tuttavia la fiducia è questione reciproca e deve essere contestualizzata. Il quadro italiano, per quanto indubbiamente suscettibile di miglioramento, è caratterizzato da un forte e risalente attivismo dei giudici nazionali (e di quello amministrativo in particolare [11] ) nel dialogo con la Corte di giustizia. Un dialogo serrato è sintomo del fatto che una “leale collaborazione” tra Corti si è, nella sostanza, instaurata e, in tale contesto, appare improprio o, per usare un concetto caro alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sproporzionato, liquidare come ingiustificata a priori ogni interpretazione di diritto processuale non esattamente aderente ai concomitanti sviluppi della giurisprudenza della Corte di giustizia. D’altro canto lo stesso Avvocato generale ha riconosciuto, nelle conclusioni presentate per la decisione in commento, che nell’insieme il sistema della giustizia amministrativa italiana soddisfa certamente i requisiti di effettività di tutela. Così contestualizzato, il dibattito giurisprudenziale in materia processuale non può essere considerato per forza sintomatico di una spinta centrifuga, essendo piuttosto l’in sé del progredire di questo tipo di formante; la Corte dovrebbe e potrebbe allora affinare i propri strumenti di dialogo per non rischiare il paradosso di essere più severa con gli Stati più europeisti, che più spesso la interpellano. Per quanto poi concerne la materia degli appalti come già ricordato, l’intervento europeo risulta rafforzato dall’adozione di specifiche direttive, quale la ben nota direttiva 89/665. E’ pacifico che la disciplina europea dell’evidenza pubblica è stata, nella sua prima implementazione, foriera in Italia di significativi e positivi progressi dell’ordinamento nazionale, anche e proprio per il tramite della conformazione dei rimedi processuali [12] . Se si ripercorre la vicenda del rapporto tra ricorso principale e incidentale nel processo amministrativo italiano alla luce di queste considerazioni di sistema, tuttavia, pare innanzitutto di poter escludere che essa chiami in causa l’assetto fondante della tutela o la carenza di specifici rimedi. Il dibattito sul punto non è stato posto dal giudice italiano in termini sistematicamente pretestuosi. Non era così evidente, nella sentenza Fastweb , che il principio fosse destinato ad espandersi anche alle gare con più concorrenti, in cui venivano lamentati vizi di diversa natura e/o afferenti a diverse fasi della procedura. Neppure possono individuarsi intenti complessivi o di tendenza del giudice nazionale di sottrarsi in specifico all’applicazione del diritto dell’Unione [13] o disparità di trattamento tra posizioni giuridiche soggettive di derivazione nazionale ed europea, posto che non consta, ad esempio, che il giudice amministrativo seguisse diversi criteri di ordine di analisi delle questioni per le gare soprasoglia e per quelle sottosoglia prive di interesse transfrontaliero. Anche a voler analizzare la problematica alla luce delle puntuali indicazioni della direttiva 89/665, da un lato, nella sua disciplina sostanziale, non si rinviene alcuna regolamentazione delle condizioni dell’azione, dall’altro, in termini di principio, l’art. 1 par. 1 e 3, alla luce dei quali la Corte ha riformulato il quesito alla medesima sottoposto nel caso in analisi, stabiliscono rispettivamente: “ 1. Gli Stati membri prendono i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalle direttive 71/305/CEE e 77/62/CEE, le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli seguenti, in particolare l'articolo 2, paragrafo 7, in quanto tali decisioni hanno violato il diritto comunitario in materia di appalti pubblici o le norme nazionali che recepiscono tale diritto….3. Gli Stati membri garantiscono che le procedure di ricorso siano accessibili, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto pubblico di forniture o di lavori e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata. ” A stare al tenore letterale della norma essa ha ad oggetto un appalto determinato (e non ipotetico e futuro, e come tale indeterminato nei suoi contenuti) rispetto al quale si “abbia” o “si abbia avuto” (e non “si avrà”) interesse. La disposizione, cioè, è suscettibile anche di letture in linea con un sistema che accorda tutela solo ad interessi attuali e concreti, inerenti a procedure in corso. Ancora la stessa sentenza Fastweb richiama, tra l’altro, e come visto, il precedente Hackermüller (sentenza 19 giugno 2003, in causa C-249/01 ), nel quale si era affermato, sotto lo specifico profilo della legittimazione/interesse ad agire, che l’art. 1 par. 3 della direttiva 89/665 “non impedisce che le procedure di ricorso previste da detta direttiva siano accessibili alle persone che vogliono ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto pubblico soltanto se queste ultime siano state o rischino di essere lese attraverso la violazione da loro denunciata”, dando sostanzialmente per scontato che la tutela è offerta a chi chiede l’aggiudicazione di un “determinato” appalto e non certo a chi invoca la riedizione di una, necessariamente diversa, gara; ancora la Corte, dopo aver ricordato che nella direttiva 89/665 i meccanismi di tutela sono volti “a rafforzare l’effettiva applicazione delle direttive comunitarie in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette” ha chiarito che essa impedisce che ad un offerente venga negato l’accesso alle procedure di ricorso per contestare la legittimità della decisione dell’autorità aggiudicatrice di non considerare la sua offerta come la migliore, per il motivo che tale offerta avrebbe dovuto essere preliminarmente esclusa da detta autorità aggiudicatrice per altre ragioni e che, pertanto, egli non è stato o non rischia di essere leso dall’illegittimità da lui denunciata. Anche in tal caso sembra darsi in verità per assunto che la tutela sia offerta al soggetto che è risultato escluso al fine di consentirgli che “la sua offerta sia considerata come la migliore” in quella gara, e non certo al fine di consentirgli l’accesso ad una nuova e diversa procedura, con necessaria formulazione di una nuova e diversa offerta. In tale contesto nessun dubbio può avanzarsi sul fatto che il giudice amministrativo italiano, se riscontra che l’esclusione è stata indebita e il concorrente poteva e doveva partecipare al prosieguo della procedura, proceda poi alla correzione in corso della gara, consentendo al ricorrente di ottenere, appunto, la valutazione di merito della sua offerta. Infine, sempre nella citata pronuncia della Corte di giustizia, si legge: “ nell’ambito della procedura di ricorso aperta a detto offerente quest’ultimo deve essere legittimato a contestare la fondatezza del motivo di esclusione in base al quale l’autorità responsabile delle procedure di ricorso ritiene di concludere che egli non sia stato e non rischi di essere leso della decisione di cui denuncia l’illegittimità ”; nessun dubbio che al concorrente escluso si consenta preliminarmente di contestare la sua esclusione, replicando all’eventuale ricorso incidentale e comunque all’eccezione di inammissibilità; la declaratoria di inammissibilità delle domande o dei motivi lo colpisce infatti solo se la sua esclusione verrà, preliminarmente, valutata legittima in esito al fisiologico contraddittorio tra le parti. Ne consegue che non è affatto ovvia, anche alla luce della direttiva comunitaria e dei principi affermati nella sentenza Fastweb , la dequotazione, se non del concetto di legittimazione ad agire, certamente di quello dell’interesse ad agire (condizione dell’azione, per altro comune alla tradizione giuridica degli Stati membri) di fatto sviluppata dalla Corte di giustizia nei suoi successivi arresti. La Corte ha infatti finito per porre sullo stesso piano un interesse all’aggiudicazione (o quantomeno all’avanzamento in graduatoria, o ancora l’interesse di chi veda una contratto tout court affidato senza aver mai potuto accedere alla gara o perché omessa in toto o perché corredata di condizioni escludenti improprie), interesse la cui concretezza ed attualità è fuori discussione, con un interesse, del tutto ipotetico, alla riedizione di una procedura da parte di chi vi ha partecipato, in ipotesi, senza averne i requisiti ed invoca, come extrema ratio , una riedizione del confronto concorrenziale di cui non si sa né se avrà luogo e in che termini, né se questi vi prenderà parte né, tanto meno, se ne risulterà aggiudicatario. Se poi l’estensione di tutela poteva giustificarsi nello specifico caso Fastweb, non certo per una mancanza di accesso al giudice, ma per l’evidente difficoltà di qualunque giudice di avallare, su un piano logico prima che giuridico, che due posizioni del tutto simmetriche seguano sorti distinte nel medesimo giudizio, gli sviluppi successivi sono frutto di una forse eccessiva semplificazione degli istituti di diritto processuale. La forzatura interpretativa potrebbe anche denunciare un tentativo, da parte del giudice europeo, di attribuire al processo in materia di appalti la funzione di astratta verifica del rispetto delle norme sovranazionali in materia (una sorta di garanzia di legittimità oggettiva delle procedure), ignorando tuttavia quella che è una caratteristica strutturale di buona parte dei sistemi di giustizia amministrativa degli Stati membri, ossia l’essere strutturati come giurisdizioni di tipo soggettivo e non oggettivo. Alternativamente si potrebbero anche fare proprie le critiche alla giurisprudenza della Corte mosse dall’Avvocato generale Bobek nelle conclusioni presentate il 15 aprile 2021 per la causa C.561/19 Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi , in cui egli osservava che il ruolo della Corte è innanzitutto quello di fornire interpretazioni omogenee del diritto Ue, e quindi rispondere a dubbi di carattere oggettivo-ordinamentale mossi dai giudici nazionali, e non quello di intervenire direttamente nella risoluzione di singole controversie individuali, entrando in valutazioni caso per caso o di tipo soggettivo. La critica non è stata accolta dalla Corte nella decisione del 6 ottobre 2021, ma resta sintomatica di un disagio che l’attivismo della Corte, con procedere un po’ disordinato, pare suscitare anche a livello europeo. All’osservazione dell’Avvocato generale potrebbe in verità obiettarsi che, nella materia degli appalti, operano specifiche direttive che intestano prerogative proprio ai singoli operatori e quindi la distinzione tra problematiche di tipo soggettivo e dubbi di carattere oggettivo, nello specifico settore, si assottiglia; tuttavia, in questo caso, prende maggiore forza l’esigenza della compatibilità delle soluzioni adottate dalla Corte, che di norma procede come giurisdizione di tipo oggettivo, rendendo interpretazioni di norme indirizzate ad altri giudici, quando esse vengono traslate nelle giurisdizioni nazionali, fisiologicamente deputate a risolvere controversie individuali e che applicano il diritto processuale secondo impostazioni strutturalmente di tipo soggettivo. Se i giudici nazionali, quantomeno italiani, quali giudici di prossimità , si sono rivelati i terminali più sensibili per il rapido recepimento dell’ordinamento eurounitario (a riprova dell’ormai armonica integrazione delle Corti), ciò non giustifica allora l’ambiguo tentativo di renderli oggettivamente – e non più soggettivamente – garanti del rispetto del diritto dell’Unione sotto ogni profilo, in evidente distonia con il ruolo di giudici che operano su impulso di parte. L’astratta parificazione di interessi di consistenza nella realtà molto diversa rischia, per altro, di produrre distorsioni rispetto agli obiettivi della stessa Unione europea. Sarebbe, ad esempio, interessante verificare in concreto quante delle imprese che hanno invocato in giudizio l’azzeramento della procedura in nome della sua futura riedizione abbiano poi ottenuto l’aggiudicazione o non abbiano piuttosto semplicemente beneficiato della permanenza nella gestione di un servizio di cui erano in quel momento titolari, magari a condizioni ormai troppo vantaggiose rispetto al mercato. In tali casi gli operatori non avevano verosimilmente interesse a farsi garanti della regolare gestione della procedura, secondo astratti principi della concorrenza, ma più probabilmente ad ostacolare l’alternanza nell’affidamento, perseguendo un risultato contrario alla disciplina europea della concorrenza. Peggio, il concreto interesse potrebbe essere quello, ovviamente non esplicitabile, del disturbo di una procedura per mantenere la chiusura di un mercato o di una indiretta guerra commerciale, tutti obiettivi rispetto ai quali il ricorso diviene mera occasione. Per non dire che l’azzeramento della procedura in favore di un concorrente che abbia, come nel caso analizzato nella decisione in commento, presentato una offerta non ammissibile perché errata, offre a questo candidato l’opportunità di confezionarne una ex novo , addirittura provocando una nuova gara, possibilità che mai sarebbe data nell’ambito di un’unica procedura ad offerte note, perché granitica giurisprudenza eurounitaria predica che ogni e qualunque variazione dell’offerta a procedura in corso rappresenta una violazione della par condicio dei concorrenti. In definitiva, se il sistema è organizzato per seguire impulsi di parte, esso sarà caratterizzato, legittimamente, solo da logiche di parte; il fatto che la Corte di giustizia, nello sforzo di massimizzare l’effettività del diritto UE, assuma in teoria che le parti siano anche tutori dell’ordinamento nel suo complesso, quando ciò non corrisponde alla realtà del contenzioso, non indurrà certo queste ultime a sopportare non indifferenti (quanto legittimi nella giurisprudenza della Corte [14] costi per farsi tutori della legalità astratta ma produrrà probabilmente distorsioni pratiche. A fronte di questi rischi la verifica processuale, se non della legittimazione, dell’ attualità dell’interesse ad agire , non è un ingiustificato ostacolo alla tutela ma un importante filtro di garanzia di buon funzionamento del sistema e un disincentivo ad azioni emulative. Per altro, se un problema di effettività di tutela sussiste per la giustizia italiana, non è certo, come visto, quello di accesso al giudice, anche europeo, ma, se mai, quello della rapidità ed efficienza della risposta della giustizia, che viene pregiudicata dall’eventuale moltiplicazione di contenziosi artificiali. Nell’affinamento del dialogo tra Corti sarebbe allora importante, da parte del giudice nazionale, migliorare le modalità con cui vengono veicolate le problematiche innanzi alla Corte giustizia (quest’ultima ha talvolta espressamente richiamato il giudice italiano al rispetto delle regole di procedura relative alla precisione e chiarezza con cui le questioni pregiudiziali vengono proposte, come nella citata sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi), anche rendendo più esplicite e non dando per scontate le ragioni di contesto delle proprie scelte; è poi rilevante offrire una descrizione del sistema normativo il più possibile oggettiva (non giova alla leale collaborazione tra Corti rappresentare la giurisprudenza costituzionale italiana come una “prassi”); neppure sarebbe inutile dotarsi di analisi statistiche dei contenziosi, che rappresentano uno strumento che, a livello sovranazionale, ottiene considerazione, oltre a porre attenzione a tutte le tecniche che possono essere invocate, quale ad esempio la limitazione pro futuro dell’eventuale decisione negativa. Sul fronte della Corte di giustizia si può auspicare un’evoluzione che tenga conto del progredire dell’integrazione europea oltre che dell’emersione, anche dinnanzi alla stessa Corte, di esigenze di contenere il contenzioso, nonchè di contraddizioni intrinseche. I rischi di moltiplicazione esponenziale dei rinvii pregiudiziali a fronte di un diritto UE sempre più pervasivo [15] e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa di ogni giudice, che non deve essere indotto a soluzioni “difensive” una volta stabilita la sua legittimazione a tale compito, e il suo inserimento in un sistema coerente con i principi UE, sono stati ben evidenziati nella sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sez. IV, 14 settembre 2021, n. 6290 con cui, sempre in sede di rinvio pregiudiziale, si è nuovamente sollecitata la Corte ad una aggiornata riflessione sugli effetti, anche potenzialmente distorsivi, che il rigore dei noti quanto risalenti criteri Cilfit compendiati nella cosiddetta “ dottrina dell’acte clair " (sentenza 6 ottobre 1982, in causa C-283/81) in tema di presupposti dell’obbligo di rinvio pregiudiziale possono indurre in un contesto fortemente evoluto. In senso critico del sistema si è espresso, come già detto, l’Avvocato generale nelle conclusioni presentate il 15 aprile 2021 per la causa C-561/19, Consorzio italian Management in cui si legge testualmente: “ritengo che l’uniformità ex sentenza Cilfit quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione in ciascun caso di specie sia un’utopia”. Restando alla problematica processuale qui di interesse, ossia la legittimità di filtri processuali ancorati se non alla legittimazione quantomeno all’interesse ad agire, anche in materia di appalti, la stessa Corte non censura i meccanismi che disciplinano l’azione in modo funzionale al regolare svolgimento del giudizio ed alla certezza del diritto; basti pensare alla predicata legittimità delle decadenze , purchè non tali da rendere impossibile l’azione, all’affermazione per cui cade l’obbligo del giudice di ultimo grado di proporre rinvio pregiudiziale quando la questione di diritto eurounitario non sia stata tempestivamente e ritualmente introdotta nel giudizio nazionale (sentenza 6 ottobre 2021 Consorzio Italian Management, in causa C-561/19), con salvaguardia delle preclusioni infraprocessuali e disincentivo delle istanze “a catena” o, ancora, ai più recenti orientamenti in tema di giudicato (sentenza 4 marzo 2020 Telecom Italia s.p.a., in causa C-34/19), certamente funzionali a garantire la stabilizzazione del contenzioso. Infine la Corte di giustizia, nella pronuncia in commento, ha indicato come possibile chiusura del sistema l’ azione risarcitoria in favore del singolo e, nel menzionarla, ha ricordato i propri precedenti del 30 settembre 2003 Köbler, in causa C‑224/01, 24 ottobre 2018 XC e a., in causa C‑234/17, nonché 4 marzo 2020 Telecom Italia, in causa C‑34/19. La sentenza Köbler ha chiarito che la responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale deve essere valutata tenendo conto della specificità della funzione giurisdizionale stessa, nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto, sempre che la norma comunitaria sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese. La sentenza ha ribadito che “il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”. Premesso che la sentenza è quindi allineata con l’orientamento per cui l’errore giudiziario non si contrasta con una moltiplicazione all’infinito dei gradi di giudizio, anche tralasciando la non indifferente problematica delle esigenze di certezza del diritto correlate ai revirement giurisprudenziali ed alla giurisprudenza in fieri , la risarcibilità secondo il canone europeo (che in materia di appalti rappresenta, in linea di principio, un succedaneo rispetto alla reintegrazione in forma specifica) presuppone che la parte possa lamentare un nesso di causalità diretta con il danno. Non sembra così ovvia la sussistenza di un nesso di causalità diretta tra una illegittimità commessa nell’ambito di una procedura e la, del tutto eventuale, partecipazione ad altra gara di cui non si possono conoscere né presupposti né esiti e nemmeno la reale volontà di partecipazione dello stesso concorrente, il che espone al paradosso che il ricorrente che si ritiene vantare un interesse all’azzeramento della gara in nome dell’effettività della tutela difficilmente potrebbe ottenere un risarcimento (ossia un minus di tutela) non riuscendo a dimostrare di avere subito una lesione diretta di un suo interesse. La complessa elaborazione del giusto equilibrio tra armonizzazione dei sistemi processuali, quando strutturalmente coerenti con lo dello Stato di diritto, e rispetto delle loro caratteristiche fondamentali ai fini della risoluzione di controversie individuali appare ampiamente in fieri innanzi alla Corte di giustizia. Il giudice amministrativo italiano è partecipe attivo di questo affascinante dibattito. [1] L’orientamento è stato più volte ribadito: ex pluribus Cass. SU 31226/2017; SU 30301/2017; SU 953/2017; SU 14042/2016; SU 3915/2016; ancor prima dell’intervento della Corte Costituzionale in materia, tuttavia, altre pronunce delle Sezioni Unite si erano espresse in senso opposto, ex pluribus Cass. SU 13976/2017; SU 21617/2017; SU n. 8117/2017 [2] L’insopprimibile difficoltà di distinguere una fisiologica attività ermeneutica del giudice ed una sua “inammissibile creazione normativa” tale da esorbitare dai suoi poteri, là dove di fatto si censura l’applicazione della disciplina sostanziale della materia, è stata da tempo stigmatizzata dallo stesso giudice del riparto (si veda Cass. SU n. 27341/2014, resa in occasione di una richiesta di sindacato su decisione del Consiglio di Stato che aveva valutato la nomina di una autorità portuale facendo, secondo la tesi della parte ricorrente, un’interpretazione della disciplina applicabile innovativa al punto di invadere la sfera del legislatore, tesi rigettata dalla Cassazione). [3] Ex pluribus Cass. SU 32773/2018; 32622/2018; 13243/2019; 27842/19; 29085/2019; 6460/2020; 7456/2020; 7839/2020; 11125/2020; 18592/2020; 24103/2020; 26920/2020. [4] A pochi giorni di distanza dalla pubblicazione dell’ordinanza, per altro, altra pronuncia delle SU, la n. 24107/2020, ha, se pure facendo formalmente uso della tecnica del distinguishing, ribadito la scelta di astenersi dall’intervenire sulle pronunce del Consiglio di Stato per ragioni di violazione del diritto UE o di omesso rinvio pregiudiziale. [5] Nella dottrina italiana l’iniziativa ha suscitato numerose critiche; si vedano tra molti il commenti: A. Travi “I motivi inerenti la giurisdizione e il diritto dell’Unione europea in una recente ordinanza delle sezioni unite”, in Foro it., 2020, I, 3391; M. Santise L’eccesso di potere giurisdizionale delle sezioni unite, in www.giustizia-amministrativa.it , nei cui testi si richiama ampia bibliografia. [6] La diversa e nuova prospettiva del quesito, che presentava potenziale impatto sugli stessi meccanismi di fisiologico sviluppo di una giurisprudenza in fieri ed in assenza di orientamenti eurounitari già affermati, viene lucidamente analizzata in M. Lipari L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it [7] Ex pluribus Corte di Giustizia Grande Sezione sentenza 19 giugno 2018 Sadikou Gnandi, in causa C-181/16 [8] Corte di giustizia sentenza 17 marzo 2016 Bensada Benallal, in causa C -161/15 [9] Corte di giustizia sentenza 5 settembre 2018 Lombardi, in causa C-338/18 [10] Parere n. 1/2017 della Corte di giustizia reso in seduta plenaria in data 30 aprile 2018 [11] Si evince dalla relazione annuale sull’attività giudiziaria 2019 della Corte di giustizia (disponibile al seguente link: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf .) che, al 2019, l’Italia ha proposto 1583 rinvii pregiudiziali di cui 4 proposti dalla Corte Costituzionale, 170 proposti dalla Corte di Cassazione, 204 dal Consiglio di Stato e i restanti 1205 dagli altri organi giurisdizionali; dalla medesima relazione si evince che l’Italia, a livello UE, nel periodo 2015-2019 è seconda dopo la Germania per numero di rinvii pregiudiziali promossi. [12] Sul punto basti ricordare l’introduzione della tutela cautelare ante causam, la declaratoria di inefficacia del contratto e lo stesso risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, che dal sistema europeo hanno tratto determinante impulso; si tratta di rimedi che rappresentano tecniche di tutela avanzata, sviluppatesi secondo una direttrice di sostanziale piena coincidenza dell’interesse delle parti quali attori del mercato e, per il loro tramite, del sistema europeo della libera concorrenza e degli appalti; a tali tecniche di tutela tanto il legislatore che i giudici nazionali sono stati ampiamente sensibili. [13] L’affermazione è tanto più vera in un ordinamento, quale quello italiano, che, con una impostazione diametralmente opposta a quella che sembra emergere per l’ordinamento polacco, all’art. 2 co. 3 e 3 bis della l. n. 177/1988 qualifica colpa grave del magistrato “la violazione manifesta del diritto dell’Unione europea” ed individua la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale o il contrasto con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia quali parametri di “determinazione dei casi di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea” ai fini della valutazione della responsabilità del giudice. In questa evidente divergenza di sistemi, presente all’interno dell’Unione, non sarebbe inutile che la Corte, nel selezionare i precedenti da invocare, tenesse anche conto dello specifico contesto ordinamentale in relazione al quale sono stati formulati. [14] Corte di giustizia 6 ottobre 2015 in causa C-61/14. [15] Sempre dalla relazione annuale 2019 della Corte di giustizia sull’attività giudiziaria ( https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf ) si evince che i rinvii pregiudiziali rappresentano più del 60% dell’attività della Corte e sono in crescita vertiginosa, con allungamento dei tempi delle decisioni.
21 gen, 2022
TAR per il Lazio, Sezione Terza Quater, sentenza n. 419 del 2022/ Consiglio di Stato, decreto cautelare n. 207/2022 IL CONTESTO E LA DECISIONE Alcuni medici che durante la pandemia da Covid-19 si sono occupati dei pazienti affetti da tale patologia, hanno impugnato con un primo ricorso dinanzi al Tar per il Lazio la nota AIFA del 9 dicembre 2020 recante “principi di gestione dei casi Covid-19 nel setting domiciliare”, nella parte in cui, per i primi giorni di malattia, prevedeva unicamente una “vigilante attesa” e somministrazione di fans e paracetamolo, ponendo altresì indicazioni di “non utilizzo” di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da covid. Il Giudice adito in prima istanza aveva accolto la proposta domanda cautelare, ritenendo il ricorso prima facie fondato, in relazione alla circostanza secondo cui i ricorrenti avrebbero fatto valere il loro diritto/dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che gli stessi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza. Tale diritto non avrebbe potuto essere compresso nell’ottica di una “attesa”, potenzialmente pregiudizievole sia per il paziente che, sebbene sotto profili diversi, per i medici stessi. Con ordinanza in sede di appello cautelare, però, il Consiglio di Stato aveva riformato la decisione del Giudice di primo grado, ritenendo che la natura dell’atto impugnato portasse ad escludere l’esistenza di profili di pregiudizio dotati dell’attributo della irreparabilità, dal momento che la nota AIFA non avrebbe in ogni caso pregiudicato l’autonomia dei medici nella prescrizione, in scienza e coscienza, della terapia ritenuta più opportuna, mentre, al contrario, la sua sospensione fino alla definizione del giudizio di merito avrebbe determinato il venir meno di linee guida fondate su evidenze scientifiche tali da fornire un ausilio, ancorché non vincolante, alla citata autonomia prescrittiva. Con successiva nota del 26.04.2021 , inviata a tutte le pubbliche amministrazioni interessate, compresa la Federazione Nazionale Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, il Ministero della Salute ha trasmesso una nuova circolare relativa alla "Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2", aggiornata al 26 aprile 2021 , “al fine di fornire indicazioni operative tenuto conto dell'attuale evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale e delle emergenti conoscenze scientifiche”. Come precisato dalla nota, “l'aggiornamento è stato effettuato da un apposito gruppo di lavoro, istituito dalla Direzione Generale della Programmazione Sanitaria e dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute, composto da rappresentanti istituzionali, professionali e del mondo scientifico”, e “ha ricevuto il parere favorevole del Consiglio superiore di Sanità”. La circolare precisa, tra le altre cose, che “ nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici, sulla base delle informazioni e dei dati attualmente disponibili, si forniscono le seguenti indicazioni di gestione clinica: vigile attesa (intesa come costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente); misurazione periodica della saturazione dell’ossigeno tramite pulsossimetria; trattamenti sintomatici (ad esempio paracetamolo o FANS in caso di febbre o dolori articolari o muscolari, a meno che non esista chiara controindicazione all’uso). Altri farmaci sintomatici potranno essere utilizzati su giudizio clinico ”. Anche questa nota è stata impugnata da medici di medicina generale e specialisti. In particolare, i ricorrenti hanno lamentato che la circolare del Ministero della Salute sulla gestione domiciliare del paziente, anziché fornire indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio, farebbe un lungo elenco delle terapie da non adottare, in contrasto con l’esperienza “sul campo” che avrebbero maturato gli stessi ricorrenti. Erroneo sarebbe stato altresì disporre quali unici criteri confermati e definiti per il trattamento dei pazienti Covid-19, una vigilante attesa e la somministrazione di FANS e paracetamolo, con la contestuale importante limitazione dell’utilizzo degli altri farmaci, che invece sarebbero stati generalmente utilizzati nel corso dell’emergenza sanitaria. Nello specifico, i ricorrenti hanno ritenuto non corretto l’utilizzo di corticosteroidi solo per i pazienti che hanno già necessità di ossigeno e l’eparina solo nei soggetti immobilizzati, oltre che l’esclusione aprioristica dell’utilizzo di antibiotici e idrossiclorochina. Secondo i ricorrenti, dunque, la circolare ministeriale ribadirebbe la strategia di vigile attesa , prevedendo da un lato la somministrazione di una terapia farmacologica solo quando il paziente è già grave e con difficoltà respiratorie, e non tenendo in considerazione, dall’altro, delle diverse e numerose esperienze maturate dai medici di medicina generale che hanno nel frattempo curato tempestivamente e a domicilio i pazienti. In particolare, la circolare impugnata, anziché disporre come trattare il paziente a domicilio, rappresenterebbe, nella prospettiva dei medici contrari a tale strategia, un elenco di ciò che il medico non deve fare, in aperto contrasto con le evidenze scientifiche. Il Ministero della Salute sarebbe inoltre colpevole di non avere mai avviato una verifica dei dati dei medici territoriali che hanno curato i pazienti affetti da covid già da marzo 2020, perché altrimenti avrebbe potuto verificare che la cura tempestiva dei pazienti, quando necessario anche con idrossiclorochina, nonché con antibiotici, eparina a basso peso molecolare e cortisone, avrebbe avuto ottimi risultati in termini di ridotta mortalità e ridotto tasso di ospedalizzazione. D’altra parte, i numeri e gli studi osservazionali confermerebbero che un atteggiamento terapeutico di tipo attendistico, come quello applicato in Italia nella prima fase della pandemia, sarebbe da considerarsi fallimentare, mentre sarebbe al contrario efficace nel ridurre le ospedalizzazioni una terapia antinfiammatoria non steroidea (FANS) precocemente somministrata a domicilio, circostanza che in effetti ha indotto il Ministero della Salute a modificare le linee guida per la terapia domiciliare, ma solo affiancando al paracetamolo l’uso dei FANS, e non eliminando del tutto il primo, considerato dai ricorrenti del tutto controindicato. Il Giudice territoriale adito ha accolto la tesi dei medici contrari alla circolare, evidenziando che le contestate linee guida costituirebbero mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli, mentre è onere imprescindibile di ogni sanitario agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito. Ne consegue, secondo il TAR, che la prescrizione dell’AIFA, poi confluita nella circolare ministeriale, contrasterebbe con la richiesta professionalità del medico e con la sua stessa deontologia di operatore sanitario, impedendogli a priori l’utilizzo di terapie dallo stesso eventualmente ritenute idonee ed efficaci contro la malattia Covid-19, così come normalmente avviene per ogni attività terapeutica. La sentenza di primo grado, che ha dunque annullato la circolare impugnata, è stata peraltro impugnata e sospesa in via cautelare da un decreto presidenziale del Consiglio di Stato. VALORE NORMATIVO E PRESCRITTIVO DELL’ATTO La circolare impugnata e annullata dalla sentenza in commento costituisce, sotto il profilo materiale, un documento redatto da un gruppo di lavoro appositamente costituito presso due Direzioni del Ministero della Salute, tramite il quale si forniscono a tutte le amministrazioni potenzialmente interessate dalla tematica della gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 “indicazioni operative tenuto conto dell’attuale evoluzione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale e delle emergenti conoscenze scientifiche”. Sotto il profilo giuridico, si tratta di un atto che non innova l’ordinamento, perché non contiene regole generali ed astratte applicabili a un numero indefinito di soggetti e di comportamenti, né ha valenza obbligatoria sulla base di norme che lo autorizzano a ciò – nel senso di creare un vincolo giuridico in senso stretto per i destinatari -, ma piuttosto conserva un valore di raccomandazione terapeutica (con indicazioni di gestione clinica). Lungi dal confinare tale atto in una dimensione meramente “informativa” – nel documento sono contenute anche veri e propri divieti per gli operatori sanitari che gestiscono a domicilio i pazienti affetti da Covid-19 (“non utilizzare eparina”, “non utilizzare idrossiclorochina”) – lo stesso recepisce un potere amministrativo appartenente alla funzione regolatoria dell’AIFA. Infatti, secondo l’ art. 48, comma 5 lett. a) del d.l. n. 269 del 2003 – convertito con modificazioni dalla L. n. 326 del 2003 – l’Agenzia Italiana del Farmaco, ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico e di ampia autonomia (ma sottoposto alle funzioni di indirizzo e di vigilanza del Ministero della salute), ha tra le sue funzioni anche quella di promuovere “ linee guida per la terapia farmacologica ”. D’altra parte, nella circolare stessa, in coda, sono riportate le “raccomandazioni AIFA sui farmaci per la gestione domiciliare di COVID-19”, raccomandazioni dalle quali il gruppo di lavoro ministeriale ha ricavato, di fatto, la sostanza del proprio documento. Dinanzi a quale tipo di circolare ci troviamo, dunque? Come visto, non è una circolare normativa (innovativa dell’ordinamento giuridico), né una circolare interpretativa (di norme esistenti), ma non è neanche una circolare soltanto informativa. Ha probabilmente un valore misto di tipo informativo e di raccomandazione terapeutica, con la conseguenza di conferire ai soggetti che ne seguono le indicazioni una sorta di “effetto di liceità comportamentale”, alla stregua di quanto avviene con le raccomandazioni per gli Stati nel diritto internazionale. Come si raccorda tuttavia questo particolare effetto delle raccomandazioni ministeriali contenute nella circolare in questione con l’eventuale imposizione di veri e propri obblighi giuridici, allorché nelle raccomandazioni stesse si rinvengono anche divieti espliciti all’utilizzo da parte del medico di una determinata terapia nei casi concreti a lui sottoposti? Vengono a questo punto in rilievo altre due norme fondamentali in materia. La prima è l’ art. 3 del d.l. n. 23 del 1998 , convertito con modificazioni dalla L. n. 94/1998, secondo cui (commi 1 e 2) il medico, nel prescrivere una specialità medicinale, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall'autorizzazione all'immissione in commercio, salvo che ritenga, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, di impiegare il medicinale per un'indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, in base a dati documentabili riferiti alla specifica situazione clinica del paziente, e “purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. La seconda norma rilevante è l’ art. 5 della L. n. 24 del 2017 (c.d. legge Gelli-Bianco). Secondo tale disposizione (comma 1), gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità pubblica ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali. Alla suddetta disposizione si aggancia poi lo speciale regime di esenzione da responsabilità penale per eventi di morte o lesioni causati da imperizia medica, qualora siano state “rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”. Senza volere entrare nel merito dei limiti di applicabilità generale di tale causa di non punibilità penale, e ragionando a contrari o, sembra dunque che il non rispetto delle indicazioni contenute nella circolare ministeriale impugnata, se intese come linee-guida, possa fare emergere una criticità dell’operato del medico, qualora lo stesso prescriva un farmaco “vietato” e vi sia un esito infausto, e, viceversa, “un’assoluzione preventiva” dello stesso operato, qualora ci si attenga alle raccomandazioni e occorra in ogni caso un esito infausto. Nella realtà giuridica non dovrebbe essere così. A parte il serio dubbio sul fatto che le indicazioni contenute nella circolare possano costituire le linee-guida di cui parla la legge Gelli-Bianco (in assenza del pedissequo rispetto della procedura ivi prevista), il medico può senz’altro continuare ad avvalersi dell’ampia autonomia prescrittiva conferitagli dal richiamato art. 3 del d.l. n. 23 del 1998. Nella stessa direzione, peraltro, conduce anche la ratio della ipotesi di esimente prevista dall’ art. 590-sexies comma 2 c.p. , che per la giurisprudenza prevalente non esclude la responsabilità del medico, se l'evento si è verificato per colpa (anche) lieve da imperizia, quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali, restando non connotata da illiceità la condotta del medico soltanto qualora la stessa sia stata imperita e caratterizzata da colpa lieve (ma non da colpa grave), oltre che effettuata nell'esecuzione di raccomandazioni, linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell'atto medico. In altri termini, ammesso e non concesso che nel nostro caso le linee-guida o comunque le buone pratiche clinico-assistenziali esistano, e siano rappresentate dalle indicazioni ministeriali, se il grado di rischio da gestire è alto e se vi è un aggiornamento continuo sulle terapie migliori da somministrare, per una mancata sedimentazione delle conoscenze in materia – come ancora accade nella gestione delle conseguenze cliniche dell’infezione da covid –, il medico dovrebbe essere lasciato “libero” di prescrivere il farmaco che ritiene più opportuno rispetto al caso concreto, senza né preclusioni né “assoluzioni” preventive rispetto alla condotta da seguire per evitare l’evento infausto. D’altra parte, il Consiglio di Stato ha ribadito – seppure in sede di delibazione sommaria sulla domanda di sospensione dell’esecutività della sentenza del TAR Lazio in commento - che l’esercizio del diritto-dovere del medico di medicina generale di scegliere in scienza e coscienza la terapia migliore non è vincolabile, e che la soppressione della circolare, lungi da restituire ai medici la loro funzione e le loro “inattaccabili” prerogative di scelta terapeutica, determinerebbe semmai un vulnus ordinamentale, consistente nel venir meno di un documento riassuntivo delle “migliori pratiche” che scienza ed esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato. Dopo di che, resta lecito chiedersi a cosa serva una circolare apparentemente svuotata di ogni vincolatività giuridica, anche solo interpretativa – seppure a tratti scritta con frasi dal tenore chiaramente prescrittivo - e se non costituisca la migliore via di uscita rispetto all’ impasse innegabilmente generato da queste anomale raccomandazioni una soluzione giudiziale che dichiari la carenza di interesse dei medici ad ottenere l’annullamento dell’atto per mancanza di lesività dell’atto stesso nei loro confronti, di modo da restituire al documento del Ministero della Salute il suo significato reale: una mera rappresentazione dello stato dell’arte nella gestione domiciliare dei pazienti covid, che recepisce la parziale e perdurante confusione della risposta farmacologica e terapeutica in atto.
Autore: di Sergio Conti, già Presidente di TAR 19 gen, 2022
Con la sentenza 20 ottobre 2021 n. 7045, la 3^ Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla costituzionalità dell’obbligo di vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2, per gli esercenti le professioni sanitarie posto dall’ art. 4 del D.L. 1 aprile 2021 n. 44, conv. con mod. in l. n. 76 del 28 maggio 2021 . La citata norma dispone che gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1, comma 2, della l. n. 43 del 2006, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. La disposizione prevede, in caso di non ottemperanza all’obbligo vaccinale, una complessa procedura di accertamento e l’adozione di incisive – per quanto temporanee – conseguenze sanzionatorie sul rapporto lavorativo. La legittimità di questa disciplina è stata contestata da un gruppo di sanitari avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia, in quanto ritenuta incompatibile con il diritto convenzionale, con quello eurounitario e in contrasto con diversi parametri costituzionali. In particolare, i ricorrenti muovono da una premessa di ordine tecnico-scientifico, con cui sostengono che il breve tempo di cui si sono potute giovare le case farmaceutiche per gli studi, la predisposizione e la sperimentazione delle soluzioni vaccinali per prevenire il virus Sars-CoV-2, non ha consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia dei vaccini, che devono precedere e assistere ogni prestazione sanitaria imposta ai sensi dell’art. 32, comma secondo della Costituzione. Ancora, sottolineano che le stesse case farmaceutiche produttrici dei vaccini hanno riconosciuto che, se non sono ancora note le potenzialità dei vaccini, quanto alla capacità di impedire la trasmissione del virus, la capacità di impedire la contrazione della malattia e la durata dell’efficacia preventiva, ugualmente non sono ancora note nemmeno le conseguenze, soprattutto a lungo termine, derivanti dalla somministrazione dei vaccini, come emerge dagli ampi stralci delle note informative, riportate nel ricorso, che, sostengono ancora gli appellanti, i pazienti sarebbero costretti ad accettare mediante la sottoscrizione del modulo di consenso informato. Il TAR Friuli Venezia Giulia - con la sentenza n. 263 del 10 settembre 2021 , resa in forma semplificata ad esito di domanda cautelare ai sensi dell’art. 60 c.p.a. - ha dichiarato inammissibile il ricorso per la ritenuta carenza dei presupposti per la proposizione di una impugnazione collettiva e cumulativa. In sede di appello, il Consiglio di Stato ha riformato tale decisione, ritenendo ammissibile il ricorso, e lo ha respinto nel merito. In particolare, per quanto in questa sede interessa, ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di costituzionalità prospettate dai ricorrenti. La giurisdizione Per quanto riguarda la questione della giurisdizione della G.A. sulla vicenda esaminata il TAR Friuli Venezia Giulia e il Consiglio di Stato non si sono posti (in assenza di eccezioni al riguardo) la questione, ed hanno implicitamente affermato la stessa [1] . Diversa è stata tuttavia la posizione assunta dal TAR Liguria [2] e dal TAR Marche [3] , che hanno affermato la spettanza della questione al Giudice ordinario, ritenendo che i ricorrenti agiscano per la tutela di un loro diritto fondamentale quale quello alla salute che, nella sua componente oppositiva - che rileva nella specie - non può essere compresso e come tale degradato da provvedimenti amministrativi (Corte cost., 26 luglio 1979, n. 88). Così si è espresso recentemente anche il TAR Veneto, con la sentenza n. 1548 del 2021, in cui è stato specificato che la recente modifica operata dal legislatore all’art. 4 del D.L. 1 aprile 2021 n. 44 (con l’art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 26 novembre 2021, n. 172), pur non essendo applicabile ratione temporis alla fattispecie in concreto esaminata, " sotto il profilo interpretativo fa emergere una volta di più come il legislatore abbia del tutto inteso escludere l’intermediazione del potere pubblico: se nella precedente versione, infatti, come sopra detto, alle aziende sanitarie è stato attribuito un compito di verifica certativa eventualmente con profili di mera valutazione medica, nell’attuale versione, addirittura, è stato del tutto escluso un ruolo delle amministrazioni sanitarie ai fini dell’accertamento dell’inadempimento che, peraltro, viene effettuato dagli Ordini sulla scorta di un mero rilievo documentale, per mezzo di un atto definito esplicitamente avente natura dichiarativa e non disciplinare ". La manifesta infondatezza rilevata dal giudicante Numerose e rilevanti sono le questioni affrontate dalla sentenza [4 ] . In questa sede ci si intende soffermare su un particolare aspetto: quello relativo alla decisione da parte del Collegio di rigettare, per manifesta infondatezza , la sollevata questione di legittimità costituzionale della norma che impone l’obbligo vaccinale, così sottraendola allo scrutinio di legittimità da parte della Corte costituzionale. Con il presente scritto ci si intende in particolare interrogare sulla legittimità e sulla opportunità di un siffatto modo di procedere da parte del Supremo consesso amministrativo. I ricorrenti avevano articolato le seguenti questioni di legittimità costituzionale sostenendo che l’imposizione dell’ obbligo vaccinale : a) contrasterebbe con l’ art. 32 Cost. e con il diritto di autodeterminazione che esso riconosce alla persona , affermando che l’imposizione di un determinato trattamento sanitario obbligatorio non può prescindere dalla garanzia delle condizioni di sicurezza ed efficacia del trattamento medesimo, che costituiscono condiciones di una imposizione che, per definizione, non incontra il consenso del destinatario; b) violerebbe l’ art. 3 Cost. sotto i profili della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’uguaglianza, evidenziando: 1) – quanto alla ragionevolezza - che il vaccino non costituirebbe misura idonea allo scopo poiché non vi è certezza che il soggetto vaccinato non sia in grado di trasmettere il virus Sars-CoV-2 e, dunque, non si può ritenere che la sua somministrazione soddisfi il fine pubblico al quale è preordinata; 2) circa il canone della proporzionalità - che nel perseguimento dell’interesse generale il legislatore avrebbe dovuto prediligere gli strumenti che comportavano il minor sacrificio per gli interessi contrastanti (quali misure di distanziamento, utilizzo di guanti e mascherine, disinfettanti e paratie in plexiglass oppure sottoposizione degli operatori sanitari a tamponi molecolari o salivari, in grado si svelare, con elevata probabilità, lo stato di salute di chi vi si sottopone) mentre l’imposizione dell’obbligo avrebbe dovuto costituire, in una logica di equilibrato bilanciamento tra gli opposti valori in gioco, l’ extrema ratio ; 3) – in relazione al principio di uguaglianza – la natura discriminatoria della vaccinazione, imposta al solo personale sanitario, senza ragione alcuna, a differenza di tutti gli altri cittadini, in quanto la libertà di autodeterminazione non potrebbe essere sacrificata solo in nome di esigenze di interesse pubblico che, nel caso in esame, stante la mancanza di garanzie in ordine all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini, oltre che all’inidoneità di questi ad evitare la trasmissione del virus Sars-CoV-2, evidentemente non sarebbero configurabili; d) violerebbe gli artt. 2 e 32 Cost., per la mancata previsione dell’ indennizzo per il caso in cui, dalla somministrazione, dovesse derivare un pregiudizio grave e/o permanente per l’integrità fisica del soggetto al quale il vaccino è inoculato; e) violerebbe gli artt. 9 e 33 Cost. , in quanto l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 li obbligherebbe ad accettare la vaccinazione, quando essi potrebbero e vorrebbero prediligere misure alternative idonee al raggiungimento della finalità perseguita, nonostante gli stessi siano tutti soggetti legati all’ambiente sanitario, in grado di manifestare dissensi informati e non meramente aprioristici e preconcetti, pur godendo essi di conoscenze specifiche nel settore. Ciò impedirebbe, peraltro, anche il progresso della ricerca scientifica, con violazione dell’art. 9 Cost., che tutela la libertà della ricerca scientifica stessa, in riferimento ad altre possibili soluzioni curative; f) contrasterebbe con gli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. perché la conseguenza prevista per l’inadempimento dell’obbligo e, cioè, la sospensione dell’esercizio professionale, autonomo o dipendente, confliggerebbe con la tutela del principio lavoristico, sul quale è fondata la Repubblica (art. 1 Cost.), sopprimendo di fatto l’esercizio del diritto al lavoro e la percezione di un compenso che fornisca al lavoratore e alla sua famiglia le risorse necessarie ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa: non sarebbe possibile correlare un obbligo contrario alla libertà di scelta della cura all’impossibilità di esercitare la propria professione, se non violando gli artt. 1, 2 4 e 36 della Costituzione. Tutte le suddette questioni - ad eccezione di quella di cui alla lett. C), che è stata dichiarata non rilevante nel giudizio - sono state ritenute manifestamente infondate. Osservazioni critiche Secondo l’ art. 1 della legge cost. 9.2.1948 n.1 , “ La questione d'illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione”. L’ art. 23 della legge 87/1953 specifica che «l'autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, (…) emette ordinanza ». [5] Pertanto, il giudice innanzi al quale è sollevata questione di costituzionalità di una legge (o di un atto avente forza di legge) deve effettuare un duplice vaglio preliminare sulla: 1) rilevanza (“qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione stessa”); 2) non manifesta infondatezza (“ritenga che la questione sia “manifestamente infondata”). Al riguardo è stato icasticamente osservato [6] che l’ordinanza di respingimento per manifesta irrilevanza o infondatezza deve essere adeguatamente motivata, specificandosi che la motivazione non deve però risultare così lunga e complessa da contraddire, con ciò stesso, l’asserita manifesta irrilevanza o infondatezza dell’eccezione [7] . Si è poi posto in luce [8] - nel trattare della questione della c.d. “interpretazione conforme” - che la questione di costituzionalità non deve sollevarsi se è (ritenuta) manifestamente infondata, mentre deve simmetricamente essere sollevata se è (ritenuta) non manifestamente infondata, concludendo nel senso che nel secondo caso sussiste un obbligo del giudice, al quale corrisponde specularmente il diritto della parte che ha proposto eccezione di costituzionalità di vedere sollevata la relativa questione se questa non è manifestamente infondata. Resta da chiarire come possa essere definita la manifesta infondatezza e quale sia il percorso ragionativo per mezzo del quale si arriva ad evincerla. Secondo una prospettazione [9] la manifesta infondatezza si ha ove è assente «il minimo dubbio sulla interpretazione delle norme legislative». Si è affacciata poi la tesi [10] secondo la quale «il giudice, anche se ritiene soggettivamente infondata la questione sollevata dalle parti, deve rinviarla alla Corte qualora non sia in grado di mostrare palesemente tale infondatezza. Con la conseguenza che possono darsi casi in cui il giudice deve rinviare alla Corte questioni proposte dalle parti che egli non solleverebbe d’ufficio». Particolarmente efficace – e del tutto condivisibile – appare la definizione [11] secondo la quale il promovimento della questione di legittimità costituzionale presuppone che il giudice abbia ritenuto questa “non manifestamente infondata”, dovendo, invece, rigettare l’eccezione eventualmente proposta dalle parti ove ritenga la questione stessa arbitraria. Si tratta di un “filtro” predisposto per evitare l’afflusso alla Corte di questioni “pretestuose”, a fini evidenti di economia, sia per non sovraccaricare la Corte di lavoro inutile, sia per stroncare manovre dilatorie nel giudizio a quo ; l’Autore prosegue evidenziando, però, che “a l tempo medesimo, si trattava di un “filtro” leggero, tale da non sottrarre al giudizio della Corte tutte le questioni effettivamente meritevoli di essere valutate ”. Da ultimo appare opportuno richiamare le considerazioni scolte da C. Mortati [12 ] sugli abusi che, in questo senso, vennero in essere nei primi anni di funzionamento della Corte, mediante dichiarazioni di manifesta inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale estremamente serie, che venivano così sottratte al loro “giudice naturale” e cioè alla Corte. Alla stregua di questo rapido excursus pare che non sia condivisibile la scelta del Supremo Consesso Amministrativo di dichiarate illico et immediate - con sentenza ex art. 60 c.p.a. resa all’esito della camera di consiglio cautelare - manifestamente infondate le proposte questioni di legittimità costituzionale. E’ pure singolare che la dichiarazione di manifesta infondatezza e il rigetto complessivo del ricorso su una questione del tutto nuova e di assoluto rilievo sia avvenuta, all’esito della camera di consiglio sull’istanza cautelare, con sentenza semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ove si consideri che ne è scaturita una “sentenza semplificata” di circa 90 pagine. Senza entrare qui nel merito delle argomentazioni giuridiche e dei presupposti scientifici che il Consiglio di Stato ha posto a base della sua decisione (che pure potrebbero essere svolte) [13] , non può condividersi la scelta di impedire l’accesso della questione alla Corte costituzionale. Le questioni sollevate riguardano delicati profili relativi alla libertà della persona e al diritto alla salute, nel delicatissimo rapporto fra tutela del singolo e della collettività. Ed è proprio in relazione a queste tematiche che è storicamente nato il costituzionalismo [14] . Tanto più che la questione si è venuta a porre non già in una situazione per così dire ordinaria, ma nel mezzo della c.d. “emergenza Covid-19” la quale ha determinato, oltre ai gravi problemi sanitari, l’introduzione nel sistema normativo di rilevanti deroghe e limitazioni di libertà e di diritti costituzionali. Si può ben dire che il deferimento alla Corte costituzionale della tematica era non solo opportuno ma obbligato. Per contro, con la sentenza in discorso, il Consiglio di Stato ha ritenuto di decidere immediatamente la questione, privando i ricorrenti della possibilità di ottenere, come previsto dalla Costituzione, che sulla legittimità costituzionale della norma nel contesto dell’emergenza Covid si pronunciasse la Corte costituzionale. Peraltro, se si scorre il registro delle questioni sollevate negli ultimi mesi innanzi alla Corte (rinvenibili sul sito della Corte alla voce “questioni pendenti”) si vede che queste spesso attengono a questioni di poco momento o meramente patrimoniali. Appare dunque singolare che proprio la questione dell’obbligo vaccinale – che attiene alla libertà personale e ai trattamenti sanitari imposti - sia paradossalmente una delle pochissime sulla quale i giudici a quo abbiano ritenuto di definire in senso negativo la questione, impedendone l’accesso al vaglio della Corte costituzionale. E’ indice di cattiva salute del sistema delle garanzie che su questioni che riguardano la libertà si pronunci, negando qualsiasi contrasto con le tutele poste dalla Carta fondamentale, non già la Corte costituzionale ma il Consiglio di Stato, il quale, va ricordato, è tra l'altro organo ancipite ai sensi dell’art. 100 e 113 della Costituzione (da un lato organo di consulenza del Governo e dall’altro organo di vertice della Giustizia amministrativa), che con il Governo può e deve avere, dunque, collegamenti stretti sia sotto il profilo istituzionale [15] sia sotto quello fattuale. [1] Nello stesso senso successivamente si è posto il T.A.R. Lazio con la sentenza n. 11543/2021 [2] Sentenze nn. 983, 984, 985, 986, 987 e 991 della 1^ Sez. in data 18.11.2021 in www.giustizia-amministrativa.it [3] Sentenza 18.12.2021 n. 870 in www.giustizia-amministrativa.it [4] Rinvenibile in www.giustizia-amministrativa.it [5] Sull’esigenza che fra la Corte costituzionale e autorità giudiziaria sussista “un’atmosfera di intesa e di reciproca comprensione”, “una vera e propria collaborazione attiva” per salvaguardare e attuare la Costituzione si veda N. Occhiocupo La Corte costituzionale “esigenza intrinseca” della Costituzione Repubblicana in valori e principi del regime repubblicano vol. 3 legalità e garanzie a cura di S. Labriola Bari 2006 pag. 515 n. 128 e bibliografia ivi richiamata. [6] P. Biscaretti di Ruffia Diritto costituzionale XIV ediz. Napoli 1986 p- 634 -635 [7] P. Calamandrei Sulla nozione di “manifesta infondatezza Riv. dir. proc., Padova, 1956, II, 164/167. [8] O. Chessa “Non manifesta infondatezza versus interpretazione adeguatrice? Intervento al Convegno del Gruppo di Pisa su Interpretazione conforme e tecniche argomentative”, Milano 6 e 7 giugno 2008. [9] C. LAVAGNA, Criteri formali e sostanziali nella valutazione della manifesta infondatezza, in Giur. cost., 1957, 923 ss., spec. 928, [10] F. PIZZETTI – G. ZAGREBELSKY, “Non manifesta infondatezza” e “rilevanza” nella instaurazione incidentale del giudizio sulle leggi, Milano, 1972, 89 [11] A. Cerri: Corso di giustizia costituzionale 3^ edizione Milano 2001 pag. 177 [12] C. Mortati Ancora sulla manifesta infondatezza in Giur. Cost. 1959 [13] Al riguardo perspicue e del tutto condivisibili appaiono le criticità sollevate da C. Scarselli in Nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045 in Giustizia insieme, 17 novembre 2021, www.giustiziainsieme.it [14] V. la voce Costituzionalismo in Enciclopedia storica Treccani, che così lo definisce “Complesso dei principi che caratterizzano la forma di governo detto costituzionale, che sorge in reazione allo Stato assoluto e ha il suo ordinamento regolato con norme stabili, scritte, contenute appunto in una costituzione, carta o statuto. Con il c., al concentramento di tutto il potere statale nelle mani del monarca si sostituisce la «divisione dei poteri» (esecutivo, legislativo e giudiziario); il popolo è chiamato a partecipare alla vita politica e l’attività dei governanti deve essere informata ai principi della pubblicità e della responsabilità. Scopo primario del c. è la garanzia della libertà dell’individuo; attraverso la sottomissione del potere politico alla legge, infatti, esso mira a garantire ai cittadini l’esercizio dei diritti individuali, ponendo lo Stato in condizione di non poterle violare. …Il costituzionalismo moderno si articola attorno a cinque nuclei: la costituzione scritta, il potere costituente, la dichiarazione dei diritti, la separazione dei poteri, il controllo di costituzionalità delle leggi. [15] Va ricordato che il Presidente del Consiglio di Stato è designato dal Governo, posto che l’art. 22 della L. 27.4.1982 n. 186 prevede che il Presidente della Repubblica lo nomini con suo decreto “su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza”.
Autore: a cura della Redazione 19 gen, 2022
La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Giustizia UE hanno recentemente dettato alcuni principi in materia di esercizio dei diritti di difesa in giudizio da parte di cittadini e imprese, cercando di stabilire un difficile punto di equilibrio con riguardo alla naturale “tensione” che si crea tra accesso non condizionato e libero al sistema giustizia e necessità per tale sistema, per restare efficiente, di non incoraggiare azioni giudiziarie inutili e defatiganti, se non addirittura emulative e strumentali. Una prima vicenda giunta al vaglio dei Giudici europei – in questo caso, quelli della CEDU – è nata dall’iniziativa di alcuni ricorrenti italiani che si sono visti “bocciare” il ricorso in cassazione per un rilievo di inammissibilità di natura formale (1) . In particolare, un soggetto che gestiva un'impresa commerciale con sede a Catania, dopo avere ricevuto nel 2003 la notifica di un avviso di sfratto dei locali commerciali che aveva preso in affitto, era restato soccombente sia in primo che in secondo grado rispetto all’ordine di rilasciare i locali. Il 2 marzo 2010, tuttavia, il ricorrente presentò un ricorso per cassazione , la cui esposizione dei fatti conteneva una sintesi dell'oggetto della controversia e dello svolgimento del procedimento. I motivi di ricorso e la motivazione della sentenza impugnata erano trascritti; gli atti processuali e i documenti citati erano parzialmente riportati o riassunti e recavano la numerazione del fascicolo di parte di primo grado. La seconda parte del ricorso verteva invece sui motivi di ricorso sollevati avverso la sentenza. Ogni motivo indicava l’ipotesi invocata, conformemente all'articolo 360 del codice di procedura civile. Per quanto riguarda i documenti trascritti o riassunti nella seconda parte, il ricorrente rinviava alla motivazione della sentenza d’appello o ai documenti del procedimento di merito (note difensive depositate in appello, verbale di un’udienza, memoria della parte convenuta). La sentenza della corte d’appello e i documenti del fascicolo d’appello erano allegati al ricorso per cassazione. A fronte del ricorso in cassazione, però, la Corte adita aveva dichiarato il ricorso inammissibile, rammentando che il numero 4 dell’ art. 366 c.p.c. prescrive, a pena d’inammissibilità, che il ricorso contenga i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, e il successivo n. 6 prescrive, sempre a pena d’inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui il ricorso si fonda, di modo che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Secondo l’arresto della Corte di Cassazione poi contestato dal ricorrente davanti ai Giudici europei, il primo onere (di produzione) avrebbe dovuto essere adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovasse il documento in questione, mentre il secondo (di indicazione) avrebbe dovuto essere adempiuto trascrivendo о riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. A fronte dell’esistenza di tali principi, però, a detta del giudice di legittimità, il ricorrente in cassazione non ne era stato rispettoso, in quanto i cinque motivi in cui era articolato il ricorso sarebbero stati privi della rubrica indicativa dei vizi lamentati e dei riferimenti alla documentazione su cui erano basate le argomentazioni a sostegno. L’imprenditore di Catania, a quel punto, ha portato lo Stato italiano in giudizio dinanzi alla CEDU, sostenendo che l'interpretazione eccessivamente formalistica adottata dalla Corte di Cassazione avrebbe impedito l'esame del suo ricorso. In particolare, ha sostenuto che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, come applicato all'epoca dei fatti, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente. In effetti, l’applicazione di tale principio, di origine giurisprudenziale, era stato chiarito dalla stessa Corte di Cassazione con alcune sentenze delle Sezioni Unite (in particolare la sentenza n. 8077/2012), e tramite un protocollo stipulato nel 2015 con il CNF, che avrebbe cercato di arginare l'approccio eccessivamente formalistico originariamente tenuto dai Giudici di legittimità. Nello specifico, il protocollo d’intesa tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense del 17 dicembre 2015 aveva fissato dei criteri per la redazione del ricorso per cassazione in materia civile e tributaria, sul presupposto della presa d’atto delle complicazioni ingenerate nella gestione dei procedimenti innanzi alla Corte di cassazione per il moltiplicarsi di ricorsi e per la riscontrata difficoltà di definire in modo chiaro e stabile il senso e i limiti del c.d. principio di autosufficienza del ricorso affermato dalla giurisprudenza. Secondo il protocollo, il rispetto di tale principio non avrebbe dovuto comportare un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento, restando sufficiente che ciascun motivo risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di procedura civile, e che: - nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1, n. 6, del CPC), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce; - nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto; - siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, del CPC, gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso. In ogni caso, il chiarimento in questione sarebbe stato successivo al rigetto del ricorso, che era invece intervenuto nel 2011. La Corte dei diritti dell’uomo ha rammentato che, in questo tipo di cause, il suo compito consiste nel verificare se il rigetto per inammissibilità di un ricorso per cassazione abbia pregiudicato la sostanza stessa del «diritto» del ricorrente «a un tribunale» . Per farlo, ha esaminato innanzitutto se le condizioni imposte per la redazione del ricorso per cassazione abbiano perseguito uno scopo legittimo , e ha poi valutato la proporzionalità delle limitazioni imposte. Sotto il primo profilo, la Corte ha osservato che lo scopo avuto di mira dall’applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sarebbe stato quello di agevolare la comprensione della causa e delle questioni sollevate nel ricorso e di permettere alla Corte di Cassazione di decidere senza doversi basare su altri documenti, affinché quest’ultima possa mantenere il suo ruolo e la sua funzione, che consistono nel garantire in ultimo grado l’applicazione uniforme e l’interpretazione corretta del diritto interno (nomofilachia). Alla luce di questi elementi, la Corte ha ritenuto che tale principio sia legittimamente volto a semplificare l’attività della Corte di cassazione e a garantire allo stesso tempo la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia. Sotto il secondo profilo (proporzionalità delle limitazioni imposte), la Corte ha osservato che il principio di autosufficienza permette ordinariamente alla Corte di Cassazione di circoscrivere il contenuto delle doglianze formulate e la portata della valutazione che le viene richiesta alla sola lettura del ricorso, e garantisce un utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili. Tale approccio è attinente alla natura stessa del ricorso di legittimità, che protegge, da una parte, l’interesse del ricorrente a che siano accolte le sue critiche contro la decisione impugnata e, dall’altra, l’interesse generale alla cassazione di una decisione che rischi di pregiudicare la corretta interpretazione del diritto. Perciò, la Corte ammette che le condizioni di ricevibilità di un ricorso per cassazione possono essere più rigorose che per un appello, anche in considerazione dell’enorme arretrato e del notevole afflusso dei ricorsi presentati ogni anno dinanzi all’Alta giurisdizione. Tuttavia, anche se il gravoso carico di lavoro della Corte di Cassazione può causare difficoltà al normale funzionamento della trattazione dei ricorsi, resta comunque il fatto che le restrizioni dell'accesso alle Corti di legittimità non possono limitare, attraverso un'interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale, in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza. In particolare, la Corte EDU ha osservato che l'applicazione da parte della Corte di Cassazione del principio di autosufficienza, almeno fino al 2012, ha rivelato una tendenza dell'Alta giurisdizione a porre l'accento su aspetti formali che non rispondevano allo scopo legittimo individuato, con particolare riferimento all'obbligo di trascrivere integralmente i documenti citati nei motivi di ricorso, e in contrasto con l’esigenza di prevedibilità della restrizione. Il motivo di tale tendenza risiedeva, tra l'altro, proprio nella natura del principio di autosufficienza, che prevede che il ricorrente debba presentare tutti gli elementi di fatto e di diritto per ciascun motivo di ricorso affinché la Corte di cassazione possa pronunciarsi unicamente sulla base del ricorso stesso. Nel caso specificamente esaminato dai Giudici europei – ricorso sollevato dall’imprenditore di Catania - ciascuno dei motivi di ricorso del ricorrente che denuncia un error in iudicando , oppure un error in procedendo , si apriva con l’indicazione degli articoli o dei principi di diritto di cui era dedotta la violazione, e rinviava ai numeri 3 o 4 dell’articolo 360 del CPC, due delle ipotesi in cui è ammesso il ricorso per cassazione che possono essere invocate dalla parte interessata. Analogamente, nella sua critica della sentenza della Corte di Appello sotto il profilo del vizio di motivazione, il ricorrente faceva riferimento all’ipotesi prevista nel numero 5 dell’ articolo 360 c.p.c. . In queste condizioni, la Corte ha ritenuto che l’obbligo di precisare il tipo di critica formulata, con riferimento alle ipotesi legislativamente limitate di casi in cui può essere proposto ricorso per cassazione previsti dall’articolo 360 del codice del processo civile, era stato sufficientemente rispettato dal ricorrente. La Corte di Cassazione avrebbe potuto sapere, dopo aver letto ciascuno dei titoli, qual era il tipo di caso trattato nel motivo di ricorso e quali disposizioni erano eventualmente invocate. In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha dichiarato che il ricorso per cassazione del ricorrente aveva omesso di riportare le indicazioni necessarie per individuare i documenti menzionati a sostegno delle critiche che quest’ultimo aveva esposto nei suoi motivi di ricorso. Dalla lettura dei motivi del ricorso per cassazione risultava, invece, che il ricorrente, nel fare riferimento ai punti contestati della sentenza della Corte di Appello, aveva rinviato alla motivazione della sentenza riprodotta nell’esposizione dei fatti, in cui erano ripresi i passaggi pertinenti. Inoltre, nel citare i documenti del procedimento sul merito per esporre il suo ragionamento, il ricorrente aveva trascritto i brevi passaggi pertinenti e aveva rinviato al documento originale, permettendo così di individuarlo tra i documenti depositati con il suo ricorso per cassazione. In queste condizioni, secondo i Giudici europei, la Corte di Cassazione aveva mostrato un formalismo eccessivo, che non poteva essere giustificato rispetto alla finalità propria al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e, pertanto, rispetto allo scopo perseguito, ossia la garanzia della certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia. Secondo la Corte EDU, infatti, la lettura del ricorso per cassazione del ricorrente permetteva di comprendere l’oggetto e lo svolgimento della causa dinanzi alle giurisdizioni di merito, nonché la sostanza dei motivi di ricorso, sia per quanto riguardava la base giuridica degli stessi (il tipo di critica in riferimento ai casi previsti dall’articolo 360 del CPC), che per quanto riguardava il loro contenuto, attraverso i rinvii ai passaggi della sentenza della Corte di Appello e ai documenti pertinenti citati nel ricorso per cassazione stesso. In conclusione, la Corte europea ha ritenuto che, nel caso di specie, il rigetto del ricorso per cassazione del ricorrente abbia pregiudicato la sostanza del suo diritto a un tribunale, e che pertanto vi sarebbe stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione EDU. In diverso e ancora più recente arresto di diverso Giudice europeo – stavolta la Corte di Giustizia UE – è stata esaminata la seguente questione: se una limitazione della possibilità di ricorrere in cassazione avverso le sentenze dell’organo supremo della giustizia amministrativa di uno Stato membro, quale risulta nel dall’ articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana , sia in contrasto con i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva imposti dal diritto dell’Unione e quindi con l’unità e l’efficacia di tale diritto (2) . Invero, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, e il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, cui fa riferimento tale disposizione, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e che è attualmente affermato all’articolo 47 della Carta. Le modalità processuali stabilite da ciascuno Stato membro, in forza del principio dell’autonomia procedurale, dei rimedi giurisdizionali utili, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non devono essere meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e non devono rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività) Nel caso specifico esaminato dalla Corte di Giustizia, quanto al rispetto del principio di equivalenza , è stato accertato che l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione, come interpretato nella sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale del 18 gennaio 2018 , limita, con le medesime modalità, la competenza della Corte suprema di cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati su disposizioni di diritto nazionale o su disposizioni di diritto dell’Unione. Per quanto riguarda poi il principio di effettività , posto che il diritto dell’Unione non produce l’effetto di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno, a meno che dalla struttura dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, o che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto, la Corte di Giustizia ha ritenuto l’insussistenza, a priori, di elementi che indichino che il diritto processuale italiano abbia, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, nel settore dell’aggiudicazione degli appalti pubblici, dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione. In particolare, secondo i Giudici europei, è da considerarsi perfettamente ammissibile che lo Stato membro interessato conferisca al supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato (nel nostro caso, il Consiglio di Stato) la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi, e di impedire, di conseguenza, che quest’ultima possa ancora essere esaminata nel merito nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi all’organo giurisdizionale supremo dello stesso Stato. Con la conseguenza che una norma di diritto interno quale l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione, nell’interpretazione che dello stesso ha dato la sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale sopra citata, non pregiudica neppure il principio di effettività e non rivela alcun elemento da cui risulti la violazione dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE. Né l’articolo 4, paragrafo 3, TUE - che obbliga gli Stati membri ad adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione - può essere interpretato nel senso che esso obbliga gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi giurisdizionali, obbligo che non è imposto loro dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE. Quanto poi al settore particolare dell’aggiudicazione di appalti pubblici, neppure l’articolo 1 della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47, primo comma, della Carta, osta alla citata conclusione, in quanto la sussistenza di una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall’organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all’articolo 47 della stessa. Dunque, il sistema processuale italiano nel caso di specie è stato ritenuto conforme al diritto europeo, e questo, sia detto per inciso, nonostante nell’ultima parte della sua pronuncia la Corte di Giustizia abbia detto a chiare lettere che il Consiglio di Stato ha violato il diritto dell’Unione. Ma per la violazione ravvisata sono altri i rimedi che il soggetto leso può esperire, e tutti al di fuori della vicenda processuale strettamente connessa all’aggiudicazione della commessa pubblica. Un colpo al cerchio e uno alla botte, si potrebbe dire: processi sicuramente rapidi ed effettivi, ma solo “tendenzialmente” giusti. D’altra parte, nel suo Piano nazionale di ripresa e resilienza adottato nel 2021, il Governo italiano vuole migliorare il sistema giustizia “anche” rendendo effettivo il principio di sinteticità degli atti e quello di leale collaborazione tra il giudice e le parti, e ciò tramite l’ampliamento della procedura in camera di consiglio e la conseguente semplificazione della fase decisoria, con un probabile restringimento qualitativo e non solo quantitativo dell’esame delle istanze di giustizia. (1) Sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (2) Grande Sezione della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2021
Autore: di Roberto Lombardi 16 gen, 2022
Benvenuti nel regno della razza umana . E’ la frase che l’antieroe per eccellenza di John Carpenter pronuncerebbe anche a proposito di questa pandemia che ci perseguita, ma stavolta non dopo avere “spento” il mondo, bensì guardando in modo beffardo persone e istituzioni battersi a mani nude, mentre i ricchi diventano più ricchi e gli ultimi restano ancora più indietro. Vaccinati contro tamponati, giovani contro anziani, mascherati contro smascherati , complottisti contro leccapiedi , lavoratori contro non lavoratori, governo contro regioni, nazioni contro nazioni, Stati contro individui. Il mondo frigge su una padella che diventa sempre più scottante, senza che una chiara via di uscita dall’emergenza si affacci all’orizzonte. La sensazione però è quella di un impazzimento generale che provoca tensioni e che puntualmente sfocia in pittoresche liti giudiziarie. Tocca quindi sempre più spesso a un giudice , e quasi sempre ad esito di un esercizio solitario di “giurisdizione urgente”, stabilire cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato, o, meglio ancora, cosa è più giusto e cosa è più sbagliato, in un mare magnum ordinamentale di pressappochismo e contraddizioni. Stato vs Regione Campania A seguito dell’ultimo decreto-legge del Governo, che non ha impedito il rientro scolastico in aula degli studenti dopo festività segnate da un esponenziale aumento dei contagi, limitandosi ad individuare la disciplina per la “gestione dei casi di positività all’infezione da SARS-CoV-2 nel sistema educativo, scolastico e formativo”, la Regione Campania ha adottato un’ordinanza (la n. 1 del 7 gennaio 2022 ) con la quale ha ravvisato la necessità di provvedere nel senso proposto dall'Unità di crisi regionale, al fine di scongiurare il collasso del suo sistema sanitario, già fortemente sotto pressione, come provato dalla disposta sospensione di plurime attività di ricovero ed ambulatoriali. Nello specifico, si proponeva l’adozione di misure straordinarie di contenimento. Ciascuna delle ASL campane aveva attestato infatti di aver ricevuto richieste dai Comuni e dagli Istituti scolastici di supporto in vista della riapertura delle scuole prevista per il 10 gennaio, ma di essere nella impossibilità di assicurare il contact tracing e gli screening prescritti dal decreto-legge n. 1 del 2022 relativamente alla popolazione scolastica, per l’enorme attuale pressione sulla organizzazione sanitaria, impegnata nella somministrazione di tamponi ai contatti di soggetti positivi, nella gestione delle quarantene e dei soggetti positivi fino alla negativizzazione nonché nella prosecuzione della campagna vaccinale. L’Unità di crisi aveva pertanto suggerito di sospendere le attività in presenza, quantomeno nelle scuole dell’infanzia e del ciclo primario e secondario di primo grado, trattandosi della platea di soggetti in cui la diffusione del virus starebbe raggiungendo altissimi picchi di incidenza in tutte le province della Regione, e rispetto alla quale già prima della chiusura prefestiva si erano registrati numerosissimi focolai. Una platea di soggetti particolarmente a rischio di contagio anche perché attualmente vaccinata solo in piccola parte e con grandi rischi di amplificazione della pandemia attraverso i contatti diretti con i coetanei e con l’ambiente familiare, tenuto conto altresì della difficoltà di applicare alla fascia di età in questione le regole di prevenzione sanitaria diffuse tra i più adulti. Non ritenendo pertanto che la situazione attuale nei territori di pertinenza avrebbe consentito di assicurare il rispetto delle disposizioni introdotte dal Governo con il decreto-legge del 7 gennaio 2022, fondato sull’autosorveglianza e sugli screening , il Presidente della Giunta regionale della Regione Campania ha disposto la sospensione delle attività in presenza dei servizi educativi per l'infanzia e dell'attività scolastica e didattica in presenza della scuola dell'infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado. E lo ha fatto dopo avere rilevato che l’attuale situazione del territorio regionale della Campania corrisponderebbe alla fattispecie di “ circostanze di eccezionale e straordinaria necessità dovuta all’insorgenza di focolai o al rischio estremamente elevato di diffusione del virus SARS-CoV-2 o di sue varianti nella popolazione scolastica ”, in presenza delle quali la disposizione di cui all’ art. 1, comma 4 del decreto legge 6 agosto 2021, n. 111 , convertito dalla legge 24 settembre 2021, n.133, nell’effettuare il bilanciamento tra il diritto costituzionale alla salute e quello all’istruzione, consente eccezioni allo svolgimento in presenza delle attività educative e scolastiche. Tuttavia, come ha giustamente fatto rilevare anche il Presidente della V Sezione del TAR per la Campania – giudice monocratico competente per materia a cui la legge affida il compito di decidere su domande cautelari “urgentissime” -, è proprio la stessa disposizione richiamata dalla Regione Campania a consentire ai Presidenti delle Regioni e ai Sindaci di derogare all’attività scolastica in presenza, per specifiche aree del territorio o per singoli istituti, “esclusivamente in zona rossa”, mentre la Campania allo stato non lo è. Il Giudice ha dunque sospeso a sua volta il provvedimento di sospensione delle attività scolastiche in presenza impugnato dal Governo centrale. La dettagliata normativa prevista dal d.l. n. 111 del 2021, e quelle che si sono succedute poi, essendo di rango primario, e disciplinando in maniera specifica la gestione dei servizi e delle attività didattiche in costanza di pandemia, al fine di “prevenire il contagio” e di garantire, nel contempo, il loro espletamento “in presenza”, costituiscono, a dire del TAR, un fattore normativo che preclude la possibilità per le Regioni di emanare ordinanze contingibili che vengano a regolare diversamente i medesimi settori di attività. Infatti, da un lato, vi è già una regola della concreta fattispecie, prevista proprio per il caso che dovrebbe andare a regolare l’ordinanza regionale; dall’altro, lo Stato ha effettuato la scelta politico-valoriale di preservare e garantire la continuità di esercizio dell’attività scolastica in presenza, nonostante il permanere dello stato di emergenza e di tutte le sue inevitabili conseguenze, come l’aumento dei contagi e la “sofferenza” del sistema sanitario. In altri termini, secondo il giudice adito, e secondo le regole vigenti, la Regione non può disciplinare diversamente l’attività scolastica durante questa fase dell'emergenza pandemica, in quanto il legislatore ha già scelto il punto di equilibrio del bilanciamento tra i diversi valori coinvolti, individuando il livello di tutela dell’interesse primario alla salute, individuale e collettiva, a fronte del valore della scuola come comunità e della necessità di protezione della sfera sociale e psico-affettiva della popolazione scolastica sull’intero territorio nazionale. Viene allo stato bocciata dal TAR, in definitiva, un’interpretazione volta a consentire l’intervento delle singole Regioni, in materia di svolgimento dell’attività scolastica in presenza, anche qualora le stesse non si trovino collocate in “zona rossa”, fermi restando i dubbi di incostituzionalità di una disciplina normativa decisamente accentratrice delle competenze in materia sanitaria, a distanza di quasi due anni, ormai, dalla proclamazione dello stato di emergenza. Sotto altro profilo, d’altra parte, è stata giustamente ritenuta dubbia financo l’ idoneità della misura disposta a raggiungere l’obiettivo prefissato, tenuto conto che la prolungata chiusura connessa alle festività natalizie non ha evitato l’aumento registrato dei contagi. Anzi. La bocciatura dell'ordinanza regionale non sembra in ogni caso avere scoraggiato i Comuni dal "chiudere" autonomamente le scuole, con ulteriore alimentazione delle diseguaglianze territoriali già esistenti nel nostro Paese in materia di istruzione. Lega Calcio vs Asl Campionato di calcio di serie A. L’insorgere di numerosi mini-focolai, all’interno dei club sportivi tenuti, da calendario, a scendere in campo nei primi giorni di gennaio, ha indotto le Aziende sanitarie competenti per territorio a intervenire sui singoli calciatori o componenti dello staff sottoponendoli a quarantena o al regime di autosorveglianza, pur se negativi e asintomatici, e vietando infine alle loro squadre di giocare. La Lega Calcio è insorta in giudizio chiedendo la sospensione delle decisioni che impedivano di fatto alle società coinvolte di presentarsi in campo. Secondo la ricorrente, gli atti impugnati violerebbero sia l’art. 2 del d.l. 229 del 2021 che la circolare del 18.6.2020 del Ministero della Salute. La prima norma citata ha previsto, al fine di impedire la paralisi delle attività lavorative in presenza di una curva risalente dei contagi da COVID e di una buona risposta anticorpale rispetto alla malattia dei soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale con la terza dose o che hanno ricevuto la seconda dose da meno di 120 giorni, che la misura della quarantena precauzionale non si applichi a questi ultimi, qualora abbiano avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19. Tali soggetti, infatti, sono attualmente sottoposti all’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 fino al decimo giorno successivo alla data dell'ultimo contatto stretto con soggetti confermati positivi al COVID-19, e di effettuare un test antigenico rapido o molecolare per la rilevazione dell'antigene Sars-Cov-2 soltanto alla eventuale comparsa dei sintomi. La circolare del 18 giugno 2020 , invece, aveva previsto che nel caso di quarantena dell’intero “Gruppo Squadra” per l’accertata positività di un componente dello stesso, il team possa essere posto “in bolla”, di modo da consentire la disputa delle partite professionistiche, previa effettuazione di test nel giorno della gara. I provvedimenti delle ASL avrebbero violato sia la prima che la seconda disposizione, nella misura in cui hanno imposto il divieto di partecipare ad eventi sportivi dal 5 al 9 gennaio 2022 indiscriminatamente a tutto il “Gruppo Squadra”, impedendo ai soggetti sottoposti a quarantena (contatti asintomatici di positivi) di avvalersi della possibilità di “mettersi in bolla”, e ai soggetti sottoposti al regime di mera sorveglianza di giocare tout court . I giudici aditi (sempre in via monocratica e “urgentissima”) hanno dato prevalentemente ragione (3 contro 1) alla Lega Calcio. Nel merito, e nei limiti propri di una cognizione sommaria, è stata rilevata la doppia “violazione di legge” dedotta dalla ricorrente. Sotto il profilo dell’urgenza, si è fatto riferimento alla “ dichiarata impossibilità di recuperare tutte le giornate di gara perse entro la data di conclusione del Campionato di serie A, a fronte del quale non è ravvisabile un concreto pericolo di danno alla salute pubblica laddove venga rispettata la prescrizione della previa effettuazione di test nel giorno della gara ai sensi della suindicata circolare del Ministero della Salute del 18 giugno 2020 ” (1) . In senso contrario, altro TAR ha invece statuito “ che nell’attuale, straordinaria, grave e tuttora irrisolta (…) emergenza sanitaria risulta necessariamente prevalente (…) la tutela dell’interesse pubblico fondamentale alla salvaguardia della sicurezza sanitaria collettiva rispetto all’interesse privato, economico e sportivo fatto valere in giudizio dalla società ricorrente ” (2) . Questione chiusa? Non del tutto. Il responso del Giudice amministrativo può astrattamente influire da oggi in poi sull’esito delle controversie instaurate dinanzi al Giudice sportivo per l’omologazione di risultati a tavolino inerenti a partite non disputate. Nel campionato scorso, nel caso della famosa partita “fantasma” tra Juventus e Napoli, il cui risultato a tavolino in favore della Juventus fu poi ribaltato dal Collegio di Garanzia dello Sport del CONI (3) , si stabilì il principio secondo cui l’obbligo di quarantena domiciliare con divieto di partecipare a gare stabilito dalle ASL costituisca sempre un “factum principis” che esime da responsabilità il club che non si presenta conseguentemente allo stadio, seppure tale condotta si ponga contestualmente in violazione del protocollo stabilito – conformemente alle norme della circolare del 18 giugno 2020 adottata dal Ministero della Salute – dagli stessi club professionistici. Ma la lettura della predetta circolare viene contestata da chi, non senza una qualche ragione, ritiene che non vi siano i presupposti per disporre il trasferimento dei giocatori “in bolla” qualora siano più di uno i giocatori positivi, e che in ogni caso la disciplina in questione prevedrebbe l’esercizio di una facoltà discrezionale – come desumibile dal dato letterale della circolare stessa (4) -, e non di un’attività vincolata, con la conseguenza che il trasferimento “in bolla” dovrebbe considerarsi legittimamente negato sia in caso di gravità della situazione generale che nel caso di gravità della situazione specifica della squadra attinta dal divieto della ASL. Si aspetta adesso l’approvazione di un nuovo protocollo dopo l’intesa Stato-Regioni di questi giorni, ma la verità è che anche il mondo del calcio è “andato nel pallone” a causa della pandemia. Djokovic vs Australia Il campione serbo parte per l’Australia per giocare una delle quattro prove del Grande Slam (la massima competizione del tennis professionistico), con documentazione medica attestante l’avvenuta guarigione dal covid nel mese di dicembre 2021. Secondo le indicazioni ricevute alla partenza dagli organi australiani competenti, tale documentazione avrebbe dovuto essere sufficiente ad ottenere il visto per motivi di lavoro, nonostante la mancata vaccinazione. Ma il Governo australiano, spinto dall’onda di sdegno che si era levata sui media per la notizia dell’ingresso del giocatore serbo senza che lo stesso si fosse previamente vaccinato contro il covid, interviene a gamba tesa e revoca il suo visto all’atto dell’ingresso nel Paese. Premesso che resta nebulosa l’origine dei fatti che hanno portato Djokovic ad ottenere il certificato di avvenuta guarigione dal covid (secondo il tennista il certificato sarebbe vero ma lui avrebbe violato, in parte consapevolmente e in parte inconsapevolmente, le regole di isolamento mentre era positivo); premesso che se successivamente le autorità australiane riterranno la sussistenza di una falsa dichiarazione per l'ingresso nella Terra dei canguri il giocatore serbo dovrà essere giustamente arrestato ed espulso, allo stato il Tribunale di Melbourne competente per l’accertamento della legittimità del rifiuto opposto dal Governo australiano ha dovuto decidere in base alle “carte” che aveva a disposizione (5) . E la documentazione prodotta in giudizio dai legali di Djokovic ha attestato una condotta conforme a quanto gli era stato preventivamente richiesto e consentito per ottenere il visto, sulla base di un certificato medico che è da considerarsi legalmente rilasciato e attestante il vero fino a prova contraria. Il Giudice australiano si è dunque trovato a decidere su questo: un cittadino serbo giocatore di tennis professionista che chiedeva di potersi trattenere lecitamente nel Paese ospitante il torneo agonistico a cui è iscritto. Non ha dovuto giudicare sulle qualità morali di chi non vuole vaccinarsi o di chi, peggio ancora, ha girato impunemente in mezzo agli altri pur essendo potenzialmente contagioso. Non ha utilizzato un criterio politico di selezione della sua scelta, né si è dovuto soffermare sulla legittimità di un certificato medico di cui nessuno ha offerto la controprova della falsità. Ha dovuto semplicemente stabilire se il richiedente il visto avesse o meno rispettato le regole che ne disciplinano i presupposti. Si è limitato ad applicare il diritto, fregandosene della volontà politica di uno Stato (il suo Stato) che minacciava addirittura di “invalidare” la decisione del Tribunale, nel caso di una pronuncia a sé sfavorevole. E’ una cosa che spesso succede ad un giudice, quando affronta un caso che è posto sotto la “pressione” politica o mediatica. La salvezza sta nell’applicare sempre e soltanto il diritto, nel far prevalere la legge sulle opinioni. Al di là della simpatia e dell’antipatia umana, al di là del solito cretino che ne ha approfittato per fare inutili distinguo tra Djokovic ed altri campioni del tennis, al di là anche dei fondati dubbi sulla strana origine e durata della positività del giocatore serbo – questione inconferente rispetto al caso concreto affrontato fino ad oggi a Melbourne -, resta scolpita nella mente una frase che i resoconti giornalistici ci riportano come pronunciata nel corso dell’udienza dal giudice Anthony Kelly (e che ci piace credere sia stata pronunciata per davvero). E’ una frase che condensa in poche parole e con uno straordinario esempio applicativo quel canone di proporzionalità tanto osannato da alcuni giuristi e che non è altro che una declinazione legale del rispetto del “buon senso” anche nell’esercizio del potere. E’ una frase che forse ci restituisce il senso di umanità e di equilibrio che qualcuno durante la pandemia ha smarrito. “ Cosa avrebbe potuto fare di più, quest’uomo? ” (5) Successivamente, Djokovic è stato definitivamente espulso sulla base di una decisione del Ministro dell'Immigrazione australiano, ritenuta questa volta dal giudice (Corte federale), pronunciatosi su istanza urgente dei difensori del giocatore, né illegale né manifestamente irragionevole. In particolare, la motivazione con cui il Ministro ha annullato nuovamente il visto del cittadino serbo è connessa alla sua mancata vaccinazione contro il Covid-19, in considerazione del fatto che la sua presenza sul territorio australiano è stata considerata un rischio per la salute pubblica e un possibile rafforzamento - controproducente rispetto agli obiettivi sanitari del Governo australiano - delle tesi contrarie alla vaccinazione.
Autore: a cura della Redazione 11 gen, 2022
Con decreto ministeriale del 26 marzo 2021 è stata nominata la “ Commissione per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario ”, presieduta dal prof. Luciani. Al termine dei lavori la Commissione ha approvato un articolato normativo allegato alla relazione finale. Poiché, ai sensi dell’art. 1 del decreto ministeriale istitutivo, la Commissione, nell’elaborare le sue proposte, doveva tenere conto del d.d.l. AC 2681, recante “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura ”, l’articolato normativo da essa “suggerito” è stato strutturato in forma di complesso di emendamenti al menzionato disegno di legge. In particolare, la Commissione ha definito il perimetro del proprio lavoro tenendo conto delle esigenze di: a) “superare i profili problematici del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” e di affrontare “i più generali temi riguardanti l’ordinamento giudiziario nel suo complesso e l’organizzazione degli uffici”; b) “procedere all’individuazione di possibili misure organizzative e proposte normative finalizzate, in particolare, ad incidere sull’efficienza dell’amministrazione della giustizia e sull’imparzialità dell’esercizio della giurisdizione”; c) coordinare le ipotesi di riforma con il “più ampio programma di interventi riguardante il sistema giudiziario e ordinamentale in coerenza con le Country Specific Recommendations adottate dal Consiglio dell’Unione Europea il 9 luglio 2019 e il 20 maggio 2020”; d) considerare quanto previsto dal disegno di legge AC 2681, esaminandone e valutandone le proposte, anche in ragione degli “esiti dell’indagine conoscitiva espletata in sede parlamentare”, degli “emendamenti presentati” e del parere del Consiglio Superiore della Magistratura su detto disegno di legge; e) essere coerenti “con il calendario del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, funzionale al conseguimento delle risorse del Next Generation Eu ”. Il momento nel quale la Commissione è stata chiamare a operare era molto delicato, tra gli adempimenti che nell’ambito del Recovery Plan riguardano il settore della giustizia, e la necessità di porre rimedio alle storture che hanno dato origine alle note e non esaltanti vicende che hanno recentemente riguardato la magistratura ordinaria. In effetti, la nuova riforma ordinamentale della magistratura voluta dal Ministro Bonafede, nell’ambito del primo governo della odierna legislatura (nato dall’alleanza politica tra Lega e Movimento 5 Stelle), era scaturita, come spesso accade in Italia, da uno scandalo che aveva scosso dalle fondamenta il sistema su cui aveva l’ambizione di incidere. L’ affaire Palamara - il caso del Giudice rimosso dalla magistratura ordinaria perché accusato di avere tramato e cercato di influenzare le decisioni del CSM in materia di nomine -, è tuttavia più semplice e più complicato da capire di quanto possa apparire dall’esterno. E’ più semplice da comprendere, se soltanto si pensa agli effetti prodotti nel tempo dalla “riforma Castelli” del 2005, una riforma che ha eliminato la rilevanza dell’anzianità di servizio come criterio di valutazione per l’accesso alla dirigenza giudiziaria, parzialmente gerarchizzato le Procure e di fatto indebolito il sistema del “potere diffuso” del Giudice immaginato dalla Costituzione. E’ più arduo da identificare, se si fa riferimento alla complessità dell’indole umana e alla necessità per il magistrato di tenere una condotta che è di gran lunga superiore allo standard morale medio, specie in un Paese come il nostro, che, secondo il report di Transparency International dell’anno 2019, è al 51esimo posto nel mondo per “indice di percezione della corruzione”, a pari merito con il Ruanda. La Corte Costituzionale ha da tempo chiarito che le specifiche prerogative assicurate ai magistrati dagli artt. 101 e seguenti della Costituzione comportano l'imposizione di speciali doveri, che vanno rispettati non solo con riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità. Di conseguenza, non dovrebbero mai essere considerate mero esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, costituendo invece violazioni dei doveri di correttezza ed equilibrio propri del magistrato, condotte volte a screditare o valorizzare colleghi, “anche al fine” di tentare di interferire con l'attività del Consiglio superiore della Magistratura. In particolare, non è pensabile che un magistrato possa operare da politico “puro” per indirizzare, tramite conoscenze e intrecci personali, le nomine o l’attività dell’organo di autogoverno nel senso da lui voluto, anche se per assurdo il fine di tali condotte non sia illecito o volto ad ottenere un personale tornaconto; capita molto spesso, infatti, che l’interessato sia spinto anche solo da motivi di mera gestione e conservazione del potere. Questo punto è peraltro fondamentale, perché è posto ad un incrocio ideale tra livello di condotta che si può pretendere da un magistrato e modalità di rappresentanza delle toghe nel CSM. Come si fa ad impedire in modo oggettivo e preventivo a un magistrato in servizio e ben integrato nel sistema delle “correnti”, il cui alto livello di correttezza individuale esigibile sia nel frattempo scemato, di incidere sul corretto funzionamento dell’organo di autogoverno? Il disegno di legge recante delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario – allo stato ancora in discussione, dopo più di una anno, presso la competente Commissione parlamentare – non aveva intrapreso la strada più coraggiosa e forse risolutiva per spezzare a monte il legame tra rapporti impropri di colleganza (non improntati cioè a correttezza) e influenza delle “correnti” associative sulle nomine: l’individuazione dei componenti togati del CSM mediante sorteggio “selettivo”. Una decisione di tal fatta avrebbe avuto il sostanziale effetto di sterilizzare la gestione della politica associativa come costruzione di un ponte per gestire potere anche all’interno dell’organo di autogoverno. Qualsiasi magistrato, in possesso di una specifica anzianità e di un determinato bagaglio di esperienze professionali, potrebbe essere nominato al Consiglio Superiore della Magistratura. Nessuna campagna elettorale, nessuna azione di proselitismo interno, nessun favore da dovere ricambiare, nessuna gestione del potere. La strada intrapresa dal Governo è stata però inizialmente un’altra, e cioè quella di stabilire paletti rigidi per la scelta dei futuri capi degli Uffici giudiziari. Sotto un primo profilo, le funzioni direttive e semidirettive avrebbero dovuto essere conferite, nel disegno immaginato dal Ministro Bonafede, ad esito di un vero e proprio procedimento amministrativo avviato e istruito secondo l’ordine temporale con cui i posti si rendano vacanti, previa audizione dei candidati, dei rappresentanti dell’avvocatura, dei magistrati e dirigenti amministrativi assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati. Sotto un secondo versante, era stato deciso di puntare all’acquisizione di una maggiore “esperienza” e “capacità” da parte dei futuri Presidenti e Procuratori, con riferimento alle valutazioni di professionalità richieste, ai requisiti attitudinali individuati, e al conseguimento di un’idoneità ad esito di specifici corsi tenuti presso la Scuola superiore della magistratura. Al riguardo, la “Commissione Luciani” ha proposto le seguenti modifiche di merito del disegno di legge: - prevedere, per assicurare la funzionalità delle procedure selettive, la facoltà di “ragionevoli e giustificate” (quindi motivate) deroghe al principio generale dell’ordine temporale delle procedure stesse; - stabilire un più flessibile adattamento dei corsi tenuti dalla Scuola superiore della magistratura alle esigenze che questa, di volta in volta, riterrà meritevoli d’essere perseguite; - escludere il ricorso a criteri ponderali allo scopo di tenere conto dell’esigenza di una valutazione complessiva dei candidati; - bilanciare l’esigenza di un’adeguata predeterminazione tramite fonte primaria dei criteri di valutazione dei candidati a funzioni direttive o semidirettive con quella di lasciare un margine di ragionevole discrezionalità all’attuazione da parte del CSM, nell’esercizio di un’autonomia che viene definita espressamente come “normativa”, di modo che il CSM affidi gli incarichi direttivi e semi-direttivi sulla base di indicatori, generali e specifici, individuati dal legislatore delegato, ma senza un’eccessiva compressione della sua autonomia; - valutare le esperienze pregresse con specifico riferimento ai risultati conseguiti, alle capacità relazionali dei candidati, nonché alle loro competenze ordinamentali, con individuazione, per coloro che hanno maturato esperienze fuori dal ruolo organico della magistratura, di parametri capaci di far apprezzare l’acquisizione di competenze coerenti con l’incarico a cui il magistrato ambisce. La Commissione Giustizia incardinata presso la Camera dei Deputati è tuttavia allo stato “paralizzata” nella trattazione degli emendamenti al disegno di legge in materia di riforma della magistratura, in attesa delle ulteriori proposte emendative dell’attuale Governo, su cui sta lavorando il team della Ministra Cartabia. Tuttavia, non mancano le voci critiche rispetto alla intenzione dell'Esecutivo di proporre come legge elettorale per il Consiglio superiore della magistratura un sistema con sette collegi binominali. Secondo taluni, se tale soluzione venisse accolta, la nuova legge elettorale finirebbe con il favorire un sistema maggioritario, che se è utile a garantire maggioranze stabili nei sistemi politici, non si attaglierebbe invece alla magistratura, che è per definizione composta da magistrati che devono essere autonomi e indipendenti. Si prospetta pertanto l’ipotesi alternativa di puntare sul cosiddetto “sorteggio temperato”. Resta il nodo di fondo. Si tenta di imbrigliare l’influenza delle “correnti” nelle decisioni sugli incarichi direttivi e semi-direttivi tramite la modifica dei sistemi elettorali e l’elaborazione di più stringenti criteri di valutazione, ma residuerà necessariamente un margine di valutazione opinabile e di merito riservato al CSM. Ad oggi, le delibere del CSM in tema di conferimento di funzioni direttive - al di là di elementi specifici, quali ad esempio, esperienza nel settore di riferimento (civile o penale, etc.) precedente esperienza direttiva o organizzativa, anzianità di servizio -, sono espressione dell’esercizio di un’ampia discrezionalità, dovendosi scegliere il magistrato più adatto “ per attitudini e merito ”, a ricoprire un determinato incarico. Si tratta quindi di atti, quanto a grado di discrezionalità, almeno al confine con quelli di “alta amministrazione”. Il giudizio effettuato dal CSM è un giudizio sintetico e unitario, cioè non analiticamente rivolto a giustificare la prevalenza di ogni singolo parametro, ed è di tipo comparativo. In particolare, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale del Giudice amministrativo – a cui è affidato il controllo delle delibere in materia di incarichi interni adottate dal CSM -, nel conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, il Consiglio Superiore gode di un apprezzamento che è sindacabile in sede di legittimità solo se inficiato da irragionevolezza, omissione o traviamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione, restando dunque preclusa al sindacato giurisdizionale la valutazione dell’ ”opportunità o convenienza” dell’atto dell’organo di autogoverno. Paradossalmente, però, restando intatta la possibilità del Giudice amministrativo di verificare, in sede giudiziale, la puntuale ed effettiva verifica del corretto e completo apprezzamento dei presupposti di fatto costituenti il quadro conoscitivo posto a base della valutazione, la coerenza tra gli elementi valutati e le conclusioni a cui è pervenuta la deliberazione, la logicità della valutazione, l’effettività della comparazione tra i candidati, e dunque, in definitiva, la sufficienza della motivazione, la valutazione di merito espressa dal CSM resta sempre esposta, al di là delle stringenti indicazioni normative a cui è vincolata, ad un diverso apprezzamento da parte del suo “controllore” giurisdizionale. E per gli incarichi direttivi nella Magistratura amministrativa ? Qui la questione sembra apparentemente più semplice, perché il conferimento dell’incarico direttivo presuppone la nomina del candidato più anziano che abbia previamente superato il giudizio di idoneità , e tale giudizio si incentra sulla verifica della insussistenza di elementi da cui desumere una “non attitudine” all’incarico da conferire, svolgendosi per merito assoluto e non comparativo tra i vari partecipanti all’interpello . Invero, il regolamento interno per il funzionamento del Consiglio di Presidenza prevede, all’art. 29, che il CPGA fissi “ criteri oggettivi e predeterminati per la valutazione sull’idoneità dei magistrati allo svolgimento di funzioni direttive, tenendo conto in ogni caso dell’attitudine all’ufficio direttivo e dell’anzianità di servizio ”. In attuazione della disposizione regolamentare, è stata adottata dall’organo di autogoverno la delibera del 22 ottobre del 2010, il cui articolo 1, comma 2 prevede che il giudizio di idoneità sia compiuto “ per merito assoluto secondo l’ordine di ruolo ”, in base ai criteri di cui al successivo articolo 3. Tale disposizione stabilisce a sua volta, per i profili di interesse, che la nomina a Presidente di TAR venga disposta in favore del magistrato in possesso della maggiore anzianità computabile secondo la normativa vigente, “una volta verificata la sua attitudine all’ufficio direttivo da assegnare”. Il giudizio attitudinale tiene conto: dell’attività svolta dal magistrato e, in caso di svolgimento di funzioni di presidenza di collegio, della eventuale mancanza di capacità organizzativa (art. 2, comma 2, lett. a); dell’assenza di ritardi consistenti non giustificati o reiterati nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali (lett. b); dell’assenza di significative violazioni degli obblighi previsti dalle delibere in materia di assegnazione degli affari e carichi di lavoro (lett. c). D’altra parte, è innegabile, come recentemente chiarito dal Consiglio di Stato (1) , che il conferimento di un ufficio direttivo richiede sempre la sottoposizione al giudizio attitudinale, in quanto la normativa primaria non consente di arrestare la valutazione al mero computo dell’anzianità, come unico criterio di attribuzione automatica delle funzioni direttive. L’art. 21 della legge 27 aprile 1982 n. 186 stabilisce infatti che “ I consiglieri di Stato e i consiglieri di tribunale amministrativo regionale, al compimento di otto anni di anzianità nelle rispettive qualifiche, conseguono la nomina alle qualifiche di cui al n. 2) del precedente art. 14, nei limiti dei posti disponibili, previo giudizio di idoneità espresso dal consiglio di presidenza sulla base di criteri predeterminati che tengano conto in ogni caso dell’attitudine all’ufficio direttivo e dell’anzianità di servizio ”. Seguendo questa regola, non si può prescindere dal giudizio attitudinale neanche quando il candidato sia già titolare di un ufficio direttivo. Gli elementi di cui tenere conto ai fini di tale giudizio non sono poi esclusivamente quelli insorti fino alla scadenza del termine per partecipare all’interpello, in quanto l’ art. 2, comma 5 della delibera 22 ottobre 2010 pone un limite temporale soltanto per la verifica del “possesso dei requisiti” richiesti per la partecipazione e non anche per la verifica dell’attitudine ad assumere l’incarico direttivo. Anche nel caso degli incarichi direttivi dei magistrati amministrativi, il sindacato del Giudice dovrebbe arrestarsi alla verifica della sussistenza di profili di travisamento dei fatti o di un’illogicità palese nella valutazione discrezionale esercitata dall’organo di autogoverno, in coerenza con i criteri individuati dalla richiamata delibera consiliare del 22 ottobre 2010. In particolare, tra gli elementi oggetto di valutazione, il CPGA può utilizzare legittimamente anche quelli desumibili da un procedimento disciplinare a carico del candidato all’incarico direttivo, e perfino se questo procedimento disciplinare si sia poi concluso con l’archiviazione. Può infatti succedere che la condotta “non ortodossa” del magistrato non superi la soglia di lesività della funzionalità dell’ufficio, e dunque non venga ritenuta disciplinarmente punibile in concreto, ma ciò non toglie che nel corso del giudizio di idoneità possa essere data rilevanza alla circostanza che quella stessa condotta abbia realizzato, nella sua consistenza oggettiva, un elemento negativo di valutazione attitudinale. Si pensi ad esempio alla mancata presenza ad un certo numero di udienze da parte di un presidente di Tar monosezionale, che comporti un aggravio di lavoro per il consigliere anziano. Tale elemento fattuale, pur non costituendo un illecito disciplinare punibile, potrebbe – e lo è stato in concreto - essere ritenuto rilevante in termini di “significative violazioni di obblighi in materia di assegnazione di affari e carichi di lavoro”, criterio espressamente indicato dal sopra riportato art. 2, comma 2, lett. c) della delibera del 22 ottobre 2010. Così, ulteriori circostanze oggettive – come ad esempio la presenza di dati statistici da cui emerge che il Tar presieduto da un candidato ad altro incarico presidenziale ha avuto un significativo e non giustificato aumento delle pendenze – possono concorrere, pur in assenza di una specifica istruttoria sul punto, ad un giudizio con esito di inidoneità, specie se l’Ufficio per cui è stato indetto interpello costituisca un Ufficio con caratteristiche tali, in termini di ampiezza e contenzioso, da non potere “tollerare” una presenza saltuaria e non continuativa del suo Presidente. Certo, viene da chiedersi come possano coesistere un’inidoneità funzionale a ricoprire un determinato incarico in uno specifico Tribunale e una contestuale idoneità funzionale a ricoprire quello stesso incarico in un altro Tribunale. E se è vero che la rinnovazione del giudizio di idoneità – a prescindere dal fatto che l’incarico per cui si concorre è equivalente a quello già espletato - è una regola coerente con il fondamentale principio di buon andamento dell’azione amministrativa, non si capisce perché la “bocciatura” sancita dall’organo di “vigilanza” in ordine alle capacità direttive ed organizzative dimostrate dal magistrato nel pregresso esercizio delle funzioni presidenziali non debba poi far scaturire un ulteriore procedimento volto alla rimozione tout court di quel magistrato dall’esercizio delle funzioni direttive. Ma è proprio l’estremizzazione logica delle conseguenze di decisioni assunte o da assumere nell’ambito dell’autogoverno che spesso è stata e viene evitata, allo scopo di conservare appeal nei confronti dei colleghi elettori e per un malinteso senso di solidarietà tra pari , che però rischia di creare figli e figliastri, sulla base delle simpatie del momento. Ed ecco allora che più che indicare possibili linee di reazione immediata a questioni poste all’attenzione della pubblica opinione, la politica dovrebbe identificare le esigenze di più lungo respiro, identificando i problemi strutturali del funzionamento dell’ordinamento giudiziario e più in generale dell’autogoverno della magistratura che trascendono la contingenza, e la cui soluzione appare indispensabile per coniugare i fondamentali valori dell’indipendenza, dell’imparzialità, dell’autonomia e dell’efficienza della magistratura stessa. In questa ottica, stabilire un quadro normativo primario coerente ed efficace può contribuire di molto alla tenuta di pratiche virtuose da parte degli attori del sistema giustizia. (1) Consiglio di Stato, sentenza n. 8742 del 31 dicembre 2021
30 dic, 2021
Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza del 3 settembre 2020 (causa C-719/ 18)/ TAR per il Lazio – Sezione Terza, sentenza n. 13958 del 2020/ Tribunale ordinario di Milano – Sezione XV specializzata in materia di impresa, n. 3228 del 19 aprile 2021 disciplina interna e principi del diritto unionale in materia di concentrazione L’ art. 43 comma 4 del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici (Tusmar), nel disciplinare la concorrenza e vietare la formazione di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni a tutela del pluralismo dell’informazione, prevede, oltre ai poteri conformativi dell’autorità garante che ne abbia accertato la violazione, la sanzione civilistica della nullità degli atti , stabilendo che “ gli atti giuridici, le operazioni di concentrazione e le intese che contrastano con i divieti di cui al presente articolo sono nulli. ” L’acquisto della partecipazione di “blocco” di una società italiana da parte di una società francese, come avvenuto nel caso trattato dalla Corte di Giustizia su impulso del Tar per il Lazio - e di cui in commento -, aveva comportato, secondo quanto stabilito in prima battuta dall’Agcom nella delibera 178/17/CONS del 18 aprile 2017, la violazione dell’art. 43 comma 11 del Tusmar, a norma del quale “ le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai sensi dell'articolo 18 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo. ” All’esito dell’istruttoria dell’Autorità garante, infatti, era emerso che la società francese, nella sua qualità di controllante di altra importante società italiana attiva nel comparto delle comunicazioni elettroniche, attraverso l’acquisto della partecipazione rilevante in una delle società italiane coinvolte nell'operazione di concentrazione - società anch’essa attiva nel settore integrato delle comunicazioni -, aveva superato le soglie stabilite dalla norma richiamata, tanto che l’autorità garante le aveva imposto di rimuovere la posizione integrante la violazione accertata. Tuttavia, il Tar del Lazio, chiamato a decidere sulla legittimità della delibera Agcom, l’ha annullata, previa disapplicazione della norma invocata. In particolare, il Giudice amministrativo di primo grado ha preventivamente disposto il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, di alcune questioni pregiudiziali di interpretazione degli artt. 2, comma 1, lett. s) e 43, commi 5, 11 e 14 del d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177 in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 14 e 15 della Direttiva 2002/21/CE ed ai principi di massima concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione, libertà di espressione, tutela del pluralismo, libera circolazione dei capitali e libera prestazione dei servizi. A sua volta, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 3 settembre 2020 in commento , ha statuto che l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che abbia l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo. Il Giudice comunitario ha osservato che, posto che un divieto come quello di cui all’art. 43 comma 11 del Tusmar costituisce una deroga al principio della libertà di stabilimento, le autorità nazionali hanno l’onere di dimostrare che detta disposizione sia conforme al principio di proporzionalità. Tuttavia, la disposizione sopra citata non è stata ritenuta idoneo a garantire il rispetto di tale principio, in quanto la stessa vieta in maniera assoluta, ai soggetti i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale disposizione, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo. L’inidoneità della norma interna a costituire un proporzionale contemperamento tra la libertà di stabilimento e il principio del pluralismo nel settore dell’informazione dipende dalla mancata considerazione della chiara distinzione tra la produzione dei contenuti, che implica un controllo editoriale, e la trasmissione dei contenuti, che esclude qualsiasi controllo editoriale, cosicché i contenuti e la loro trasmissione sono soggetti a discipline distinte, che perseguono obiettivi propri. Tuttavia, a dire del Giudice comunitario, la disposizione di cui al procedimento principale non fa riferimento a tali collegamenti tra la produzione dei contenuti e la trasmissione dei contenuti e non è neppure formulata in modo da applicarsi specificamente in relazione a detti collegamenti La Corte di Giustizia, inoltre, nell’esaminare i possibili motivi di “interesse generale” che potrebbero condurre ad una deroga alla liberà di stabilimento nel diritto interno - fra cui figura, all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali, paragrafo 2, la libertà e il pluralismo dei media -, ha negato nel caso esaminato la sussistenza di tali motivi, in quanto, al fine di determinare se una norma come l’art. 43 comma 11 del Tusmar sia idonea a conseguire tale specifico obiettivo, occorre valutare quale sia il nesso tra, da un lato, le soglie alle quali tale disposizione fa riferimento e, dall’altro, il rischio che corre il pluralismo dei media. L’AGCOM, secondo la Corte, definisce il settore delle comunicazioni elettroniche in maniera restrittiva, riferendolo ai soli mercati suscettibili di regolamentazione ex ante, e così escludendo dal settore delle comunicazioni elettroniche mercati di importanza crescente per la trasmissione di informazioni, vale a dire i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet nonché i servizi di radiodiffusione satellitare; i quali, però, sono divenuti la principale via di accesso ai media, cosicché non è giustificato escluderli da tale definizione. In definitiva, per il Giudice comunitario, l’art. 43 comma 11 del Tusmar non può essere considerata norma “idonea a conseguire l’obiettivo da essa perseguito, giacché fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un’impresa sia effettivamente in grado di influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media”. Forte della decisione della Corte di Giustizia, il Tar del Lazio ha deciso di disapplicare la norma “incriminata”, così da privare di base normativa interna l’impugnata delibera n. 178/17/CONS dell’Agcom, con applicazione dell’art. 49 del Trattato che vieta limitazioni al diritto di stabilimento, ritenendo, alla luce della motivazione del Giudice comunitario, di non potere dare una interpretazione conforme all’art. 49 del TFUE del diritto interno implicato nella questione oggetto del suo giudizio. Successivamente, il Giudice ordinario si è però dovuto confrontare con la richiesta delle società attrici di accertare ugualmente la nullità degli acquisti azionari in questione, tramite l’esercizio del potere di interpretazione conformativa all’ordinamento dell’UE della norma interna e l’accertamento autonomo, nell’ambito del giudizio civile, della sua violazione. Anche questa azione è stata però respinta. Secondo il Tribunale di Milano, la Corte di Giustizia ha concluso per la radicale inidoneità della norma a tutelare il bene giuridico che si propone di salvaguardare e ha adottato una pronuncia che, come già affermato dalla sentenza del Giudice amministrativo, preclude all’interprete ogni diverso approdo esegetico. In particolare, la Corte di Giustizia, nel fornire le linee interpretative del principio della libertà di stabilimento e descrivere i limiti del potere di deroga delle legislazioni nazionali a tutela di interessi di pari rango, ha specificamente indicato come incompatibili con l’ordinamento UE i criteri derogatori desumibili dall’art. 43 del Tusmar, demolendone le fondamenta e non lasciando alternativa alla disapplicazione della norma da parte del giudice nazionale. Tale sentenza, dichiarativa del contrasto di un norma nazionale con l’ordinamento dell’Unione Europea, ha efficacia vincolante per l’autorità giudiziaria dello Stato membro, chiarendo la portata della norma come avrebbe dovuto essere intesa o applicata sin dal momento della sua entrata in vigore, con effetto retroattivo analogo a quello di una sentenza di declaratoria di illegittimità costituzionale, salvo il limite dei rapporti esauriti. Il Giudice ordinario di primo grado ha pertanto statuito che la domanda di accertamento della nullità degli acquisti azionari operati dalla società francese fosse priva ab origine di ogni fondamento giuridico e che, disapplicata la norma che prevede la violazione a cui la sanzione della nullità si riferisce, gli acquisti azionari non potessero che essere ritenuti, sotto il profilo in esame, pienamente validi.
20 dic, 2021
Sentenza del Tribunale di Brindisi del 15/07/2019/ Corte di appello di Lecce, 03/05/2021, (ud. 15/02/2021, dep. 03/05/2021), n. 271 IL CASO E LA DECISIONE Un noto sindacalista otteneva da vari soggetti somme di denaro al fine di remunerare (fantomatici) pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi, che potevano garantirne l’assunzione ovvero quella di loro congiunti presso enti anche di rilievo internazionale. In concreto, l’agente indicava la necessità di tali esborsi “per oliare il sistema o per piazzare le bandierine per arrivare prima”. Secondo il Giudice penale di primo grado, con valutazione condivisa dalla Corte di Appello, il quadro probatorio a carico del sindacalista era schiacciante, con conseguente dichiarazione di penale responsabilità per avere ricevuto, con più azioni compiute in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, denaro con il pretesto di dover comprare il favore di pubblici ufficiali e impiegati addetti a pubblici servizi al fine di consentire alle persone offese di essere assunte presso vari enti, tra cui gli uffici di Brindisi dell'ONU, una società aeronautica di Grottaglie e perfino un non meglio precisato ente per il tutoraggio dei fondi comunitari 2014-2020. In particolare, il reato contestato – inizialmente rubricato come di millantato credito, in relazione all’epoca di commissione dei fatti – è stato ritenuto correttamente riqualificato in termini di traffico di influenze illecite, ex art. 346 bis c.p., dovendosi ritenere ricompresa la condotta di ricezione di denaro con il pretesto di dover comprare il favore di pubblici ufficiali e impiegati addetti a pubblici servizi – che in precedenza caratterizzava l’abrogato reato di millantato credito – in una delle condotte previste dal nuovo reato di cui all'art. 346-bis c.p., e in particolare nella condotta di indebita ricezione di denaro come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, vantando relazioni “asserite” con costoro. Invero, sia il Giudice di primo grado che la Corte di Appello hanno ritenuto di aderire all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (vedi da ultimo Cass. Sez. 6, n. 1869 de/07/10/2020-18/01/2021) secondo cui sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito, formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., con la conseguenza che è stata considerata irrilevante la mancata riproposizione della dizione contenuta all'art. 346, comma secondo, cod. pen., lì dove si richiedeva che l'agente avesse ottenuto il vantaggio con il "pretesto" di dover remunerare il pubblico funzionario, atteso che, a seguito della novella, il delitto di cui all'art. 346-bis cod. pen. prescinde dalla reale esistenza delle relazioni vantate. TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE E MILLANTATO CREDITO Il delitto di traffico di influenze illecite è un reato contro la pubblica amministrazione che sussiste quando la stessa fattispecie concreta non costituisce concorso nei reati di corruzione e corruzione in atti giudiziari (in qual caso la clausola di riserva contenuta nell’ incipit della norma di cui all’ art. 346-bis c.p. ne esclude l’applicabilità) e che consiste in una condotta costituita da due segmenti di azione diversi e conseguenti tra di loro. La prima parte di tale condotta è costituita dallo sfruttamento o dal vanto di relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio. Tale sfruttamento o vanto, peraltro (seconda parte della condotta), devono essere strumentali ad una indebita promessa o dazione, a sé o ad altri, di denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita o ai fini della remunerazione verso e in favore del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che deve esercitare le sue funzioni o i suoi poteri nella vicenda di interesse del privato. Si tratta di un reato di mera condotta, che può essere compiuto da chiunque, ma la cui pena è aggravata se il soggetto, che indebitamente si fa dare o promettere, per sé o per altri, denaro o altra utilità, riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio. Il bene giuridico protetto consiste in una particolare forma di tutela anticipata dell'interesse alla legalità, buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, che l’ordinamento appresta per evitare che l’accordo corruttivo vada in porto, punendo colui che si inserisce o comunque fa da tramite tra potenziale corrotto e potenziale corruttore mediante la propria influenza. Con la modifica del 2019, operata dalla cosiddetta legge “spazzacorrotti”, è stata eliminata la differenziazione, nella condotta di chi si proponga di esercitare un’influenza illecita sul pubblico ufficiale, tra effettività o meno dei rapporti tra il faccendiere e il funzionario pubblico, e si è posto riparo - attraverso l’abrogazione del delitto di millantato credito di cui all’ art. 346 c.p. - all’evidente irragionevolezza dell’ineguale trattamento sanzionatorio che l’introduzione del reato di traffico di influenze aveva determinato. Tuttavia, il millantato credito non è fuoriuscito dal circuito dell’incriminazione ma è stato, almeno apparentemente, trasfuso nel riformulato articolo 346 bis c.p., il cui ambito precettivo è stato ampliato sino a includervi anche le condotte di millanteria di relazioni in realtà non effettive con il pubblico agente, le quali, invece, successivamente all’introduzione del reato di cui all’art. 346 bis c.p., rimanevano sanzionabili, nell’applicazione giurisprudenziale, ai sensi dell’art. 346 c.p.. Pur a fronte di una non perfetta riproduzione, nella riscrittura dell’art. 346 bis c.p., del precetto descrittivo della fattispecie di cui all’abrogato delitto di millantato credito, l’orientamento che, con riguardo ai profili intertemporali, si è consolidato nella giurisprudenza di legittimità afferma la continuità normativa tra le due incriminazioni, alla luce del comune nucleo di incriminazione che “apparenta” le due fattispecie, in linea del resto con l’ intentio legis . Sotto altro profilo, il legislatore ha previsto senza eccezioni l’incriminabilità del privato committente (cioè di colui che indebitamente dà o promette denaro o altra utilità per la mediazione illecita), il quale è chiamato a rispondere del reato, quand’anche il trafficante abbia “venduto fumo”, millantando relazioni non effettive, ma solo “asserite”. Tale novità incriminatrice segna un elemento di forte discontinuità rispetto al millantato credito, che riconosceva alla controparte il ruolo di vittima dell’altrui prospettazione millantatoria, ed è tendenzialmente da leggere alla luce dell’oggettività giuridica della fattispecie, posta a presidio della credibilità e della trasparenza della pubblica amministrazione, vulnerabile dalla causa illecita dell’intesa, obiettivamente considerata, a prescindere dalla decettività della pattuizione. Tuttavia, una parte della dottrina sostiene che l’area applicativa della fattispecie dovrebbe essere circoscritta alle sole relazioni in cui le parti contino di poter influire sul pubblico ufficiale, alla luce dei pregressi rapporti che il trafficante abbia intessuto con il pubblico agente ovvero in ragione della condivisa - ed effettivamente ritenuta - capacità di influenza del trader sul pubblico agente, rimanendo, di contro, entro il perimetro del delitto di truffa le condotte interamente decettive ordite nei confronti della controparte ignara dell’altrui inganno. Tanto si riflette anche sul regime processuale connesso al ruolo del committente, che deve essere considerato persona offesa o reo, nel caso di inganno sic et sempliciter , a seconda dell’impostazione seguita. Nel caso esaminato dal Tribunale di Brindisi – e confermato in appello - la circostanza che quelle che per l'abrogato reato di millantato credito erano parti offese siano diventate oggi a loro volta perseguibili ex art. 346 bis, comma 2 c.p. (unitamente ai percettori delle somme di denaro o di altre utilità), non ha comportato l'estensione dell'imputazione a loro carico, ostandovi il disposto di cui agii artt. 25, comma 2 della Costituzione e di cui all’art. 2, comma 1 del codice penale. Invero, l'unificazione del reato di cui all'art. 346 cod. pen. nella nuova figura di traffico di influenze, cosi come novellato dall'ari. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, non fa venir meno il diritto al risarcimento del danno in favore di chi, al momento del fatto, era da considerarsi persona offesa dal reato, sussistendo continuità normativa tra le norme incriminatrici in questione e non incidendo le vicende relative alla punibilità sulla qualificazione giuridica di un fatto quale illecito civile, in quanto trova applicazione, in questo caso, l'art. 11 disp. prel. cod. civ., secondo cui, agli effetti civili, la legge non dispone che per l'avvenire. Per l’imputato è stata pertanto confermata la subordinazione del beneficio riconosciuto (pena sospesa) al pagamento delle somme riconosciute a titolo di provvisionale in favore delle parti civili, le quali, nonostante l’intervenuta modificazione normativa dello status del committente – da persona offesa a concorrente necessario nel reato -, non vedono, nel caso di specie, mutata la loro condizione soggettiva nel processo, con riguardo all’epoca di commissione dei fatti contestati.
Autore: a cura di Nicola Fenicia 01 dic, 2021
Tar Salerno, sez. I, 22 novembre 2021, n. 2505 - Pres. Pasanisi, Est. Saporito IL CASO E LA DECISIONE Proprio in prossimità della giornata del 25 novembre, dedicata all'eliminazione della violenza contro le donne e ad una più generale riflessione sull’affermazione dei diritti fondamentali delle donne, è stata emanata un’importante sentenza del T.A.R. Salerno, con la quale è stato annullato l’atto di nomina dei componenti della Giunta Comunale, adottato dal Sindaco di Positano, per violazione del principio della parità di genere nella formazione della Giunta comunale , principio cristallizzato nell’ art. 1, comma 137, della legge n° 56 del 2014 . Tale articolo di legge dispone infatti che nelle Giunte dei comuni con popolazione superiore a tremila abitanti nessuno dei due generi possa essere rappresentato in misura inferiore al 40%. Nella fattispecie, dei quattro assessori nominati, solo una era di sesso femminile, ragion per cui le ricorrenti, cittadine del Comune di Positano, insieme ad alcune consigliere di minoranza, hanno preteso la piena applicazione del principio di pari opportunità. Il Comune di Positano si è difeso in giudizio opponendo l’esistenza di una oggettiva impossibilità di assicurare, nella composizione della Giunta comunale, la presenza dei due generi nella misura stabilità dalla legge, in quanto le poche personalità femminili che avrebbero potuto ricoprire la carica assessorile, erano state tutte interpellate e si erano rifiutate di accettare l’incarico. Il T.A.R. ha però ritenuto che la preventiva attività istruttoria posta in essere dal Comune, preordinata ad acquisire la disponibilità allo svolgimento delle funzioni da parte di persone di sesso femminile, non fosse stata adeguata, in quanto condotta solo formalmente e frettolosamente, avendo essa riguardato solo cinque cittadine a fronte di una popolazione di circa 3.900 abitanti, mentre solo una comprovata situazione di obiettiva ed assoluta impossibilità di rispettare la detta percentuale di genere femminile nella composizione della Giunta, avrebbe potuto costituire il “ limite intrinseco, logico - sistematico, di operatività della norma in questione ”, esonerando il Comune dal rispetto delle prescrizioni in tema di quote di genere. Dunque, ferma restando l’impronta strettamente fiduciaria dell’atto di nomina degli assessori e la natura altamente discrezionale della scelta sottesa a tale nomina, ed essendo pacifico che tali prerogative non possano essere limitate imponendo l’individuazione di un quisque de populo per una mera questione di genere, ciò da cui non si può prescindere è lo svolgimento di un’accurata e seria istruttoria, diretta ad acquisire la disponibilità all’assunzione delle funzioni assessorili da parte di persone di sesso femminile, sia tra le candidate non elette che tra le cittadine che non hanno partecipato direttamente alla contesa politica. Né la natura fiduciaria della carica assessorile può giustificare la restrizione di un eventuale interpello “alle sole persone appartenenti allo stesso partito o alla stessa coalizione di quella che ha espresso il sindaco, soprattutto in realtà locali non particolarmente estese, come quella di cui ci si occupa, ciò tanto più in considerazione del principio alla cui attuazione è finalizzata la norma in questione”. BREVI RIFLESSIONI Il tema posto all’attenzione dalla sentenza in commento è quello importantissimo della partecipazione delle donne alla vita politica nelle comunità locali e nel Paese e dunque della rappresentanza femminile nelle cariche elettive. La Costituzione, rimasta al riguardo in parte inattuata, stabilisce, all’art. 3, secondo comma, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l'effettiva partecipazione alla vita politica del Paese. E più specificamente all’art. 51, 1° comma, con norma di natura immediatamente precettiva e non meramente programmatica, stabilisce che “ Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. ”. Tuttavia, ancora oggi la scarsa partecipazione delle donne alla vita politica del Paese è un problema largamente avvertito dall'opinione pubblica e costituisce peraltro un dato incontrovertibile, considerata, ad esempio, la bassa percentuale di donne elette nel Parlamento. Ciò che non comporta un deficit democratico, giacché la scelta degli eletti è espressione del libero voto dei cittadini, e però implica un difetto di rappresentatività della parte femminile della popolazione e contrasta sia con il dato numerico, in quanto le donne costituiscono la maggioranza del corpo elettorale, sia con il livello culturale e professionale raggiunto dalle donne in ogni campo della società civile. Di qui la necessità di adottare varie soluzioni per promuovere l’equilibrata rappresentanza di genere, fra cui l’adozione di previsioni normative, del tipo di quella oggetto della sentenza in commento, mirate in tal caso ad assicurare la partecipazione delle donne alla composizione degli organi esecutivi dei Comuni in condizioni di pari opportunità. Molte di queste misure sono state introdotte dalla L. 23 novembre 2012, n. 215 , “ Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni. ”, che, con l’obiettivo di garantire la parità di genere tra uomini e donne nel particolare ambito dell’accesso alle cariche elettive, ha modificato in più parti gli artt. 71 e ss. del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 , individuando tre livelli di tutela crescente, la cui applicazione dipende dal numero di abitanti del Comune interessato dalla competizione elettorale, ma ad esempio, quanto alle liste dei candidati al consiglio comunale, introducendo delle previsioni comuni secondo cui: “ Nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Nelle medesime liste…nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati …”. Ed anche che “ Nel caso di espressione di due preferenze, esse devono riguardare candidati di sesso diverso della stessa lista, pena l'annullamento della seconda preferenza. ”. Con riferimento al tema specifico della rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali, è recentemente intervenuto il Consiglio di Stato, Sezione III, con l’ordinanza 4 giugno 2021, n. 4294 , con cui ha rimesso alla Corte costituzionale la disciplina dell’obbligo di rappresentatività di entrambi i sessi, nelle liste elettorali nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, in quanto priva della previsione di sanzione per il caso di violazione di tale obbligo. In particolare, il Consiglio di Stato ha reputato insufficiente la previsione di riequilibrio di genere contenuta nell’ articolo 71, comma 3-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000 (secondo cui: “ Nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi. Nelle medesime liste, nei comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati, con arrotondamento all'unità superiore qualora il numero dei candidati del sesso meno rappresentato da comprendere nella lista contenga una cifra decimale inferiore a 50 centesimi ") ed ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale di quest’ultima norma nella parte in cui non prevede la necessaria rappresentanza di entrambi i generi nelle liste elettorali nei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, nonché dell’art. 30 lett. d) bis e lett. e) del DPR 570/60, nella parte in cui esclude dal regime sanzionatorio sub specie “esclusione della lista”, le liste elettorali presentate in violazione della necessaria rappresentatività di entrambi i sessi in riferimento ai comuni con meno di 5.000 abitanti. E ciò in quanto tali norme risultano in contrasto con gli artt. 51, 3, 117 comma 1 (quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU, art. 1 Protocollo Addizionale n. 12) della Costituzione. I passaggi logico-argomentativi più significativi di questa importante ordinanza sono sostanzialmente sei, e cioè: 1) la questione della parità di genere rispetto all’accesso alle cariche pubbliche elettive incide sul riconoscimento della piena capacità giuridica di diritto pubblico della donna; 2) il diritto fondamentale all’elettorato passivo è un diritto politico fondamentale garantito con i caratteri propri dell’inviolabilità ai sensi dell’articolo 2, della Costituzione; 3) una democrazia moderna non può trascurare di attivare meccanismi di riequilibrio della rappresentanza di genere ed interventi legislativi di tipo promozionale, soprattutto nelle aree urbane a bassa densità demografica, per le minori opportunità che alcuni piccoli o piccolissimi centri offrono rispetto alle grandi aree urbane; 4) la distinzione tra differenziazione e discriminazione è una questione seria e deve sempre essere vagliata attentamente, perché impatta sulla effettività della partecipazione attiva della donna alla vita politica ed amministrativa del Paese, con il rischio di esclusione di milioni di cittadine dalla gestione della cosa pubblica; 5) la promozione dell’equilibrata rappresentanza di genere non è un privilegio per la donna, ma una conquista della società, perché garantisce l’ approvvigionamento al modus operandi delle Istituzioni, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che caratterizza le moderne comunità politiche (citando Tar Lazio, sez. II, 25 luglio 2011, n. 6673, richiamata da Tar Lazio n. 4706 del 2021, organi squilibrati nella rappresentanza di genere, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale, risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato); 6) la discriminazione nei confronti del genere meno rappresentato potrebbe dare luogo ad una duplice irragionevolezza: - tra generi: quello maschile (statisticamente più rappresentato) e quello femminile; - all’interno dello stesso genere femminile, tra i Comuni con più di 5.000 abitanti (in cui è assicurata la presenza delle donne) e quelli con meno di 5.000 abitanti. Di questo tema si è infine discusso anche in un recente Convegno, tenutosi a Palazzo Spada a Roma il 26 novembre 2021 , organizzato dal Comitato Pari Opportunità della Giustizia amministrativa e dall’Ufficio Studi, Massimario e Formazione della Giustizia amministrativa, in occasione della giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne .
Autore: a cura di Roberto Lombardi 28 nov, 2021
Il 3 novembre 2021, le associazioni facenti parte della Consulta della magistratura onoraria (che è quella parte della magistratura assunta “a contratto” e non previo concorso pubblico), prendendo atto del denunciato comportamento omissivo del Ministro della Giustizia, hanno comunicato che i magistrati onorari si sarebbero astenuti dalle udienze e dagli altri servizi di istituto dal 23 al 27 novembre 2021 . Secondo i promotori della iniziativa di “sciopero” , sarebbe palese che le istanze della magistratura onoraria continuino a non ricevere concreto ed adeguato riscontro dal Governo, dal Ministro della Giustizia e dalle forze parlamentari, nonostante un avvio della procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. In particolare, è stato accolto con estremo rammarico e incredulità, da parte dei diretti interessati, il resoconto del rappresentante del Governo alla Commissione Giustizia al Senato del 27.10.2021, in ordine al preannunciato maxiemendamento volto a recepire i risultati della cosiddetta commissione ministeriale Castelli, resoconto nel quale è stato annunciato che funzionari ministeriali si sarebbero recati a Bruxelles per raccogliere informazioni sulla natura del provvedimento che la Commissione europea starebbe considerando in funzione della contestazione dell'infrazione euro-unitaria sulla materia oggetto dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione stessa. E’ stato dunque ritenuto inaccettabile l’ennesimo rinvio richiesto della trattazione del disegno di legge, per valutare meglio le iniziative da assumere (asseritamente, per rimuovere efficacemente le cause della prospettata infrazione), né è stata ritenuta sufficiente la previsione, nella Nadef, del DDL di riforma della categoria, quale collegato alla legge di Bilancio, poiché non sarebbe ancora emerso, in alcuna sede ufficiale, il concreto apporto finanziario alla riforma che si afferma essere in itinere . Ma di quale riforma si parla? Perché i magistrati onorari sono in agitazione? Facciamo un passo indietro. Il 16 luglio del 2020 la Corte di Giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale proveniente da un Giudice di pace di Bologna. Nella causa a quo , un altro soggetto, esercente anch'egli le funzioni di Giudice di pace, ha chiamato in giudizio il Governo della Repubblica italiana per ottenere il risarcimento dei danni che avrebbe subito per violazione del diritto dell’Unione da parte dello Stato italiano. In particolare, si trattava di un ricorrente che aveva presentato in Tribunale ricorso per decreto ingiuntivo volto ad ottenere la condanna del Governo della Repubblica italiana al pagamento dell’importo di € 4.500,00, corrispondente alla retribuzione per il mese di agosto 2018 che spetterebbe ad un magistrato ordinario con la sua stessa anzianità di servizio, oppure, in subordine, di € 3.039,76, quale risarcimento calcolato sulla base dell’indennità netta dalla stessa percepita nel mese di luglio 2018. Nella prospettazione di parte ricorrente, tali somme avrebbero dovuto compensare e risarcire il mancato pagamento di qualsivoglia indennità nel mese di agosto 2018, per via del congedo estivo non retribuito – sulla base del contratto di lavoro in essere con il Ministero della Giustizia – in violazione della clausola 4 dell’accordo quadro e dell’articolo 7 della direttiva 2003/88, nonché dell’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In effetti, i pagamenti percepiti dai giudici di pace (e dagli altri magistrati ordinari) sono legati al lavoro realizzato e calcolati sulla base del numero di decisioni pronunciate. Di conseguenza, durante il periodo feriale del mese di agosto, parte ricorrente nel procedimento principale non ha percepito alcuna indennità, mentre i magistrati ordinari (quelli assunti mediante concorso) hanno diritto a ferie retribuite di 30 giorni. D’altra parte, l’articolo 24 del decreto legislativo del 13 luglio 2017, n. 116, che ora prevede per i giudici di pace la retribuzione del periodo feriale, non era applicabile all'istante in ragione della data della sua entrata in servizio (antecedente all’entrata in vigore della riforma). La tesi portata dinanzi al Giudice europeo è che i giudici di pace sarebbero soggetti, sotto il profilo disciplinare, ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati ordinari, e che, nonostante il carattere onorario del loro servizio, devono essere considerati «lavoratori» ai sensi delle disposizioni della direttiva 2003/88 e dell’accordo quadro. A sostegno di tale tesi si fa riferimento, in particolare, al vincolo di subordinazione che caratterizzerebbe il rapporto tra i giudici di pace e il Ministero della Giustizia, alla loro inclusione nell’organico complessivo della magistratura e all’assimilazione del reddito del giudice di pace a quello del lavoratore subordinato. Con sentenza del 16 luglio 2020 ( causa C-658/18, UX ) la Corte di giustizia dell'Unione europea ha stabilito, preliminarmente, che l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, deve essere interpretato nel senso che il giudice di pace italiano rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri», in quanto organismo di origine legale, a carattere permanente, deputato all’applicazione di norme giuridiche in condizioni di indipendenza; nel merito, la Corte ha affermato che, considerate le modalità di organizzazione del lavoro dei giudici di pace, essi « svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare ». Quindi, interpretando gli artt. 1, paragrafo 3, e 7 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, nonché le clausole 2 e 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la Corte di Lussemburgo ha riportato la figura del giudice di pace alla nozione di «lavoratore a tempo determinato» e ha stabilito, con riferimento al tema specifico delle ferie annuali retribuite , che differenze di trattamento rispetto al magistrato professionale non possono essere giustificate dalla sola temporaneità dell’incarico, ma unicamente « dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati devono assumere la responsabilità ». Nell’ambito di tale valutazione comparativa assume rilievo – osserva ancora la Corte di giustizia – la circostanza che per i soli magistrati ordinari la nomina debba avvenire per concorso , a norma dell’ art. 106, primo comma, Cost. , e che a questi l’ordinamento riservi le controversie di maggiore complessità o da trattare negli organi di grado superiore. Il 15 luglio 2021 – esattamente un anno dopo - la Commissione europea ha invitato l'Italia a modificare la legislazione relativa alle condizioni di lavoro dei magistrati onorari, decidendo di avviare una procedura di infrazione, in quanto la legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari non è pienamente conforme al diritto del lavoro dell'UE. La Commissione ritiene che la legislazione italiana non rispetti diverse disposizioni dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; dell'accordo quadro allegato alla direttiva 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; della direttiva 2003/88/CE sull'orario di lavoro e della direttiva 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti. Diverse categorie di magistrati onorari, quali i giudici onorari di pace, i vice procuratori onorari (VPO) e i giudici onorari di tribunale (GOT), non godono dello status di "lavoratore" in base al diritto nazionale italiano, ma sono considerati volontari che prestano servizi a titolo "onorario". Non avendo lo status di lavoratore, essi non godono della protezione offerta dal diritto del lavoro dell'UE e risultano penalizzati dal mancato accesso all'indennità in caso di malattia, infortunio e gravidanza, dall'obbligo di iscriversi presso il fondo nazionale di previdenza sociale per i lavoratori autonomi, nonché da divari retributivi e relativi alle modalità di retribuzione, dalla discriminazione fiscale e dal mancato accesso al rimborso delle spese legali sostenute durante procedimenti disciplinari e al congedo di maternità retribuito. Tali categorie non sono inoltre sufficientemente protette contro gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato e non hanno la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento per tali abusi. Infine, secondo la Commissione, l'Italia non ha istituito un sistema di misurazione dell'orario di lavoro giornaliero di ciascun magistrato onorario, né la riforma adottata nel 2017 ha fornito soluzioni al riguardo. D’altra parte, la procedura d’infrazione si pone nel solco della decisione della Corte di Giustizia dell’anno prima, e in relazione alla statuizione secondo cui i giudici di pace (e dunque tutti i magistrati onorari) dovrebbero avere, ai sensi del diritto dell’Unione, lo status di lavoratori. Nelle more, si sono pronunciati sulla questione, o comunque su aspetti aventi punti di contatto con essa, la Corte costituzionale e alcuni Tribunali di merito nazionali. Occorre preliminarmente osservare che netta, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, resta la distinzione tra magistratura professionale e magistratura onoraria. Anche recentemente ( sentenza n. 267 del 2020 ), con riferimento al giudice di pace, la Corte ha affermato: « La differente modalità di nomina, radicata nella previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost., il carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta e il livello di complessità degli affari trattati rendono conto dell’eterogeneità dello status del giudice di pace, dando fondamento alla qualifica “onoraria” del suo rapporto di servizio, affermata dal legislatore fin dall’istituzione della figura e ribadita in occasione della riforma del 2017 ». In precedenza, la Corte (ordinanza n. 174 del 2012) aveva sottolineato l’impossibilità di assimilare le posizioni dei giudici onorari e dei magistrati che svolgono professionalmente e in via esclusiva funzioni giudiziarie, e l’impossibilità di comparare tali posizioni ai fini della valutazione del rispetto del principio di uguaglianza, a causa dello svolgimento a diverso titolo delle funzioni giurisdizionali, connotate dall’esclusività solo nel caso dei magistrati ordinari di ruolo che svolgono professionalmente le loro funzioni (così anche la sentenza n. 60 del 2006, e le ordinanze n. 479 del 2000 e n. 272 del 1999). Tuttavia, alcuni Giudici di merito (come ad esempio il Tribunale di Vicenza, nella pronuncia commentata su questo sito ) hanno accertato positivamente il diritto dei Giudici onorari, incardinati da lungo tempo nel “sistema giustizia”, di percepire un trattamento economico corrispondente a quello previsto dall’art. 2 della L. n. 111 del 2007 per il ruolo di “magistrato ordinario” con funzioni giurisdizionali (vale a dire del magistrato nel periodo tra la fine del tirocinio e il riconoscimento della prima qualifica di professionalità), per tutto il periodo in cui hanno svolto le funzioni di Giudice onorario stesso, con condanna del Ministero della Giustizia a corrispondere loro la differenza tra tale trattamento economico e le somme effettivamente percepite. E ciò, in conseguenza di due passaggi logici. Il primo, l’oggettiva ricomprensione di un Giudice onorario che lavori per un periodo di tempo prolungato in un Tribunale ordinario, nella nozione comunitaria di lavoratore; il secondo, la comparabilità di alcune funzioni svolte dai Giudici onorari – come ritenuto nel caso del Tribunale di Vicenza, in cui è stato esaminato il ruolo di un GOT – con quelle svolte dai magistrati togati, con giustificazione della diversità di retribuzione soltanto in relazione alla progressione in carriera successiva al primo incarico, dato che l’aumento del trattamento economico del magistrato “togato” è imperniato su un meccanismo di valutazione di professionalità, disciplinato in modo articolato, sulla base di parametri specifici, integrati e arricchiti dalla normazione secondaria del CSM, a cui la magistratura onoraria non è sottoposta. In altri termini, secondo la ricostruzione di questa tipologia di pronunce, l’assenza dell’elemento di diversità - tra magistrati onorari e magistrati professionali - rappresentato dalla circostanza che normalmente le controversie riservate ai primi non hanno gli aspetti di complessità che caratterizzano le controversie devolute ai magistrati ordinari, neutralizzerebbe, ai fini delle garanzie economiche e di status , l’ulteriore diversità – ritenuta dalla Corte costituzionale decisiva – del diverso iter di assunzione (a seconda che sia necessario o meno il superamento di un concorso pubblico specialistico per l’accesso all’esercizio delle funzioni giudiziarie). D’altra parte, la stessa Corte costituzionale ( sentenza n. 41 del 2021 ), nell’esaminare incidentalmente gli effetti della riforma del settore operata dal d.lgs. n. 116 del 2017 , ha da un lato posticipato gli effetti della sua pronuncia di incostituzionalità dell’istituzione della figura del giudice (onorario) ausiliario d’appello al completamento del riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi contemplati dal citato art. 32 del citato d.lgs. n. 116 del 2017, e dall’altro ribadito che “ la regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell’ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell’ordinamento della Repubblica ” e che “ il sistema generale di reclutamento mediante pubblico concorso è strumentale all’indipendenza della magistratura”, in quanto “la sua prescrizione, contenuta nell’art. 106, primo comma, Cost., costituisce essenzialmente una norma di garanzia di idoneità a esercitare le funzioni giurisdizionali, nondimeno la stessa concorre a rafforzare e a integrare l’indipendenza della magistratura (sentenza n. 1 del 1967), non diversamente dalla garanzia dell’inamovibilità (art. 107, primo comma, Cost.) ”. Siamo alle solite, in ogni caso. Vi è stata una riforma (quella del 2017) che non ha risolto i problemi di fondo dello status del magistrato onorario – puntualmente riesplosi a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della conseguente procedura di infrazione intentata dalla Commissione – e resta uno sbarramento costituzionale alla piena parificazione tra Giudici onorari e Giudici togati o professionali che dir si voglia. La riforma del 2017 ha ridotto a due, per il primo grado di giudizio, le figure dei magistrati onorari (giudici onorari di pace e, per le funzioni requirenti, vice procuratori onorari), stabilendo che gli stessi debbano essere reclutati dai locali consigli giudiziari in base a una selezione per titoli e che la relativa graduatoria deve essere sottoposta per l’approvazione al CSM, la cui delibera viene poi seguita dalla nomina con decreto del Ministro della giustizia. L’incarico ha una durata di quattro anni, prorogabile per una sola volta, e non è esclusivo, nel senso che è compatibile con l’esercizio di altre attività professionali, al punto che al magistrato onorario non può essere richiesto un impegno superiore a due giorni settimanali. I nuovi «giudici onorari di pace» sono collocati presso l’ufficio del giudice di pace e destinati al contempo a confluire, in tribunale, quali componenti dell’ufficio per il processo in affiancamento al giudice professionale, con possibile attribuzione di funzioni giudiziarie delegate sotto le direttive e il controllo dello stesso giudice professionale. Al giudice onorario vengono attribuiti compiti preparatori e strumentali (studio, ricerca di dottrina, predisposizioni di schemi di provvedimenti, assistenza anche in camera di consiglio) all’esercizio della funzione giurisdizionale, che rimane riservato al magistrato professionale. Allo stesso possono essere delegati, dal magistrato professionale e con riferimento a ciascun procedimento civile, poteri giurisdizionali istruttori e decisori concernenti singoli atti (adozione di provvedimenti «che risolvono questioni semplici e ripetitive», provvedimenti anticipatori di condanna in seguito a non contestazione del credito, assunzione di testimoni, attività conciliativa delle parti, liquidazione dei compensi agli ausiliari) inerenti anche procedimenti riservati al tribunale in composizione collegiale «purché non di particolare complessità» (art. 10, comma 11), in alcuni casi (delimitati quanto alle materie «non sensibili» ed al ridotto valore della causa) può allo stesso essere delegata anche la «pronuncia di provvedimenti definitori» (art. 10, comma 12). Al contempo, è stata ridefinita la competenza dei giudici di pace sia nel settore civile che in quello penale. Ma tutto questo “riformare” è stato parzialmente vanificato dal fatto che non è stata adeguatamente affrontata la situazione dei magistrati onorari già in servizio alla data di entrata in vigore della riforma e che la riforma è stata come al solito concepita a “costo zero”. L’ art. 35 del d.lgs. n. 116 del 2017 stabilisce infatti che “ Per l'attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto legislativo si provvede nel limite delle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica ”. E adesso la Ministra Cartabia è costretta a tergiversare, perché non vi sono e non vi saranno risorse economiche disponibili, senza la previsione di nuovi oneri da inserire a carico della finanza pubblica nella prossima legge di bilancio, per assicurare le tutele dovute ai magistrati onorari in qualità di lavoratori, come richiesto dalla Unione europea. Nulla di nuovo sotto il cielo della politica nostrana, si direbbe. La navigazione a vista e senza la programmazione dei dovuti investimenti strutturali non può che produrre situazioni come quella a cui assistiamo, dove un precariato senza garanzie investe anche le più alte funzioni pubbliche. I magistrati ordinari costano/valgono troppo e i magistrati onorari troppo poco , le distinzioni si offuscano e le rivendicazioni giuste si sovrappongono alla falsificazione di alcuni presupposti di partenza. In tutta questa baraonda si rischia di perdere la bussola della navigazione, tra problemi più o meno reali, falsi vincitori e presunti sconfitti, in una guerra di categoria che sembra sempre più una guerra tra nuovi poveri. E’ bene allora chiudere con una citazione che deve restare, a sommesso avviso di chi scrive, il punto fermo per ogni futuro intervento normativo. Riguarda uno strumento che, unico, in un Paese come il nostro, e pure con tutti i limiti derivanti da una corruzione, da un clientelismo e da un familismo pervasivi, distingue in modo asettico e tecnico il merito dal non merito: il concorso pubblico . “ Il concorso pubblico garantisce, da un lato, la possibilità di accesso alla magistratura ordinaria a tutti i cittadini, in aderenza al disposto dell’art. 3 Cost., evitando ogni discriminazione, anche di genere (…) e, da un altro, assicura la qualificazione tecnico-professionale dei magistrati, ritenuta condizione necessaria per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Mira infatti a verificare un iniziale standard uniforme di sapere giuridico, destinato ad affinarsi nel tempo, quale garanzia minima, ma essenziale, dell’esercizio della giurisdizione in modo neutrale. (…) La funzione della interpretazione ed applicazione della legge richiede il possesso della tecnica giuridica da parte dei giudici togati ”. (1) (1) Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 17 marzo 2021
24 nov, 2021
Tribunale ordinario di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021, in sede di reclamo avverso ordinanza ex art. 700 c.p.c. IL CASO Un soggetto affetto da una patologia irreversibile (tetraplegia), ritenendo ormai intollerabili le sofferenze psichiche e fisiche derivanti da tale stato, e documentando di essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ha chiesto l’accertamento in giudizio di essere capace, libero e informato, al fine di porre fine alla sua esistenza. L’accertamento in questione dovrebbe essere preliminare, nell’intenzione dell’istante, rispetto al successivo ordine del Giudice, da impartire alla ASL competente, di disporre la prescrizione del farmaco letale scelto dall’interessato e ritenuto idoneo a garantirgli una morte rapida, efficace e non dolorosa. Secondo l'istante, la Consulta, con la sentenza n. 242 del 2019 sul caso Cappato avrebbe aperto a quelle forme di eutanasia attiva consistenti in pratiche volte a cagionare il decesso di un individuo attraverso un "farmaco letale" suscettibile di essere assunto direttamente dal paziente (cd. eutanasia diretta), ovvero somministrato dal medico o da un soggetto terzo (cd. eutanasia indiretta). Questa impostazione sarebbe in linea con la tesi secondo cui la Corte costituzionale avrebbe fornito all'interprete una regolamentazione innovativa e autosufficiente sul delicato tema del fine vita e del suicidio assistito. Nel caso di specie, il richiedente ha riferito di necessitare quotidianamente dell'assistenza di un soggetto terzo per il compimento di ogni attività quotidiana (anche le più banali), nel contesto di un quadro clinico ormai irreversibile, ragion per cui ha deciso ponderatamente e liberamente di porre fine alla sua esistenza, dal momento che non intende più costringere sé stesso, i suoi familiari e amici a gravi e inutili sofferenze fisiche e psicologiche. La sua condizione di tetraplegico non gli consente, però, di farla finita da solo. In prima battuta, il Tribunale di Ancona ha respinto in sede cautelare la domanda avente ad oggetto la prescrizione del farmaco letale, ricordando che i principi stabiliti dalle recenti pronunce della Corte costituzionale devono ritenersi confinati ad ipotesi di esclusione della responsabilità penale, che la questione del “fine vita” attende ancora un’adeguata regolamentazione da parte del legislatore e che non sussiste il diritto del paziente di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza. In sede di reclamo avverso l'ordinanza cautelare, peraltro, lo stesso Tribunale adito, stavolta in composizione collegiale, pur condividendo il ragionamento del primo Giudice, secondo cui non è accoglibile la richiesta di ordinare all’azienda sanitaria di provvedere alla somministrazione/prescrizione del farmaco letale prescelto – in quanto non è stata ancora accertata la sussistenza dei presupposti indicati dalla Corte costituzionale ai fini della non punibilità penale di un aiuto al suicidio e non può ritenersi sussistente un obbligo di provvedere in tal senso a carico della struttura sanitaria pubblica -, ha precisato che, pur non trovando spazio nel nostro ordinamento un “diritto al suicidio”, è senz’altro tutelabile il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti necessari e sufficienti, secondo la Corte delle leggi, a permettere al malato di accedere al suicidio assistito in piena legalità e senza che nessuno sia accusato di aiuto illecito al suicidio. Il Giudice adito ha pertanto concluso riconoscendo all'istante sia il diritto di pretendere dall'Azienda sanitaria competente l'accertamento dell'esistenza, nel caso di specie, dei presupposti richiamati nella sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un "aiuto al suicidio" praticato in suo favore da un soggetto terzo, sia il diritto di pretendere - dalla stessa struttura pubblica - la verifica sull'effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco prescelti dall'istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente. Ha invece escluso l'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile in giudizio, ad essere assistiti nel suicidio, cui corrisponda, dal lato passivo, un obbligo del personale sanitario. UN DIRITTO ANCORA “SOSPESO” La Corte costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 580 c.p., ha enucleato una nuova causa di non punibilità per tale reato, qualora sussistano le seguenti condizioni: - il paziente sia affetto da una patologia irreversibile; - tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche ritenute assolutamente intollerabili dal malato; - la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale; - l’individuo interessato resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Corte ha altresì evidenziato che il medico non ha alcun obbligo di procedere ad "aiutare" il suicidio assistito, anche nel caso in cui ricorra in suo favore la nuova causa di non punibilità in sede penale. D’altra parte, le pratiche mediche tese a dare la morte sono qualcosa di profondamente diverso dalle pratiche mediche rivolte all’aiuto nel morire, ossia all’accompagnamento nel morire attraverso cure palliative e terapie del dolore. Né la legge n. 219 del 2017 consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte, limitandosi, tale normativa, a disporre che il paziente in condizioni patologiche irreversibili possa lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua - che lo pone in stato di incoscienza fino alla morte -, senza che il medico possa rifiutare tale richiesta. Sembra dunque non sussistere nel nostro ordinamento – ed è questo allo stato l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente, come avallato anche dalla decisione in commento –, in quanto non riconosciuto, né esplicitamente né implicitamente, il diritto di poter scegliere quando e come morire , anche in considerazione del fatto che dall’art. 2 della Costituzione, non diversamente che dall’art. 2 della CEDU, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello opposto di riconoscere al singolo di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Questa conclusione, però, non soddisfa l’esigenza di evitare che il paziente sia costretto, per congedarsi dalla vita , a subire un processo più lento e più carico di sofferenze (quello legato alla interruzione del trattamento e alla sedazione profonda), rispetto ad uno più rispettoso di una morte rapida e dignitosa. L’impossibilità giuridica di potere scegliere come finire il proprio percorso esistenziale limita irragionevolmente, secondo la stessa Corte costituzionale, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze: tale libertà è invero garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della nostra Carta fondamentale. Vi è dunque un vuoto normativo che viola apertamente i diritti costituzionali del malato ma che non risulta apparentemente colmabile desumendo il diritto ad essere lato sensu "aiutati a morire", magari tramite il ricorso al Servizio sanitario nazionale, dal "diritto a morire rifiutando i trattamenti", così come già riconosciuto dal legislatore. Secondo alcuni, il diritto di morire , implicitamente riconosciuto in quanto strettamente connesso al diritto di rifiutare le terapie, è qualcosa di diverso dal diritto a ricevere un aiuto nel morire ; secondo altri, il diritto a morire si ricava dallo stesso diritto alla vita , inteso come consacrazione dell'autodeterminazione dell'individuo rispetto alla sua stessa vita, sia quando la voglia vivere, sia quando non la voglia vivere. Ad ogni modo, pur in presenza di un diritto sicuramente sussistente - una volta verificatesi le condizioni attestanti l'irreversibilità della condizione patologica, lo stato di dolorosa non autosufficienza e la consapevolezza della scelta - il problema sembra essere quello di una regolamentazione di tale diritto, al fine di evitare una situazione densa di pericoli di abusi nei confronti delle persone vulnerabili. Ma se è sicuramente costituzionalmente protetta la possibilità di scelta, da parte del malato, delle modalità di congedo dalla vita, non si può dire lo stesso per l'atto del soggetto su cui pesa, in ultima analisi, il terribile ruolo di farsi carico della scelta finale altrui. Tale soggetto, in un ordinamento giuridico moderno, forse dovrebbe essere lo Stato.
Autore: a cura di Francesco Tallaro 22 ott, 2021
Non serviva dominare le arti divinatorie per prevedere che presto sarebbero state sottoposte al giudizio delle Corti quelle misure con cui, nei vari Paesi, i governi cercano di disciplinare l’uscita dall’emergenza dettata dalla pandemia di Covid-19, allentando – da un lato – le misure restrittive sin qui mantenute, ma introducendo – di converso – nuovi presidi di sicurezza. Le pronunce sino ad ora più interessanti sono state rese sulla disciplina francese del c.d. green pass, adottata con legge n. 2021-689 del 31 maggio 2021, così come modificata dalla legge n. 2021-824 DC del 26 luglio 2021 [1] . Tale legge, oltre a confermare l’autorizzazione al Primo Ministro ad adottare le misure di contenimento che hanno caratterizzato la lotta all’epidemia prima della diffusione della vaccinazione (divieto di circolazione, chiusura delle attività produttive, regolamentazione delle riunioni e divieto di assembramenti), gli consente, a partire dal 2 giugno 2021 e sino al 15 novembre 2021, anche di subordinare all’esibizione del c.d. green pass l’accesso ad alcuni luoghi. Va notato che, rispetto alla disciplina adottata poi in Italia con d.l. 23 luglio 2021, n. 105, conv. con mod. con l. 16 settembre 2021, n. 16, e successivamente variamente modificata, l’obbligo di esibizione del green pass non deriva direttamente dalla legge, ma da un provvedimento amministrativo del Primo Ministro, che è appositamente autorizzato a ciò dalla legge e che lo può adottare nei casi in cui i dati epidemiologici lo consiglino. Il green pass si può ottenere, anche Oltralpe come in Italia, grazie a un esame molecolare o antigenico che dimostri l’assenza di infezione da Sars-CoV-2, a seguito della somministrazione della seconda dose di vaccino oppure dopo la guarigione dal Covid-19. Il Primo Ministro, dunque, può subordinare alla sua esibizione l’utilizzo di mezzi di trasporto collettivi; l’ingresso ai luoghi di svago, ai ristoranti e ai bar, alle fiere, alle esposizione e ai convegni; l’ammissione – limitatamente agli accompagnatori e agli utenti beneficiari di servizi soggetti a programmazione – ai servizi sanitari, sociali e socio-sanitari; addirittura l’accesso, salvo che per i generi di prima necessità, ai grandi magazzini centri commerciali. Anche i lavoratori, pubblici o privati, che debbano accedere in qualcuno di questi luoghi per prestare la loro opera sono tenuti a esibire la certificazione. Laddove i lavoratori a tempo indeterminato non possano o non vogliano farlo, potranno utilizzare, con il consenso del datore di lavoro, i giorni di riposo e di congedo; nel caso in cui ciò non sia possibile, il loro contratto di lavoro rimane sospeso, con correlata sospensione anche dalla retribuzione, salva la necessità di un incontro con il datore di lavoro per cercare di rimediare alla situazione, per esempio attraverso l’impiego del lavoratore in un luogo diverso. Per i lavoratori a tempo determinato, invece, la normativa prevedeva in origine la risoluzione anticipata del rapporto, senza corresponsione di alcuna indennità. La legge 2021-824 DC del 26 luglio 2021 è stata sottoposta preventivamente, per come previsto dall’ordinamento francese, all’esame del Conseil constitutionnel , cui si sono rivolti il Primo ministro, più di sessanta deputati e più di sessanta senatori. Il giudice costituzionale si è pronunciato con decisione del 5 agosto 2021, n. 2021-824 [2] . La disciplina è stata dichiarata parzialmente illegittima, nella misura in cui assoggettava i lavoratori a tempo determinato a un trattamento diverso e deteriore rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato, prevedendo, quanto ai primi, la possibilità di rottura unilaterale del vincolo del contratto da parte del datore di lavoro, mentre per i secondi è contemplata soltanto l’ipotesi delle sospensione dall’impiego senza stipendio. Nondimeno, il Conseil constitutionnel ha fatto salvo l’impianto complessivo delineato dal legislatore. Premesso che spetta al legislatore bilanciare i vari interessi in gioco, nel caso concreto si è ritenuto che le misure adottate, pur incidendo sulla libertà di circolazione e anche sulla libertà di espressione collettiva di idee ed opinioni, siano proporzionate rispetto al pericolo da scongiurare. Esse, invero, non pongono in capo ai cittadini alcun obbligo specifico di diligenza, né impongono la vaccinazione anti Covid-19, visto che il green pass si ottiene secondo tre diverse modalità (vaccinazione, esecuzione di un test, guarigione dall’infezione). In ogni caso, il principio di proporzionalità risulta rispettato innanzitutto per il fatto che il potere di subordinare all’esibizione del green pass l’accesso ad alcuni luoghi è stato attribuito al Primo Ministro solo in via temporanea, sino al 15 novembre 2021, e solo allo scopo, il cui perseguimento è verificabile in sede di sindacato giurisdizionale, di tutelare la salute pubblica. Inoltre, l’obbligo di esibizione del green pass riguarda solo luoghi in cui è possibile la presenza simultanea di una gran massa di persone, con aumento esponenziale del rischio di contagio, e il controllo avviene con mezzi che non consentono di conoscere le modalità di rilascio della certificazione (e dunque non consentono di conoscere dati sanitari) e senza che debbano essere acquisiti documenti di identità. Il Conseil constutionnel ha respinto anche l’argomento secondo cui il legislatore, selezionando i luoghi in cui è necessaria l’esibizione del green pass, abbia violato il principio di uguaglianza: da un lato, l’obbligo può essere imposto, a determinate condizioni, solo per l’accesso a luoghi sensibili dal punto di vista epidemiologico; d’altra parte, nemmeno vi è discriminazione tra cittadini vaccinati e cittadini non vaccinati, atteso che entrambe le categorie possono ottenere, come già sottolineato, la certificazione. Infine, è stato ritenuto che non vi sia alcuna violazione della libertà di iniziativa economica, atteso che ai titolari delle attività imprenditoriali e professionali a cui è possibile accedere solo mediante l’esibizione del green pass viene semplicemente richiesto un controllo del documento, che è imposizione non sproporzionata, se si tiene conto del rischio epidemiologico che il provvedimento intende depotenziare. Superato il controllo di costituzionalità, sulla legge che pone i presupposti per l’obbligatorietà del green pass è stata chiamata a pronunciarsi anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, investita da una mole di circa 18.000 ricorsi, presentati da cittadini francesi organizzati dal signor Guillaume Zambrano attraverso un sito Internet che offre agli utenti la possibilità di ottenere un modello precompilato di ricorso alla Corte di Strasburgo. La Corte si è pronunciata con sentenza della Sezione Quinta del 7 ottobre 2021 [3] , con cui è stato esaminato per primo proprio il ricorso del signor Zambrano, che è stato duramente ripreso nelle motivazioni per l’uso improprio da lui fatto dello strumento messo a disposizione dei cittadini europei lesi nei loro diritti fondamentali. Il ricorso, in effetti, è stato dichiarato inammissibile, in quanto il ricorrente non ha dimostrato la sussistenza dei requisiti indispensabili per ottenere una pronuncia della Corte. Egli, infatti, non ha innanzitutto dato dimostrazione di aver esaurito le vie di ricorso interno, ed anzi non ha mai dedotto di essersi rivolto al giudice francese per cercare tutela a fronte dell’affermata lesione dei suoi diritti fondamentali. Inoltre, la Corte ha ritenuto indimostrata la qualità di vittima, che sussiste quando il ricorrente dimostri di aver subito direttamente gli effetti della supposta violazione. Tale requisito è indispensabile, visto che la Corte non è chiamata a risolvere questioni in astratto e non è ammessa d’innanzi ad essa l’azione popolare. La decisione, tuttavia, presenta interesse sistematico, in quanto, così come già aveva fatto il Conseil constitutionnel, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto di precisare che la normativa francese sul green pass, non introduce una nuova vaccinazione obbligatoria [4] , posto che la certificazione necessaria per accedere ad alcuni luoghi può essere ottenuta in tre diverse modalità. E nemmeno è possibile ipotizzare che vi sia stata una violazione della privacy (intesa quale libertà di autodeterminazione) del ricorrente, non risultando che egli sia stato messo dinnanzi al dilemma di porre in essere un comportamento contrastante con le proprie intime convinzioni oppure subire una sanzione, e posto che l’esibizione del green pass è un obbligo richiesto tanto ai soggetti vaccinati quanto ai soggetti non vaccinati. Dunque, nonostante la conclusione in rito del giudizio, la Corte ha fornito indicazioni utili a chi sia chiamato a valutare, anche in Italia, la legittimità della disciplina sul green pass. [1] Il testo è disponibile alla pagina web https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/15/textes/l15t0660_texte-adopte-provisoire.pdf [2] Il testo è disponibile alla pagina web https://www.conseil-constitutionnel.fr/decision/2021/2021824DC.htm [3] Il testo è disponibile alla pagina web https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-212465%22]} [4] Questione su cui si era pronunciata la Grande Camera con sentenza dell’8 aprile 2021, Vavřička e altri c. Repubblica ceca, annotata in questo blog alla pagina web https://www.primogrado.com/diritto-alla-privacy-e-vaccinazione-obbligatoriaa7af2add
Autore: di Federico Smerchinich 16 ott, 2021
PREMESSA a cura della Redazione Il subappalto è quel contratto di diritto privato che consente all’appaltatore di affidare ad un soggetto terzo l’esecuzione di parte dell’opera datagli in appalto. Secondo il disposto dell'art. 1656 del codice civile, " l'appaltatore non può dare in subappalto l'esecuzione dell'opera o del servizio, se non è stato autorizzato dal committente ". Quando però questo accordo "interno" e "derivato" interferisce con la contrattualistica pubblica, vengono a crearsi delle criticità sotto il profilo della trasparenza e della concorrenza nelle gare, che esulano dai profili schiettamente civilistici e devono fare i conti con il rischio concreto di far subentrare nei contratti con la Pubblica amministrazione, e nei benefici che ne scaturiscono, anche soggetti diversi, “non graditi” o comunque non idonei sotto molteplici profili (anche di tutela dei lavoratori) rispetto a quelli che prima facie si presentano come candidati appaltatori. Per tale motivo, il d.lgs. n. 50/2016 , nel suo testo originario ( art. 105 ), ha limitato la possibilità di ricorrere al subappalto fino al 30% delle opere da eseguire, con previa indicazione di una terna di subappaltatori a cui ricorrere nel caso di aggiudicazione. Tali previsioni, che avevano l’obiettivo di porre un argine al dilagare della prassi del subappalto, sono state fonti di innumerevoli questioni interpretative, e hanno creato un contenzioso rilevante dinanzi al Giudice amministrativo e alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, specialmente con riferimento alla legittimità del limite quantitativo prestabilito per legge, ex art. 105 del codice dei contratti pubblici. Finalmente, dopo un iter lungo e tortuoso, dal prossimo primo novembre entra in vigore un pezzo importante della nuova disciplina prevista in materia. Ma facciamo un passo indietro. La procedura di infrazione. Il 24 gennaio 2019, la Commissione europea ha trasmesso al Governo italiano una lettera di costituzione in mora nell'ambito della procedura di infrazione n. 2018/2273, con la quale ha contestato all'Italia l'incompatibilità di alcune disposizioni dell'ordinamento interno (in larga parte contenute nel decreto legislativo n. 50 del 2016) in materia di contratti pubblici, rispetto a quanto disposto dalle direttive europee relative alle concessioni (direttiva 2014/23), agli appalti pubblici nei settori ordinari (direttiva 2014/24) e agli appalti pubblici nei settori speciali (direttiva 2014/25). Successivamente, il 27 novembre 2019, la Commissione europea ha indirizzato all'esecutivo una lettera di costituzione in mora complementare, rilevando che i problemi di conformità sollevati in precedenza non erano ancora stati risolti, e individuando ulteriori disposizioni della legislazione italiana non conformi alle citate direttive. Il Governo italiano ha comunicato l'intenzione di apportare modificazioni alla legislazione vigente, al fine di adeguare la disciplina nazionale a quella europea, fornendo elementi di informazione e di chiarimento rispetto a taluni profili di incompatibilità che a suo giudizio non avrebbero necessitato di ulteriori interventi normativi. All’incompatibilità con la normativa europea eccepita dalla Commissione europea del divieto di subappaltare più del 30 per cento di un contratto pubblico, il legislatore ha risposto con il decreto legge n. 32/2019 (cosiddetto "sbloccacantieri"), il quale ha innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40% fino al 30 giugno 2021, nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici. Si era previsto, in particolare, che il subappalto dovesse essere indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non potesse superare la quota del 40 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tali disposizioni hanno operato in deroga all'articolo 105, comma 2, del codice medesimo, il quale pure prescrive la necessità di indicare il subappalto nel bando di gara, ma fissa la soglia massima del subappalto nella misura del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tuttavia, nella messa in mora complementare, la Commissione europea ha osservato che tale modifica non sarebbe stata sufficiente a rendere l'ordinamento nazionale conforme a quello europeo, sia perché si trattava di una modifica solo temporanea, sia perché un limite al subappalto del 40%, pur essendo meno restrittivo, era da considerarsi comunque incompatibile con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. In effetti, su questo specifico aspetto erano già intervenuti i Giudici europei in sede di pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata dal TAR Lombardia, con la sentenza del 26 settembre 2019 nella causa C-63/18 (Vitali SpA contro Autostrade per l'Italia SpA), per chiarire la portata del diritto dell'UE in materia di appalti pubblici, con particolare riferimento al regime del subappalto. Il Tribunale meneghino ha chiesto alla Corte se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del TFUE, l' articolo 71 della direttiva 2014/24, il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio di diritto dell'Unione europea di proporzionalità, ostino all'applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell'articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 50/2016, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha rilevato che la criticità del limite quantitativo del ricorso al subappalto (come regolato dall'ordinamento italiano) si ricollega alla sua applicazione indipendentemente dal settore economico interessato, dall'appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall'identità dei subappaltatori, e al fatto che la disciplina italiana non lascia spazi a valutazioni caso per caso da parte della stazione appaltante, e ciò anche qualora questa sia in grado di verificare l'identità dei subappaltatori interessati, e ove si accerti che il limite non risulta necessario al fine di contrastare le infiltrazioni criminali nell'ambito dell'appalto in questione. Invero, il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti, ma, anche supponendo che una limitazione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare tale fenomeno, una restrizione come quella prevista dal codice dei contratti pubblici sarebbe da considerarsi “eccedente” rispetto a quanto necessario al raggiungimento dell’obiettivo. Con il decreto legge n. 32 del 2019 il legislatore nazionale ha disposto anche la sospensione transitoria (originariamente fino al 31 dicembre 2020) dell'applicazione del comma 6 dell’art. 105 del codice dei contratti pubblici, ovvero delle disposizioni che stabiliscono l'obbligatorietà della indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo pari o superiore alle soglie comunitarie di cui all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici o, indipendentemente dall'importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa. La Commissione europea ha in ogni caso osservato che tale sospensione non avrebbe potuto essere considerata una soluzione alla questione sollevata nella lettera di costituzione in mora, in quanto tale sospensione è solo temporanea. Sulla materia è intervenuta anche l' Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) la quale, il 4 novembre 2020, ha inviato una segnalazione sui limiti di utilizzo del subappalto in cui ritiene opportuna una modifica normativa volta a: - eliminare la previsione generale e astratta di una soglia massima di affidamento subappaltabile; - prevedere l'obbligo in capo agli offerenti, che intendano ricorrere al subappalto, di indicare in sede di gara la tipologia e la quota parte di lavori in subappalto, oltre all'identità dei subappaltatori; - consentire alle stazioni appaltanti di introdurre, tenuto conto dello specifico contesto di gara, eventuali limiti all'utilizzo del subappalto che siano proporzionati rispetto agli obiettivi di interesse generale da perseguire e adeguatamente motivati in considerazione della. struttura del mercato interessato, della natura delle prestazioni o dell'identità dei subappaltatori. Nelle more dell’approvazione della legge di delegazione europea 2019-2020, il d.l. n. 77/2021 , entrato in vigore il primo giugno 2021 - in occasione della traduzione in norme dei processi di realizzazione dei progetti PNRR e PNC -, ha colto l’occasione per ottemperare ai diktat della Commissione europea e della Corte di Giustizia, prevedendo modifiche importanti all’intera disciplina del subappalto, e sopprimendo la norma del d.l. n. 32 del 2019 che aveva innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40%. Alcune criticità rimangono tuttavia sul tappeto. La disciplina del subappalto dopo il d.l. n. 77/2021 a cura di Federico Smerchinich Il legislatore, con l’ art. 49 d.l. semplificazioni bis , è intervenuto sulla disciplina del subappalto dichiarando apertamente in sede di relazione illustrativa l’intento di volere superare le criticità emerse nella procedura di infrazione n. 2018/2273, ed implicitamente di volersi adeguare alle pronunce della Corte di Giustizia sull’argomento (v. ad es. 26 settembre 2019, C-63/18 o 27 novembre 2019, C-402/18). La prima osservazione che si può fare è di tipo sistematico. Infatti è naturale chiedersi come mai la norma è stata inserita nel “pacchetto” semplificazione dedicato dal d.l. n. 77/2021 al PNRR e PNC (precisamente tra gli artt. 48 e 50), se poi tale disposizione modifica in via strutturale il subappalto per tutte le procedure e non solo per quelle finanziate con i nuovi fondi europei. Un’ipotesi potrebbe essere quella di aver valorizzato il subappalto come disciplina che allo stesso tempo riguarda la procedura di affidamento (come appunto quelle previste dall’art. 48) e quella di esecuzione (regolata dall’art. 50). Entrando nel dettaglio della norma, l’art. 49 ha rimodellato l’art. 105 d.lgs. n. 50/2016 con una tecnica legislativa del tutto particolare, che ha previsto alcune modifiche ad effetto immediato ed altre ad effetto posticipato, ponendo forse le prime basi a futuri interventi normativi. Infatti la norma prevede, modificando il comma 5 dell’art. 105, che fino al 31 ottobre 2021 (una specie di “periodo cuscinetto”) la soglia per concedere il subappalto non possa superare il 50% dell’importo delle opere da eseguire, mentre dal 1° novembre 2021 sarà abrogato l’intero comma 5 (l’applicazione del comma 6 sulla terna di subappaltatori è stato sospeso fino al 2023, in attesa di definitiva abrogazione con la legge di delegazione europea 2019-2020, in fase di approvazione). La nuova formulazione dell’art. 105, sia nella parte già in vigore che in quella che diverrà operativa dal novembre 2021, dispone, in particolare, oltre all’impossibilità di cedere il contratto, anche il divieto di affidare a terzi l’integrale esecuzione delle prestazioni, nonché l’esecuzione della prevalenza delle prestazioni o lavorazioni rientranti nella categoria prevalente e dei contratti ad alta intensità di manodopera. Al riguardo, si ponga l’attenzione al dato letterale e all’utilizzo delle parole “ prevalenza delle prestazioni o lavorazioni di categorie prevalenti ”, che sembra introdurre un limite implicito al subappalto, ricadendosi dunque in quelle problematiche ostative alla concorrenza che la Corte di Giustizia ha tentato di eliminare. Inoltre, è prevista la possibilità per le Stazioni appaltanti di indicare nella lex specialis di gara, dietro adeguata motivazione, quali determinate prestazioni e lavorazioni dovranno necessariamente essere eseguite dall’aggiudicatario; nella pratica, il legislatore affida al Giudice, in sede di eventuale contenzioso, l’onere di verificare se nel caso concreto i limiti imposti dalla Stazione appaltante risultino proporzionati rispetto agli obiettivi di interesse generale da perseguire, oltre che adeguatamente motivati in considerazione della struttura del mercato interessato, della natura delle prestazioni o dell'identità dei subappaltatori, posto che l’intenzione è quella di conformarsi alle pronunce della Corte di Giustizia che hanno imposto la soppressione di ogni sorta di limite “preconfezionato” e generale al subappalto. Interessante collegare quanto detto con la modifica apportata al comma 7 dell’art. 105 , secondo cui deve essere il subappaltatore a dimostrare l’assenza di cause di esclusione ex art. 80 d.lgs. n. 50/2016 e non più l’appaltatore, con conferma di oneri ancora più stringenti per il primo. Molto rilevante ed innovativa, poi, la modifica del comma 8 , con la previsione della responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore, che introduce una vera innovazione su cui saranno da valutare gli effetti pratici dal lato civilistico. Sempre in tale ottica di responsabilizzazione del subappaltatore, viene precisato al comma 14 che egli debba assicurare gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti dal contratto di appalto, oltre che l’applicazione dei contratti collettivi , al fine di riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente. In altre parole la norma, per come viene strutturata ora, aumenta l’accessibilità del subappaltatore alla procedura di affidamento del contratto, ma rende altresì più rigorose le sue responsabilità ai fini dell’esecuzione del contratto stesso (quasi rendendo sconveniente ricorrere al subappalto). Osservazioni critiche. Volendo avanzare alcune considerazioni sulla disciplina del subappalto. come riformata dall’art. 49 d.l. n. 77/2021, la prima osservazione è che non sembra trovare giustificazione, soprattutto in termini intertemporali, la scelta di limitare per una manciata di mesi il subappalto al 50%, se poi comunque tale soglia viene a scomparire. Viene da chiedersi perché sia stato deciso il 50% senza risolvere subito la questione sui limiti, creando invece diversi regimi intertemporali con possibili (scontate) nuove questioni di legittimità della soglia. Pare invece ragionevole, in ottica di apertura della concorrenza, consentire un maggiore ricorso al subappalto in sede di partecipazione alla procedura, mentre alcuni dubbi riguardano il rafforzamento della responsabilità del subappaltatore in sede esecutiva. Dall’altra parte, si ritiene che la possibilità che il d.l. n. 77/2021 concede alle Stazioni appaltanti, di individuare determinate prestazioni e lavorazioni che possono essere eseguite solamente dall’aggiudicatario, necessiti di essere ulteriormente approfondita, probabilmente in sede giurisprudenziale, al fine di comprendere se questo potere rischi di concretizzare delle disparità tra gli operatori partecipanti alla procedura. In tale ipotesi sarà fondamentale comprendere quanto intensa ed approfondita dovrà essere la motivazione a giustificazione della scelta, mentre non è chiaro in quali casi sia necessario il previo parere delle Prefetture, il cui coinvolgimento va nella direzione di una sorveglianza più “stretta” su una determinata tipologia di prestazioni “a rischio infiltrazione”. Un dubbio, già anticipato, che si pone all’attenzione del lettore, permane sull’utilizzo da parte del d.l. 77/2021 all’art. 49 c. 1 lett. b) n. 1 del riferimento alla “prevalenza delle categorie prevalenti”. Se tale dato è da interpretare come “la maggior parte delle prestazioni e lavorazioni delle categorie prevalenti” (quindi più del 50%) forse si potrebbe intravedere una sorta di velata ed implicita limitazione in sede esecutiva al subappalto, ammissibile di fatto solo per alcune tipologie di prestazioni. Una soluzione che, se letta con malizia, rischierebbe di limitare in ogni caso il subappalto sotto una certa soglia, spostando dal momento della partecipazione a quello dell’esecuzione il momento in cui tale limite diviene operativo. Al riguardo, quanto all’obbligo del subappaltatore di rispettare gli standard del contratto stipulato dall’appaltatore, pare concreto il rischio che si possa aprire un nuovo ambito di contenzioso avente ad oggetto una specie di giudizio di anomalia sull’organizzazione lavorativa alle dipendenze del subappaltatore e i contratti collettivi nazionali applicabili ad essa. In tal caso, benché il riferimento parametrico sembrerebbe essere solo al contratto di appalto, forse la norma è da intendere nel senso che gli standard esecutivi prendono a riferimento il contratto, mentre per la questione dell’inquadramento lavorativo possa doversi fare riferimento alla lex specialis di gara (per quanto non specificato). In tal modo potrebbero aggirarsi i dubbi (legittimi) in termini di riparto di giurisdizione, spostando la valutazione sul CCNL applicato dal subappaltatore alla fase dell’aggiudicazione piuttosto che a quella esecutiva, gestendo la questione come una verifica di anomalia davanti al giudice amministrativo ed evitando il ben più lungo contenzioso civile, che comunque sarà inevitabile nei rapporti tra committente, appaltatore e subappaltatore, alla luce dell’aumento degli obblighi esecutivi e organizzativi, e della nuova previsione di responsabilità solidale. Insomma, dalla lettura della norma sul subappalto come rimodulata dal d.l. n. 77/2021 scaturisce l’impressione che il legislatore sembri disincentivare implicitamente il ricorso al subappalto, dando un’apparenza di innovazione ed apertura in fase partecipativa, per poi appesantirne il regime esecutivo. Fino ad oggi, il soggetto che decide di presentarsi come subappaltatore è un operatore economico non in grado di gestire da solo tutto l’affidamento e pertanto preferisce ricevere in subappalto solo l’esecuzione di una certa parte dell’opera da realizzare. Allo stesso modo, l’aggiudicatario che appalta una fetta di esecuzione è probabilmente una piccola-media impresa che, pur potendo aggiudicarsi l’intero affidamento, poi non riesce ad eseguire da sola tutte le opere e quindi esternalizza in subappalto l’esecuzione di una parte del tutto. In questo schema il contratto “derivato” funziona come grimaldello per consentire alle imprese più piccole di partecipare ad affidamenti “fuori portata”, facendosi aiutare o aiutando altre imprese. Ed una delle carte vincenti del modello appena rappresentato (rispecchiante la formulazione dell’art. 105 d.lgs. n. 50/2016 ante d.l. n. 77/2021) è che l’appaltatore principale si accolli i rischi e responsabilità nei confronti del committente, rimandando ad un contratto di subappalto di diritto privato la regolazione dei rapporti con il subappaltatore. Diversamente, dopo la modifica del d.l. n. 77/2021, il subappaltatore è solidalmente responsabile verso il committente e deve rispettare gli standard del contratto di appalto, ivi inclusi quelli relativi all’organizzazione dei lavoratori, con un innalzamento delle sue responsabilità dirette e dei costi di gestione. Spingendo il ragionamento alle sue estreme conseguenze, la nuova normativa, ponendo sull’eventuale subappaltatore una serie di responsabilità ed obblighi esecutivi particolarmente stringenti, sembra avvantaggiare le strutture imprenditoriali “all inclusive” che possono, tramite i diversi reparti al proprio interno, gestire tutte le prestazioni e categorie di esecuzione richieste dall’affidamento, senza necessità di ricorre al subappalto. Dall’altra parte, in questo quadro, le piccole e medie imprese potrebbero non avere più interesse a partecipare come subappaltatori in affidamenti che si presentano più costosi e meno vantaggiosi (oltre che più rischiosi), con la conseguenza che i potenziali aggiudicatari, che non riescono ad eseguire da soli tutte le parti dell’opera e rischiano di non reperire più imprese disposte a subappaltare parte dell’esecuzione, avranno difficoltà ad aggiudicarsi l’affidamento. Insomma, una direzione opposta a quella volta ad incentivare le piccole e medie imprese, come vorrebbe, ad esempio, lo small business act di matrice europea. Alla luce di questi ragionamenti, in sede di interpretazione normativa sarà necessario tenere conto degli effetti economici e dei risvolti sul mercato che la nuova disciplina del subappalto rischia di creare, al fine di evitare la definitiva esclusione di alcuni operatori dal mercato.
13 ott, 2021
Corte di Assise del Tribunale di Palermo, sentenza n. 2 del 20 aprile 2018 – Corte di assise di appello di Palermo, n. 22 del 23 settembre 2021 IL DISPOSITIVO DI SECONDO GRADO Con dispositivo pronunciato in data 23 settembre 2021, nell’ambito del cosiddetto processo sulla "trattativa Stato-mafia", la Corte di Assise di Appello di Palermo ha assolto tre funzionari dello Stato dal reato di minaccia aggravata a un corpo politico dello Stato, perché il fatto non costituisce reato. Ha assolto altresì colui che era imputato di avere fatto l’intermediario tra Stato e mafia, per non avere commesso il fatto. Contestualmente, ha rideterminato la pena di un pregiudicato per mafia da minaccia a corpo politico dello Stato a tentata minaccia, dichiarando estinto per intervenuta prescrizione il reato così riqualificato (e limitatamente alla condotta di minaccia verso uno dei Governi considerati nell’ambito del capo d’imputazione). In primo grado, i tre Funzionari dello Stato e l’intermediario tra Stato e mafia erano stati condannati per il reato di cui all’art. 338 c.p., seguendo la tesi secondo cui in un arco temporale decorrente dal lontano 1992, in Palermo, Roma e altrove, taluni esponenti dell'associazione mafiosa avrebbero rivolto una condotta minacciosa nei confronti del Governo della Repubblica con la finalità di ottenere benefici nei confronti di un numero indeterminato di appartenenti a quella organizzazione criminale e, quindi, in sostanza, di quest'ultima nel suo complesso. A tale condotta si sarebbe aggiunta quella di taluni esponenti delle Istituzioni, i quali, prima di fatto istigandola e, poi, agevolandola, nel farsi tramite di tale minaccia verso il potere esecutivo (quale che fosse la modalità attraverso la quale essi l'abbiano recepita, “trattativa” inclusa), avrebbero, secondo l'accusa, concorso nella commissione del medesimo reato. LE CONCLUSIONI DEL PRIMO GRADO DI GIUDIZIO La Corte di Assise, in primo grado, è partita dalla piana considerazione secondo cui sugli incontri e sui contatti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, fatta salva l'esatta collocazione temporale del loro inizio, non v'è stata sostanziale contestazione. Il contrasto però vi è stato sulle ragioni di tali contatti. Si è sostenuto, invero, soprattutto da parte delle difese degli appartenenti alle Istituzioni, che la “trattativa”, in quanto finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, non avrebbe potuto essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell'ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l'ulteriore commissione di così gravi crimini. Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti, al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali. Secondo i Giudici di primo grado, peraltro, tale affermazione non può connotare di liceità una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali con soggetti che si pongano in rappresentanza dell'intera associazione mafiosa e che richiedano, nell'interesse di questa, benefici che esulino dai perimetri normativi, ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva, comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento. In realtà, secondo i Giudici - al di fuori del perimetro normativo costituito dalla disciplina che a partire dal 1991 ha riconosciuto a singoli appartenenti alle associazioni mafiose, che, dissociandosi da queste, inizino un percorso di collaborazione con la giustizia, ben determinati e specifici benefici sia in tema di trattamento sanzionatorio sia in tema di protezione -, in uno Stato democratico non vi possono essere “lecite” concessioni o riconoscimenti di sorta che, proprio perché non diretti a favore di singoli soggetti che si dissociano dall'organizzazione mafiosa, ma a favorire l'associazione mafiosa stessa nel suo complesso, sia pure con finalità di prevenzione, inevitabilmente e oggettivamente la rafforzano come potere alternativo e contrapposto a quello dello Stato. Un potere talmente potente e forte da costringere lo Stato stesso a “trattare” e a concedere benefici utilizzando la propria discrezionalità amministrativa in modo distorto e al di fuori dei parametri che dovrebbero governarla, tanto che ciò avviene, non già in modo trasparente e palese, ma, al contrario, in modo occulto e non dichiarato. È stato dunque considerato giuridicamente errato guardare ad una “trattativa” con una organizzazione criminale come al normale esplicarsi di una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e, quindi, sempre lecita, anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni. In altri termini, una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand'anche avallata dal potere esecutivo, non può essere ritenuta “lecita” nell'ordinamento se priva di copertura legislativa, e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l'ipotesi accusatoria accolta, ad omettere atti dovuti, quali la ricerca e l'arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l'esclusione del trattamento penitenziario previsto dall'art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, non sulla base delle valutazioni che la legge impone ( in primis , l'assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti. Secondo la Corte di Assise, nessuna attività che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, dal momento che costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio. In ogni caso, la questione della trattativa – e della sua liceità/illiceità – non ha costituito l’aspetto centrale del processo, in quanto non è mai stata oggetto di contestazione la sussistenza della condotta in sé degli esponenti delle Istituzioni che ebbero, appunto, a “trattare” con alcuni esponenti dell'associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, né la legittimità di eventuali provvedimenti conseguentemente adottati dal potere esecutivo, quanto, piuttosto, la condotta che costituisce l' antecedente fattuale di tale “trattativa” o che ha eventualmente trovato origine in un approccio da parte di esponenti delle Istituzioni tale da far ritenere che vi potesse essere una “apertura” dello Stato verso talune richieste provenienti dalla organizzazione criminale che aveva scatenato la guerra contro lo Stato medesimo. Tale antecedente fattuale è costituito dalla condotta di cui all’ art. 338 del codice penale (aggravato ai sensi del successivo art. 339), secondo cui gli imputati (alcuni in veste di esponenti di “cosa nostra” e altri in veste di esponenti politici e delle Istituzioni) avrebbero usato minaccia nei confronti dei vertici dello Stato – minaccia consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti contro rappresentanti istituzionali – per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano, e in particolare per impedirne o comunque per turbarne l’attività istituzionale. Sotto questo profilo, la conclusione della Corte di Assise del Tribunale di Palermo è stata nel senso che non necessariamente la cosiddetta trattativa deve fungere da presupposto fattuale e logico della formulazione accusatoria di minaccia, potendo porsi, con quest'ultima, invece, anche in un rapporto di mera occasionalità. LA RESPONSABILITA’ PENALE DEGLI ESPONENTI DELLE ISTITUZIONI Ai tre funzionari del ROS dei Carabinieri coinvolti nella vicenda penale esaminata dalla Corte di Assise del Tribunale di Palermo (condannati in primo grado e assolti in secondo) è stato contestato di avere concorso nel reato di minaccia finalizzato a turbare l'attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell'associazione mafiosa “cosa nostra”, mediante la seguente triplice condotta: 1) inizialmente contattando, su incarico di esponenti politici e di governo, uomini collegati a “cosa nostra”, e così agevolando l'instaurazione di un canale di comunicazione con i capi del predetto sodalizio criminale, finalizzato a sollecitare eventuali richieste di “cosa nostra” per far cessare la strategia omicidiaria e stragista; 2) in seguito, favorendo lo sviluppo di una “trattativa” fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall'altra, all'esercizio dei poteri repressivi dello Stato; 3) successivamente, assicurando altresì il protrarsi dello stato di latitanza di Bernardo Provenzano, principale referente mafioso di tale “trattativa”. E’ stata dunque imputata ai tre funzionari dello Stato una condotta concorsuale consistente nell'avere sollecitato, agevolato sotto diversi profili e rafforzato il proposito criminoso della minaccia al Governo della Repubblica attribuito, invece, direttamente ai vertici di “cosa nostra”. In altre parole, i tre Ufficiali del ROS sarebbero stati istigatori, determinatori e facilitatori del ricatto di “cosa nostra”. I Giudici di primo grado – in parziale difformità dalla valutazione successivamente operata dalla Corte di assise di appello –, dopo avere premesso che il ruolo di autore in senso stretto della minaccia al Governo è ben diverso da quello prima indicato di istigatore o determinatore o ancora di agevolatore della minaccia posta in essere dai vertici mafiosi, hanno ritenuto provato che non solo gli imputati “istituzionali” abbiano istigato, sollecitato e agevolato la condotta di minaccia posta in essere dai vertici mafiosi, facendosene tramite nel percorso di tale minaccia diretto a raggiungere il destinatario individuato nel Governo della Repubblica, ma anche di avere avuto piena consapevolezza del proprio contributo e del suo esito, e, quindi, dell’evento. Le tre condotte si sarebbero delineate, a seconda dei ruoli ricoperti dagli imputati nel Reparto di appartenenza, come ideative, attuative e di copertura dell’iniziativa intrapresa, denotando così la consapevole condivisione complessiva dell'azione materiale. Ai fini della compartecipazione nel reato, infatti, rileva anche la sola azione, che, pur non realizzando di per sé l'intera condotta criminosa penalmente punibile e, pertanto, essendo da sola insufficiente per integrare la figura del reato contestato, rende comunque possibile, in qualche modo, la sua realizzazione. Secondo la disciplina della responsabilità penale a titolo concorsuale stabilita con la regola generale dell' art. 110 c.p. , invero, sono punibili, quali compartecipi del reato, tra gli altri, anche coloro che si limitino a suscitare e a fare sorgere in altri un proposito criminoso che precedentemente essi non avevano o anche soltanto coloro che si limitino a rafforzare tale proposito eventualmente in altri già esistente, oltre che coloro che pongano in essere una compartecipazione materiale, che può assumere le più diverse forme, tale da consentire consapevolmente il verificarsi dell'evento punito dalla norma penale. In fatto, la Corte di assise del Tribunale di Palermo ha ritenuto accertato che gli imputati ufficiali del ROS, se pure all’inizio potevano dubitare che il proprio intendimento di giungere sino ai vertici mafiosi attraverso un affiliato potesse avere esito positivo, di certo si erano rappresentati che l’obiettivo di tale intermediazione erano i vertici mafiosi medesimi, e che questi, ove avessero accolto l’esortazione al dialogo, avrebbero potuto avanzare alcune richieste quale contropartita per porre termine al “muro contro muro” con lo Stato. Secondo i Giudici di primo grado è dunque emersa con chiarezza l'oggettiva convergenza ed integrazione, sia sotto il profilo psicologico che materiale, delle condotte dei singoli concorrenti nel reato: da un lato gli autori in senso stretto della minaccia (i mafiosi) e dall'altro i compartecipi (i Carabinieri) consapevoli che la propria azione, in caso di esito positivo, avrebbe inevitabilmente fatto sorgere o, quanto meno, consolidato il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del Governo della Repubblica sotto forma di richieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi. In concreto, si è accertato in dibattimento che è stata proprio l'iniziativa dei Carabinieri a far sorgere o, comunque, a rafforzare o, quanto meno, a rendere in quella fase attuale e, quindi, concreto, il proposito criminoso di Salvatore Riina di ricattare lo Stato, In effetti, l'iniziale intento di quest’ultimo e, quindi, di “cosa nostra”, maturato e comunicato ai sodali già in vista della ormai prevista conferma in Cassazione della sentenza del “maxi processo”, era quello di vendicarsi sia di coloro che non avevano mantenuto gli impegni assunti negli anni per “aggiustare” l'esito di tale processo, considerato fondamentale per la stessa sopravvivenza dell'associazione mafiosa, sia di coloro che, sul fronte opposto, erano stati individuati quali artefici di quello che si era rivelato come il più grave smacco subito da “cosa nostra” e che, per tale ragione, erano stati “condannati a morte”. Quel generico ed ancora inattuale proposito di richiedere benefìci quale condizione per riprendere la “coabitazione” imbelle tra Stato e mafia (e, quindi, la “pace” alle condizioni imposte da “cosa nostra”, cui mirava, come si è visto, l'azione di “guerra” scatenata da quest'ultima) non avrebbe peraltro mai potuto attuarsi – e non sarebbe mai stato in concreto attuato con la formulazione esplicita della minaccia e del ricatto – se lo Stato non avesse abbandonato la linea della fermezza e non avesse sollecitato quel dialogo, il cui ontologico presupposto è l'ascolto delle reciproche richieste e che, dunque, conteneva già in sé l'apertura di una “trattativa”, così come, d'altra parte, ben compreso (tanto da non avere esitato a definirla tale sino ad un certo momento) da tutti i suoi protagonisti. I tre imputati del ROS si sono dunque fatti avanti in rappresentanza dello Stato e, al di là delle le ragioni che li avevano animati – tra le quali, secondo la Corte di assise del Tribunale di Palermo, non vi erano in via principale quelle di scoprire gli autori della strage di Capaci e di individuare ed arrestare i latitanti che guidavano “cosa nostra” -, hanno consapevolmente reso attuale il proposito criminoso generico di Salvatore Riina, esortando i vertici mafiosi a formulare le condizioni per la cessazione delle uccisioni e delle stragi e, dunque, in concreto, a formulare la minaccia ed il ricatto mafiosi, che, senza la decisiva sollecitazione dei predetti Carabinieri e senza quel canale di comunicazione, non sarebbero stati rivolti al Governo della Repubblica, quale soggetto che avrebbe potuto soddisfare le richieste dei mafiosi. Secondo i Giudici di primo grado, dunque, l'iniziativa dei Carabinieri è stata determinante per l'attuazione del proposito criminoso minaccioso e ricattatorio dei mafiosi, perché costoro, in quel momento, avevano deciso di non servirsi più degli interlocutori politici che fino ad allora avevano fatto da intermediari per giungere sino al Governo (Salvo Lima era stato già ucciso e per altri era già in preparazione o era stata programmata l'uccisione) e attendevano, per porre le condizioni della cessazione della “guerra” ed ottenere così i voluti benefìci, l'apertura di un nuovo canale con le Istituzioni. La ricostruzione della posizione dei tre imputati del ROS viene dunque ancorata ad un profilo di concorso nel reato di minaccia di cui all’art. 338 c.p., come condotta atipica di istigazione, determinazione e agevolazione rispetto alla condotta principale e tipica degli esponenti dei vertici mafiosi. Punctum dolens della ricostruzione giuridica dei Giudici di primo grado - come emerge anche dalla successiva assoluzione in appello con la formula "perché il fatto non costituisce reato" - è l'identificazione della seconda componente dell'elemento soggettivo del concorso di persone . Accanto alla consapevolezza di cooperare con altri nella realizzazione del fatto tipico dovrebbe infatti aggiungersi la rappresentazione e la volizione del fatto , necessarie, secondo i principi generali, per la configurazione di un reato doloso. Il dolo della fattispecie mono-soggettiva è necessario per l’integrazione del reato in cui si concorre. Tuttavia, dalla possibilità di esecuzione frazionata del reato discende che è sufficiente tale dolo da parte di uno qualunque dei compartecipi, di modo che l'istigatore o il facilitatore devono rappresentarsi il fatto di reato nei suoi elementi costitutivi ma non necessariamente in tutte le sue concrete modalità. Peraltro, mentre un filone interpretativo ritiene sufficiente, affinché si possa parlare di concorso di persone nel reato, la consapevolezza di concorrere all’azione altrui, ossia la coscienza di cooperare con altri, secondo altro orientamento questa opinione trascurerebbe il fattore volitivo, dal quale non pare possibile prescindere. In altri termini, il requisito psichico del concorso nel reato implicherebbe, non solo la conoscenza o la rappresentazione delle azioni che altre persone hanno esplicato, esplicano o esplicheranno per la realizzazione del fatto che si ha di mira, ma anche la volontà di contribuire col proprio operato al verificarsi del fatto medesimo. Nel caso di specie, la pronuncia di primo grado sembra non avere adeguatamente valutato che il farsi tramite di una minaccia altrui non necessariamente comporta la volontà di minacciare a propria volta un male ingiusto, specialmente se sussista una ferma "controvolontà" rispetto al risultato perseguito dai soggetti che compiono l'azione tipica - deducibile anche soltanto in conseguenza della netta contrapposizione astratta esistente tra mafiosi e forze dell'ordine fino all'inizio del "dialogo" -, e la condotta dei presunti concorrenti si sia caratterizzata per assoluta superficialità, sprezzo delle regole e disinvoltura. Non bisogna infine dimenticare che il reato di cui all'art. 338 c.p. è un reato a dolo specifico , di modo che il concorrente nel reato deve necessariamente condividere il fine di impedire o turbare l'attività del corpo politico attinto dalla minaccia, e non inseguire altri obiettivi comunque illeciti ma magari di natura meramente egoistica. IL REATO CONTESTATO Tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione l’ art. 338 c.p. è un reato di non frequente contestazione e di problematica applicabilità. Il primo dubbio che ha dovuto risolvere la Corte di assise del Tribunale di Palermo è la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica. Si sostiene, infatti, da autorevole dottrina che la nozione di “corpo politico” di cui all'art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte costituzionale) per i quali, in effetti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all' art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali). La nozione di “ corpo politico ” è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penalistica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di “corpo amministrativo” e “corpo giudiziario”, pure richiamate nel medesimo art. 338 c.p.. In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di “corpo politico”, bensì in quella più ristretta di “corpo”, laddove non v'è diretta corrispondenza con l'esplicitazione normativa terminologica degli organi dello Stato. Tuttavia, col termine “corpo” può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi genericamente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. alla «rappresentanza di esso» e, comunque, a «qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio». In altre parole, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto prevedere una specifica e più grave fattispecie di reato allorché il soggetto passivo non sia un singolo pubblico ufficiale (o più pubblici ufficiali), bensì un organo pubblico costituito in collegio e ciò, evidentemente, per la maggiore offensività di una condotta delittuosa diretta verso una autorità che, per essere cosi costituita, si identifica maggiormente, quanto meno nell'immaginario e secondo la comune accezione, con lo Stato. Resta peraltro la problematicità della definizione di “corpo politico”, superabile soltanto se si associa la funzione politica a quell'insieme di determinazioni per mezzo delle quali si amministra lo Stato nei suoi vari settori di intervento in vista del raggiungimento delle finalità pubbliche. Così definito, può essere incluso tra i “corpi politici” proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubbiamente “politica”. La tesi che contrasta l’inserimento del Governo tra i corpi politici di cui all’art. 338 c.p. evidenzia allora che per la tutela degli organi costituzionali il legislatore ha dettato una specifica norma, l'art. 289 c.p. che, appunto, punisce l'«attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali» e, in particolare, gli atti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al Governo l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge. Sennonché tale argomentazione non appare in concreto dirimente, in quanto la condotta punita dall'art. 338 c.p. è del tutto diversa da quella punita dall'art. 289 c.p. e ciò sia se si consideri il testo di quest'ultima norma vigente all'epoca dei fatti dai quali sono scaturite le imputazione nel processo in esame, sia se si consideri il testo della stessa norma successivamente modificato, dal momento che il nuovo testo non ha fatto altro che rendere più esplicito il perimetro del delitto, non a caso intitolato «Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali». D’altra parte, l'attuale formulazione dell'art. 289 c.p. non prevede né punisce la minaccia dell'organo costituzionale ed il conseguente turbamento dell'attività di questi. Quanto invece agli “atti violenti diretti a impedire” a cui si riferisce l'art. 289 c.p., gli stessi sono cosa diversa – ed in astratto meno grave – dell'«usare violenza» al Corpo politico punita dall'art. 338 c.p.. Usare violenza al Corpo politico richiede, invero, che questo (o una sua rappresentanza) sia diretto destinatario della violenza medesima, subendone, quindi, le conseguenze nelle persone fisiche che lo costituiscono. Gli «atti violenti» cui si riferisce l'art. 289 c.p., invece, ricomprendono tutti quegli atti oggettivamente violenti che, comunque, pur senza colpire direttamente l'organo costituzionale, hanno l'effetto di impedirne l'esercizio delle attribuzioni, quali possono essere, ad esempio, alcune manifestazioni violente di piazza. Si tratta di condotta che in effetti esula dalla previsione dell'art. 338 c.p., in assenza di violenza usata nei confronti del Governo, ma che integrerebbe la previsione dell'art. 289 c.p., per l'effetto in ogni caso impeditivo dell'esercizio delle attribuzioni governative. Secondo i Giudici di primo grado, dunque, l'ambito di operatività dell'art. 289 c.p. è diverso da quello dell'art. 338 c.p., con la conseguenza che non può in alcun modo utilizzarsi la previsione specifica dell'art. 289 c.p. per dedurre da questa che gli organi costituzionali (tra cui, per quel che qui interessa, il Governo) non possano ricomprendersi nella nozione di “corpo politico” richiamata dall'art. 338 c.p.. D'altra parte, ove si volesse seguire la tesi contraria, si dovrebbe concludere che alcune gravi condotte, punite persino se commesse nei confronti di qualsiasi semplice cittadino, quale ad esempio, quelle di minaccia, sarebbero, invece, prive di rilevanza penale se commesse in danno di un organo costituzionale (politico) riunito in collegio, ovvero, al più, dovrebbero parificarsi ad una somma di singole condotte criminose come commesse nei confronti di singoli individui privi di quella autorità che promana dall'agire in rappresentanza dello Stato, per di più nell'esercizio di funzioni costituzionali. La seconda questione affrontata dalla Corte di assise del Tribunale di Palermo è stata quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell'art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell'intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte . Se peraltro è vero che soggetto passivo del reato è l'organo pubblico dello Stato nell'integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni, è altresì corretto dire che il reato in esame è configurabile anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell'organo collegiale (e non in presenza dello stesso organo collegiale riunito), sia, però, diretta a minacciare l'intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l'attività. L’importante, sotto questo secondo profilo, che l’agente, nel rivolgere la minaccia al singolo, miri al corpo politico, al fine di impedirne o turbarne l'attività. Tale conclusione non pare inficiata dalla modifica apportata dalla l. 3 luglio 2017, n. 105, che ha inserito le parole «ai singoli componenti» dopo le parole «Corpo politico, amministrativo, giudiziario» e nella rubrica le parole «o ai suoi singoli componenti». Ed invero, come si ricava dai lavori preparatori, si tratta di una modifica diretta a rafforzare gli strumenti penali per fronteggiare il fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali. La finalità, dunque, di tale intervento normativo è stata quella di rafforzare la tutela penale anche a fronte di atti che, volti a intimidire per lo più gli amministratori locali prevalentemente in relazione all'integrità delle loro persone e dei loro beni, minacciano, nel contempo, il buon andamento della pubblica amministrazione. A tale scopo, infatti, anche il ricorso all'art. 338 c.p. era stato ritenuto inadeguato quando il soggetto leso non è il corpo nella sua interezza o qualora il singolo destinatario non ha poteri di rappresentanza (come avviene, ad esempio, nel caso del sindaco). La modifica legislativa in esame non ha dunque inciso in alcun modo sulla pregressa conclusione interpretativa sopra ricordata, per la quale anche la minaccia rivolta ad un componente «eventualmente non in presenza dell'organo collegiale riunito» è comunque punibile (già in forza della originaria formulazione dell'art. 338 c.p.), se diretta al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l'attività, ma ha soltanto aggiunto la punibilità della minaccia (o della violenza) rivolta al singolo componente dell'organo collegiale, quand'anche non diretta a impedire o turbare l'attività del “corpo politico, amministrativo o giudiziario”, ma diretta a impedire o turbare l'attività di quel singolo componente nel suo operare individuale. La Corte di assise del Tribunale di Palermo ha dunque ritenuto rientrante nella fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 338 c.p. la contestazione della pubblica accusa, e ha considerato oggettivamente realizzata ed accertata la fattispecie di minaccia diretta a turbare la regolare attività del Governo della Repubblica nel suo complesso, al fine di impedirne o turbarne l’attività, ancorché tale minaccia sia stata veicolata attraverso singoli rappresentanti di detto corpo politico. Non ha invece ritenuto rilevante rispetto alla fattispecie concreta il secondo comma dell'art. 338 c.p., secondo cui « alla stessa pena soggiace chi commette il fatto per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio o l'adozione di un qualsiasi provvedimento, anche legislativo, ovvero a causa dell'avvenuto rilascio o adozione dello stesso », trattandosi, secondo i Giudici, di un ampliamento dell'area della punibilità penale già coperta dalla previsione del primo comma, previsione che sola è stata ritenuta di possibile applicazione al caso di specie, nei suoi limiti originari più ristretti, in forza dei principi che regolano la successione di leggi penali nel tempo. Al limite, ha evidenziato la Corte, il riferimento esplicito anche all'atto «legislativo» confermerebbe ulteriormente e definitivamente che nell'area dell'art. 338 c.p. sono ricompresi anche “corpi politici” dotati del corrispondente potere, con parziale sovrapposizione rispetto alla concorrente previsione dell'art. 289 c.p..
Autore: di Nicola Fenicia 27 set, 2021
Il quadro delle modalità di svolgimento delle udienze nelle varie magistrature appare piuttosto frastagliato, e ciò ancor più a seguito dell’approvazione del nuovo del d.l. 23 luglio 2021, n. 105 convertito, con modificazioni, dalla legge 16 settembre 2021, n. 126 . Infatti, mentre l’art. 7 del suddetto d.l. per i processi civili e penali ha prorogato fino al 31 dicembre 2021 il precedente regime delle udienze previsto dalla legislazione emergenziale, diversamente, con riferimento al processo amministrativo nulla è stato previsto nel d.l. di luglio, con conseguente ripresa delle udienze in presenza a partire da agosto di quest’anno; mentre solo in sede di conversione del d.l. è stato introdotto un nuovo art. 7 bis “Misure urgenti in materia di processo amministrativo”, in vigore dal 19 settembre 2021, secondo cui “ Fino al 31 dicembre 2021, in presenza di situazioni eccezionali non altrimenti fronteggiabili e correlate a provvedimenti assunti dalla pubblica autorità per contrastare la pandemia di COVID-19, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possono autorizzare con decreto motivato, in alternativa al rinvio, la trattazione da remoto delle cause per cui non è possibile la presenza fisica in udienza di singoli difensori o, in casi assolutamente eccezionali, di singoli magistrati. In tali casi la trattazione si svolge con le modalità di cui all'articolo 13-quater delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, di cui all'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 ”. Dunque, per il processo amministrativo si torna definitivamente alle udienze in presenza , con la possibilità ammessa in ipotesi particolarissime, fino allo scadere della fase emergenziale, di singole udienze totalmente da remoto, previa autorizzazione del presidente dell’ufficio giudiziario interessato, nei casi in cui non sia possibile la presenza fisica in udienza di singoli difensori o, in casi assolutamente eccezionali, di singoli magistrati, ma pur sempre in costanza di “situazioni eccezionali non altrimenti fronteggiabili e correlate a provvedimenti assunti dalla pubblica autorità per contrastare la pandemia di COVID-19”. Se ne ricava che solo nei casi, ad esempio, di impedimento personale per quarantena obbligatoria o di eventuali future restrizioni alla circolazione delle persone giustificate da aggravamento del rischio epidemiologico, il presidente dell’ufficio giudiziario può assentire lo svolgimento da remoto dell’udienza. Sempre con riferimento al processo amministrativo, con l' art. 17, comma 7, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80 , recante «Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia» (in Gazz. Uff. 9 giugno 2021, n. 136), convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, il Legislatore ha invece previsto, attraverso l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 87 c.p.a. e dell’art. 13-quater disp. att. c.p.a., come unica modalità di svolgimento delle udienze straordinarie dedicate allo svolgimento dell’arretrato , la trattazione da remoto. La disciplina generale delle udienze da remoto è contenuta nell’ art. 13-quater disp. att. c.p.a. . In base a quest’ultimo articolo: “ in tutti i casi di trattazione di cause da remoto la segreteria comunica, almeno tre giorni prima della trattazione, l'avviso dell'ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto nel verbale dell'udienza delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e della libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. I verbali e le decisioni deliberate all'esito dell'udienza o della camera di consiglio si considerano, rispettivamente, formati ed assunte nel comune sede dell'ufficio giudiziario presso il quale è stato iscritto il ricorso trattato. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati, le parti che si difendano personalmente e il personale addetto è considerato aula di udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla partecipazione alla discussione da remoto, il difensore può chiedere il passaggio della causa in decisione fino alle ore 12 del terzo giorno antecedente a quello dell'udienza stessa; il difensore che deposita tale richiesta è considerato presente a ogni effetto. Ai magistrati che partecipano alla trattazione di cause da remoto non spetta alcun trattamento di missione né alcun rimborso di spese ”. Dunque, tutte le parti processuali partecipano da remoto , non è più prevista la possibilità di opporsi alla discussione "virtuale" ed è stata eliminata la possibilità di depositare “note di udienza”. Vale la pena in questa sede osservare che il comma 4-bis dell’art. 87 c.p.a. richiama l’ultimo periodo del comma 3 della medesima disposizione, che a sua volta prevede che nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta, mentre l’art. 13-quater disp. att. c.p.a., come visto, stabilisce che, in alternativa alla partecipazione alla discussione da remoto, il difensore può sempre chiedere il passaggio della causa in decisione (ma solo fino alle ore 12 del terzo giorno antecedente a quello dell'udienza stessa). In sede applicativa, sono possibili due interpretazioni del combinato disposto delle due previsioni, dando per scontato che lo jus superveniens di rango primario abbia superato, abrogandole implicitamente, le norme dettate per lo svolgimento delle udienze da remoto dal d.P.C.S. del 28 luglio 2021. Da un lato, si potrebbe ritenere che al difensore debba sempre essere comunicato dalla Segreteria, almeno tre giorni prima dell’udienza, l’avviso della celebrazione dell’udienza da remoto con il relativo link, in modo tale da consentire al medesimo di scegliere se partecipare alla discussione da remoto, qualora lo richieda, anche in occasione dell’udienza - specularmente a quello che può accadere nel corso di una udienza in presenza -, ovvero di chiedere il passaggio in decisione della causa stessa. Dall'altro, una diversa opzione interpretativa potrebbe fare leva sul tenore letterale del comma 3 dell’art. 87 c.p.a., per inferire che il richiamo specifico a tale disposizione nel caso delle udienze "di smaltimento" da remoto è funzionale ad un ulteriore snellimento della procedura, secondo cui l’avviso contenente il link di partecipazione all’udienza da remoto, insieme all’indicazione della data e ora fissate per la discussione, dovrebbe essere inviato unicamente ai difensori che ne abbiano fatto richiesta preventiva. Sembra utile a questo punto estendere l’indagine agli altri settori giurisdizionali. Quanto alla magistratura ordinaria, iniziando dal processo civile , occorre partire dall’articolo 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, poi modificato dall’articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, a sua volta modificato dall’art. 23 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Disposizioni la cui efficacia, si è detto, è stata prorogata fino al 31 dicembre 2021 dall’art. 7 del d.l. 23 luglio 2021, n. 105 convertito, con modificazioni, dalla legge 16 settembre 2021, n. 126. Dunque, dall’esame di tale congerie di norme risulta che se pure la modalità ordinaria di trattazione dei procedimenti civili dovrebbe restare la trattazione orale in presenza (la trattazione, afferma l’art. 180 c.p.c., è orale), l’art. 221, comma 4 del d.l. n. 34 del 2020, invertendo la regola, consente la trattazione scritta, in via alternativa, quando l’ordinaria trattazione orale del procedimento non appare strettamente necessaria: “ Il giudice può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Il giudice comunica alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l'udienza che la stessa è sostituita dallo scambio di note scritte e assegna alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte. Ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento. Il giudice provvede entro i successivi cinque giorni. Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell'articolo 181 del codice di procedura civile. ”. E’ anche prevista in alternativa la trattazione (orale) da remoto o mista (art. 221, comma 6 e 7) che si risolve nella possibilità di consentire, alle parti e ai difensori, la partecipazione all’udienza tramite collegamento da remoto. La trattazione da remoto “piena” esclude totalmente la presenza in aula dei soggetti processuali, ad eccezione del giudice (art. 221, comma 6). Per essere disposta necessita del “consenso preventivo” delle parti ed è possibile per tutte quelle fasi del procedimento che non necessitano della “presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice”. La trattazione (orale) mista coincide invece con la possibilità concessa ad “una o più parti” o ad “uno o più difensori” di comparire tramite collegamento da remoto (art. 221, comma 7). Per esser disposta richiede la sola istanza della parte interessata e presuppone che l’udienza preveda la comparizione in presenza di almeno un soggetto processuale diverso dal giudice (altre parti, altri difensori, ausiliari, informatori, testimoni, ecc.). L’art. 221 affida direttamente al giudice il potere di disporre le forme alternative di trattazione delle cause, rimettendo alla sua valutazione la moderazione delle presenze in aula per il giorno di udienza. Tuttavia di fatto accade che la forma maggiormente utilizzata dai giudici civili è la trattazione scritta. Nel caso, in particolare, di giudizi di separazione o divorzio (comma 6 dell’art. 23 del d.l. n. 137 del 2020) si prevede la possibilità di trattazione scritta: “ Il giudice può disporre che le udienze civili in materia di separazione consensuale di cui all'articolo 711 del codice di procedura civile e di divorzio congiunto di cui all'articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 siano sostituite dal deposito telematico di note scritte di cui all'articolo 221, comma 4, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all'udienza vi rinuncino espressamente con comunicazione, depositata almeno quindici giorni prima dell'udienza, nella quale dichiarano di essere a conoscenza delle norme processuali che prevedono la partecipazione all'udienza, di aver aderito liberamente alla possibilità di rinunciare alla partecipazione all'udienza, di confermare le conclusioni rassegnate nel ricorso e, nei giudizi di separazione e divorzio, di non volersi conciliare. ”. Si segnala poi l’art. 23 comma 3 del d.l. n. 137 del 2020: “ Le udienze dei procedimenti civili e penali alle quali è ammessa la presenza del pubblico possono celebrarsi a porte chiuse, ai sensi, rispettivamente, dell'articolo 128 del codice di procedura civile e dell'articolo 472, comma 3, del codice di procedura penale. ”. Passando dunque al processo penale , in primo grado rimane l’udienza dal vivo in presenza, mentre è prevista la possibilità di collegamenti in videoconferenza in caso di persone detenute o in stato di custodia cautelare. Vedi art. 23 comma 4: “ La partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, in stato di custodia cautelare, fermate o arrestate, è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'articolo 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. ”. Solo le udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private, dai rispettivi difensori e dagli ausiliari del giudice possono essere tenute mediante collegamenti da remoto (art. 23 comma 5 del d.l. n. 137 del 2020). Ad esempio le udienze del GIP di convalida degli arresti vengono svolte normalmente da remoto. Per l’appello penale è invece prevista la trattazione scritta e la decisione in camera di consiglio salvo richiesta di discussione orale di una delle parti (art. 23 bis del d.l. n. 137 del 2020). Nei processi civili e penali le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto. L’evoluzione verso la “cartolarizzazione” del processo civile in Cassazione è invece iniziata già da prima dell’epoca Covid ed è stata solo accentuata dalla legislazione emergenziale. In base all’art. 23 del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 del 2020, comma 8 bis “ Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, la Corte di cassazione procede in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale... ”. Dunque l’udienza pubblica (dal vivo) può svolgersi solo su richiesta di parte e su autorizzazione del presidente della sezione. Di fatto si tratta di casi rarissimi limitati alle questioni di effettiva rilevanza nomofilattica, e ciò sia perché i presidenti di sezione, in sede di autorizzazione, tendono a far prevalere le esigenze di salvaguardia della salute pubblica, sia perché il processo civile in Cassazione, a partire dal 2016 è divenuto di regola a trattazione scritta con decisione assunta “in sede camerale non partecipata” cioè in camera di consiglio e con ordinanza, senza la partecipazione delle parti, avendo assunto portata generale il procedimento di cui all’art. 380 bis.1. del c.p.c. “Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice”, (introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197). Dunque, in concreto, il processo civile in Cassazione, già trasformato in processo cartolare, essendo il privilegio della pubblica udienza comunque riservato alle questioni di interesse nomofilattico, non ha subito significativi cambiamenti a causa della diffusione dell’epidemia da Covid; sono solo state autorizzate ancora meno udienze pubbliche rispetto al periodo ante Covid. In parte diverso il discorso per il processo penale in Cassazione : in base all’art. 23 del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 del 2020, comma 8, “ Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione a norma degli articoli 127 e 614 del codice di procedura penale la Corte di cassazione procede in Camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti, salvo che una delle parti private o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale. ”. Vige dunque una regola simile a quella del civile; occorre però considerare che per il processo penale la trattazione, prima del Covid, era rimasta prevalentemente orale e in udienza pubblica, senza le semplificazioni di cui all’art. 380 bis del c.p.c., per cui, anche in ragione della implicazione di diritti fondamentali dell’individuo, l’udienza pubblica (dal vivo) viene autorizzata con maggiore facilità rispetto al civile. D'altra parte, come da ultimo evidenziato da Cass. pen. 1^, 10.8.21 n. 31410, il generico malfunzionamento della piattaforma Teams non costituisce di per sé violazione del diritto di difesa, in caso di assenza dell'avvocato di un detenuto all'udienza virtuale, se il Tribunale attesti il regolare funzionamento del sistema e i colleghi dell'avvocato rimasto off-line a causa della mancata connessione siano invece riusciti a collegarsi nel corso della medesima udienza. Le deliberazioni collegiali in camera di consiglio nei processi civili e penali possono infine essere assunte mediante collegamenti da remoto, ma è sempre necessaria la presenza del presidente in ufficio. Passando alla giustizia contabile , vale la disciplina dettata dall’art. 85 del d.l. n. 18 del 2020, e in particolare il comma 3, secondo cui i vertici istituzionali degli uffici territoriali e centrali, sentiti l'autorità sanitaria regionale e, per le attività giurisdizionali, il Consiglio dell'ordine degli avvocati della città ove ha sede l'Ufficio, possono prevedere, in coerenza con le eventuali disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente o dal Segretario generale della Corte dei conti per quanto di rispettiva competenza… lett. e): lo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, ovvero delle adunanze e delle camere di consiglio che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai rappresentanti delle amministrazioni, mediante collegamenti da remoto, con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione all'udienza ovvero all'adunanza ovvero alla Camera di consiglio… . Le regole tecniche ed operative in materia di svolgimento delle udienze dinanzi alla Corte dei conti con collegamento da remoto sono state disposte con decreti del Presidente della Corte dei Conti del 1° aprile 2020, del 29 maggio 2020 e del 27 ottobre 2020. Allo stato sembra che le udienze della Corte dei Conti si stiano svolgendo, sia in presenza, sia da remoto in videoconferenza con modalità simili a quelle adottate dalla Giustizia amministrativa fino al luglio del 2021, a seconda delle decisioni di volta in volta discrezionalmente adottate dai presidenti di sezione, tenendo conto della situazione concreta a livello locale (diffusione del contagio, capienza e areazione dell’aula, affollamento delle udienze, etc..). Infine, nell’ambito della giustizia tributaria vige la trattazione scritta tranne che una delle parti non richieda la trattazione orale (ma in pratica si tratta di casi piuttosto rari); mentre la camera di consiglio decisoria si svolge di regola in videoconferenza. In conclusione, è solo la giustizia amministrativa che fa un coraggioso passo in avanti, rispetto alle altre giurisdizioni, verso la completa e definitiva riapertura delle aule, con alcune eccezioni e con il sacrificio delle udienze di smaltimento dell’arretrato, che perdono definitivamente - in conseguenza di un equilibrato bilanciamento tra costi e benefici - la possibilità dello svolgimento in presenza.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 23 set, 2021
Con il decreto-legge n. 127 del 21 settembre 2021 il Governo italiano ha provato a raffinare e implementare il fin qui disorganico regime di obblighi volti a prevenire la diffusione del virus pandemico. Antecedentemente, si erano occupati della fattispecie tre norme adottate in altrettanti diversi momenti temporali. Con la prima ( art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 ), è stato stabilito che " In considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. ". La vaccinazione stabilita per questi soggetti " costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative ", e il mancato adempimento dell'obbligo imposto, una volta decorsi i termini per l'attestazione di tale adempimento, comporta "l a sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 ". Da ultimo, il decreto-legge n. 122 del 10 settembre 2021 ha esteso il predetto obbligo vaccinale a chiunque svolga, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa nelle strutture di ospitalità e di lungodegenza, residenze sanitarie assistite (RSA), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani. Con la seconda disciplina normativa ( decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105 , convertito in legge il 16 settembre scorso), l’accesso a tutta una serie di servizi e attività (tra cui il servizio al tavolo nella ristorazione al chiuso, gli spettacoli aperti al pubblico, i musei, le piscine, le sagre e le fiere, i concorsi pubblici) è stato consentito in zona bianca esclusivamente ai soggetti muniti di una delle certificazioni verdi COVID-19, di cui all'articolo 9, comma 2 del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87. Con la terza norma (disposizioni urgenti per l’anno scolastico 2021/2022, stabilite dal d.l. 6 agosto 2021, n. 111 ), “per consentire lo svolgimento in presenza” dei servizi e delle attività scolastiche, e “per prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2”, è stato previsto per tutto il personale scolastico e universitario l’obbligo di possesso e di esibizione della certificazione verde COVID-19 di cui all'articolo 9, comma 2 del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52: il mancato rispetto di tale obbligo è considerato assenza ingiustificata, a cui consegue la sospensione del rapporto di lavoro a decorrere dal quinto giorno di assenza. Dall’11 settembre 2021, il green pass lo deve possedere ed esibire anche chiunque accede alle strutture scolastiche e universitarie. E’ stato inoltre interdetto l’accesso ai principali mezzi di trasporto nei confronti dei soggetti che non siano muniti di una delle certificazioni verdi COVID-19. Nella scia di quest’ultimo decreto-legge, “considerato che l’attuale contesto di rischio impone la prosecuzione delle iniziative di carattere straordinario e urgente intraprese al fine di fronteggiare adeguatamente possibili situazioni di pregiudizio per la collettività”, e “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di estendere l’obbligo di certificazione verde COVID-19 nei luoghi di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire la maggiore efficacia delle misure di contenimento del virus SARS-CoV-2”, l’ obbligo di possesso del green pass a determinati fini è stata esteso a tutti i lavoratori , sia del comparto pubblico che di quello privato. In particolare, dal 15 ottobre 2021 e fino al 31 dicembre 2021 , termine di (presunta) cessazione dello stato di emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2, al personale di tutte le amministrazioni pubbliche, ivi compreso il personale delle Autorità amministrative indipendenti, nonché degli enti pubblici economici e degli organi di rilievo costituzionale, e a chiunque svolge una attività lavorativa nel settore privato, è fatto obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19, ai fini dell’ accesso nei luoghi in cui il predetto personale svolge l’attività lavorativa. La disposizione si applica altresì a tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, anche sulla base di “contratti esterni”, la propria attività lavorativa o di formazione o di volontariato nei luoghi di lavoro presi in considerazione dall’obbligo introdotto, e non può comportare, in caso di mancata volontà di adeguamento all’obbligo stesso, conseguenze disciplinari o comunque incidenti sul diritto alla conservazione del rapporto di lavoro , ma soltanto la mancata corresponsione di emolumenti connessi a qualsiasi titolo all’occupazione svolta. Una specifica previsione è peraltro prevista per l’impiego delle certificazioni verdi negli uffici giudiziari , da parte di magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, avvocati e procuratori dello Stato e componenti delle commissioni tributarie. In questi casi, infatti, la prima bozza circolata prevedeva che la comunicazione di non essere in possesso del necessario green pass – in difformità da quanto previsto a partire dal 15 ottobre 2021 per tutti gli altri dipendenti pubblici - non avrebbe comportato soltanto la mancata retribuzione ma anche un’assenza ingiustificata rilevante ai fini di cui all’articolo 127, primo comma, lettera c), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (ipotesi di decadenza prevista quando, senza giustificato motivo, il dipendente pubblico non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni, ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve). La previsione è venuta meno in sede di stesura finale del provvedimento – con ciò forse spiegando anche, in parte, il ritardo nella pubblicazione del decreto-legge in gazzetta ufficiale -, ed è stata sostituita da una più blanda previsione di integrazione di illecito disciplinare nel caso di accesso agli uffici giudiziari da parte dei magistrati in mancanza di green pass. Si tratta di una sanzione che è tipizzata, tramite rinvio, dal d.lgs. n. 109 del 2006, nell’ordinamento della magistratura ordinaria (sanzione non inferiore alla censura), e che invece è rimessa ai “rispettivi ordinamenti di appartenenza” per i magistrati diversi dagli ordinari. Il nuovo illecito disciplinare – bizzarramente costruito su una fattispecie che in linea teorica ha efficacia soltanto dal 15 ottobre al 31 dicembre 2021 – è speculare a quello eventualmente derivante dal rilievo dell’accesso "non autorizzato" per i dipendenti pubblici e per i lavoratori nel settore privato (“ ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore ”). Resta in ogni caso una disparità di fondo tra la disciplina concepita per i magistrati e quella prevista per gli altri dipendenti pubblici, se si considera che mentre per i secondi la mancata comunicazione di essere in possesso del green pass è “senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro” (art. 1), per i primi vi è solo la “conservazione del rapporto di lavoro” (art. 2). Fatte salve queste eccezioni, l’unica sanzione “vera” prevista per tutti i lavoratori consiste nella “multa” da 600 a 1.500 euro, nel caso di accesso nei luoghi di lavoro senza green pass . Tale sanzione è irrogata dal Prefetto, su impulso dei soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni (che poi sono i datori di lavoro, i loro delegati o i responsabili della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, i quali sono a loro volta soggetti a sanzione amministrativa nel caso di mancata verifica del rispetto delle prescrizioni e o di mancata adozione delle opportune misure organizzative). Come per il personale docente – e diversamente da quanto deciso per il personale sanitario - non è stato dunque introdotto l’obbligo di vaccinazione, ma l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass ai fini dell’accesso al “posto” di lavoro. Con l’applicazione di un’unica “misura” blanda e ad efficacia temporale limitata nel tempo (dal 15 ottobre al 31 dicembre) nel caso di mancata ottemperanza a tale obbligo, per tutti i lavoratori che non siano magistrati e che non accedano clandestinamente al posto di lavoro: la mancata retribuzione . Una misura si direbbe superflua, per certi versi, in quanto se non si può adempiere la prestazione lavorativa per mancanza di un requisito considerato essenziale dal legislatore viene meno in automatico anche l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la relativa retribuzione. E con un’esclusione implicita – ma che potrebbe risultare rilevante – per tutti quei lavoratori che possono svolgere la loro attività anche senza dovere accedere in uno specifico luogo di lavoro. L’utilizzo dello smart working – per quella che ne sarà la residua modalità applicativa dopo la scure annunciata dai ministri competenti - e la possibilità di fare tamponi a prezzo calmierato potrà inoltre limitare ancora di più il raggiungimento di quello che è il malcelato obiettivo finale dell’esecutivo, ovvero spingere alla vaccinazione i soggetti ancora riottosi, evitando nel contempo di introdurre un obbligo generalizzato. Obiettivo che dunque non tiene conto, allo stato, di tutti i soggetti che lavorano in proprio e dei “non” lavoratori – inoccupati o disoccupati –, che, non essendo vaccinati, nella quotidianità possono comunque continuare a contagiarsi con conseguenze gravi o fatali sulla propria salute. D’altra parte, come già evidenziato, la limitatezza di efficacia temporale di queste norme – nel caso in cui il Governo non abbia già maliziosamente immaginato una proroga ad libitum – pone più di un dubbio sull’idoneità strutturale delle stesse a raggiungere lo scopo (aumento esponenziale dei soggetti vaccinati). Ma magari la speranza è che il virus tolga il disturbo da solo entro il 31 dicembre 2021. Nel frattempo, l'attivazione delle procedure di cui al d.l. n. 44 del 2021 ha generato un ampio contenzioso in giro per l'Italia, su impulso dei soggetti che non intendono ottemperare all'obbligo vaccinale loro imposto. I ricorsi si fondano, tra l'altro, sull'asserita illegittimità costituzionale, sotto plurimi profili, di diritto interno e diritto europeo, di un obbligo riferito ad un vaccino di cui non sarebbe garantita né la sicurezza né l’efficacia, a cui si assocerebbe la pretesa di condizionare la somministrazione del vaccino obbligatorio al rilascio di una totale esenzione da responsabilità per danni che dovessero derivare da tale vaccino non adeguatamente sperimentato e la conseguente mancata previsione di un indennizzo, che la giurisprudenza costituzionale sembra ritenere condizione essenziale ed imprescindibile per l’imposizione di un obbligo vaccinale e, in generale, di un trattamento sanitario obbligatorio. Recentemente, il TAR per il Friuli Venezia Giulia si è pronunciato sul ricorso presentato da un medico, operante in regime di libera professione, che ha impugnato il provvedimento con il quale l’Azienda sanitaria procedente, in applicazione della normativa vigente, ha accertato l’inosservanza dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 (vedi articolo su questo sito) . Nel caso di specie, la ricorrente ha provato a contrastare frontalmente la necessità di imporre l'obbligo - peraltro solo nei confronti di una determinata categoria di soggetti - sulla base di un'asserita assenza di presupposti di sicurezza della cura preventiva imposta. In contrario avviso, i Giudici amministrativi hanno affermato che vi sono evidenze scientifiche che dimostrano una rilevante efficacia preventiva della profilassi vaccinale, sia sotto il profilo dei sintomi della malattia, che della trasmissione dell’infezione, atteso che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78% rispetto ai non vaccinati; hanno evidenziato altresì che l’efficacia preventiva della copertura vaccinale, lungi dal giovare solo al singolo, in una dimensione strettamente individuale e personale, assume un rilievo generale sia in quanto garantisce la continuità delle prestazioni professionali degli operatori sanitari, sia in quanto, comunque, contribuisce a mitigare il rischio di una incontrollata diffusione della malattia da Covid-19 a danno di soggetti naturalmente esposti al rischio di contagio in misura maggiore rispetto alla media. Con la conclusione che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale devono ritenersi sicuri perché regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata, che non solo si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco - senza dunque alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca, - ma che ha potuto altresì giovarsi dell’impiego di risorse umane ed economiche, di procedure valutative rapide e ottimizzate (c.d. rolling review ), che hanno dato luogo ad un rigoroso processo di valutazione scientifica. D'altra parte, la forma condizionata dell’autorizzazione non può, per sua stessa natura, giustificare l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”. Allo stesso modo, la non obbligatorietà del vaccino sta generando situazioni di conflitto allorché la decisione sulla vaccinazione volontaria debba essere presa nell’interesse del minore , specie se sussistono situazioni di conflittualità tra coniugi o ex coniugi. Ad esempio, nel caso di cui si è occupato a luglio il Tribunale di Monza , la controversia è originata dal ricorso presentato da uno dei due ex coniugi - genitore di un figlio dell’età di 15 anni e 6 mesi - il quale aveva fissato un appuntamento presso il Centro Vaccinale di riferimento per la somministrazione del vaccino al figlio, sulla base della sua espressa volontà di essere vaccinato per poter partecipare liberamente alle attività scolastiche e sportive, ma l’altro genitore, alla ricezione del modulo per il rilascio dell'autorizzazione, aveva rifiutato il proprio consenso, adducendo motivazioni generiche in ordine alla possibilità remota per i minori di contrarre forme gravi della malattia (vedi articolo su questo sito) Il Tribunale ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di vaccinazioni – obbligatorie e non -, secondo il quale, laddove vi sia un concreto pericolo per la salute del minore, in relazione alla gravità e diffusione del virus, e vi siano dati scientifici univoci sul fatto che quel determinato trattamento sanitario risulta efficace, il giudice può "sospendere" momentaneamente la capacità del genitore contrario al vaccino. Lasciando da parte questi due casi - obbligo vaccinale per il personale sanitario e "obbligo" imposto dal giudice, più che altro nei confronti del genitore dissenziente - resta in piedi il paradosso di uno Stato che vuole “spingere” tutti a fare il vaccino senza stabilire l’obbligo diretto in una legge. Con tutti i limiti di una normativa a singhiozzo - o a strati o a tenaglia che dir si voglia - che comprime sempre più incisivamente i diritti (anche quelli fondamentali) di chi non si munisce di green pass. E l'ulteriore paradosso - tipicamente all'italiana - che chi non si vuole vaccinare ma è disposto a fare tamponi quotidiani - se ha la capacità economica e il tempo per farlo - può continuare di fatto ad avere una vita normale assumendo su di sé, e sulla collettività, il rischio del contagio. Si può dire dunque che la linea è quella di rendere molto difficile la vita ai no vax senza fare loro una “guerra” diretta. Ma questo modo di procedere rischia di dare l’idea di uno Stato che non ha il coraggio di fare scelte di effettivo e rapido ritorno alla normalità, o, peggio ancora, che non crede fino in fondo allo strumento (vaccino) che viene sbandierato all’opinione pubblica come soluzione del problema. Con l'esito finale dell’incongruenza normativa costituita dalla parificazione dell'avvenuta vaccinazione al risultato negativo del tampone - seppure in questo caso con efficacia temporale grandemente limitata (48 o 72 ore, a seconda del tipo di tampone) -, ai fini del possesso del green pass. Il che porta con sé tutta una serie di problemi anche in ordine al controllo dell’accesso ai luoghi “sensibili” da parte di soggetti che dispongono di due diverse tipologie di certificazione. Sullo sfondo, infine, la dubbia compatibilità con la Costituzione di un sistema di divieti di esercizio dei diritti di libertà basato su evidenze scientifiche ancora non completamente sedimentate, e che si salva da fondate censure di illegittimità soltanto in virtù dell’eccezionalità e della temporaneità delle previsioni normative ad hoc . Ma come affrontare la questione di fondo nel caso in cui tale “eccezionalità“ e “temporaneità” dovesse diventare strutturale, magari proprio in conseguenza del mancato obiettivo della vaccinazione di massa? Inserendo il green pass in Costituzione? Una cosa è certa. Per adesso, il Governo ha scommesso sul fatto che mettere le mani nel portafogli degli italiani (si pensi alla mancata retribuzione per il lavoratore che non ha il green pass), dovrebbe bastare a dissolvere rapidamente anche i principi e gli ideali ritenuti pericolosi per un’efficace tutela della salute individuale e pubblica.
Autore: Ripubblicazione con aggiornamenti di articolo apparso sul sito in data 8 gennaio 2021 07 set, 2021
Partiamo da una premessa “storica”. Secondo i dati ufficiali, al 7 gennaio 2021, la pandemia ha ucciso in Italia più di 77.000 persone (1) . Siamo tra i Paesi al mondo con il più alto tasso di letalità, in rapporto alla popolazione, e il maggiore decremento del PIL. È ormai evidente che in casa nostra la strategia di contenimento ha sostanzialmente fallito, al di là delle singole responsabilità. Ci resta soltanto l' exit strategy - la vaccinazione di massa - per uscire da quest'incubo. Eppure, fino al 30 dicembre 2020, un Governo che con la complicità del Parlamento ha regolamentato nel minimo dettaglio ogni comportamento possibile, sostituendo di fatto la regola del "ciò che non è vietato è permesso" con il principio emergenziale secondo cui "ciò che non è permesso è vietato", non aveva ancora messo a punto alcuna norma in materia di vaccinazione della popolazione contro il Covid-19. Eravamo fermi al Piano Strategico Vaccin a zione anti-Sars-Cov-2/Covid-19, aggiornato in data 12 dicembre 2020 dal Ministero della Salute, il cui valore giuridico è assimilabile, forse, a quello di una circolare interna (si parla di “sintesi delle linee di indirizzo”), e alla informativa del Ministro Speranza al Senato e alla Camera dei Deputati del 2 dicembre 2020, cui si sono “agganciate” risoluzioni parlamentari con valore di indirizzo generale per l’esecutivo. Con l’approvazione della legge di bilancio per il 2021, finalmente il Parlamento affronta una materia così vitale per il nostro Paese. Dal comma 457 in poi dell’art. 1 della L. n. 178 del 2020, entrata in vigore il primo gennaio 2021, sono descritte le regole fondamentali in materia di vaccinazione anti-Covid. Vediamone una sintesi. Innanzitutto, il Ministro della salute adotta con proprio decreto il piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, “ finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale ”. In secondo luogo, il piano di cui sopra è attuato dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano “ adottando le misure e le azioni previste, nei tempi stabiliti dal medesimo piano ”, ma, in caso di mancata attuazione del piano o di ritardo, vi provvede in via sostitutiva e previa diffida, il Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e il contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19. In terzo luogo, la prestazione di somministrazione dei vaccini contro il SARS-CoV-2 è effettuata presso le strutture individuate dal Commissario straordinario, sentite Regioni e Province autonome. Vi sono infine alcune disposizioni di natura contingente sui medici specializzandi (chiamati a concorrere allo svolgimento dell'attività di profilassi vaccinale per la popolazione), sulla partecipazione al processo di assunzioni speciali delle agenzie di somministrazione iscritte all'albo delle agenzie per il lavoro istituito presso il competente Ministero, sulla predisposizione ad hoc di un elenco di personale medico-sanitario e sulla remunerazione delle eventuali prestazioni aggiuntive fornite dal personale medico. La norma in base alla quale il Commissario straordinario si è attivato per pianificare la vaccinazione di massa è sempre la stessa: l’art. 122 del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, nella L. n. 27 del 2020. Secondo il principio fondamentale di tale norma, richiamata anche dalla legge di bilancio per il 2021, “ il Commissario attua e sovrintende a ogni intervento utile a fronteggiare l'emergenza sanitaria, organizzando, acquisendo e sostenendo la produzione di ogni genere di bene strumentale utile a contenere e contrastare l'emergenza stessa, o comunque necessario in relazione alle misure adottate per contrastarla, nonché programmando e organizzando ogni attività connessa, individuando e indirizzando il reperimento delle risorse umane e strumentali necessarie, individuando i fabbisogni, e procedendo all'acquisizione e alla distribuzione di farmaci, delle apparecchiature e dei dispositivi medici e di protezione individuale ”. (2) Si tratta di una sorta di delega (quasi) in bianco al Commissario straordinario, estesa adesso anche alle Regioni e alle Province autonome, sulla base di un piano di indirizzo. Men che meno è stato previsto l’obbligo di vaccinarsi, o la raccomandazione formale a farlo, se si eccettua il generico richiamo, contenuto nel piano strategico aggiornato al 12 dicembre 2020, allo “sviluppo di raccomandazioni su gruppi target a cui offrire la vaccinazione”. (3) Occorre a questo punto capire, facendo un piccolo passo indietro, se lo Stato può obbligare le persone a vaccinarsi contro la malattia causata dall’infezione del virus SARS-CoV-2. I trattamenti sanitari coattivi a tutela della salute pubblica, tra cui rientrano le vaccinazioni obbligatorie – trattamenti che secondo la nostra Costituzione non posso essere disposti se non dalla legge – sono legittimi soltanto se vi è necessità di salvaguardare contemporaneamente la salute individuale e collettiva. Secondo la giurisprudenza costituzionale che si è consolidata in materia, infatti, il trattamento può essere imposto qualora sia volto contemporaneamente a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato e a preservare lo stato di salute degli altri, di modo che la compressione del principio di autodeterminazione che inerisce al diritto di ciascuno alla salute, in quanto diritto fondamentale, risulti giustificata da un’ulteriore scopo, afferente alla salute come interesse della collettività. Per converso, le esigenze di tutela della collettività non possono giustificare in nessun caso trattamenti che incidano negativamente sullo stato di salute di colui che vi è sottoposto, salvo per quelle sole conseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiono relativamente normali e comunque tollerabili. Nell'ipotesi di danno ulteriore, peraltro, deve essere prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. Posto che nel caso della diffusione del virus SARS-COV-2 ci troviamo di fronte ad un virus che in Italia ha messo in ginocchio le strutture sanitarie, prodotto un numero elevatissimo di decessi e determinato la compressione generalizzata dei diritti di libertà, paiono sussistere, nel caso di specie, tutti i presupposti per imporre la vaccinazione obbligatoria, a fronte di vaccini “sicuri” per la salute individuale (anche perché autorizzati dalle competenti autorità). Si tratterebbe cioè, nel caso di specie, di una scelta “non irragionevole” da parte del Parlamento – il quale soltanto può prevedere, con legge, l’imposizione di un trattamento sanitario -, e quindi in teoria non sindacabile dalla Corte costituzionale. Perché allora il Governo o il Parlamento non si decidono a promuovere una legge sull’obbligatorietà del vaccino destinato a prevenire la malattia da “coronavirus 2019”, in un momento storico in cui tale misura potrebbe risultare indispensabile per raggiungere l’immunità di gregge e garantire così un ritorno alla “normalità”? Scartata l’ipotesi di una concezione ultraliberista, fondata sulla massima valorizzazione dell’autonomia individuale – concezione per la quale non sembra propendere l’attuale maggioranza parlamentare -, potrebbe assumere un ruolo rilevante, agli occhi dell’esecutivo, la questione dei futuri indennizzi da liquidare, se i vaccini ad oggi disponibili (concepiti con tecniche innovative rispetto al passato) dovessero risultare, alla lunga, produttivi di pesanti effetti collaterali. (4) Invero, l’attuale normativa in materia di indennizzi esclude, in caso di natura non obbligatoria della vaccinazione, il diritto all’indennizzo ; questo spetta soltanto ai soggetti “obbligati” che lamentino, quale conseguenza della vaccinazione, lesioni o infermità di carattere irreversibile (art. 1, comma 1, della legge n. 210 del 1992). Tuttavia, la Corte costituzionale si è costantemente espressa, negli ultimi decenni, a favore di un’estensione del diritto all’indennizzo anche in capo ai soggetti che si sono vaccinati sulla base di una “ raccomandazione ” pubblica. E questo perché, nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria, la distanza tra raccomandazione e obbligo è decisamente minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo. In effetti, benché la tecnica della raccomandazione esprima maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute, tutelato dal primo comma dell’art. 32 Cost., la stessa è pur sempre indirizzata allo scopo di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse anche collettivo. Ciò che rileva è che sia l’obbligo che la raccomandazione perseguono, nella profilassi delle malattie infettive, il comune scopo di garantire e tutelare la salute (anche) collettiva, attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale. In questa prospettiva, non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, e l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è soltanto uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. Secondo la Corte costituzionale, “ in presenza di una effettiva campagna a favore di un determinato trattamento vaccinale, è naturale che si sviluppi negli individui un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: e ciò di per sé rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle particolari motivazioni che muovono i singoli ”. Si parla di “traslazione” in capo alla collettività, favorita dalle scelte individuali, degli effetti dannosi che da queste eventualmente conseguano, di modo che la ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio, quanto sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà , nel momento in cui derivino conseguenze negative per l’integrità psico-fisica da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale. In altri termini, le esigenze di solidarietà previste dalla Costituzione, unitamente alla tutela del diritto alla salute del singolo, richiedono che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio da questi subìto, mentre sarebbe ingiusto consentire che l’individuo danneggiato sopporti il costo del beneficio anche collettivo. In conclusione, la previsione dell’indennizzo completa il “patto di solidarietà” tra individuo e collettività in tema di tutela della salute, rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione, e prescinde da valutazioni negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di vaccini. Posto dunque che in materia di trattamenti sanitari obbligo e raccomandazione costituiscono a pari titolo i pilastri del “patto di solidarietà” tra Stato e cittadino, e che, almeno per le modalità e la risonanza pubblica con cui si sta svolgendo attualmente la vaccinazione anti Covid-19, non vi è dubbio che lo Stato consideri tale vaccinazione come altamente raccomandata, che senso ha non chiarire in un atto normativo la questione? Mantenere in una zona grigia una strategia pubblica così vitale per il ritorno alla normalità, tanto più quando il valore di raccomandazione è fuori discussione, significa soltanto confondere ulteriormente i cittadini, e non rassicurarli sull’adempimento del “patto di solidarietà” da parte dello Stato, proprio nel momento in cui si richiede con insistenza a ciascuno di fare buon uso del suo libero arbitrio. (1) Al 6 settembre 2021 sono state stimate 129.567 vittime dall'inizio dell'epidemia. (2) Secondo il comma 4 dell' art. 122 del d.l. n. 18 del 2020 il Commissario opera fino alla scadenza dello stato di emergenza "e delle relative eventuali proroghe". A sua volta, Il d.l. 23 luglio 2021, n. 105 ha disposto (con l'art. 6, comma 1) che il termine previsto dal comma 4 è prorogato fino al 31 dicembre 2021 . (3) Successivamente, con l' art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 , è stato stabilito che " In considerazione della situazione di emergenza epidemiologicada SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. ". La vaccinazione stabilita per questi soggetti "costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative", e il mancato adempimento dell'obbligo imposto, una volta decorsi i termini per l'attestazione di tale adempimento, comporta la " la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 ". (4) L'attivazione delle procedure di cui al d.l. n. 44 del 2021 ha generato un ampio contenzioso davanti ai TAR su tutto il territorio nazionale, su impulso dei soggetti che non intendono ottemperare all'obbligo vaccinale loro imposto. I ricorsi si fondano, tra l'altro, sulla illegittimità costituzionale, sotto plurimi profili, di diritto interno e diritto europeo, di un obbligo riferito ad un vaccino di cui non sarebbe garantita né la sicurezza né l’efficacia, a cui si associa la pretesa di condizionare la somministrazione del vaccino obbligatorio al rilascio di una totale esenzione da responsabilità per danni che dovessero derivare da tale vaccino non adeguatamente sperimentato e la conseguente mancata previsione di un indennizzo, che, come visto, la giurisprudenza costituzionale sembra ritenere condizione essenziale ed imprescindibile per l’imposizione di un obbligo vaccinale e, in generale, di un trattamento sanitario obbligatorio.
06 set, 2021
Bilancio e prospettive della Giustizia amministrativa di primo grado dalla sua istituzione ad oggi. a cura di Daniela Anselmi* e Federico Smerchinich PREMESSA L’art. 125 della Costituzione italiana prevede che “ nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione ”. E così, dopo la soppressione delle Giunte provinciali amministrative (in merito a cui si rinvia a Corte Cost., n. 30/1967), con la legge n. 1034 del 1971 sono stati istituiti i Tribunali Amministrativi Regionali proprio in ossequio all’art. 125 citato. Al riguardo è possibile notare che l’art. 125 Cost. è norma collocata nella Sezione dedicata alle Regioni, il che secondo alcuni avrebbe dovuto far ritenere che i TAR avessero competenza soltanto per gli atti regionali o infraregionali, ma il legislatore li ha resi competenti per tutte le materie spettanti alla giurisdizione amministrativa. In seguito a tale legge, perciò, la giustizia amministrativa ha ora due gradi di giurisdizione ed il Consiglio di Stato svolge il ruolo di giudice di appello (salvo il caso del giudizio di ottemperanza di una sentenza del Consiglio di Stato o il caso dei pareri nei ricorsi straordinari al Capo dello Stato) rispetto alle decisioni dei TAR. Successivamente, le norme di cui alla l. n. 1034/1971 sono confluite nel d.lgs. n. 104/2010. Attualmente nella nostra penisola vi sono 20 TAR relativi ad ogni capoluogo più 9 Sezioni staccate nelle Regioni del Lazio, Lombardia, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Abruzzo, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. I magistrati dei TAR sono giudici professionali assunti a seguito di pubblico concorso e suddivisi in referendari, primi referendari e consiglieri. Nel 2021 si festeggia il 50° anniversario dell’istituzione dei TAR ed è possibile fare qui alcune brevi riflessioni sul ruolo del giudice amministrativo a mezzo secolo di distanza dalla l. n. 1034/1971, tematica che verrà affrontata in modo più approfondito al Convegno " Il punto sul Giudice dell'Amministrazione ” che si terrà a Genova l’1-2 ottobre 2021. (Vai alla locandina) I motivi dell’istituzione dei TAR nella relazione alla legge n. 1034/1971 Per comprendere i motivi che hanno portato all’istituzione dei TAR nel 1971 si ritiene utile riprendere la relazione di presentazione del disegno di legge n. 434 del 1970 [1] così da calarsi direttamente in quegli anni seguendo le parole dei politici di allora. Ci si riferisce alla relazione di presentazione del testo avvenuta il 7 ottobre 1970 [2] ad opera dell’On. Roberto Lucifredi . In tale occasione il relatore aveva ricostruito la situazione della giustizia amministrativa, ricordando che già nel dopoguerra (1945-1955) erano state redatte proposte (come quella del Prof. Forte) di formazione dei TAR, come postulato dall’art. 125 della Costituzione, e rammentando che il tema era tornato attuale dopo che la Corte Costituzionale, a più riprese (93/1965, 49/1968, 55/1966, 30/1967, 33/1968), aveva dichiarato l’incostituzionalità degli organi che gestivano le questioni amministrative periferiche: Consigli comunali e provinciali, Sezioni dei tribunali del contenzioso elettorale, Consigli di Prefettura e Giunta giurisdizionale della Valle d’Aosta. Tali decisioni avevano comportato una lacuna che Lucifredi aveva definito “grave” ed “estesissima” e che solo il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti avevano tentato di colmare. Tale assunzione di competenze da organi non competenti avrebbe comportato profonde incertezze e dubbi, trovando anche il contrasto della Corte di Cassazione. Partendo da questa situazione di fondo, Lucifredi aveva affermato che se da una parte era impossibile per il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti gestire l’enorme mole di contenzioso periferico che gli si presentava, dall’altra non era immaginabile accentrare a Roma tutte le controversie che si sviluppano sui territori regionali e che in tali luoghi avrebbero “ la loro naturale sede di risoluzione ”. Quindi era necessario affrontare la “ dolorosa realtà che oggi vi sono settori di rapporti amministrativi che sono del tutto sprovvisti di quel giudice che pure l’articolo 113 della Costituzione sempre assicura nei confronti di tutti gli atti amministrativi ”. Il relatore aveva aggiunto poi una frase molto efficace: “ Non credo, dunque, di esagerare, definendo drammatica e indegna di un popolo dalle luminose tradizioni giuridiche, di cui tanto spesso vantiamo, la situazione in cui attualmente si trova, in questo campo, il nostro diritto positivo. Noi legislatori ne siamo responsabili, e tanto più lo saremo, quanto più ritarderemo la nuova disciplina giuridica della materia. ” [3] La situazione che, dunque, ha portato ad istituire i Tribunali Amministrativi Regionali era di profonda difficoltà nella gestione del contenzioso originato dalle questioni amministrative, considerando l’assenza di organi ad hoc che affrontassero a livello periferico ed in modo capillare le controversie amministrative. Il rischio di accentrare ulteriormente a Roma, presso il Consiglio di Stato, la gestione della mole di questioni periferiche avrebbe comportato lo stallo della giustizia amministrativa, incidendo sulla qualità della stessa, oltre a concretizzare una violazione dell’art. 125 della Costituzione ormai in atto da oltre un ventennio. L’approvazione della legge istitutiva dei TAR è stata subito ritenuta dal suo relatore un punto di svolta, tanto che nella parte finale relazione dell’8 ottobre 1970 [4] si legge: “ Probabilmente, taluni dei colleghi parlamentari, che non seguono a fondo le discipline delle materie amministrative può darsi che non si rendano conto dell’importanza di questo provvedimento che oggi per nostro merito perviene a conclusione. Dovete tenere presente che con la nostra deliberazione di ieri e di oggi abbiamo inciso profondamente su di un sistema di giustizia amministrativa vigente in Italia dal 1865. Alcuni punti fondamentali sono rimasti intatti, altri, invece, sono stati modificati ed integrati in relazione alla necessità di oggi, sicché senza fare demagogia, si può affermare che si introduce in questo settore una riforma, che taluni aspetti rivoluzionari. Io formulo l’augurio che questa legge, durante la sua applicazione, dia i risultati che noi tutti speriamo. ” A 50 anni dall’entrata in vigore della legge 1034/1971, molte delle parole sopra riportate sembrano ancora attuali, rispecchiando problematiche oggi presenti. Ad ogni modo Lucifredi sicuramente aveva colto la portata rivoluzionaria della legge e l’importanza dell’istituzione dei tribunali amministrativi regionali. Il ruolo dei TAR ai nostri giorni: potenzialità e criticità Lo stato dell’attuale organizzazione della giustizia amministrativa ed il ruolo dei TAR nella società possono essere riassunti tramite i numeri che di anno in anno vengono presentati in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario. [5] Se prendiamo a riferimento quanto esposto dal Presidente del Consiglio di Stato il 2 febbraio 2021 [6] , è possibile notare che i TAR nel 2020 hanno avuto a che fare con circa 42.049 nuovi ricorsi pervenuti, circa 57.351 definiti e 135.451 pendenti. Concentrandosi sui ricorsi pervenuti, può notarsi che, soprattutto a causa della pandemia, il numero di ricorsi nel 2020 è il più basso degli ultimi 5 anni. Un trend che vale anche per quelli definiti e quelli pendenti. Sono dei numeri enormi che dimostrano come il ruolo dei TAR sia effettivamente centrale nella gestione del contenzioso amministrativo e che sarebbe ben difficile immaginare un assetto giurisdizionale senza questi tribunali istituiti nel 1971. È quindi stata corretta l’intuizione che sin dal dopoguerra ha spinto i vari legislatori ad attuare lo spirito dell’art. 125 della Costituzione. A ciò si aggiunge che proprio gli ultimi due anni hanno dimostrato il cambio di passo dell’organizzazione della giustizia amministrativa di TAR e Consiglio di Stato rispetto alle altre branche dell’ordinamento giudiziario, consentendo di proseguire la propria attività decisionale e di udienza da remoto attraverso strumenti tecnologici all’avanguardia ed un rapporto con l’avvocatura specialistica che ha permesso di tracciare le linee guida più corrette per affrontare il difficile momento storico appena trascorso. In tale scenario i TAR, tramite i propri magistrati, sono riusciti a “reggere il colpo” in vista di un periodo che ci si auspica sia migliore. Purtroppo, però, i numeri che abbiamo appena richiamato dimostrano anche una criticità che attanaglia la giustizia amministrativa (così come quella ordinaria): l’arretrato che, seppur in diminuzione, si attesta attualmente in 158.147 pendenze al 31 dicembre 2020 rispetto a 173.997 al 31 dicembre 2019 e 465.681 al 31 dicembre 2011. Sul punto è stato recentemente varato il d.l. n. 80/2021 convertito dalla legge n. 113/2021 che affronta proprio la tematica con riguardo anche alla giustizia amministrativa. In particolare la nuova normativa, oltre ad introdurre una disciplina acceleratoria come l’art. 72 bis c.p.a., [7] prevede di ridurre l’arretrato tramite l’assunzione con contratto a tempo determinato di un contingente di giovani destinato all’ufficio del processo presso (solo) alcuni TAR (Lazio-Roma, Lombardia-Milano, Veneto, Campania-Napoli e Salerno, Sicilia-Palermo e Catania), con il compito di studiare le controversie pendenti antecedenti al 31 dicembre 2019 e coadiuvare il collegio nell’individuare quelle di pronta soluzione e quelle invece da approfondire con ulteriore istruttoria, oltre a svolgere ricerche ed approfondimenti. Tuttavia il testo legislativo è stato criticato sia da parte della magistratura [8] che dell’avvocatura specializzata [9] , che avrebbero invece preferito un potenziamento del numero dei magistrati amministrativi (gli unici che redigono le sentenze e possono materialmente ridurre l’arretrato) ed un maggior coinvolgimento degli avvocati nell’attività di analisi ed individuazione delle pendenze di pronta soluzione. Oltre alla problematica dell’arretrato, è interessante vedere i dati sulla durata dei processi che risultano sempre dalla relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 [10] . Per i giudizi cautelari i tempi medi per avere una risposta dai TAR sono 40 giorni (ridotti rispetto ai 48 del 2019), mentre in materia di appalti 30 giorni (in linea con i precedenti anni); per i giudizi di merito nel rito appalti è di 113 giorni, mentre per gli altri giudizi è di circa 686 giorni [11] . Tempi non certo brevi. Alla luce di tali numeri, è possibile affermare come il ruolo dei TAR sia sempre più centrale nella gestione del contenzioso amministrativo, ma che molto ancora deve essere fatto per potenziare tali tribunali e consentirgli di ridurre le pendenze e dare una risposta più veloce ai cittadini. In tale contesto è utile rilevare come incida profondamente sull’accesso alla giustizia amministrativa anche il valore elevato del contributo unificato nei contenziosi amministrativi, addirittura fino 6.000 euro per ogni ricorso nel il rito appalti in primo grado (quindi 6.000 euro per il ricorso principale ed altri 6.000 euro per ogni ulteriore ricorso per motivi aggiunti), limitando implicitamente ma effettivamente la possibilità di proporre un ricorso e creando discriminazioni tra “chi può permetterselo e chi no”. La "missione" del giudice amministrativo di primo grado I TAR sono il luogo in cui svolgono la loro funzione i giudici amministrativi di primo grado, reperiti tramite concorso e insediati in collegi nelle Sezioni dei tribunali presenti sul territorio italiano. Il giudice amministrativo di primo grado è il primo giudice che entra in contatto con la vicenda controversa e svolge un ruolo fondamentale nell’individuare correttamente il thema decidendum e le questioni di rito immediatamente risolvibili. È scontato dire che gran parte della qualità della risposta della giustizia amministrativa passi proprio dalle decisioni prese nei TAR. Infatti, buone sentenze di primo grado limitano le impugnazioni e consentono, in caso di appello, al giudice di secondo grado di meglio inquadrare la vicenda. In tale contesto non bisogna, inoltre, dimenticare che per gli appelli al Consiglio di Stato vige, salvo le deroghe espresse dall’art. 104 c. 2 c.p.a., il divieto di nova in appello, aumentando l’importanza dell’attività istruttoria svolta davanti al giudice di primo grado. Un ruolo che diviene ulteriormente centrale se si pensa al potere delle ordinanze cautelari che consentono, in caso di accoglimento, una tutela pressoché immediata concessa al ricorrente per evitare peggiori danni. Ciò non dimenticando altresì la risposta ancor più celere che può essere garantita tramite i decreti cautelari presidenziali. Proprio il fatto che siano i TAR a dare la prima risposta ai cittadini in cerca di tutela avverso gli atti dell’autorità pubblica, ha di fatto portato ad identificare, nel bene e nel male, la giustizia amministrativa con questi tribunali istituiti nel 1971. È infatti noto che frequentemente siano i TAR ad essere presi di mira e a venir tacciati di rallentare la realizzazione delle opere pubbliche e di interferire con la ripartenza economica del Paese. Addirittura, una certa parte della rappresentanza politica aveva avanzato, in passato, proposte per ridurre e addirittura azzerare il numero dei TAR e trasferirne le competenze alla giustizia ordinaria. Proposte che, è inutile dirlo, non avrebbero ragione di esistere considerando i numeri dei contenziosi gestiti dai tribunali amministrativi, la specializzazione della materia, nonché il livello tecnologico raggiunto in questa sede rispetto alla giustizia ordinaria che pure soffre (di ben più gravi) problemi di arretrato e gestione delle controversie. Quindi, allo stato, il settore dei giudici amministrativi dei TAR ricopre una posizione di primaria importanza nella gestione delle materie di matrice pubblico-amministrativa, soprattutto all’alba della progettazione PNRR, di cui difficilmente può immaginarsi di farne a meno. Le proposte dell’avvocatura amministrativista per miglioraRE l’assetto attuale Come finora visto, la giustizia amministrativa di primo grado, se da una parte ha assunto nei suoi 50 anni di storia un ruolo sempre più essenziale, dall’altra deve ancora superare diversi ostacoli come l’arretrato, la velocità di definizione dei giudizi e la carenza di organico; si avverte inoltre la necessità di migliorare l’assetto del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Per tentare di risolvere questi problemi ed apportare il contributo necessario a rafforzare l’intera giustizia amministrativa, l’avvocatura specializzata nel settore sta cercando, tramite le proprie associazioni di rappresentanza, di farsi interlocutrice in un confronto con la magistratura, al fine di individuare le proposte che possono essere condivise e ritagliare alla stessa avvocatura un ruolo di collaborazione più stretta, nel rispetto della diversità dei ruoli, con i magistrati amministrativi. E così, diverse sono le proposte che sono state presentate nel corso degli ultimi mesi in occasione della proliferazione di numerosi decreti legge che hanno riguardato in modo importante anche la giustizia amministrativa. Per quanto riguarda la gestione dell’arretrato, ad esempio l’avvocatura ha proposto di creare team di lavoro all’interno dei TAR a cui prendano parte anche gli avvocati, che più di altri possono aiutare i magistrati nell’individuare le questioni da trattare e selezionare gli affari con priorità. [12] Allo stesso modo, è stato proposto di prendere quanto di positivo è stato realizzato a seguito dell’emergenza pandemica al fine di portare a regime alcuni strumenti organizzativi, come l’udienza da remoto (ora prevista per il solo arretrato dall’art. 86 c. 4 bis c.p.a.), i collegamenti a distanza tramite video e le note d’udienza, per semplificare la gestione delle udienze e velocizzare la trattazione delle questioni. [13] Dall’altra parte, per affrontare la carenza di organico, l’avvocatura ha proposto di rivedere il concorso a referendario TAR per ridurre (a 3 o 5) gli anni di accesso allo stesso (attualmente 8 contro i 18 mesi per i magistrati ordinari) per coloro che provengono dall’avvocatura specializzata, che magari hanno svolto periodi di tirocinio presso TAR e Consiglio di Stato, e svolgono la professione nel settore del diritto amministrativo maneggiando quotidianamente, magari più di altre categorie di giuristi, le tematiche oggetto di concorso e di contenzioso avanti ai TAR. [14] In tale ambito, infatti, la semplice assunzione di funzionari e assistenti all’ufficio del processo non sembrerebbe dare quel cambio di passo di cui la giustizia amministrativa avrebbe bisogno. Anche con riguardo all’organizzazione dell’Organo di autogoverno si potrebbe pensare a qualche correttivo che implichi una partecipazione più attiva della classe forense rispetto alla discussione di tematiche di interesse generale, come d'altra parte oggi già avviene nella magistratura ordinaria, tramite la composizione mista dei Consigli giudiziari. Si tratta dunque di tutta una serie di proposte che sono indicative di un possibile percorso di confronto di cui potrebbero beneficiare sia la magistratura amministrativa di primo grado che il mondo dell’avvocatura specializzata. * Avvocata amministrativista, Vice Presidente U.N.A.A. Il tempo delle riforme: l’attuazione dell’unicità di accesso e di carriera nella Giustizia amministrativa. a cura della Redazione* PREMESSA Il termine “riforma” in Italia ricorre non periodicamente, ma costantemente. In tutti i settori. Non è esente il settore della giustizia amministrativa, che sta attendendo da anni l’attuazione dell’ art. 7 della legge 27 aprile 1982, n. 186 , come modificato dall’art. 18 della legge n. 205 del 2000, in cui si prevede un “ generale riordino dell'ordinamento della giustizia amministrativa sulla base della unicità di accesso e di carriera, con esclusione di automatismi collegati all'anzianità di servizio ”. La riforma ordinamentale non è più rinviabile, ormai: è patrimonio comune la consapevolezza della necessità di rivedere un sistema imperfetto (ricostruito con cura e precisione nell’articolo a firma di Gabriella De Michele, già pubblicato su questo sito: https://www.primogrado.com/come-eravamo-e-come-siamo-rimasti-unicita-di-accesso-e-di-carriere-lo-strano-caso-dei-giudici-amministrativi ). La mancata attuazione di questa improcrastinabile riforma è la causa di continui malesseri e conflitti all’interno del plesso della Giustizia amministrativa, recentemente culminati nella vicenda dell’emendamento 17.100 presentato in sede di conversione del decreto legge n. 80 del 2021 (sul Recovery Plan), al malcelato fine di aumentare ancora di più, anche nell’organo di autogoverno, alcuni non più giustificabili privilegi "microcorporativi" di cui godono i Consiglieri di Stato reclutati tramite concorso diretto. (vedi intervento della Redazione sul sito) Certamente tanti possono essere gli spazi della riforma. Solo per fare qualche esempio di riforme necessarie: quella della c.d. giurisdizione domestica, con la disciplina della impugnazione degli atti dell’autogoverno e la modifica strutturale del procedimento disciplinare, la necessità di una maggiore separazione delle funzioni consultive del Consiglio di Stato da quelle giurisdizionali e il rafforzamento delle garanzie di imparzialità e di separazione tra concorso alla formazione di atti normativi o amministrativi e svolgimento delle funzioni giurisdizionali. Tuttavia, oggi, per modificare l’aspetto più disarmonico del sistema “giustizia amministrativa”, è necessario innanzitutto superare la frammentazione presente tra il primo e il secondo grado. L’attuale sistema disegna infatti una netta separazione tra lo svolgimento delle funzioni di appello e quelle di primo grado, relegate in ruoli separati, il che, tra le altre cose, comporta contrapposizioni interne e una ingiustificabile distinzione tra magistrati che svolgono le funzioni in primo e secondo grado, le cui carriere seguono percorsi diversi e fortemente penalizzanti per i primi. Nel sistema attuale il Consiglio di Stato è composto: a) in ragione della metà dai consiglieri di T.A.R. che ne facciano domanda e che abbiano almeno quattro anni di effettivo servizio nella qualifica; b) in ragione di un quarto mediante reclutamento per concorso pubblico per titoli ed esami; c) in ragione di un quarto da professori universitari ordinari di materie giuridiche, da avvocati con particolari requisiti, da dirigenti generali od equiparati o da magistrati ordinari con qualifica non inferiore a quella di Corte d’Appello (c.d. nomina governativa). Tuttavia, i magistrati che scelgono di passare in appello vedono totalmente azzerata l’anzianità di servizio, e possono tornare in primo grado solo se divengono presidente di T.A.R. (l’anzianità di servizio gli è riconosciuta solo a questi fini). Riprendendo le parole di presentazione dell’articolo di Gabriella de Michele * la separazione tra Tar e Consiglio di Stato e questa “forma di passaggio anomala” creano una barriera tra magistrati entrati al CDS per concorso e magistrati transitati dal primo al secondo grado, che costituisce un unicum nel panorama giurisdizionale italiano. Verso il ruolo unico: una proposta di riforma Come detto, il ruolo unico presuppone che venga riconosciuta tutta l’anzianità per i consiglieri di T.A.R. che transitano al Consiglio di Stato e la possibilità, dopo un adeguato numero di anni nello svolgimento delle funzioni di appello, per tutti i Consiglieri di Stato di poter svolgere le funzioni semidirettive o direttive in primo grado. Posto che è dubbia l'utilità, prima ancora che la necessità, di un accesso diretto al Consiglio di Stato per via concorsuale - salvo forse per ciò che concerne le funzioni consultive - sarebbe in ogni caso opportuna la previsione di un sistema transitorio che salvaguardi le posizioni e le aspettative già maturate dai Consiglieri di Stato in ruolo al momento di entrata in vigore della riforma e dei magistrati di primo grado che hanno scelto di non transitare in appello. Si tratta di una proposta semplice, che richiede poche disposizioni normative, attraverso cui modellare la giurisdizione sulla falsariga del sistema della Corte Conti, ma che raggiunge un grande risultato per tutti. Verrebbe finalmente a delinearsi in tal modo un complesso giurisdizionale unitario, che supera le attuali micro divisioni, finalità non solo ancora attuale, ma oggi quanto mai necessaria per portare la giurisdizione amministrativa ad affrontare le sfide del nuovo tempo. Dopo aver assistito al sopra ricordato tentativo di “colpo di mano” a colpi di emendamenti, e alla costituzione di tavoli tecnici che sono poi naufragati, oggi una riflessione può e deve essere fatta sulla strada più idonea per giungere ad una vera svolta. I recenti incontri in sede sindacale si sono arenati alla luce delle eccessive distanze registrate sui vari fronti. Si ritiene difficile in questo contesto - anche se sempre auspicabile - immaginare che sia possibile una riforma proveniente dall’interno che registri il consenso di tutte le componenti e che abbia un ampio respiro, visto e considerato l’orientamento “conservatore” della componente concorsuale dei Consiglieri di Stato. Solo l’intervento del Parlamento può dunque sbloccare una situazione ormai bloccata, a mezzo completamento della riforma nei termini già prefigurati dal legislatore del 2000, ovvero introducendo l’unicità di accesso e di carriera. Si tratta di una riforma che non comporta nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, e che, proprio per la sua urgenza, può e deve essere trattata prioritariamente ed in modo separato rispetto a qualsiasi altro intervento normativo di carattere ordinamentale o di organizzazione della giustizia amministrativa. Solo una assunzione di responsabilità da parte della politica, quale luogo di mediazione e sintesi dei conflitti, può portare ad una razionalizzazione del plesso della Giustizia amministrativa, che oggi, ancora più di ieri, è necessario e non più rinviabile. Questo è l’auspicio e insieme l’invito di chi scrive. * Le riflessioni qui riportate rappresentano il punto di vista dei Magistrati amministrativi che collaborano con il sito [1] Poi convertito nella legge 1034/1970 [2] Cfr. pag. 113 del testo della relazione consultabile al sito istituzionale http://legislature.camera.it/_dati/leg05/lavori/stencomm/01/Leg/Serie010/1970/1007/stenografico.pdf [3] Dopo questo preambolo Lucifredi ha presentato la proposta di legge, spiegando i motivi che hanno portato a sottrarre le competenze tributarie ai TAR e l’introduzione delle materie di giurisdizione esclusiva in cui interessi legittimi e diritti soggettivi si intersecano facendo invero sorgere alcuni dubbi interpretativi. Infine, nella ultima parte della relazione, ha trattato il delicato tema dei giudici da insediare in questi nuovi tribunali amministrativi, proponendo inizialmente che siano i Presidenti di Sezioni del Consiglio di Stato, o i Consiglieri anziani del Consiglio di Stato a presiedere i tribunali amministrativi al fine di completare la saldatura tra vecchio e nuovo ordinamento della giustizia amministrativa. Nel frattempo sarebbero stati attivati i concorsi per individuare i nuovi giudici amministrativi di primo grado. Interessante vedere come già in tale sede si avvertiva il rischio di un massiccio contenzioso avanti al TAR Lazio, proponendo l’istituzione di diverse Sezioni in tale Tribunale Amministrativo, e si proponeva altresì di consentire l’accesso al Consiglio di Stato solo a chi in precedenza era stato al TAR. [4] La discussione del disegno di legge è iniziata il 7 ottobre 1970 e proseguita il giorno successivo come si può vedere dal testo proposto nel sito istituzionale http://legislature.camera.it/_dati/leg05/lavori/stencomm/01/Leg/Serie010/1970/1008/stenografico.pdf [5] https://www.giustizia-amministrativa.it/statistiche [6] https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/4353950/dati+statistici.docx/87697e08-f15a-5db0-4f10-b81392683083?t=1612269489519 [7] In merito ai quali i redattori hanno già scritto, cfr. http://www.unioneamministrativisti.it/wp-content/uploads/2021/07/Osservazioni-su-emendamenti-17.100-17.4-e-17.200-al-d.l.-802021-A.S.-n.-2272.pdf Interessante vedere anche le proposte presentate da parte della magistratura amministrativa https://www.primogrado.com/una-proposta-di-riforma-per-lefficienza-e-la-celerita-del-processo-amministrativo-introduzione-del-nuovo-art-65-bis-nel-codice V. sul punto anche https://www.primogrado.com/giustizia-amministrativa-e-ragionevole-arretrato [8] V. intervento del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativisti http://www.guidaaldirittodigital.ilsole24ore.com/art/primo-piano/2021-07-10/la-giustizia-amministrativa-pnrr-inserita-corsa-senza-obiettivi-mirati--092803.php?uuid=AE4hxiR V. intervento della redazione di Primo Grado https://www.primogrado.com/giustizia-amministrativa-e-ragionevole-arretrato [9] V. proposte dell’Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti http://www.unioneamministrativisti.it/wp-content/uploads/2021/07/AAL-D.l.-n.-802021-proposte.pdf [10] V. nota 6. [11] Questo ultimo dato è riportato dallo studio di UNICATT relativamente all’anno 2019 https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Giustizia%20amministrativa_11%20luglio%20.pdf . [12] V. nota 7 [13] V. quanto già scritto dai redattori http://www.avvocatiamministrativistiliguri.it/wp-content/uploads/2021/04/Processo-amministrativo-da-remoto-...-.pdf [14] V. nota 7
30 ago, 2021
Sentenza del Gup del Tribunale di Patti del 28 marzo 2018/ sentenza della Corte di Appello di Messina del 24 giugno 2019/ Cassazione penale sez. V, 17/02/2021 (dep. 14/04/2021), n. 13993 L’ITER GIUDIZIARIO E LA SOLUZIONE DELLA CASSAZIONE Un soggetto imputato di diffamazione per avere pubblicato post denigratori su Facebook ai danni del vice Sindaco di un Comune siciliano, viene in primo grado assolto, da un lato per insussistenza del fatto, in relazione ad alcuni capi di accusa (per la continenza delle espressioni utilizzate) e dall’altro per non avere commesso il fatto, sul rilievo della mancata prova della riferibilità dell'indirizzo IP all'imputato. La Corte di Appello di Messina riforma la sentenza del Gup, condannando l’imputato a quattro mesi di detenzione. I giudici di legittimità, investiti dall’interessato sulla correttezza di quest’ultima pronuncia, annullano la sentenza di appello, limitatamente al trattamento sanzionatorio. In particolare, la Corte di Cassazione ha argomentato che l'irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se questo non è stato commesso nell'ambito dell'attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Invero, ponendosi nell’ottica di un’interpretazione convenzionalmente conforme, la Cassazione ha evidenziato che l'effetto dissuasivo ( chilling effect ) è stato ravvisato dalla Corte EDU anche al di fuori dell'ambito dell'attività giornalistica, con riferimento, ad esempio, all'esercizio del diritto di critica degli avvocati nei confronti dell'attività di un magistrato. Sotto il profilo costituzionale, inoltre, è stato rilevato che escludere la pena detentiva – fatta eccezione per i c.d. discorsi d'odio - alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell'esercizio dell'attività giornalistica, rischierebbe, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3 Cost., comma 1) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, nei confronti di coloro che commettano il fatto non nell'esercizio dell'attività giornalistica), e, dall'altro, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 2), con la previsione di un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva minore offensività, rispetto a quelli commessi nell'esercizio dell'attività giornalistica. Ne deriva che i Giudici di legittimità hanno ritenuto sproporzionata la pena irrogata, in quanto pena detentiva e non pena pecuniaria. DIFFAMAZIONE, PUBBLICITA’ E STAMPA La decisione finale della Corte di Cassazione di cui in commento estende di fatto alla diffamazione con “ qualsiasi mezzo di pubblicità ” il meccanismo di “depotenziamento” della pena oggi operante nel caso di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica. Con un successivo importante e recente arresto, la Corte costituzionale (sentenza n. 150 del 12 luglio 2021 ), esaminando le questioni sollevate dal Tribunale di Salerno sull' art. 13 della legge n. 47 del 1948 (Disposizioni sulla stampa), in riferimento agli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 10 CEDU, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo. La disposizione censurata prevedeva una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione , integrata nel caso in cui la condotta fosse commessa col mezzo della stampa e consistesse nell'attribuzione di un fatto determinato. Essa costituiva lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall' art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma , che prevedono cornici sanzionatorie autonome e più gravi rispetto a quelle stabilite dal primo comma, rispettivamente nel caso in cui l'offesa all'altrui reputazione consista nell'attribuzione di un fatto determinato e in quello in cui l'offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. La pena prevista dall'art. 13 della legge n. 47 del 1948 era quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. Le due pene - detentiva e pecuniaria - erano dunque previste in via cumulativa, di modo che l'indefettibilità dell'applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistessero - o non potessero essere considerate almeno equivalenti - circostanze attenuanti, ha reso la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall'art. 21 Cost., quanto dall'art. 10 CEDU. Una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva, secondo la Corte, era divenuta ormai incompatibile con l'esigenza di “ non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall'esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull'operato dei pubblici poteri ” (cfr. ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020 ). Rispetto a tale esigenza ha molto insistito anche la Corte EDU nella propria copiosa giurisprudenza, in quanto la necessaria inflizione della sanzione detentiva, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste - che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non -, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita «pietra angolare dell'ordine democratico». Ad ogni modo, la pronuncia della Corte costituzionale non ha creato alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, in quanto lo stesso continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si è dunque riespanso. Invero, tale fattispecie incriminatrice prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa non inferiore a 516 euro, e dunque in questo caso la pena detentiva è prevista soltanto in via alternativa. Al riguardo, secondo la Corte costituzionale, se è vero che la libertà di espressione - in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti - costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è meno vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, di modo che aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l'art. 595, terzo comma, cod. pen. - la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via -, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall'ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare. Tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica. Si deve infatti ritenere che l'inflizione di una pena detentiva in caso di diffamazione compiuta a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità non sia di per sé incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità . La Corte di Strasburgo, come visto, ritiene integrate simili ipotesi eccezionali in particolare con riferimento ai discorsi d'odio e all'istigazione alla violenza, che possono nel caso concreto connotare anche contenuti di carattere diffamatorio; ma casi egualmente eccezionali, tali da giustificare l'inflizione di sanzioni detentive, potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media , caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della - oggettiva e dimostrabile - falsità degli addebiti stessi. Chi ponga in essere simili condotte - eserciti o meno la professione giornalistica - certo non svolge la funzione di "cane da guardia" della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità "scomode"; ma, all'opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l'avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, dunque, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell'esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica (1) . Dovendo in conclusione la disposizione di cui all'art. 595, terzo comma, cod. pen. essere interpretata in maniera conforme all’interpretazione evolutiva offerta dalla Corte costituzionale, il potere discrezionale attribuito al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve essere esercitato sia tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell'art. 133 cod. pen., sia del principio secondo cui la diffamazione può essere punita con pena detentiva soltanto qualora la stessa si caratterizzi per la sua eccezionale gravità. D'altra parte, e sul piano processuale, l'esercizio dell'attività di giornalista continua a costituire una barriera importante anche nei confronti delle indagini volte all'acquisizione di prove di reità da parte della magistratura requirente. La tutela rafforzata della libertà di stampa implica infatti il rispetto della segretezza delle fonti non ufficiali o anonime utilizzate dal giornalista. S e informatori e fonti non ufficiali che si rivolgono al cronista, fornendo notizie e documenti, non fossero protetti dalla segretezza e dall’obbligo, anche deontologico, del giornalista di non svelare l’identità delle stesse fonti, gli stessi non comunicherebbero notizie di interesse generale, con la conseguenza che l’intera collettività sarebbe privata di informazioni necessarie all’esercizio, non solo del diritto di ricevere informazioni, ma anche di altri diritti essenziali per la democrazia. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha di conseguenza sottolineato che la protezione delle fonti è la chiave di volta della libertà di stampa perché, senza un’adeguata ed effettiva tutela, sarebbe compromesso il ruolo di “cane da guardia” della società che è proprio dei giornalisti liberi. In altri termini, i giornalisti hanno il diritto di ricercare informazioni e di non svelare le fonti, e a questo diritto corrisponde un obbligo internazionale degli Stati volto a garantire la tutela della segretezza delle fonti . Tale protezione ad ampio raggio riguarda anche le informazioni indirette e il materiale in possesso dei giornalisti, con la conseguenza che le autorità inquirenti non solo non possono chiedere al giornalista il nome della fonte, ma non possono neanche cercare di assumere indirettamente, con sequestro di materiale o intercettazioni, notizie per identificare le fonti. Se è pur vero che talune limitazioni possono essere ammesse per prevenire reati, ciò non può avvenire sacrificando la libertà di stampa. Il bilanciamento dei valori in gioco, infatti, non può portare a compromettere una libertà fondamentale per la democrazia. D’altra parte, per la Corte EDU, la protezione delle fonti non è un privilegio da concedere o rimuovere a seconda che si tratti di fonti lecite o illecite, ma è un diritto da trattare con “la massima cautela”. Poco importa, poi, se le autorità nazionali che eseguono i provvedimenti giudiziari per la ricerca delle fonti non giungano poi a individuare la fonte, in quanto la sola adozione di un provvedimento che mina la segretezza delle fonti, costituisce di per sé una violazione della libertà di stampa.
28 ago, 2021
Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 18 marzo 2021 (ricorso n. 24340/07) IL CASO E LA SOLUZIONE Un soggetto che aveva denunciato dinanzi alla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere l'autore di articoli ritenuti diffamatori nei suoi confronti, ricorre alla Corte europea dei diritti dell'uomo per ottenere la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno che gli sarebbe stato procurato dall'eccessiva durata delle indagini preliminari svolte nell'ambito del procedimento penale interno avviato per diffamazione. In sostanza, il ricorrente ha dedotto che erano trascorsi circa sei anni tra la sua denuncia e la successiva archiviazione della notizia di reato per intervenuta prescrizione. La Corte ha premesso che secondo la legge Pinto la durata del processo penale nazionale dovrebbe essere calcolata a partire dal momento in cui la persona offesa è ammessa al processo in qualità di parte civile , ma che, secondo una corretta interpretazione della Convenzione, l'art. 6 paragrafo 1 della stessa si applica anche alla parte lesa che non si è costituita parte civile, qualora, anche anteriormente al momento in cui tale costituzione può avvenire (udienza preliminare, nel caso di specie), la vittima del reato possa esercitare diritti e facoltà espressamente riconosciutile dalla legge, così come avviene nel nostro procedimento penale. Nel caso di specie, il ricorrente era titolare del diritto alla protezione della sua reputazione, e in denuncia aveva dichiarato di volersi costituire parte civile e richiesto di essere avvisato nel caso di eventuale archiviazione della notizia di reato: l'esercizio delle facoltà a lui concesse dal codice di procedura penale rendeva dunque applicabile anche al suo caso l'art. 6 sopra citato. La Corte ha affrontato poi l'altra questione preliminare del mancato esaurimento delle vie di ricorso interne , concludendo anche in questo caso per la ricevibilità del ricorso. In particolare, ha escluso che configuri, nel suo insieme, una vera e propria via di ricorso interna il fatto che gli articoli 405 e 406 c.p.p. prevedano dei termini per l’esecuzione degli atti di indagine, e che il ricorrente avrebbe potuto, una volta scaduti tali termini, e vista l’inerzia della Procura, sollecitare la Procura stessa e poi chiedere, sulla base degli articoli 412 e 413 c.p.p., al Procuratore generale presso la Corte d’appello di procedere all’avocazione delle indagini. I Giudici europei hanno infatti qualificato tale percorso giuridico alla stregua di un “ricorso gerarchico”, che, in quanto tale, non conferisce al suo autore un diritto personale di ottenere che lo Stato eserciti i suoi poteri di sorveglianza. D’altra parte, i Giudici europei hanno rilevato come lo stesso CSM riconosca apertamente che è impossibile per le Procure generali riuscire ad avocare tutte le indagini preliminari per le quali i termini sono già scaduti. Nel merito, la Corte ha dichiarato: - l’irragionevolezza del tempo occorso per definire il procedimento penale (circa cinque anni e sei mesi per la sola fase delle indagini preliminari), in quanto, tenendo conto dei criteri della complessità della causa, del comportamento del ricorrente e di quello delle autorità competenti, nonché della posta in gioco della controversia per l’interessato, era emerso che nel caso di specie non fosse stata svolta alcuna attività di indagine, e che la causa non era particolarmente complessa; - la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione anche a causa del mancato accesso a un tribunale, dal momento che la decisione di archiviare la causa per intervenuta prescrizione dell’azione penale era stata dovuta all’inerzia della Procura, e avrebbe impedito al ricorrente di costituirsi parte civile e di ottenere la protezione dei suoi diritti di carattere civile, tramite l’esame della sua domanda di risarcimento. POSSIBILITA’ DI ACCESSO A UN TRIBUNALE CIVILE DOPO LA PRESCRIZIONE DELL’AZIONE PENALE Secondo la CEDU, ogni persona ha diritto a che un tribunale esamini le controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile. In tal modo l’articolo 6 § 1 sancisce il «diritto a un tribunale», del quale il diritto di accesso, vale a dire il diritto di adire un tribunale in materia civile, costituisce soltanto un aspetto. Tuttavia, questo diritto non è assoluto, e si presta a limitazioni implicitamente ammesse, in quanto richiede, per sua stessa natura, una regolamentazione da parte dello Stato contraente, il quale gode in materia di un certo margine di apprezzamento. I Giudici europei devono a quel punto verificare che le limitazioni attuate non restringano l’accesso offerto all’individuo in un modo o a un punto tale da compromettere il diritto in questione nella sua stessa sostanza, e che le stesse tendano a uno scopo legittimo, all’interno di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. Si può così dire che il diritto di accesso a un tribunale è violato quando la sua regolamentazione smette di perseguire gli scopi della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia e costituisce una sorta di barriera che impedisce alla persona sottoposta alla giustizia di ottenere che la sua causa sia esaminata nel merito dalla giurisdizione competente, come nel caso, ad esempio, di un errore procedurale che impedisce al ricorrente il suo diritto di azione (facendolo incorrere in una sanzione di inammissibilità), e di cui quest’ultimo non è oggettivamente responsabile. Parimenti, nel caso di assenza di un esame sul merito di costituzioni di parte civile, a causa dell’irricevibilità delle denunce penali alle quali tali costituzioni sono allegate, è molto importante che sussista, ai fini del rispetto dell’art. 6 CEDU, l’accessibilità e l’effettività delle altre vie giudiziarie offerte dall'ordinamento agli interessati per far valere le loro pretese, soprattutto con riguardo alle azioni disponibili dinanzi alle giurisdizioni civili. In particolare, la Corte ha ritenuto la violazione dell’articolo 6 della Convenzione quando la chiusura del procedimento penale e il mancato esame dell’azione civile erano stati dovuti a circostanze attribuibili principalmente alle autorità giudiziarie procedenti, e in special modo nell’ipotesi di ritardi procedurali eccessivi comportanti la prescrizione del reato . Ed è proprio questo il caso della sentenza di cui in commento, in quanto, da un lato, il ricorrente si era avvalso dei diritti e delle facoltà che erano nella sua disponibilità in base al diritto interno, e che gli avrebbero permesso, al momento dell’udienza preliminare, di chiedere la riparazione del pregiudizio civile di cui sosteneva di essere stato vittima, e, dall’altro, è soltanto a causa del ritardo con il quale le autorità procedenti hanno trattato il fascicolo, e della prescrizione del reato denunciata, che il ricorrente non ha potuto presentare la propria domanda di risarcimento dei danni e che, di conseguenza, non ha potuto ottenere una decisione sulla sua domanda nell’ambito del procedimento penale. Questo comportamento negligente delle autorità ha prodotto, secondo la Corte, la conseguenza di privare il ricorrente dell’esame delle sue richieste di carattere civile nell’ambito del procedimento che aveva scelto di esperire e che era a sua disposizione nell’ordinamento giuridico interno. Secondo i Giudici europei, d’altra parte, non si può esigere che una persona che ricorra a rimedi di giustizia intenti un’analoga azione di responsabilità civile dinanzi al giudice civile, dopo la constatazione della prescrizione dell’azione penale dovuta ad errore del giudice penale stesso. Intentare una tale azione implicherebbe probabilmente, sempre secondo la Corte, la necessità di raccogliere nuovamente delle prove, che il ricorrente avrebbe a questo punto l’onere di produrre, così che l’accertamento dell’eventuale responsabilità civile potrebbe risultare estremamente difficile, dopo così tanto tempo. In chiave critica rispetto alla decisione commentata, si può osservare che l’articolo 6§ 1 della Convenzione non garantisce esplicitamente il diritto di accesso a un tribunale, e che l’enunciazione di tale diritto di promuovere un procedimento dinanzi ai tribunali in materia civile (e soltanto in materia civile) deriva dall’interpretazione di tale norma così come offerta dalla Corte. La pronuncia oggetto di analisi sembra anche dare per scontato - come se si trattasse di una giurisprudenza consolidata – che l’accesso a un tribunale è una questione distinta da quella afferente alla durata del procedimento, e che dunque siano possibili simultanee constatazioni di violazione. Ma questa interpretazione, alla luce di un esame complessivo della giurisprudenza formatasi in materia, non è totalmente convincente. In egual modo, qualora sussistano due vie procedurali entrambe esperibili ed effettive (come nel caso dell’azione penale e dell’azione civile per lo stesso fatto), la Corte, nel determinare se sussista una questione ai sensi dell’articolo 6, dovrebbe tenere conto di tutti procedimenti azionabili dal ricorrente, e non valutare, in ordine al diritto di accesso, se i provvedimenti adottati nel corso del procedimento scelto abbiano complessivamente indebolito la posizione del ricorrente, anche in ordine al distinto procedimento che non è stato prescelto, ma soltanto valutare, ex ante , se, al momento della scelta di una certa linea di azione, l’altra fosse accessibile ed effettiva. In altre parole, è operazione di dubbia correttezza introdurre nel criterio delle “due vie”, elaborato dalla Corte al fine di valutare la disponibilità ex ante di una alternativa via di accesso a un tribunale, alcuni criteri di valutazione ex post che possono essere adatti all’ambito dell’equità procedurale (in cui è necessario un approccio globale) ma che non paiono applicabili all’accesso a un tribunale. Ulteriore perplessità suscita equiparare, al fine di valutare se vi sia stata violazione del diritto alla ragionevole durata dei procedimenti, la presentazione di una denuncia ai pubblici ministeri (o alla polizia) a una domanda di costituzione di parte civile. Nel caso esaminato dalla Corte non esisteva, in effetti, una reale domanda civile, poiché l’ordinamento nazionale permette di presentare una simile azione soltanto in una fase che nella fattispecie non era stata raggiunta, a causa dell’intervenuta archiviazione del procedimento. L’assenza di un’autentica domanda civile rende problematica l’equiparazione tra tale domanda e la denuncia penale innanzitutto perché, come visto, il diritto di accesso a un tribunale concerne soltanto i diritti di carattere civile, che non si può ragionevolmente ritenere che siano stati esercitati dinanzi al pubblico ministero e/o alla polizia, a cui è presentata una denuncia; in secondo luogo, poi, il diritto di accesso a un tribunale non può essere dissociato dalla possibilità per la vittima di un reato di instaurare un procedimento civile anche dopo la prescrizione del reato, così come riconosciuto dal nostro diritto nazionale, con la conseguenza che l’archiviazione non dovrebbe di per sé comportare, neanche ai sensi della CEDU, un diniego di accesso a un tribunale (civile). D'altra parte, affermare che la presentazione di una denuncia di un asserito reato alla polizia o ai pubblici ministeri equivalga all’instaurazione di un’azione civile ai fini del diritto di accesso a un tribunale di cui all’articolo 6 § 1 della Convenzione avrebbe conseguenze particolarmente paradossali per i Paesi in cui la legislazione nazionale lascia l’esercizio dell’azione penale alla discrezionalità del pubblico ministero e nessun tribunale è coinvolto in tale valutazione, neanche potenzialmente.
Autore: di Roberto Lombardi 22 ago, 2021
Tendenze ordinamentali dopo la tempesta perfetta. Sarebbe stato bello dire che ne siamo finalmente usciti. Ma purtroppo non è così. Diciotto mesi dal fatidico febbraio 2020. Siamo passati dalla sottovalutazione al lockdown , dalla convivenza con il virus alla vaccinazione di massa, dalla variante Alfa alla variante Delta. Tra elezioni rinviate, smartworking , DAD e DPCM il nostro destino, o almeno quelle che erano le nostre aspettative, ci è sfuggito sostanzialmente di mano. E anche se non è ancora il tempo di fare bilanci - qualcuno vorrebbe che non venisse mai, questo tempo - qualche conseguenza visibile e strutturale dello tzunami che ci ha investito c'è. Il giurista deve necessariamente occuparsi della nuova impalcatura normativa del sistema, ma mai come in questo caso osservare il diritto che cambia – per lo più a colpi di decreti-legge - significa spiare dal buco della serratura una società che non è già più la stessa. E individuare errori ed omissioni, o vere e proprie falle del sistema, non è altro che sottolineare la differenza tra quello che si è fatto e che avrebbe dovuto - e che ancora può - essere fatto. Come in un gigantesco gioco dell'oca, si avvicina settembre e si torna a parlare di scuola . Stavolta il problema non sono più il tracciamento, l'inutile app Immuni o i banchi a distanza, ma il green pass . (1) Nelle disposizioni urgenti per l’anno scolastico 2021/2022 stabilite dal d.l. 6 agosto 2021, n. 111 , “per consentire lo svolgimento in presenza” dei servizi e delle attività scolastiche, e “per prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2”, oltre ad essere stata confermata la misura dell’uso obbligatorio delle mascherine per i bambini sopra i sei anni (misura già ritenuta illegittima, nella sua assolutezza, dal Giudice amministrativo: vedi https://www.primogrado.com/uso-prolungato-della-mascherina-obbligatoria-a-scuola-e-salute-psico-fisica-dei-minori ), è stato previsto per tutto il personale scolastico l’obbligo di possesso e di esibizione della certificazione verde COVID-19 di cui all'articolo 9, comma 2 del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52. Con due piccoli risvolti di cui tenere conto: il mancato rispetto di tale obbligo è considerato assenza ingiustificata, a cui consegue la sospensione del rapporto di lavoro a decorrere dal quinto giorno di assenza, e il controllo del rispetto delle prescrizioni imposte è stato posto a carico dei dirigenti scolastici e dei responsabili dei servizi educativi. La notte del 13 agosto successivo è stato firmato un “protocollo di sicurezza delle scuole” tra Ministero dell’Istruzione e sindacati più rappresentativi, con riconosciuta possibilità di tampone gratis per i docenti non ancora vaccinati. L’ Associazione nazionale presidi non ha peraltro firmato il protocollo, a suo dire per non favorire una logica di sostituzione della vaccinazione con il tampone. Detto in altri termini, dal momento che il Governo non ha imposto l’obbligo della vaccinazione agli insegnanti ma soltanto l’obbligo del possesso del green pas s, che può essere conseguito anche – e seppure con efficacia limitata alle 48 ore - mediante effettuazione di tampone che risulti negativo, i dirigenti scolastici si oppongono alla gratuità del tampone per i docenti che hanno volontariamente scelto di non vaccinarsi. In realtà, non è stata digerita la previsione che costringe i dirigenti scolastici al controllo del green pass , allo stesso modo in cui i titolari dei ristoranti avrebbero preferito non caricarsi sulle spalle anche l'onere della verifica dei documenti del titolare del green pass , verifica che una curiosa circolare del Ministero dell'Interno (datata 10 agosto 2021) ha qualificato come "facoltativa". Ma non era più semplice ed efficace stabilire l’obbligo di vaccinazione per tutti? (2) C’è poi il problema delle sanzioni e dei controlli. Il docente che non presenta il green pass viene sanzionato amministrativamente (per un importo tra i 400 e i 1.000 euro) e viene sospeso dal servizio, senza stipendio, dopo cinque giorni. Soltanto da quel momento in poi può essere nominato un supplente (così “suggerisce” la nota tecnica del Ministero dell’Istruzione del 13 agosto 2021). E i controlli? Li fanno i dirigenti scolastici, che in caso di omissione sono soggetti anch’essi alla sanzione amministrativa pecuniaria di cui sopra. Ma chi controlla chi non controlla? Il Ministero manderà ispezioni a campione? E, nelle more, come si dovrebbe contenere la diffusione del virus? In compenso, nel protocollo di sicurezza delle scuole è stato messo nero su bianco che per “garantire un buon ricambio dell’aria” negli ambienti scolastici “ è opportuno mantenere, per quanto possibile, un costante e continuo ingresso di aria esterna outdoor ”. Quindi, laddove non ci siano condizionatori di aria efficienti e idonei (cioè nella maggior parte dei locali scolastici italiani), le finestre in aula dovranno restare aperte anche d’inverno. Per dirla con il professor Bassetti, “ misure non degne di un Paese evoluto ”. Chissà come e quando arriveranno e si spenderanno i soldi in dote per il potenziamento delle infrastrutture scolastiche di cui alla Missione 4 del PNRR (istruzione e ricerca). Nel frattempo, si è capito che il green pass non è la panacea di tutti i mali. A parte il fatto che con la capacità di contagio della variante Delta vi sarebbe la necessità di una vaccinazione dell’intera popolazione, o quasi, per ridurre drasticamente e definitivamente il rischio di contagio, si era pensato, inizialmente, che il possesso del green pass avrebbe consentito la ripresa di una vita quasi “normale” da parte dei rispettivi possessori, quanto meno nello spazio Schengen . Ma la verità è che tutta una serie di regole e restrizioni “soffocano” la libera circolazione all’estero anche dei soggetti vaccinati, e a volte persino nello stesso territorio nazionale. Restrizioni che cominciano ad avere il sapore della definitività. Il Ministero della Salute ha stilato alcune liste dove sono ricompresi i Paesi in cui si può andare e quelli in cui non si può liberamente andare. Ma le liste sembrano bloccate e ancorate a criteri politici più che a verifiche a cadenza settimanale e mensile del rischio epidemiologico. Fanno in particolare sorridere (ma è un sorriso amaro) l' elenco E , denominato “resto del mondo” (una sorta di bad company del contagio) e l' elenco B , comprensivo degli Stati e dei territori a basso rischio epidemiologico. Tanto per cominciare, nell'elenco B non vi è al momento alcun Paese. Possibile? Scopriamo poi, che in Paesi a rischio epidemiologico quanto meno pari al nostro semplicemente non ci si può recare per turismo, mentre i residenti in quei Paesi possono tranquillamente venire da noi. Perché? Qual è la differenza in termini di diffusione del contagio? E poi: se sono vaccinato e il mio vaccino è ritenuto congruo a salvaguardare la mia salute e (in parte) quella degli altri, perché non posso espatriare dove voglio e poi tornare a casa sottoponendomi a tutte le restrizioni del caso? Mistero della geopolitica. Intanto, gli Stati Uniti hanno di fatto e da lungo tempo chiuso i loro confini, per i viaggiatori che, nei 14 giorni precedenti all’arrivo, siano stati in un Paese dell’Area Schengen (inclusa l’Italia), mentre noi li abbiamo inseriti nell’ elenco D , ovvero tra i Paesi verso i quali sono consentiti gli spostamenti senza necessità di motivazione, e addirittura non applichiamo ai cittadini statunitensi che giungono in Italia e che sono in possesso di idonea certificazione vaccinale neanche l’isolamento fiduciario (così dispone l’ordinanza del 18 giugno 2021 del Ministero della Salute). Il Ministero degli Esteri è a conoscenza di una così clamorosa disparità di trattamento? In Italia, invece, teoricamente si può fare qualsiasi cosa con il green pass . Salvo poi scoprire che per andare a visitare i propri cari ricoverati in strutture residenziali per anziani o in struttura riabilitative il green pass, da solo, non serve a nulla. Permane infatti una discrezionalità fortissima da parte dei direttori sanitari delle singole strutture di limitare drasticamente nel tempo le visite e di sottoporre la possibilità di accesso al possesso contemporaneo di due attestati: quello di avvenuto completamento della vaccinazione e quello di avere eseguito nelle precedenti 48 ore un tampone con esito negativo. Si arriva così al paradosso di avere sullo smartphone un doppio green pass per stare venti minuti accanto al padre o al fratello ricoverato, e anch’egli vaccinato. Il tutto con la mascherina, ovviamente. Resta inoltre il dubbio, sempre più fondato su evidenze scientifiche, che sopra una certa età la vaccinazione non sia un automatico salvacondotto , e che tutte le a volte grottesche regole superate con l’avvento dei vaccini dovrebbero comunque essere conservate come regole di prudenza e buon senso nell’approccio con i propri cari più anziani. E si fa di nuovo avanti l’amara sensazione di avere protetto le persone a rischio isolandole e alienandole. I più fragili tra di loro non ce l’hanno fatta e si sono ammalati di solitudine e paranoia, prima ancora che di covid. Nel frattempo, il sistema sanitario nazionale continua ad avere enormi squilibri tra nord e sud, tra aree depresse e aree più densamente popolate, a cui non è stato per il momento posto alcun rimedio, ed ammalarsi di altro (tumore e malattie cardiovascolari, in particolar modo) è oggi diventato più facile – per il ritardo negli screening – e più mortale – per il ritardo nelle cure. Ma di questo la politica si occupa poco o niente. E’ molto più importante riformare la macchina burocratica, la giustizia e gli appalti pubblici. Si dice che, se il sistema non funzione alla base, non può poi produrre i risultati desiderati. Giusto. Vediamo allora come si è tradotto finora in norme il progetto di rilancio e semplificazione. Il Ministro Brunetta ha immediatamente inciso sulle modalità con cui si operano le assunzioni pubbliche . Fallito il progetto connesso a quota 100 – ricambio alla pari tra nuove uscite e nuove entrate nel settore pubblico – lo Stato ha ricominciato a fare concorsi. Con una novità sostanziale, però, secondo quanto disposto dall’art. 10, comma 1 del d.l. n. 44 del 2021 . Una sola prova scritta e deregulation digitale . Se da un lato si riduce l’arbitrio insito in un certo tipo di selezioni, dall’altro si fanno infornate di impiegati pubblici con metodi che si potrebbero definire “casuali”, sulla sola base di quiz predisposti da società esterne (la rilevante mole di domande non consente altra modalità, se si vogliono ridurre davvero i tempi di assunzione), e con l’elaborazione di quesiti che hanno ben poca capacità selettiva di tipo culturale e tecnico. Una volta superata poi la prova scritta, invece di rafforzare il ruolo di selezione della prova orale (che resterebbe a questo punto l’unico test realmente qualificante) la si è indebolita ulteriormente prevedendo, seppure facoltativamente, lo svolgimento in videoconferenza di tale prova. Con buona pace della già poco rispettata disciplina generale di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, rispetto alla quale si prevede una possibilità di “deroga” svincolata da limiti e condizioni specifici. Spiccano in questo contesto - seppure, si spera, costitutive di ius singulare - le bizzarre norme con cui si è ritenuto di effettuare, in epoca covid, l’ esame di abilitazione per la professione di avvocato e il concorso per l’accesso in magistratura ordinaria . (3) Con riferimento a quest’ultima selezione, da considerarsi certamente nevralgica e prioritaria rispetto al corretto uso del “potere” giudiziario da parte di soggetti altamente qualificati ed equilibrati, la soluzione è stata quella di dimezzare le ore a disposizione per realizzare un elaborato “decente” per ognuna delle due prove (sulle canoniche tre) sorteggiate. Invece di costringere i partecipanti al concorso a presentare il green pass (vaccinazione o tampone con esito negativo) – tra l’altro in un mese, lo scorso luglio, in cui il contagio era ai minimi termini - è stata frammentata la partecipazione fisica al concorso in varie sedi e limitato il tempo in presenza per svolgere il tema. Con inevitabili conseguenze sulla qualità e sulla quantità degli elaborati consegnati, e senza alcuna garanzia che il tempo “ridotto” possa avere realmente limitato il rischio di un eventuale contagio. E questo, dopo tre anni dall’ultimo bando di concorso. Ma, sotto altro profilo, l’efficienza del sistema legalità e giustizia è “stimolata”, per così dire, dalle norme che, sul fronte degli appalti pubblici , hanno ridotto ulteriormente la necessità di selezioni comparative “serie” per tutta una serie di contratti di rilevante importo (così il d.l. 31 maggio 2021 n. 77 ) e che, sul fronte della repressione degli abusi penalmente rilevanti , hanno di fatto abrogato l’abuso di ufficio (4) e messo a repentaglio in modo inquietante la già ridotta capacità del processo penale interno di offrire giustizia vera. (5) Il tutto in nome di un malinteso complesso di inferiorità verso l’Europa, che ci spinge velocemente e superficialmente verso riforme inevitabilmente poco meditate, ma “sacrosante” perché inscindibilmente legate alla lotteria miliardaria del PNRR. Resistono però a questo fiorire di innovazioni legislative e ordinamentali, e nonostante il mondo sia nel frattempo cambiato, alcune bandierine politiche piantate all’inizio della corrente legislatura, quali il reddito di cittadinanza e il nuovo esercito di precari pubblici denominati “ navigator ”, a cui si affiancherà adesso anche il personale assunto, sempre a tempo determinato, per il potenziamento degli uffici del processo. Da misura che doveva essere anche "propulsiva" dell’occupazione – unico bilanciamento vero ad una struttura per altri versi essenzialmente assistenziale (e spesso etichettata dai detrattori come “parassitaria”) – il reddito di cittadinanza si è trasformato in una robusta rete di protezione durante la pandemia e, progressivamente, sempre più, in un sussidio di Stato a fondo perduto, rispetto al quale una larga parte dei beneficiari ha inteso di potersi appoggiare sine die anche in sostituzione di un’occupazione, o, meglio ancora, in aggiunta, rispetto a quella già svolta “in nero”. Congiuntamente a tale misura, e proprio nell’ottica di non sbilanciarla eccessivamente verso un assetto meramente assistenziale e paternalistico, l’art. 12, comma 3 del d.l. n. 28 gennaio 2019, n. 4 - Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni – aveva autorizzato una spesa milionaria in favore di ANPAL Servizi S.p.A., “per consentire la selezione, mediante procedura selettiva pubblica, delle professionalità necessarie ad organizzare l'avvio del Rdc, la stipulazione di contratti, nelle forme del conferimento di incarichi di collaborazione, con i soggetti selezionati, la formazione e l'equipaggiamento dei medesimi, nonché la gestione amministrativa e il coordinamento delle loro attività, al fine di svolgere le azioni di assistenza tecnica alle regioni e alle province autonome” a livello centrale e presso le sedi territoriali delle regioni, “ al fine di garantire l'avvio e il funzionamento del Rdc nelle fasi iniziali del programma ”. Sintetizzando, lo Stato aveva autorizzato Anpal Servizi S.p.A.– che è un ente strumentale del Ministero del Lavoro, in precedenza denominato Italia Lavoro S.p.A. – ad assumere in sua vece collaboratori precari (i famosi “ navigator ”) per garantire l'avvio e il funzionamento del reddito di cittadinanza, attribuendo così a tale società per azioni di natura pubblica un ruolo significativo nell’attuazione del Piano straordinario di potenziamento dei centri per l'impiego e delle politiche attive del lavoro approvato in sede di Conferenza Stato Regioni in data 16 aprile 2019, dopo che per decenni la stessa società si era occupata della prestazione di servizi finalizzati alla promozione dell’occupazione – e specialmente dei lavori socialmente utili come strumento di politica attiva del lavoro – sull’intero territorio nazionale, con particolare riguardo alle situazioni più svantaggiate. Non è importante stabilire quanto i navigator abbiano effettivamente contributo a rendere effettivo il programma di occupazione connesso al reddito di cittadinanza (misura che per ammissione anche di alcuni esponenti politici locali sembra avere determinato, dopo il covid, una contrazione della domanda di lavori a basso salario), è importante invece sottolineare che questi nuovi precari pubblici (costituenti poco meno di tremila unità) avevano un contratto di lavoro a tempo determinato con scadenza 30 aprile 2021 . Uno Stato serio avrebbe a quel punto scelto tra due soluzioni: mi sei servito, e ti stabilizzo; non mi sei servito, e non ti rinnovo il contratto. L’attuale Governo ha invece deciso per la proroga “legale” del rapporto di lavoro dei navigator fino al 31 dicembre 2021. Si potrebbe sardonicamente dedurre che i soggetti che avrebbero dovuto prestare assistenza tecnica per ricollocare sul mercato del lavoro i più bisognosi sono diventati anch’essi bisognosi, nel frattempo. E lo Stato, stavolta, forse più coerentemente, li stipendia direttamente (non dimentichiamo che Anpal Servizi è una società interamente a carico della finanza pubblica), piuttosto che dare soldi ad altri soggetti che poi aiutino i navigator ormai disoccupati a ritrovare il lavoro. Nella speranza che i nuovi precari pubblici transitino prima o poi a tempo indeterminato, anche a mezzo del generoso titolo di preferenza loro accordato dall’art. 18 del d.l. n. 69 del 2021 , negli apparati pubblici. Tutto da buttare allora? Forse no. Dopo la tempesta perfetta inscenata dalla pandemia abbiamo appreso nuovamente, casomai che ne fossimo dimenticati, che non siamo immortali, che le competenze tecniche servono nel momento del bisogno e che è necessario programmare in tempo di pace la strategia per il tempo di guerra. Abbiamo capito sulla nostra pelle che la democrazia è un dono e che la libertà non è una conquista né facile né scontata, che le regole fatte dagli uomini devono servire per tutti gli uomini e non solo per alcuni di essi. Il futuro ci dirà ancora una volta se abbiamo imparato qualcosa dal passato.
17 ago, 2021
TAR per il Lazio, sentenza n. 9343 del 9 agosto 2021 IL CASO E LA DECISIONE Alcuni studenti di scuole primarie e secondarie, rappresentati dai relativi genitori, hanno impugnato i DPCM che dal 14 gennaio in poi (l’ultimo reca la data del 2 marzo 2021) li avevano obbligati ad indossare le mascherine a scuola anche in situazione di staticità al banco, e nonostante il rispetto delle distanze previste dalla normativa emergenziale. Nelle more del giudizio, gli atti impugnati avevano da un lato cessato di avere efficacia, ed erano stati oggetto, per altro verso, di rinvio recettizio da parte del d.l. n. 44 del 1/4/2021, con effetto di formale legificazione delle misure in contestazione e novazione sostanziale della fonte di regolazione del rapporto. In ogni caso, il Tribunale adito, essendo stata allegata espressa “riserva” di richiesta di risarcimento del danno, si è spinto ad accertare la legittimità o meno dell’atto amministrativo fonte dell’obbligo, a fronte della contestazione di illogicità e di potenziale contrasto di tale atto con la salute psico-fisica dei bambini. Il Tar per il Lazio ha dunque accertato l’illegittimità del DPCM del 14 gennaio 2021 – ovvero dell’atto amministrativo non recepito in una disposizione di legge - per sostanziale difetto di istruttoria, irragionevolezza e contrasto con le indicazioni del CTS, evidenziando che l’amministrazione si sarebbe discostata da tali indicazioni senza tuttavia motivare alcunché sulle ragioni del diverso intendimento, e senza addurre o richiamare evidenze istruttorie di diverso avviso, eventualmente ritenute prevalenti rispetto al parere tecnico-scientifico del CTS. IL NUCLEO CENTRALE DELL’ILLEGITTIMITA’ DELL’OBBLIGO La norma contestata prevede l’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei luoghi al chiuso, per bambini di età superiore ai 6 anni, anche durante l’attività didattica ed educativa tenuta nella scuola primaria e secondaria, di cui al primo ciclo di istruzione. In pratica, nel corso di tale attività, se svolta in presenza, è prescritto l’uso obbligatorio di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, salvo che per i bambini di età inferiore ai 6 anni e per soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina. Tuttavia, secondo i ricorrenti, l’obbligo in questione, per gli scolari di età superiore ai 6 anni, sarebbe stato imposto in modo indiscriminato, ricomprendendo anche il tempo in cui gli scolari sono seduti al banco, e per l’intera durata dell’attività didattica in presenza. Tra l’altro, alla stregua delle indicazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico (CTS), il DPCM avrebbe dovuto calibrare il suddetto obbligo previa valutazione della situazione epidemiologica locale, nonché, per i bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, prestando attenzione al contesto socio-culturale e a fattori come la compliance del bambino nell'utilizzo della mascherina e il suo impatto sulle capacità di apprendimento. Avrebbe dovuto dunque essere prevista, nella prospettiva dei ricorrenti, la possibilità di esonero dall’utilizzo della mascherina a scuola, per i minori interessati, non solo in caso di patologie o disabilità incompatibili con tale uso, ma anche qualora l’uso della mascherina stessa provochi un “fastidio” o un “disturbo” di qualsivoglia natura e, comunque, quando sia garantita la distanza di un metro fra i banchi. D’altra parte, la misura obbligatoria non era stata introdotta in conformità alla previsione di rango legislativo di cui all’art. 1, comma 2, D.L. 19/2020, convertito in L. 35/2020, in quanto tale norma, per quanto di interesse, aveva previsto alla lett. hh-bis), l’“ obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, restando esclusi da detti obblighi: 1) i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva; 2) i bambini di età inferiore ai sei anni; 3) i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l'uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità ”. Ne deriva che era stata prevista solo la “possibilità” e non la “necessità” dell'uso obbligatorio della mascherina nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto, e che la prescrizione generalizzata dell’uso delle mascherine, essendo connessa all’impossibilità di garantire il distanziamento, avrebbe dovuto risultare in linea con il principio di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente, ad esempio, nel caso di bambini fra i 6 e gli 11 anni in ambito scolastico, per i quali fosse stato possibile, in condizioni di staticità, garantire la distanza interpersonale di un metro. Il Tar per il Lazio ha dunque ritenuto irragionevole l’imposizione indiscriminata della mascherina anche negli istituti scolastici che avevano già adottato misure per garantire il distanziamento fra i banchi, e ingiustificato il mancato rispetto dei criteri di “ modularità e scalabilità delle azioni di prevenzione ”. Invero, con tale ultima espressione, il CTS ha inteso escludere una imposizione indiscriminata dell’uso delle mascherine avendo, al contrario, suggerito di “modularle” e “scalarle” in pejus o in melius in considerazione dell'evoluzione sia dell'andamento epidemiologico sia dell’oggettivo “rispetto della distanza di almeno un metro” fra i banchi. Il distanziamento fisico (inteso come distanza minima di 1 metro tra le rime buccali degli alunni e, a maggior tutela degli insegnanti, di due metri nella zona interattiva della cattedra tra l'insegnante stesso e i banchi) viene così confermato come uno dei punti di primaria importanza nelle azioni di prevenzione del contenimento epidemico, da intendersi nel contesto scolastico, in linea generale, sia in condizione statica che in movimento, a cui può essere aggiunto l'uso della mascherina, preferibilmente di tipo chirurgico, soltanto laddove necessario. In altri termini, secondo il CTS – e secondo criteri di logica e di ragionevolezza dell’azione di prevenzione del contagio - l’imposizione della mascherina avrebbe dovuto essere l’ extrema ratio, da imporre soltanto nel caso non fosse stato possibile garantire nello svolgimento delle attività scolastiche il distanziamento fisico prescritto, e comunque fino all’adozione di misure strutturali volta a garantire il distanziamento prescritto. Il Giudice adito, tramite il richiamo ad altro precedente speculare, ha altresì evidenziato che l’aver imposto in modo indiscriminato su tutto il territorio nazionale l’uso della mascherina ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni a scuola, anche al banco in condizione di staticità, non era misura da ritenersi coerente con la scelta dell’amministrazione di differenziare le misure restrittive da applicare nelle diverse regioni, sulla base del contesto epidemiologico di ciascuna di esse, come determinato da apposita ordinanza del Ministro della Salute (la cosiddetta divisione in “zone”). A fronte di tali indici di eccesso di potere – che è lo strumento attraverso il quale possono essere sindacate scelte di opportunità anche tecnica dell’amministrazione, senza sovrapporsi a tali scelte –, il Ministero della Salute non ha mai indicato quali determinate evidenze scientifiche sarebbero state assunte a fondamento tecnico-scientifico dell’imposizione della misura impugnata, limitandosi a riferire di varia letteratura scientifica, ove si affronta la tematica delle possibili ricadute sulla salute psico-fisica dei bambini derivanti dall’uso prolungato della mascherina. Né risulta convincente, al riguardo, distinguere tra compromissione della salute e disagio psicologico provocato dall’uso della mascherina, ritenendo che i disagi percepiti e gli atteggiamenti negativi associati all'uso delle mascherine durante la pandemia COVID-19 possano essere almeno parzialmente spiegati dai tentativi di soddisfare tre bisogni psicologici di base (autonomia, relazione e comprensione), piuttosto che con un disagio fisiologico reale. PRINCIPIO DI PREVENZIONE E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE Il Giudice amministrativo di primo grado, in ogni caso, aveva già precisato, in altro arresto, che la misura censurata non rispetta neanche i parametri del principio di precauzione, qualora la si voglia ancorare a tale principio e non al principio di prevenzione. Posta la differenza concettuale che intercorre tra precauzione (limitazione di rischi ipotetici o basati su indizi) e prevenzione (limitazione di rischi oggettivi e provati), il principio di precauzione, dettato in primis dall'art. 191 del TFUE e a seguire recepito da ulteriori fonti comunitarie e dai singoli ordinamenti nazionali, obbliga le Autorità competenti ad adottare provvedimenti appropriati al fine di scongiurare i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi, e prima che subentrino più avanzate e risolutive tecniche di contrasto. L'attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche. Ma poiché anche le misure basate sul principio di precauzione devono essere proporzionali rispetto al livello prescelto di protezione, e non discriminatorie nella loro applicazione, non sempre un divieto totale può essere una risposta adeguata al rischio potenziale. In siffatte ipotesi, per coniugare in modo bilanciato esigenze di precauzione e di proporzionalità, la Commissione europea ha suggerito, ad esempio, di modulare l'azione cautelativa in relazione alla evoluzione dei suoi risultati, sottoponendo le misure adottate ad un'opera di controllo e di revisione, alla luce dei nuovi dati scientifici nele frattempo acquisiti. Ne deriva che il principio di precauzione presuppone sempre l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura, giudizio che nel caso di specie non sembra essere stato compiuto dall'amministrazione competente. TEMPISTICA DEI DPCM E LESIONE DEL DIRITTO DI DIFESA Un’interessante precisazione del Giudice capitolino, in un precedente speculare a quello esaminato, deve essere infine riportato, con riferimento alla difficoltà dei ricorrenti, in casi come quello esaminato, di estendere il thema decidendum del giudizio instaurato a ogni successiva modifica normativa regolante le misure contestate, senza esperire un’ulteriore impugnazione (motivi aggiunti), dal momento che il potere esecutivo ha rincorso l’evolversi della diffusione del contagio con una incessante e spesso caotica produzione di norme giuridiche di contrasto. Sul punto, i Giudici amministrativi hanno osservato che l’osservazione secondo cui la “tempistica” dei DPCM non consentirebbe una piena ed adeguata tutela giurisdizionale in quanto i ricorrenti si erano ritrovati a dover “rincorrere” i DPCM che si succedevano nel tempo senza poter mai trattare la questione oggetto di causa avrebbe meritato de jure condendo una riflessione sui rimedi giurisdizionali che l’ordinamento dovrebbe apprestare, a fronte di situazioni del tutto extra ordinem, in cui si è in presenza di atti amministrativi che reiterano più volte le stesse misure, ma che sono dotati di efficacia temporale talmente limitata da compromettere, nella sostanza, il diritto di difesa costituzionalmente garantito. Si riporta integralmente il passaggio in questione, per l’innegabile interesse che rappresenta dal punto di vista ordinamentale, e la chiara prospettazione della questione ivi contenuta: “ Invero i rimedi che attualmente l’ordinamento appresta, quali la richiesta di decreto cautelare e la richiesta di abbreviazione dei termini, non appaiono idonei a rendere effettivo il diritto di difesa: ciò in quanto l’adozione del decreto cautelare non è compatibile con la complessità delle numerose questioni, spesso anche di illegittimità costituzionale, che le parti ricorrenti prospettano; l’abbreviazione dei termini, anche quando concessa, non sempre è idonea a garantire il conseguimento di una pronuncia cautelare in tempo utile, ove l’impugnazione riguardi un DPCM che abbia durata estremamente limitata: si pensi alle disposizioni del DPCM del 24 ottobre 2020 che si sarebbero dovute applicare fino al 24 novembre 2020 ma che hanno, invece, perso efficacia anticipatamente in forza del DPCM del 3 novembre 2020, così restando in vigore per soli 16 giorni; del pari il DPCM del 13 ottobre 2020, la cui efficacia è stata inizialmente prevista fino al 13 novembre 2020, è stata successivamente anticipata al 25 ottobre in forza del DPCM del 24 ottobre 2020, così restando in vigore per soli 12 giorni. Fermi restando i rilievi che precedono, deve tuttavia affermarsi, de jure condito, che la mancata impugnazione espressa dei successivi DPCM con il rimedio dei motivi aggiunti, ne preclude l’esame da parte del Giudice; invero, quantunque, in astratto, le argomentazioni spese in giudizio dall’amministrazione per sostenere la legittimità del DPCM impugnato, ben potrebbero attagliarsi ad analoga difesa dei successivi DPCM, i quali hanno reiterato testualmente la medesima misura in questa sede censurata, dal punto di vista formale deve essere garantito all’amministrazione il diritto di difesa in giudizio, che è presidiato dall’art. 24 cost. ” (Tar per il Lazio, Sezione Prima, sent. n. 2102 del 2021).
Autore: dalla Redazione 01 ago, 2021
Sono attualmente “in pista” diversi progetti di modifiche normative afferenti all’impianto complessivo della magistratura, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. I punti di partenza ideali dei singoli progetti sono tutti variamente legati o a un cattivo funzionamento della giustizia in Italia o a una cattiva prova di sé dei magistrati. Ma la credibilità delle forze politiche che in un modo o nell’altro provano a intestarsi le modifiche ordinamentali è seriamente minata dal sospetto di un interesse di parte nel raggiungimento di determinati obiettivi, variamente orientato a una limitazione del potere giurisdizionale, a un “garantismo” alla cieca e a una sterilizzazione degli effetti delle iniziative giudiziarie sugli equilibri politici, più che a un miglioramento dell’efficienza del sistema giustizia. Nel caos politico-istituzionale che è seguito alle ultime elezioni per il Parlamento e alla pandemia, si sono odiernamente intrecciati diversi disegni di riforma, alcuni di matrice governativa e un altro di ispirazione referendaria, che seguono strade separate, anche se in apparenza unitariamente ispirate, per restituire un ruolo di prestigio e di funzionalità alla magistratura. Occupiamoci più da vicino dei quesiti referendari presentati dalla Lega e dai Radicali il 2 luglio 2021, cercando nel contempo di trovare dei punti di contatto, se vi sono, con la cosiddetta riforma Cartabia e con la riforma ordinamentale della magistratura. Il primo e il terzo quesito “aggrediscono” la supposta logica corporativa che condizionerebbe la scelta dei componenti togati del CSM e le valutazioni di professionalità dei magistrati. Il secondo e quarto quesito investono direttamente lo “status” del magistrato, mirando da un lato a stabilire l’immodificabilità in corsa della carriera del magistrato ordinario – chi comincia a svolgere funzioni di P.M. non potrà mai svolgere le funzione di Giudice, e viceversa -, e dall’altro a parificare il magistrato ad ogni altro funzionario pubblico, sotto il profilo della diretta e immediata responsabilità per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni. Il quinto quesito referendario vuole diminuire le ipotesi di esigenze di prevenzione sociale (le cosiddette “esigenze cautelari”) previste dal codice di procedura penale, e che devono necessariamente ricorrere per disporre misure cautelari. Il sesto quesito chiede, infine, l’abrogazione sic et simpliciter della cosiddetta legge Severino, ovvero del decreto legislativo che ha stabilito disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. Ma procediamo con ordine. 1.Scelta dei componenti togati del CSM e valutazioni di professionalità dei magistrati (quesiti n. 1 e n. 3) Con il primo quesito si propone una modifica del procedimento di elezione del singolo magistrato a componente dell’Organo di autogoverno – ovvero la partecipazione al consesso a cui spettano secondo Costituzione le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati -, tramite soppressione dell’obbligo di presentare, unitamente alla propria candidatura, una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. L’effetto diretto è la possibilità per chiunque aspiri ad essere eletto al CSM di proporre la propria candidatura individuale senza dovere già dimostrare una base di consenso (ovvero la lista dei “magistrati presentatori”), il che è in sé astrattamente coerente con una maggiore autonomia e indipendenza nella corsa al CSM del magistrato stesso; l’effetto indiretto, che poi è quello dichiaratamente perseguito dai promotori del referendum, è quello di cercare di depotenziare il ruolo delle correnti nella scelta dei rappresentanti dei magistrati che compongono il CSM. L’idea è che se non si deve presentare una lista di sostenitori già in partenza, non si dovrà essere necessariamente fedeli a una corrente per essere competitivi. L’assunto prova troppo, se si pensa che il consenso per essere eletto occorre comunque averlo, e che anche una candidatura “indipendente” dalle correnti deve potere contare su una base elettorale solida, poco importa se formatasi precedentemente o successivamente alla presentazione della candidatura stessa. In altri termini, forse potrà correre “da solo” un candidato molto autorevole e già noto ai magistrati – magari per iniziative interne, indagini o processi importanti -, ma tutti gli altri dovranno necessariamente avere il sostegno, per essere eletti, di quelle formidabili fonti di consenso, a volte “acritico”, che sono le correnti . L’obiettivo sarebbe dunque da ritenersi neanche parzialmente raggiunto, in caso di abrogazione della norma. La verità è che soltanto il sorteggio può spezzare il cordone ombelicale tra elettori ed eletto – e dare un serio colpo di grazia alle correnti -, ma per tutta una serie di motivi resta un’ipotesi che non viene presa in considerazione, allo stato (si veda al riguardo l'atto della Camera n. 2681 in materia di " Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura ", che ha optato per una diversa scelta di riforma). Con il terzo quesito si propone una modifica delle competenze spettanti ad avvocati e professori universitari in materie giuridiche all’interno dei Consigli giudiziari – che sono quegli organismi territoriali, istituiti presso ogni Corte di Appello, a cui spetta, tra l’altro, il parere motivato sulla valutazione pluriennale di professionalità dei magistrati -, cancellando la loro attuale esclusione dalle discussioni e deliberazioni che riguardano il suddetto parere. In altre parole, il giudizio di merito sull’attività svolta nel quadriennio dal magistrato ordinario, ai fini della sua progressione in carriera, non spetterebbe più soltanto ad altri magistrati – che compongono per due terzi il Consiglio Giudiziario – ma vedrebbe il coinvolgimento anche di soggetti esterni alla magistratura. Il raggiungimento del risultato che il quesito ha di mira – depotenziamento dell'autovalutazione all'interno della magistratura -, seppure coerente con la necessità di aprire una breccia nella supposta autoreferenzialità di essa, sembra peraltro in contrasto con l’articolo 105 della Costituzione, che riserva al CSM le promozioni dei magistrati. Attualmente, il Consiglio giudiziario adotta un parere obbligatorio che di fatto vincola, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 160 del 2005, la decisione finale del CSM. Ma, mentre la presenza nel CSM di soggetti estranei alla magistratura è prevista dalla Costituzione e legittima tale organo, nella sua composizione mista, a deliberare sulle promozioni dei magistrati, la presenza di soggetti estranei alla magistratura non legittimati dalla Costituzione nell’iter della valutazione sulle promozioni dei magistrati – e sulla base di una legge ordinaria – sembra minare il principio di autonomia e indipendenza da ogni altro potere della magistratura previsto dall’art. 104 della Costituzione. 2. Impossibilità di passaggio durante la carriera da una funzione all’altra e responsabilità diretta per i danni causati nell’esercizio delle funzioni (quesiti n. 2 e 4) Con il quarto quesito i promotori del referendum intendono espungere dall’ordinamento tutte quelle norme che consentono, seppure con particolari cautele e limiti, il passaggio dalle funzioni requirenti (pubblico ministero) alle funzioni giudicanti (giudice civile e penale) – e viceversa – durante la carriera del magistrato. Si dice che il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. L’abrogazione delle disposizioni elencate dal quesito referendario farebbe sì che al magistrato che sia stato destinato, all’atto dell’assunzione in servizio, a una funzione – P.M. o giudice -, sia precluso definitivamente di chiedere il passaggio all’altra. L’effetto di tale abrogazione implica indubbiamente una rilevante distorsione rispetto all’unicità di concorso che caratterizza l’ingresso in magistratura. Si pensi soltanto che la scelta della sede e della funzione, dopo un periodo di tirocinio in cui il neo-magistrato “sperimenta” tutte le funzioni, non dipende nella grande maggioranza dei casi da una effettiva volontà di volere fare il lavoro di giudice piuttosto che quello di pubblico ministero, ma dalla necessità di recarsi in un luogo, tra i tanti sparsi su tutta la Penisola, che non sia eccessivamente lontano da quello in cui è già radicata la vita personale e familiare del neo-assunto. In altri termini, un magistrato in tirocinio che preferirebbe fare il giudice ma che vuole o deve restare vicino ai propri affetti, in prima battuta potrebbe essere costretto a scegliere di svolgere la meno gradita funzione di pubblico ministero, seppure con la riserva mentale di cambiare le funzioni assunte non appena possibile, magari in conseguenza di una maggiore anzianità di servizio conseguita. In egual modo, privare l’interessato della possibilità di un cambio di funzioni nel corso della carriera significa depotenziare la professionalità del magistrato, che può soltanto “arricchirsi”, come per ogni altra professione, a seguito della “sperimentazione” di tutti i risvolti pratici e giuridici di un lavoro che resta di fatto unitario nella sua componente culturale e tecnica. L’attuale normativa segna un punto di corretto equilibrio tra tali esigenze e il pericolo di contiguità tra il pubblico ministero e il giudice (penale), fermo restando che non vi è materia di antagonismo tra poteri, trattandosi di soggetti che sono comunque al servizio dell’interesse pubblico nell’ambito del potere giudiziario. Il d.lgs. n. 160 del 2006, infatti, dispone, in linea generale, che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa Regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di Corte di Appello che ha competenza, per i reati commessi dai magistrati, sul distretto in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. E’ previsto inoltre che tale passaggio può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del Consiglio giudiziario. L’effetto dell’abrogazione richiesta sarebbe inoltre di dubbia costituzionalità, in quanto non si interviene contestualmente sulle modalità di accesso alla magistratura: resterebbe un unico concorso di magistratura che consente di accedere sia alle funzioni giudicanti che a quelle requirenti, a cui seguirebbe una scelta definitiva del vincitore di concorso nell’ambito delle sedi individuate dal CSM, con illegittima compressione dei diritti di quei neo-magistrati “costretti” a scegliere sulla base delle sole sedi disponibili al momento della prima scelta. Al riguardo, vale la pena di ricordare che l’art. 106 Cost. stabilisce che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso e l’art. 107 co. 3 Cost. prevede che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. A Costituzione invariata, pertanto, ed essendo unico il concorso, chi accede alla magistratura ha il diritto di svolgere entrambe le funzioni. Le disposizioni attualmente vigenti – oggetto del quesito referendario – hanno solo la funzione di porre le condizioni per l’esercizio di un diritto costituzionalmente fondato. Quanto all’esame del secondo quesito (responsabilità diretta dei magistrati) si rinvia, per la complessità del tema, all'approfondimento specifico rinvenibile, sul sito, al seguente link: https://www.primogrado.com/la-responsabilita-diretta-dei-magistrati 3. Riduzione delle ipotesi in cui possono essere disposte le misure cautelari e soppressione della legge Severino (quesiti n. 5 e 6) Secondo i promotori dei referendum ( quesito n. 5 ) , vi sarebbe in Italia un gravissimo abuso della custodia cautelare. Per limitare tale (presunto) abuso, si propone di ridurre la possibilità per il Giudice di disporre (qualsiasi) misura cautelare (e non solo la custodia, che corrisponde alla traduzione in carcere o agli arresti domiciliari), quando vi è il pericolo che l’indagato possa commettere reati della stessa specie. Più in particolare, si consentirebbe la possibilità di disporre misure cautelari (dall’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria alla custodia preventiva in carcere), oltre che in caso di pericolo di fuga e di possibile inquinamento probatorio, soltanto nei casi in cui sussista “il concreto e attuale pericolo” che l’indagato “commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l'ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. In pratica, il corruttore seriale e l’estorsore seriale tramite minaccia, tanto per fare un paio di esempi di facile comprensione, non potrebbero mai essere sottoposti a nessuna misura cautelare, se si tratta di soggetti socialmente “validi”, come spesso accade in caso di delitti dei colletti bianchi. Se non vi è pericolo di inquinamento probatorio (che è già di per sé soggetto a limiti molto stringenti) o pericolo di fuga (difficile da ipotizzarsi per una certa tipologia di individui ben inseriti in società), niente misure preventive, perfino a fronte di clamorose violazioni di legge e “ruberie” nei confronti della collettività. Invero, sembra che nel bilanciamento fra il diritto di libertà dell’indagato/imputato prima della condanna definitiva e le esigenze di sicurezza sociale sulle quali si fondano le esigenze cautelari, l’intervento proposto provoca un pesante squilibrio in danno delle seconde. Viene cancellata con un tratto di penna ogni cautela nei confronti di soggetti che spesso e volentieri, anche per le loro connivenza con la criminalità organizzata, sono molto più pericolosi per la società dell’extracomunitario che – non avendo magari nessun radicamento con il territorio nazionale -, ricade sempre, ricorrendone i presupposti di legge, nell’ipotesi del “pericolo di fuga”, anche qualora commetta delitti di scarso impatto sociale. Viene altresì cancellata la possibilità di disporre misure cautelari nei confronti di coloro per i quali sussistono gravi indizi di avere commesso il delitto di finanziamento illecito dei partiti, mentre ad esempio la cessione di sostanze stupefacenti, anche di rilevante entità, purché non accompagnata dalla partecipazione ad associazioni per delinquere volte al traffico della droga, con la modifica referendaria diventerebbe un reato per cui l’arresto in flagranza (cioè con l’intervento diretto della polizia giudiziaria durante lo scambio) potrebbe essere paradossalmente seguito dalla immediata rimessione in libertà dell’arrestato. Va bene la sfiducia in giudici e P.M., ma forse nel dubbio resta meglio affidare a loro – e in ultima analisi alla Cassazione in sede di controllo de libertate – il bilanciamento in concreto delle esigenze di protezione della società, caso per caso. Ciliegina sulla torta, i promotori del referendum propongono la soppressione integrale del cosiddetto decreto Severino (decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235), cioè delle norme pensate in funzione del contrasto alla corruzione e del rafforzamento della trasparenza della e nella pubblica amministrazione ( quesito n. 6 ). Si dice che le norme da abrogare avrebbero valore retroattivo e prevederebbero ingiustamente, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare anche solo se il soggetto in questione venga condannato in primo grado per determinati reati contro la pubblica amministrazione. Ma la ratio della sospensione sta proprio nell’evitare fenomeni di degenerazione della cosa pubblica con la permanenza nella carica di amministratori che hanno subito una condanna per fatti anche gravi, condanna che, se è vero che non è definitiva, ha comunque già subito il vaglio del dibattimento, dinanzi ad un Giudice terzo, e all’interno di un processo che è tendenzialmente garantista. E’ un errore poi qualificare come retroattiva una norma che stabilisce semplicemente che chi non può essere candidato perché raggiunto da una determinata condanna per reati contro la pubblica amministrazione, non può per gli stessi motivi restare al suo posto. In caso contrario, si perverrebbe all’assurdo per cui basta “anticipare” la condanna con l’elezione, in relazione a fatti magari commessi molto tempo prima, per sfuggire poi definitivamente ad ogni tipo di “sanzione”, così incentivando fenomeni di candidature “strategiche” di soggetti in odore di condanna. E’ paradossale, infine, e fa un po’ sorridere, che i promotori del referendum sostengano che con il sì verrebbe cancellato l’automatismo del decreto Severino (condanna uguale sospensione) e si restituirebbe ai Giudici la facoltà di decidere se, di volta in volta, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici. Ma non si era detto che i sei quesiti referendari hanno l’obiettivo di ridimensionare l’arbitrio e lo strapotere della magistratura italiana? Se a tutto ciò si aggiunge che la recente riforma Cartabia - in approvazione in questi giorni in Parlamento - ha risolto il problema della eccessiva durata dei processi rendendo di fatto impossibile per la stragrande maggioranza di essi di pervenire a conclusione, il quadro complessivo che uscirebbe dalle possibili modifiche ordinamentali e normative della magistratura, per come si stanno delineando, è davvero desolante. Per dirla con il CSM, potrebbero essere drammatiche le ricadute pratiche della norma sulla improcedibilità contenuta nella riforma del processo penale e della prescrizione, in ragione della rilevante situazione di criticità di molte Corti di Appello italiane, che non reggerebbero all'impatto con termini di definizione del giudizio di secondo grado brevissimi e irrealistici con l'attuale sistema processuale. Si parla di migliaia di procedimenti che vanno ad estinguersi, con buona pace dei diritti delle vittime e del senso di fiducia - già basso - dei cittadini nella giustizia. Senza dimenticare che la riforma Cartabia prevede anche una norma che affida al Parlamento il compito di adottare i criteri generali di priorità di esercizio dell'azione penale, con un potenziale e pericoloso sconfinamento, o quantomeno sovrapposizione, tra poteri. Parafrasando il detto secondo cui occorre stare attenti a non buttare via il bambino con l'acqua sporca , in questo caso il pericolo reale è di cestinare la giustizia insieme alla cattiva giustizia.
Autore: a cura di Paolo Nasini 01 ago, 2021
1. Premessa Sono stati presentati sei quesiti referendari aventi ad oggetto la “giustizia”, promossi dal Partito Radicale e da Matteo Salvini e la Lega, ma con l’impegno, nella raccolta delle firme, anche di Forza Italia, Nuovo PSI, UDC, PSI: i quesiti concernono i temi dell’elezione del Csm, della responsabilità diretta dei magistrati, dell’equa valutazione degli stessi, della separazione delle carriere, dei limiti agli abusi della custodia cautelare, dell’abolizione della legge Severino. Con il presente lavoro si intende esaminare il quesito n. 2 relativo alla c.d. “responsabilità diretta dei magistrati”. L’iniziativa referendaria, con riferimento, in particolare, al quesito in questione, non pare tanto finalizzata al miglioramento della “macchina giudiziaria”, quanto, piuttosto, a dar soddisfazione a quella, sempre soffocata (fortunatamente), spinta “punitiva” nei confronti della magistratura: si tratta di un istinto che agita non solo buona parte del mondo politico, ma anche della popolazione che del continuo clima ostile nei confronti della magistratura viene nutrita attraverso i mezzi di informazione. Si tratta di spinte semplicistiche “verso il basso” incuranti del contesto ordinamentale e dei principi costituzionali che rendono particolare e speciale il ruolo della magistratura, la cui attività, se certamente non può andare esente da una disciplina della responsabilità civile che tuteli adeguatamente coloro che sono ingiustamente danneggiati dalla stessa, dall’altro lato, presenta dei connotati talmente rilevanti da essere contemplati da specifiche norme costituzionali che impongono al legislatore di garantirne il rispetto nel bilanciamento sotteso all’approvazione delle norme giuridiche che disciplinano la suddetta responsabilità. 2. Il contesto normativo. L’art. 28 della Costituzione prevede la diretta responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, secondo le leggi penali, civili e amministrative, per gli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Con riferimento ai magistrati, d’altronde, la norma suddetta viene a dover essere “bilanciata” con i valori del Titolo IV della seconda Parte della Costituzione, nella misura in cui tra i principi fondamentali che governano la magistratura vi sono quello della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), quello dell’indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) e quello della terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.). La l egge 13 aprile 1988, n. 117 [1] (c.d. legge Vassalli), approvata a seguito del referendum 8-9 novembre 1987, ha riformato in modo compiuto la previgente disciplina della responsabilità civile dei magistrati [2] , tentando un adeguato contemperamento del principio di responsabilità civile dei giudici, in linea con quanto previsto dall’art. 28 Cost., con l’altro fondamentale principio della salvaguardia dell’indipendenza e autonomia della funzione giurisdizionale. Questo bilanciamento si reggeva su tre pilastri: azione solo di rivalsa e non già diretta; sussidiarietà di quest’ultima e quindi anche della prima; filtro di ammissibilità. La normativa così approntata ha suscitato, d’altronde, negli anni, critiche [3] che hanno portato anche alle sollecitazioni della Corte di Giustizia Europea e ad una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea [4] : ciò ha condotto alla c.d. riforma Orlando, di cui alla l. n. 18 del 27 febbraio 2015 , entrata in vigore il 19 marzo 2015, che è, in particolare, intervenuta ampliando le fattispecie di colpa grave [5] , eliminando il filtro di ammissibilità della domanda [6] e modificando, in parte, la disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato responsabile. Inoltre, ha ampliato i casi di risarcimento del danno non patrimoniale [7] . La normativa attualmente vigente, per espressa previsione dell’art. 1, si applica a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni [8] , anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali. L’art. 2, quindi, attribuisce, a colui il quale subisce un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, il diritto di agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali [9] . Al riguardo, la colpa grave [10] è costituita dalla violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea, dal travisamento del fatto o delle prove, ovvero dall'affermazione di un fatto la cui esistenza é incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o dalla negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero dall'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione [11] . Il comma 3 bis [12] , poi, ha previsto che, fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, conv. con modif., da l. 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, par. 3, TFUE, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla CGUE. Al di fuori di quanto sopra, e salvi i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove [13] . Il diniego di giustizia , invece, è costituito dal rifiuto, dall'omissione o dal ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento [14] . Ai sensi dell’art. 4, l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri [15] . L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato, d’altronde, può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e, comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno [16] . Una delle novità importanti della l. n. 18 del 2015, come detto, è stata l’abrogazione dell’art. 5 che prevedeva il c.d. “filtro” [17] . L’art. 6, nel disciplinare l’intervento in causa del magistrato, il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio, precisa che egli non può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dell’art. 105, comma 2, c.p.c., e, a tal fine, il presidente del Tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza. Il comma 2 precisa che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio e non fa stato nemmeno nel procedimento disciplinare [18] . L’ azione di rivalsa [19] , da parte dello Stato, in caso di condanna è disciplinata dall’art. 7 [20] , ai sensi del quale il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'art. 2, commi 2, 3 e 3 bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile. In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa o nel giudizio disciplinare. La misura della rivalsa, d’altronde, non può superare una somma pari alla metà di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limitazione di esposizione non si applica al fatto commesso con dolo. Il doppio binario della responsabilità del magistrato comporta che lo stesso, per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, è esposto all’azione disciplinare che, ai sensi dell’art. 9, comma 1 [21] , il Procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell'azione disciplinare negli altri casi, devono esercitare, salvo che non sia stata già proposta, e ferma restando la facoltà del Ministro della giustizia di cui all’art. 107, comma 2, Cost. Il comma 3 della norma, al riguardo, prevede che < >. Nel caso, poi, in cui il magistrato, nell'esercizio delle sue funzioni, abbia commesso un fatto costituente reato , dal quale sia derivato un danno a un soggetto, quest’ultimo, ai sensi dell’art. 13, ha diritto al risarcimento nei confronti sia direttamente del magistrato, sia dello Stato. In tal caso, l'azione civile per il risarcimento del danno e il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie. Lo Stato, condannato al risarcimento nei confronti del danneggiato, esperisce l’azione, non di rivalsa, ma di regresso, nei confronti del magistrato, secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti [22] . L’art. 14, poi, è bene sottolinearlo, prevede espressamente che le disposizioni del d.p.r. 117 del 1988 non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione. 3. Le conseguenze delle modifiche apportate dalla legge Orlando La legge Orlando [23] ha modificato la precedente legge Vassalli eliminando quegli elementi (il filtro di inammissibilità, la limitazione risarcitoria del danno non patrimoniale, la più ridotta portata della colpa grave) che impedivano di garantire l’effettività della tutela risarcitoria del danneggiato, pur tentando il bilanciamento di tale esigenza con la fondamentale salvaguardia delle prerogative di autonomia e indipendenza che caratterizzano la funzione giurisdizionale e che la distinguono in modo essenziale da qualsiasi altro “pubblico ufficio” di cui all’art. 28 Cost. D’altronde, la riformulazione dell’art. 2 della legge Vassalli, fa sorgere, almeno in teoria, il pericolo di un pervasivo sindacato sul provvedimento giurisdizionale e sull’attività valutativa, in fatto e diritto, del giudice, alla luce della rilevante eliminazione del requisito della «negligenza inescusabile» che, nella originaria formulazione della norma in esame, doveva connotare la colpa grave del magistrato [24] . Il legislatore, al riguardo, per ragioni di coerenza “interna” è andato persino oltre le sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, prevedendo la violazione manifesta del diritto interno e facendo riferimento al travisamento del fatto o delle prove, con limitazione della clausola di salvaguardia al di là dei confini dell’illecito «eurounitario». D’altra parte, per scongiurare il rischio di una complessa sovrapposizione di giudizi sulla medesima questione di fatto e di diritto, che consenta di mantenere inalterata l’autonomia, anche di giudizio, di tutti i Giudici, sia di primo grado che di legittimità (in un sistema di impugnazioni di tipo «piramidale»), la violazione del diritto nazionale (così come l’errata valutazione in fatto) che può determinare una responsabilità civile a carico del magistrato deve essere “manifesta” e cioè deve avere una evidenza tale da non richiedere una attività interpretativa, quest’ultima essendo opinabile per definizione. Il giudice del processo promosso contro lo Stato deve accertare, infatti, se l’errore sia connotato da colpa grave, si concreti, cioè, in una violazione manifesta della legge, ma per fare ciò sovrappone una propria interpretazione a quella del giudice della cui responsabilità si parla, così incidendo sul “proprium” dell’attività giurisdizionale e, quindi, sull’oggetto dell’indipendenza e autonomia del giudice, caratterizzata anche dalla possibilità di “mutare” indirizzo interpretativo anche nei confronti di orientamenti condivisi dalla Cassazione, proprio al fine di promuovere “un cambiamento di rotta”. Al contrario, ammettere una responsabilità a fronte di una non macroscopica errata valutazione in diritto (ammesso che si possa concepire) o mancata o errata considerazione di un elemento di fatto o di prova, ma per una – ritenuta – non corretta valutazione degli stessi, finisce per rendere una attività ontologicamente opinabile ex ante , ingiustificatamente vincolata a valle alla luce della, parimenti opinabile, valutazione data da altro organo giurisdizionale. Occorrerebbe, quindi, che l’evidenza dell’errore sia elevata al punto tale da apparire concretamente ingiustificabile, quindi, manifestamente carente, erronea o distorta. Sotto altro profilo, l’eliminazione del c.d. “filtro” di ammissibilità della domanda risarcitoria cui all’art. 5, al fine di semplificare il processo e assicurare maggiore effettività alla tutela riparatoria accordata al danneggiato [25] , ha certamente fatto venire meno un altro elemento importante che connotava in modo peculiare la disciplina della responsabilità civile del magistrato, al fine di correttamente bilanciare tanto il principio di cui all’art. 28 Cost., quanto quelli di autonomia e indipendenza della magistratura. La legge Orlando, in tal senso, pur ampliando significativamente la tutela del danneggiato, ha, dall’altra parte, controbilanciato le modifiche apportate mantenendo significativamente inalterata la previsione, che aveva caratterizzato la legge Vassalli, del divieto di azione diretta nei confronti del magistrato, e della limitazione dell’azione di rivalsa dello Stato. 4. Il quesito referendario: profili di compatibilità costituzionale Il quesito referendario in esame così recita: « volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”? ». Esso, quindi, ha ad oggetto, specificamente, il divieto di azione c.d. “diretta” che, come sopra detto, non è stato “toccato” dalla legge Orlando e che caratterizza lo speciale regime della responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano [26] . Il tentativo di riportare alla luce l’istituto della responsabilità diretta [27] non è nuovo, in passato essendo stato oggetto di vari disegni di legge [28] . Ad oggi l’unico caso di responsabilità diretta ammesso è quello previsto dall’art. 13, comma 1, l. n. 117/1988, qualora il danno causato dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni consegua a un fatto che costituisce reato. La mancata modifica, da parte della legge Orlando, di tale – fondamentale – regola della responsabilità civile del magistrato, se, da un lato, trova la propria giustificazione nella più volte richiamata necessità di bilanciamento dei principi costituzionali in gioco, dall’altro lato, non sconta alcuna contrarietà con i principi e le direttrici interpretativo-applicative comunitarie, in conseguenza dei quali, come detto, la disciplina modificativa è stata approntata. Infatti, se, per un verso, la CGUE ha sanzionato lo Stato italiano per le limitazioni poste dalla normativa interna alla responsabilità civile non del magistrato-persona fisica, ma dello Stato, per altro verso, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2010 ha precisato che « soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione innanzi ad un Tribunale » (punto 67) e che « i giudici non devono essere personalmente responsabili se una decisione è riformata in tutto o in parte a seguito di impugnazione » (punto 70). Sotto altro profilo, poi, questo meccanismo consente di contemperare l'esigenza di garantire il ristoro patrimoniale degli errori giudiziari con la tutela dell'autonomia e dell'indipendenza del magistrato, che non sarebbe parimenti garantita dall'eventualità di citare direttamente lo stesso in giudizio, esponendolo al rischio di ritorsioni e di azioni intimidatorie tese a impedire il sereno svolgimento della funzione giudiziaria e l'introduzione, di fatto, di un ulteriore meccanismo di impugnazione diretto a contestare la decisione al di fuori delle forme previste. La Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare come nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati sono consentite scelte « plurime » ma non « illimitate », « in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità », «specie in considerazione dei disposti appositamente dettati per la Magistratura (art. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzion i» [29] . Una modifica del divieto di azione diretta nei confronti del magistrato potrebbe essere foriera di condizionamenti diretti ed indiretti nei confronti del giudice, tanto da rappresentare un attentato ai principi di indipendenza ed autonomia che caratterizzano l’esercizio della funzione giurisdizionale e alla correlata esigenza di salvaguardare l’imparzialità del magistrato: l’azione risarcitoria, infatti, potrebbe rappresentare un indebito strumento di pressione nei confronti del giudice, tale da « indurlo ad una giurisprudenza difensiva ispirata a conformismo giudiziario », ovvero si può dare il pericolo di azioni di responsabilità – velleitarie ed infondate – proposte al solo scopo di presentare istanza di ricusazione nei confronti del magistrato coinvolto nell’azione civile, e liberarsi in tal modo di magistrati scomodi, o temuti, o sgraditi [30] . In tal senso, quindi, alla garanzia del diritto di difesa (art. 24 Cost.), del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), e, quindi, dell’effettività della tutela dei loro diritti nella singola controversia, agli utenti del servizio giustizia, deve corrispondere, attraverso una ragionevole disciplina della responsabilità dei magistrati, una particolare attenzione alla necessità di salvaguardare la particolarità della funzione giurisdizionale: tale bilanciamento impone, da un lato, come detto, di circoscrivere la responsabilità da “errato giudizio” ai casi manifesti ed evidenti, e, dall’altro lato, di preservare la delicatezza dell’attività giurisdizionale da pericoli di influenza esterna che in nessun modo rispondano e siano funzionali alla salvaguardia dell’esigenza di tutela degli utenti del servizio giustizia. Se si considera, quindi, l’ampliamento di tutela operato dalla legge Orlando e sopra ricordato, si può cogliere come, ormai, la “coperta” del bilanciamento sia oggettivamente troppo corta per essere modificata, tanto più se l’intenzione è quella di incidere su un elemento cardine quale quello del divieto di azione diretta. È fondamentale, al riguardo, al fine di escludere qualunque compatibilità costituzionale di una modifica che comporti l’introduzione dell’azione diretta nei confronti del magistrato, riassumere i passaggi “chiave” del ragionamento della Corte Costituzionale nella sentenza 12 luglio 2017, n. 164, ove, nel dichiarare in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sottopostele, ha, in particolare, “salvato” la modifica operata dalla legge Orlando avente ad oggetto l’eliminazione del c.d. “filtro di ammissibilità”. In particolare, la Corte ha avuto modo di rilevare, per quanto in questa sede di interesse, che: - i principi comunitari che hanno influito sull’approvazione stessa della legge Orlando [31 ] hanno mutato il quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, avendo il legislatore del 2015 ritenuto che, per un verso, l'azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un "filtro" come quello previsto dalla legge Vassalli e, per altro verso, che l'esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l'effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato; - al riguardo, una modifica della disciplina non poteva essere limitata alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all'origine, anch'esse, di danno per il cittadino; - in materia, d’altronde, occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che « una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'Amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia » [32] ; dall'altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113 Cost.), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni» [33] ; - la legge Orlando avrebbe operato tale bilanciamento tramite una più netta divaricazione tra la responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato e la responsabilità civile del singolo magistrato, puntando, quindi, a superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di responsabilità dello Stato e del magistrato, ampliando, cioè, il perimetro della prima a prescindere dai confini, più ristretti, della seconda, così stemperando il meccanico ed automatico effetto dell'accertamento della responsabilità dello Stato sul magistrato nel giudizio di rivalsa; - in questo senso, quindi, l’eliminazione del “filtro di ammissibilità” non supera i limiti di ragionevolezza, in quanto non è costituzionalmente necessario che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell'ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura; - tale esigenza, infatti, la quale deve trovare comunque tutela, può essere soddisfatta dal legislatore per altra via, come avvenuto con la legge Orlando, per un verso proprio mediante il mantenimento del divieto dell'azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per altro verso, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro verso ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa; - proprio il mantenimento di tali elementi di “salvaguardia” consente di depotenziare il pericolo che l'abolizione del meccanismo processuale del filtro determini un pregiudizio alla «serenità del giudice», come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l'elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale. Quindi, secondo la Corte, l’esigenza di bilanciare il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio subìto, con la tutela delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, può dirsi salvaguardata dalla legge di riforma n. 18 del 2015, solo in quanto e proprio perché è stato mantenuto il divieto dell’azione diretta contro il magistrato e una disciplina limitativa della azione di rivalsa. Di qui, l’inevitabile conseguenza logica per cui la finalità unicamente punitiva che anima la modifica suggerita dal quesito referendario (non essendo la possibilità di aggredire direttamente il patrimonio del magistrato per l’interessato certamente più satisfattiva della solvibilità dello Stato), determinando un netto sbilanciamento dell’equilibrio operato dalla legge Orlando, finirebbe per comportare un pressoché inevitabile contrasto con i principi costituzionali più sopra ricordati. 5. Riflessioni conclusive. E’ notorio come le misure generalizzate, a “taglio lineare” (prendendo in prestito una terminologia economica), non consentono di apportare reali benefici ad una realtà, come quella della magistratura italiana, resa particolarmente complessa dall’insufficienza degli interventi legislativi in materia, che non hanno offerto una soluzione idonea ai difetti che – indubbiamente – la affliggono e che incidono sulla stessa qualità del lavoro della stragrande maggioranza dei giudici, che altro non vogliono che poter svolgere al meglio e serenamente il proprio lavoro. Qualora, poi, tali misure consistano in un tentativo, più o meno surrettizio, di punire e sanzionare in via preventiva e generalizzata coloro che svolgono una fondamentale funzione pubblica costituzionalmente tutelata, l’effetto “boomerang” di tali “innovazioni” può essere massimo. In questo senso, i problemi di deficit di qualità, produttività e attenzione del magistrato, non si combattono attraverso riforme generali che incidono, in modo generalizzato e irrazionale, sulla qualità e serenità dell’attività giurisdizionale, e che possono determinare pericolose strumentalizzazioni, ma attraverso interventi puntuali che consentano realmente di monitorare i deficit suddetti e di porvi rimedio sia in modo costruttivo – cioè garantendo la funzionalità dell’ufficio -, sia attraverso la certezza ed effettività della sanzione, punendo chi fa meno e peggio, all’interno della magistratura stessa, ponendo a carico dei titolari di uffici direttivi e semidirettivi (da nominare a rotazione, o comunque con criteri “fissi”, non attraverso valutazioni strumentalizzabili degli organi di Autogoverno) obblighi di vigilanza a loro volta adeguatamente sanzionati in caso di omissione [34] . Ci si permetta un parallelismo ardito. Il tradizionale grembiule della scuola elementare, lungi dall'essere un orpello simil-militaresco che annulla le individualità dei singoli, può garantire di fatto l’uguaglianza, anche formale, annullando le differenze anche solo di natura economico-familiare, e impedire che qualcuno possa, con arroganza, far valere a danno di altri una sua presunta superiorità, in modo tale che emerga in pieno l’ ”essere” del singolo, dato dalla propria capacità di essere un bravo alunno. Mutatis mutandis , se proprio si vuole fare qualcosa di concreto per cambiare la mentalità e l’organizzazione della magistratura, eliminandone in modo chirurgico le storture e non praticando dei tagli lineari più dannosi che utili e buoni solo a fini di propaganda politica, si potrebbe tentare di “mettere il grembiule” alla magistratura, eliminando tutte le fonti di differenziazione che non siano quelle della produttività e della qualità del lavoro, e, quindi, da un lato, eliminando gli incarichi extragiudiziari (a parte quelli endogiurisdizionali, come la partecipazione al CSM, ai Consigli giudiziari, alle commissioni di concorso per la magistratura ecc), in particolare tutti gli incarichi presso Ministeri e altri Enti o Amministrazioni, e, dall’altro lato, reintroducendo in maniera forte l’idea che la presidenza di sezione e del Tribunale non è un privilegio o un avanzamento di carriera, perché il Giudice resta sempre un Giudice, ma è, al contrario, un “munus”, che non dà prerogative, ma aggiunge fardelli a carico di chi lo assume. Solo così si può sperare di iniziare a raggiungere una giustizia nella giustizia, con riflessi “giusti” nei confronti dei cittadini che alla magistratura si rivolgono per averne, non attraverso riforme che, come quella che conseguirebbe al quesito che precede, finirebbero per lasciare sostanzialmente inalterato l’assetto delle disuguaglianze e delle storture del sistema rischiando, per contro, di peggiorare la qualità e la serenità del lavoro di chi, e come detto, sono la maggior parte, il magistrato lo sa fare bene, producendo molto e con qualità, in silenzio e senza ulteriori orpelli. [1] Recante “Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”. [2] Abrogando quella prevista dagli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. In forza dell’art. 55, il giudice era responsabile per l’attività funzionale «soltanto» in due casi: 1) quando «è imputabile di dolo, frode o concussione»; 2) «quando, senza giusto motivo, si rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero» (cosiddetta responsabilità per «denegata giustizia» o per «diniego di giustizia»). Ai sensi dell’art. 55, comma 2, le «ipotesi previste nel numero 2» del comma 1 potevano «aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito» (cosiddetta «messa in mora» o «diffida ad adempiere»). L’art. 56, comma 1, disponeva che «la domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia». L’art. 74 stabiliva che le «norme sulla responsabilità del giudice […] si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile, quando nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione». [3] In particolare, si lamentava la sostanziale inapplicazione della responsabilità dei magistrati. [4] Ci si riferisce ai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all'obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado), principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all'apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese da CGUE, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana, in Giur. cost., 2011, 4717, con nota di A. PACE, Le ricadute sull’ordinamento italiano della sentenza della Corte di Giustizia dell’UE 24 novembre 2011 sulla responsabilità dello Stato-giudice: la Corte, accogliendo il ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia, ha affermato che l’art. 2, l. 117 del 1988 – limitando ai casi di dolo o colpa grave la responsabilità del magistrato ed escludendola qualora la violazione del diritto dell’Unione risulti da attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione dei fatti e delle prove da parte del giudice – contrasta con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di un proprio organo giurisdizionale di ultimo grado, con conseguente infrazione dell’Italia agli obblighi su di essa incombenti in considerazione di tale principio. In precedenza, il medesimo principio era stato affermato da CGUE 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del mediterraneo, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2006, 1115; CGUE 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2004, 230. A partire da tale ultima pronuncia la CGUE ha sottolineato che «[...] è nell'ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento». [5] Il legislatore del 2015 nell’eliminare il riferimento generico alla “negligenza inescusabile” ha reso la disposizione dell’art. 2 più articolata, esplicitandone i contenuti, anche attraverso l’introduzione del comma 3 bis. La legge Orlando, nonostante il mantenimento della clausola c.d. di “salvaguardia” di cui al comma 2 dell’art. 2, ha, di fatto, ridotto lo spazio applicativo di tale clausola, ponendo, in modo esplicito, a carico del magistrato anche ipotesi di potenziale responsabilità per l’attività “interpretativa delle norme” e “valutativa dei fatti e delle prove”. [6] Ritenuto una delle principali cause di inoperatività della legge Vassalli. [7] Per i primi commenti alla riforma, cfr. V.M. Caferra, Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati, Bari, 2015, spec. 113 ss.; F.P. Luiso, La responsabilità dei magistrati: qualche osservazione dopo che il Senato ha approvato la riforma, in www.judicium.it; I. FERRANTI, Prime riflessioni sulla riforma della legge 13 aprile 1988, n. 117, in Giustiziacivile.com, Articolo, 9 aprile 2015; F. CORTESE-S. PENASA, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. e prev., 2015, 1026; Aa.Vv., Riforma della responsabilità civile, in Questione giustizia, 2015, n. 3, 157 ss., in particolare i saggi di: E. MACCORA, Introduzione. La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati: il dibattito culturale dalla legge Vassalli alla legge n. 18 del 2015. Le prospettive future, ivi, 157 ss.; F. BIONDI, Sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati. Considerazioni a margine della legge n. 18 del 2015, ivi, 165 ss.; E. SCODITTI, La nuova responsabilità per colpa grave ed i compiti dell’interprete, ivi, 175 ss.; G. AMOROSO, Riforma della responsabilità civile dei magistrati e dubbi di legittimità costituzionale dell’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione risarcitoria, ivi, 181 ss.; F. Dal Canto, La legge n. 18/2015 sulla responsabilità civile dello Stato per fatto del magistrato: tra buone idee e soluzioni approssimative, ivi, 187 ss.; E. CESQUI, Il rapporto tra responsabilità disciplinare e responsabilità civile, non è solo questione procedurale. La legge sulla responsabilità civile alla prova dei fatti, un orizzonte incerto, ivi, 197 ss.; F. VERDE, La responsabilità del magistrato, Bari, 2015; AA.VV., La nuova responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015, n.18), in Foro it., 2015, V, 281 ss., in particolare, i saggi di: G. GRASSO, Note introduttive, ivi, 281 ss.; V. VIGORITI, La responsabilità civile del giudice: timori esagerati, entusiasmi eccessivi, ivi, 287 ss.; C.M. BARONE, La legge sulla responsabilità civile dei magistrati e la sua (pressochè inesistente) applicazione, ivi, 291 ss.; G. CAMPANELLI, L’incidenza delle pronunce della Corte di giustizia sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, ivi, 299 ss.; G. GRASSO, La responsabilità civile dei magistrati nei documenti internazionali e negli ordinamenti di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito, ivi, 309 ss.; E. SCODITTI, Le nuove fattispecie di «colpa grave», ivi, 317 ss.; G. SCARSELLI, L’eliminazione del filtro di ammissibilità nel giudizio di responsabilità civile dei magistrati, ivi, 326 ss.; G. CIANI, Responsabilità civile e responsabilità disciplinare, ivi, 330 ss.; A. TRAVI, La responsabilità civile e i giudici amministrativi, ivi, 338 ss.; G. D’AURIA, «L’altra responsabilità» dei magistrati, ivi, 340 ss.; R. ROMBOLI, Una riforma necessaria o una riforma punitiva?, ivi, 346 ss.; A. CILENTO, La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015, n. 18, in G.U. n. 52 del 4 aprile 2015), in Nuove leggi civ. comm., 2015, 675 ss. [8] Nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria. [9] L’art. 2, comma 1, lett. a), l. 27 febbraio 2015, n. 18 ha eliminato l’inciso “che derivino da privazione della libertà personale” che limitava testualmente la risarcibilità dei danni non patrimoniali. [10] Ai sensi del comma 3 dell’art. 2. [11] Al riguardo, il comma 3 è stato modificato dalla l. n. 18 del 2015. [12] Introdotto dalla l. n. 18 del 2015. [13] Art. 2, comma 2. [14] Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell'ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell'istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell'ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra. Quando l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine di cui al comma 1 è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale. [15] Competente è il Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d'Appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 c.p.p. e dell'art. 1 delle disp. att. c.p.p. [16] La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro tre anni, decorrenti dal momento in cui l'azione è esperibile. L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato: in tal caso, l'azione deve essere promossa entro tre anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza. In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto. [17] Il Tribunale, sentite le parti, doveva deliberare in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda di risarcimento: a tale fine, il giudice istruttore, alla prima udienza, rimetteva le parti dinanzi al collegio il quale doveva provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore. La domanda era considerata inammissibile in caso di mancato rispetto dei termini o in mancanza dei presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando doveva ritenersi manifestamente infondata. L'inammissibilità veniva dichiarata con decreto motivato, ed era impugnabile con i modi e le forme di cui all'art. 739 c.p.c., innanzi alla corte d'appello che pronunciava anch'essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della Corte d'appello poteva essere proposto ricorso per Cassazione, che doveva essere notificato all'altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni. Il ricorso veniva depositato nella cancelleria della stessa Corte d'appello nei successivi dieci giorni e l'altra parte doveva costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria. La Corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmetteva gli atti senza indugio e, comunque, non oltre dieci giorni alla Corte di Cassazione che decideva entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi. La Corte di Cassazione, in caso di annullamento del provvedimento di inammissibilità della Corte d'appello, dichiarava ammissibile la domanda. Scaduto il quarantesimo giorno la parte poteva presentare, rispettivamente al Tribunale o alla Corte d'appello o, scaduto il sessantesimo giorno, alla Corte di Cassazione, secondo le rispettive competenze, l'istanza di cui all'art. 3. Il Tribunale che dichiarava ammissibile la domanda disponeva la prosecuzione del processo. La Corte d'appello o la Corte di Cassazione che in sede di impugnazione dichiaravano ammissibile la domanda rimettevano per la prosecuzione del processo gli atti ad altra sezione del tribunale e, ove questa non fosse costituita, al Tribunale che decideva in composizione interamente diversa. Nell'eventuale giudizio di appello non potevano far parte della corte i magistrati che avevano fatto parte del collegio che aveva pronunziato l'inammissibilità. Se la domanda era dichiarata ammissibile, il Tribunale ordinava la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare; per gli estranei che partecipavano all'esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti era trasmessa agli organi ai quali competeva l'eventuale sospensione o revoca della loro nomina. [18] D’altronde, il magistrato non può nemmeno essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato. [19] Deve essere proposta davanti al Tribunale del capoluogo del distretto della Corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 c.p.p. e dell'art. 1 disp. att. c.p.p. [20] Come sostituito dalla l. n. 18 del 2015. [21] Come modificato dalla l. n. 18 del 2015. [22] In forza del comma 2 bis, dell’art. 13, come introdotto dalla l. n. 18 del 2015, il mancato esercizio dell'azione di regresso, di cui al comma 2, comporta responsabilità contabile. [23] Nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 1626 (in Atti Senato n. 1626 – XVII Legislatura), Riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistrati, presentato al Senato dal Governo in data 24 settembre 2014, si è posto, in particolare, l’accento sull’«esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo di un conflitto ancora in corso» [24] In tal senso, la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile ricorre(va) «allorquando nel corso dell’attività giurisdizionale si sia concretizzata una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma stessa ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell’interpretazione nel diritto libero» (Cass. 26 maggio 2011, n. 11593). [25] Relazione al d.d.l. n. 1626, cit., 6. Il filtro era considerato, come una tutela eccessiva per il magistrato rispetto al pericolo di azioni «temerarie» e «ricattatorie», tale comunque da dilatare a dismisura i tempi del processo. [26] Negli ordinamenti di common law il giudice gode di immunità assoluta: negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, Israele, il giudice non può essere mai chiamato a rispondere per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. In Francia, Belgio, Germania vigono forme di responsabilità indiretta, con limitata possibilità di rivalsa dello Stato: in Francia è prevista una responsabilità civile dei giudici per i loro comportamenti caratterizzati da colpa propria (connessi o meno con l’espletamento del servizio), ma non vi è alcuna azione diretta nei confronti del magistrato; in Germania quando il giudice viola un proprio dovere d’ufficio nei confronti di un terzo la responsabilità ricade sullo Stato, il quale ha un diritto di rivalsa nei confronti del giudice; in Belgio la responsabilità civile incombe sullo Stato, con diritto di rivalsa che scatta, però, solo in caso di dolo o di frode del giudice. Nei Paesi Bassi la responsabilità civile fa capo sempre e soltanto allo Stato e non è previsto alcun diritto di rivalsa nei confronti del magistrato che ha sbagliato. In Spagna la responsabilità dello Stato concorre invece con quella civile diretta del magistrato, ma è comunque previsto il filtro di un apposito Tribunale per verificare la sussistenza dei presupposti soggettivi del dolo o della colpa grave. [27] Previsto dalla precedente normativa di cui agli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., come sopra ricordato, nota n. 2, ancorché temperato dal particolare filtro previsto dall’art. 56 c.p.c. [28] Si vedano, tra gli altri, i progetti di legge Borea (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1427); Cento e altri (A.C., XIV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2979); Alberti Casellati (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 156); Tommassini (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 284); Forlani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 766); Turco e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3340); Lussana e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1429); Brigandì e altri (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1956); Perduca e Poretti (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1889); Versace (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3285); Laboccetta (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3300); Lauro e altri (A.S., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2390); Garagnani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4069); Bernardini (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4148). [29] C. Cost., n. 18 del 1989. [30] V.M. CAFERRA, Il processo, cit., 125 ss., 128. [31] Si veda nota n. 4. [32] Corte Cost. n. 2 del 1968. [33] Corte Cost. n. 26 del 1987. [34] Molti sono gli aspetti sui quali sarebbe opportuno un intervento legislativo e che avrebbero riflessi immediati sull’efficienza del sistema e sul ripristino dell’immagine della magistratura tutta: tra questi certamente, va sottolineata la necessità di incidere drasticamente sulla “corsa agli uffici direttivi e semidirettivi” attraverso, nel primo caso, la fissazione di rigidi parametri di valutazione in modo da ridurre al minimo per non dire annullare la discrezionalità dei Consigli (CSM, CPGA ecc); nel secondo caso, la previsione di una rotazione totale temporanea tra i magistrati della sezione che abbiano maturato un certo minimo di anzianità in ruolo (non di sede) e non abbiano subito una valutazione di demerito. Sotto altro profilo, occorrerebbe, e ciò vale per tutti i plessi di magistratura, limitare ai soli insegnamenti universitari a tempo determinato la possibilità di incarichi extragiudiziari, perché il giudice deve fare solo il Giudice e non il consulente giuridico, l’insegnamento invece essendo una necessaria trasmissione di conoscenza ed esperienza agli studenti, al fine, da un lato, di garantire loro un “contatto” con quel mondo del lavoro cui idealmente aspirano e, dall’altro lato, di cogliere un diverso approccio alle problematiche giuridiche che differenzia chi esercita l’attività giurisdizionale da chi invece svolge attività didattica o la professione forense. Basterebbero queste piccole, ma enormi limitazioni, se considerate su scala globale, per ridimensionare le diseguaglianze concrete tra giudici, così da contribuire a far venire meno qualunque tipo di “merce di scambio” da barattare in seno alle logiche correntizie, azzerando, correlativamente, le “faide interne”.
Autore: di Roberto Lombardi 10 lug, 2021
Una notte di fine luglio, a Firenze, una ragazza di ventidue anni consuma alcol e rapporti sessuali con numerosi suoi coetanei maschi. Secondo la versione di lei, si tratta di violenza sessuale di gruppo , secondo la versione dei ragazzi, si tratta di plurimi e contestuali rapporti consenzienti e consapevoli. Una sentenza della Corte di appello ricostruisce i dettagli del fatto storico. La sera prima, lasciato da solo a casa il suo convivente - un collega di studi universitari conosciuto all’Accademia dell’arte –, la ragazza si era recata con la sua bicicletta in zona Fortezza da Basso, alla manifestazione Firenze in fiera, e si era unita ad altre persone per fare baldoria , su invito di un amico con cui nel recente passato aveva avuto un rapporto sessuale occasionale. L’atmosfera si “riscalda” quando la ragazza partecipa al gioco del toro meccanico , e tutti possono scorgere il paio di slip rossi che aveva indossato sotto la sua minigonna. Beve alcol, nonostante la consapevolezza di non poterlo “reggere”, e flirta anche tramite contatto fisico (nella sentenza si parla di “strusciamenti”) con il gruppo di maschi di cui faceva parte anche l’amico che l’aveva invitata. Poi tutti insieme escono dalla Fortezza. I ragazzi del gruppo, tuttavia, non accompagnano cavallerescamente la loro compagna di “giochi” - che non si reggeva in piedi - alla sua bicicletta, bensì la palpeggiano per strada, la sospingono in situazione di minoranza (sette contro uno) contro un muro, e infine hanno rapporti a turno con lei sul sedile posteriore dell’auto di uno di loro. La Corte di appello di Firenze non crede però alla versione della violenza sessuale di gruppo. La documentazione sanitaria del Centro antiviolenza – al quale la ragazza si era rivolta a breve distanza dai fatti –, è troppo blanda (sintomi e lesioni ritenuti non compatibili con l’entità della violenza fisica che ci si sarebbe aspettati in una situazione del genere, così come descritta dalla ragazza); la condizione di inferiorità psichica e fisica , insussistente (il comportamento complessivo e lo stile di vita, disinibito e consapevole, della ragazza, oltre alla mancata prova di uno stato di vera e propria ubriachezza, testimonierebbero una costante "presenza a se stessa" anche nella notte della presunta violenza); il consenso alle “attenzioni” sessuali dei ragazzi non sarebbe mai stato revocato fino alla fine degli amplessi in auto (come “desunto” dal rapporto orale già consumato con altro soggetto quella stessa sera e dal comportamento disinibito sopra accennato, senza alcuna interruzione apprezzabile neanche nel corso dell’accompagnamento in auto, e con conclusione della vicenda tramite un semplice atto di volontà liberatorio); l’ induzione a subire atti sessuali , non plausibile (in considerazione del fatto che il gruppo di maschi avrebbe soltanto “orientato” la ragazza ad un rapporto contestuale con tutti loro, male interpretando “la sua disponibilità precedente”, e senza abusare di uno stato fisico di inferiorità che, a detta della Corte di appello, non sarebbe stato provato). Il tutto, condito da un “contorno” motivazionale sulla bisessualità dell’interessata, sulla sua difficile situazione familiare, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso - dedotto, tra l’altro, dal particolare interesse in materia artistica dimostrato con la scelta di prendere parte ad un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza -, sulla decisione di denunciare i fatti accaduti alla Fortezza da Basso come espressione di una presa di coscienza e di una energica reazione, “ per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere ”. Questi i fatti. Questa la motivazione della sentenza, che ha chiuso con un’assoluzione collettiva la vicenda penale. La Corte europea dei diritti dell’uomo , però, ha recentemente condannato l’Italia ( caso 5671/16, sentenza del 27 maggio 2021 ) per violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU, per mancata protezione dalla vittimizzazione secondaria di una donna che aveva denunciato uno stupro di gruppo. Il caso è proprio quello descritto dalla sentenza della Corte di Appello di Firenze, la notte “brava” della Fortezza da Basso. Secondo l’ art. 8 della Convenzione EDU, ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Nel caso di reati a sfondo sessuale (cosiddetti atti sessuali “senza consenso”), l’articolo 8 della Convenzione, secondo la Corte, impone innanzitutto agli Stati contraenti l’obbligo positivo di adottare disposizioni penali sostanziali e processuali efficaci ed effettive, ivi comprese misure in grado di proteggere l’integrità fisica e morale delle persone. Ovviamente, l’esigenza di effettività della tutela penale non impone che tutti i processi di questo tipo devono concludersi con una condanna, o con l’inflizione di una pena determinata, ma è necessario, secondo la Corte, che la procedura interna non lasci “impuniti” attentati all’integrità fisica e morale delle persone coinvolte. E questo perché occorre preservare la fiducia dell’opinione pubblica nel rispetto della legalità, ed evitare qualsivoglia apparenza di complicità o di tolleranza dello Stato rispetto ad atti criminali. Per rispettare l’art. 8 della Convenzione sotto il profilo dell’effettività della tutela penale, sono dunque ugualmente necessari velocità di “reazione” dell’ordinamento e accurato accertamento dei fatti. D’altra parte, anche i diritti delle presunte vittime di reati coinvolte nel successivo processo penale sono protetti dall’articolo 8 della Convenzione, in quanto tale disposizione si pone l’obiettivo essenziale di proteggere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non accontentandosi di obbligare lo Stato ad astenersi da tali ingerenze, ma anche costringendolo ad ottemperare ad obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata o familiare. A tali fini, gli Stati contraenti devono organizzare le regole procedurali in campo penale in modo tale da non mettere indebitamente in pericolo la vita, la libertà o la sicurezza dei testimoni, e in particolare delle presunte vittime chiamate a deporre. Gli interessi degli imputati/indagati devono pertanto essere sempre bilanciati con quelli del denunciante/testimone, e i procedimenti penali relativi a reati a sfondo sessuale – per l’interesse particolarmente sensibile connesso alla gravità del crimine commesso, se accertato – non devono trasformarsi in una nuova “prova” per la vittima. Ne consegue che in tali procedimenti penali lo Stato deve stabilire e fare rispettare regole che proteggano in modo adeguato le presunte vittime, per evitare che le stesse divengano oggetto di una vittimizzazione secondaria . In particolare, e nello stesso senso, la violenza contro le donne (così come la violenza domestica) è al centro di una complessiva tutela convenzionale molto importante (si veda ad esempio la Convenzione del Consiglio di Europa avente lo stesso oggetto), che obbliga le parti contraenti a prendere le misure legislative necessarie per proteggere i diritti e gli interessi delle vittime, e in particolare per mettere le persone offese al riparo dai rischi di intimidazione e di nuova vittimizzazione, permettendo loro di essere ascoltate con le dovute cautele e di mettere al centro del processo il loro punto di vista e la loro sensibilità, senza paura di subire intimidazioni, ritorsioni o comunque ulteriori “aggressioni” veicolate dall’autorità pubblica che nel processo deve proteggerle. Nel caso della Fortezza da Basso, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel verificare se il contenuto delle motivazioni addotte in sentenza dal Giudice nazionale abbia “minato” il diritto al rispetto della vita privata e della libertà sessuale della giovane donna coinvolta nella vicenda giudiziaria, ha espresso un deciso giudizio negativo nei confronti dell'autorità pubblica procedente. Secondo la Corte, vi sono numerosi passaggi motivazionali, nella sentenza della Corte di Appello di Firenze, che alludono impropriamente alla vita personale e intima della persona offesa. In particolare, la Corte reputa “ deplorevole e irrilevante ” il “contorno” motivazionale sulla bisessualità dell’interessata, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, dedotto, tra l’altro, dall’interesse in materia artistica; deplorevoli e irrilevanti sono stati considerati, altresì, il riferimento in sentenza alla scelta di prendere parte a un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza, l’interpretazione della decisione di denunciare i fatti accaduti alla Fortezza da Basso come “risposta ad un momento di debolezza e fragilità da censurare”, e l’accenno ad una “vita non lineare”. Così come pare alla Corte europea ingiustificata la rievocazione della lingerie rossa “mostrata” dalla giovane donna durante la serata, ritenendo che il richiamo in sentenza a tali particolari non fosse per nulla utile alla valutazione della credibilità della denunciante. In altri termini, si chiedono i Giudici, quale interesse vi era, ai fini dell’apprezzamento della genuinità del racconto dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati, a diffondersi in sentenza sulla condizione familiare della denunciante, sulle sue relazioni sentimentali, sui suoi orientamenti sessuali o ancora sulle sue scelte di abbigliamento e sull’oggetto delle sue attività artistiche e culturali? L’ obbligo positivo di proteggere le vittime presunte di violenze di genere impone un corrispondente dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di costoro, ivi compresa la non divulgazione di informazioni e di dati personali non aventi relazione diretta con i fatti. Quest’obbligo è d’altra parte inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale e da varie convenzioni internazionali, comportando la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni – che sono una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia – ma entro i limiti dell’obbligo primario di proteggere sempre l’immagine e la vita privata dei soggetti coinvolti nelle relative vicende giudiziarie da qualsiasi violazione ingiustificata. Secondo i Giudici europei, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte di Appello di Firenze hanno veicolato nel singolo caso i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che sono potenzialmente idonei ad ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere, in linea con quanto risultato dal settimo rapporto sull’Italia redatto dal comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne. Persisterebbero nella società italiana, secondo questo rapporto, stereotipi sul ruolo delle donne e una resistenza a favorire l’eguaglianza tra i sessi, favorita dalla eventuale riproduzione di pregiudizi sessisti nelle decisioni giudiziarie, quando invece le autorità pubbliche – tutte, nessuna escluse – dovrebbero ridurre al minimo le violenze di genere ed evitare di esporre le donna a una vittimizzazione secondaria tramite l’utilizzo di argomenti ed espressioni colpevolizzanti e moralizzatori che rischiano, infine, di scoraggiare la fiducia che le reali vittime di abusi devono avere nella giustizia . La motivazione della sentenza che ha assolto gli imputati dal reato di violenza sessuale di gruppo può essere di per sé giusta o sbagliata nel merito dei fatti loro contestati, e deve essere sempre e comunque rispettata perché sostituisce alla verità storica una verità processuale divenuta ormai incontestabile. Tuttavia, parte del contenuto di quella stessa motivazione, per le espressioni utilizzate, costituisce violazione degli obblighi positivi che si impongono sullo Stato nazionale ai sensi dell’art. 8 della Convenzione sui diritti dell’uomo, perché la denunciante è stata esposta ad una vittimizzazione secondaria amplificata dalla natura pubblica della sentenza di assoluzione. Una piccola annotazione a margine. Si può banalmente dedurre che in una società maschilista le violenze di genere siano commesse soltanto da uomini. Peccato, però, che la sentenza della Corte di Appello - a causa della quale siamo stati etichettati in Europa come figli di una società “retrograda” - sia stata scritta da una donna.
27 giu, 2021
Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, ordinanza n. 40 del 15 gennaio 2021/ Corte costituzionale, sent. n. 128 del 22 giugno 2021 IL CASO E LA QUESTIONE GIURIDICA Il Giudice dell’esecuzione immobiliare presso il Tribunale ordinario di Barcellona Pozzo di Gotto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 54-ter del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, come modificato dagli artt. 4, comma 1, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 e dell'art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, per contrarietà agli artt. 3, co. 2, 24, co. 1, 47, co. 2, 111 co. 2, e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 par. 1, e 1, co. 1, Prot. addiz. CEDU. Avanti al G.E. del Tribunale siciliano, infatti, si era posto il problema, a fronte della richiesta di rinnovo della delega alle operazioni di vendita da parte del professionista delegato alla vendita (scaduta in data 4 gennaio 2021 e conferita il 2 maggio 2016) della, medio tempore , intervenuta proroga dell’efficacia, ad opera dell’art. 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, conv. in l. n. 21 del 2021, dell’art. 54-ter sopra citato. La sospensione, in altre parole, secondo il giudice dell’esecuzione, impediva il rinnovo della delega, trattandosi di un atto esecutivo finalizzato alla liquidazione del bene. Secondo il Tribunale adito, quindi, l’art 54 ter si porrebbe in contrasto: - con l’art. 24, co. 1, Cost., in quanto il diritto del creditore di soddisfarsi in sede esecutiva è parte essenziale della tutela giurisdizionale e la sospensione non potrebbe essere giustificata dall’esigenza di tutelare altri beni di rango costituzionale, come il risparmio e la salute individuale o collettiva, laddove la suddetta norma si correla alla mera destinazione del bene pignorato ad abitazione principale del debitore, circostanza neutra rispetto alla capacità reddituale dello stesso; - con gli artt. 3, co. 2, e 47, co. 2, Cost., per non avere il legislatore ponderato adeguatamente né i contrapposti interessi dei creditori (anche di quelli «occasionali» e non solo di quelli «istituzionali») e dei debitori esecutati, né l’incidenza negativa che una progressiva stabilizzazione della misura di sospensione di cui all’art. 54-ter, prorogata sino al 30 giugno 2021, potrebbe avere sulla collettività, per l’idoneità a determinare un sensibile aumento dei tassi di interesse sui mutui a causa dell’incertezza dei creditori «istituzionali» sulle possibilità di recupero coattivo delle somme erogate; - con l’art. 111, co. 2, Cost., con particolare riferimento al principio di ragionevole durata del processo, l’art. 54 ter determinando un arresto della procedura esecutiva per un periodo di tempo significativo, non giustificata dall’esigenza di consentire al debitore di ripianare la propria posizione, né dalla crisi economica determinata dall’emergenza sanitaria, non avendo previsto la possibilità per l’autorità giudiziaria di vagliare la relativa incidenza sulla situazione dell’esecutato; - con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1, CEDU e all’art. 1, co. 1, Prot. addiz. CEDU, in quanto, per effetto delle proroghe disposte, la norma inciderebbe negativamente sulla ragionevole durata del processo, e potrebbe, inoltre, incidere sulla tutela che l’art. 1, co. 1, Prot. addiz. CEDU, garantisce ai diritti su beni. Secondo il Giudice siciliano, l'ampiezza dell'interpretazione dell'art. 54-ter non e' insensibile alla natura dei contrapposti interessi coinvolti: quello del creditore ad ottenere la soddisfazione coattiva del proprio diritto di credito nel più breve tempo possibile e quello del debitore a non vedersi privato della propria abitazione principale. La delimitazione dei perimetro applicativo della norma è collegata all'individuazione della ragione giustificatrice sottesa alla sua introduzione, che, secondo lo stesso legislatore, mira a contenere gli «effetti negativi dell'emergenza epidemiologica da COVID-19», quasi a voler indicare l'esistenza di un nesso di strumentalità tra la sospensione delle procedure di espropriazione immobiliare - non tutte, ma solo quelle riguardanti l'abitazione principale dell'esecutato - ed il contenimento dell'epidemia. Tuttavia, secondo il Tribunale adito, la sospensione non pare presentare effettivamente punti di contatto con la tutela della salute pubblica: il processo di espropriazione non sembra di per sé causa di diffusione del virus, e comunque non meno di altre attività che non sono state oggetto di analoga inibitoria; in caso contrario, la sospensione avrebbe inoltre riguardato, o avrebbe dovuto ragionevolmente riguardare, tutti i processi di espropriazione immobiliare, a prescindere dal loro oggetto. L'esigenza abitativa dell'esecutato sembra parimenti estranea all'oggetto della «tutela» normativa, essendo tale interesse più che adeguatamente assicurato da altre norme emergenziali, e in particolare dagli articoli 103, comma 6 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, e dall'art. 13, comma 13, da decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, che non consentono - anche in caso di espropriazione del bene per effetto di aggiudicazione e trasferimento del medesimo a terzi - di procedere al rilascio coattivo dell'immobile. Il legislatore ha infatti disposto «La sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, [...] sino al 30 giugno 2021 limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze e ai provvedimenti di rilascio conseguenti all'adozione, ai sensi dell'art. 586, comma 2 del codice di procedura civile, del decreto di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari» (sarebbe poi da comprendere se tale norma, incidendo pesantemente sul nucleo essenziale del diritto di proprietà, tutelato dall'art. 42, comma 1, della Costituzione sia a sua volta legittima). Inoltre, la sospensione, dato il tenore letterale della norma, prescinde dall'accertamento - in concreto - della disponibilità, da parte dell'esecutato, di abitazioni ulteriori rispetto a quella principale, ovvero dalla possibilità per lo stesso di soddisfare in qualunque altro modo tale interesse. Ne deriva che non vi e' un collegamento tra la sua applicazione ed eventuali esigenze abitative del soggetto espropriato. Dovendosi escludere che l'art. 54-ter abbia limitato il diritto del creditore di agire in executivis per la tutela della salute individuale e pubblica, ovvero per tutelare le esigenze abitative dei debitori, il Giudice siciliano ha ritenuto dunque che la disposizione non è posta a presidio di interessi collettivi o individuali di rango primario, piegandosi a logiche assistenzialiste. Circostanza che sarebbe confermata dal fatto che la norma non opera alcuna distinzione tra pignoramenti anteriori e successivi allo stato di emergenza per la prima volta deliberato dal Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, con la conseguenza che la sospensione risulterebbe totalmente sganciata dall'accertamento di una qualunque correlazione tra la pandemia e l'espropriazione. La norma non lascia inoltre al Giudice dell'esecuzione neanche la possibilità di verificare le condizioni soggettive del creditore e del debitore, dovendo la sospensione applicarsi a prescindere dalle esigenze del primo e della capacita' reddituale del secondo. Il legislatore ha giustificato la misura in ragione degli «effetti negativi dell'emergenza epidemiologica da COVID-19», ma senza che sia chiaro - all'atto pratico - su quale bene o interesse si vadano a riverberare gli effetti negativi derivanti dall'epidemia. Si tratterebbe perciò, secondo il Tribunale adito, di una formula «vuota», o in tutti i modi sfuggente e di difficile percezione. La volontà normativa, a prescindere dall' incipit della norma, è perciò quella di tutelare - in ogni caso e a prescindere dai motivi dell'indebitamento - il patrimonio del debitore dal rischio di vedersi sottratta l'abitazione principale (e dunque anche quando ne abbia altre) in un periodo di emergenza economica e sociale, prima ancora che sanitaria, ancorché la causa del debito e l'espropriazione siano in concreto anteriori alla dichiarazione dello stato di emergenza, e dunque completamente indipendenti dall'epidemia. L'intervento normativo colpisce indistintamente tutti i creditori, a prescindere dalla relativa fascia di reddito, e dunque finanche coloro che magari l'abitazione principale neanche se la possono permettere e che per i quali il mancato (o anche solo ritardato) recupero coattivo del credito possa essere fonte di pregiudizi non meno rilevanti rispetto a quello subito dall'esecutato che con il suo inadempimento ha provocato l'altrui legittima richiesta di tutela esecutiva al potere statuale. LA SOLUZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE Il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 14, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, in l. 26 febbraio 2021, n. 21. In particolare, la Corte ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, co. 1, e 24, commi 1 e 2, Cost., con assorbimento delle altre censure. L’art. 24, co 1, Cost., infatti, garantisce a tutti di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, e tale garanzia comprende anche la fase c.d. esecutiva, attraverso la quale è possibile rendere effettiva e, quindi, attuare, anche materialmente, quanto accertato e statuito dal giudice con il provvedimento giudiziale cognitorio. In tal senso, la tutela esecutiva è strumento processuale indispensabile e costituzionalmente necessario per la menzionata garanzia di effettività dell’accesso giurisdizionale, consentendo al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore. Pertanto, ricorda la Corte, il legislatore certamente può esercitare una discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, ma con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina, limite da ritenersi valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» . Viene, pertanto, sottolineata dal Giudice delle leggi la necessità che, in linea di principio, una compressione del diritto ad agire in giudizio, anche in via esecutiva, sia prevista solo in termini e in relazione ad eventi eccezionali, quindi temporanei, perché un intervento legislativo che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie soltanto qualora siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale. Nessun diritto può considerarsi, a ben vedere, privo di limiti, specie laddove, venendo in gioco altri diritti meritevoli di tutela, come quello fondamentale all’abitazione, si renda necessario valutare un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite. In tal senso, la possibilità per il legislatore di procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva può essere ammessa laddove trovi giustificazione in un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in relazione anche alle specifiche modalità con le quali il bilanciamento viene posto in essere. Il diritto all’abitazione, in particolare, costituisce «diritto sociale» e «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione», rientrando – pur in mancanza di espressa previsione normativa - nel catalogo dei diritti inviolabili, l’abitazione dovendosi considerare «bene di primaria importanza». D’altronde, secondo la Corte, anche nell’ipotesi in cui sia in discussione il diritto all’abitazione del debitore esecutato, la sospensione delle procedure esecutive può essere contemplata dal legislatore solo a fronte di circostanze eccezionali e per un periodo di tempo limitato, e non già con una serie di proroghe, che superino un ragionevole limite di tollerabilità. Il dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, infatti, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni – i creditori procedenti in executivis – a beneficio di altri maggiormente esposti, selezionati inizialmente sulla base di un criterio a maglie larghe: tutti i debitori esecutati che dimorano nell’abitazione principale posseduta a titolo di proprietà o altro diritto reale. È necessario, allora, verificare se la proroga della sospensione delle esecuzioni - avente ad oggetto l’abitazione principale del debitore esecutato -, reiterata dal legislatore, sia giustificata da un ragionevole e proporzionato giudizio di bilanciamento. La Corte Costituzionale ha valorizzato, in un’ottica diacronica, il diverso modo di atteggiarsi del giudizio di bilanciamento in considerazione del tempo e del mutamento delle circostanze socio-sanitarie ed economiche: - nel primo periodo dell’emergenza pandemica il legislatore, con l’introduzione dell’art. 54 ter, d.l. n. 18 del 2020, ha voluto evitare che tanto l’esecuzione del rilascio degli immobili quanto le procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale potessero costituire causa di aggravamento delle difficoltà economiche e fonte di preoccupazioni ulteriori per i debitori esecutati, limitando, comunque, l’efficacia temporale di tale misura; - la disposizione, d’altro canto, da un lato, è stata inserita, come detto, in un quadro “sospensivo” di carattere generale inerente l’intero processo civile, accanto ad altra previsione puntuale inerente il processo esecutivo, dall’altro lato è rimasta inalterata nelle successive proroghe, le quali, avendone esteso gli effetti sino al 30 giugno 2021, hanno portato il periodo di compressione del diritto di difesa a quattordici mesi, di cui l’ultimo semestre è ascrivibile alla disposizione censurata avanti alla Corte delle leggi; - in particolare, in occasione delle due proroghe, il bilanciamento (tra il diritto del creditore procedente alla tutela giurisdizionale nella forma esecutiva e l’eccezionale protezione, giustificata dall’emergenza pandemica, del debitore esecutato, per garantirgli la disponibilità dell'abitazione principale), sotteso alla misura in esame, è rimasto invariato nei termini inizialmente valutati dal legislatore, che ha introdotto il blocco di tali esecuzioni; - con l’evolversi della situazione emergenziale, però, il legislatore ha previsto – quanto al settore della giustizia – misure più mirate che, sempre finalizzate a contenere il rischio di contagio secondo un criterio di precauzione, assicurassero in parallelo la ripresa dell’attività giudiziaria, così “dando il via” alla seconda fase, connotata dall’assegnazione ai capi degli uffici giudiziari della facoltà di adottare misure organizzative, comprensive della adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, nonché del loro possibile rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, peraltro con alcune eccezioni tipizzate; - la terza fase (dapprima fino al 31 ottobre 2020), introdotta dall’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, si è caratterizzata, come detto, per avere il legislatore adottato una serie di prescrizioni e cautele per la generale ripresa. La Corte, quindi, ha sottolineato che a questo progressivo adattamento delle misure emergenziali dettate per i giudizi civili, comprensivi delle procedure esecutive, non è rimasta estranea neppure la prevista sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, fattispecie distinta rispetto alla sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale. L’art. 13, comma 13, del d.l. n. 183 del 2020, come convertito, ha peraltro ulteriormente prorogato la sospensione fino al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze, oltre che ai provvedimenti di rilascio contenuti nei decreti di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari, e la Corte ha evidenziato che, a fronte di una disciplina processuale affinatasi progressivamente – sia quella generale della giustizia civile comprensiva delle procedure esecutive, sia quella molto specifica del rilascio coattivo degli immobili – la prevista sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è invece rimasta invariata nei suoi presupposti fino alla seconda proroga, oggetto delle censure in esame. È mancato, cioè, un aggiustamento dell’iniziale bilanciamento, sia quanto alla possibile selezione degli atti della procedura esecutiva da sospendere, sia soprattutto quanto alla perimetrazione dei beneficiari del blocco. L’individuazione di questi ultimi in termini ampi – perché fatta con riferimento alla mera circostanza che il debitore esecutato dimorasse nell’abitazione principale e che questa fosse assoggettata ad esecuzione forzata – poteva giustificarsi inizialmente per rendere più agevole, rapida e immediatamente efficace la misura di protezione, ma con l'andare avanti del tempo sono emerse l’irragionevolezza e la sproporzione di un bilanciamento calibrato su tutti, indistintamente, i debitori esecutati. Il protrarsi del sacrificio richiesto ai creditori procedenti in executivis , che di per sé non costituiscono una categoria privilegiata e immune dai danni causati dall’emergenza epidemiologica, avrebbe dovuto essere, tuttavia, dimensionato rispetto alle reali esigenze di protezione dei debitori esecutati, con l’indicazione di adeguati criteri selettivi quali quelli previsti, tra gli altri, in materia di riscossione esattoriale. Invece, nella proroga della sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale, di cui alla disposizione censurata, nessun criterio selettivo è stato previsto a giustificazione dell’ulteriore protrarsi della paralisi dell’azione esecutiva. Il legislatore, cioè, ha prorogato una misura generalizzata e di extrema ratio , quale quella della sospensione delle predette espropriazioni immobiliari, mentre avrebbe dovuto specificare i presupposti soggettivi e oggettivi della misura, anche eventualmente demandando al vaglio dello stesso giudice dell’esecuzione il contemperamento in concreto degli interessi in gioco. Ne deriva, secondo la Corte, una irragionevole sproporzione conseguente al mancato aggiustamento del bilanciamento sotteso alla misura in esame, resa ancor più evidente dal fatto che il diritto del debitore a conservare la disponibilità dell’abitazione è stato comunque tutelato dalla già ricordata proroga della sospensione dei provvedimenti di rilascio di immobili di cui all’art. 103, co. 6, d.l. n. 18 del 2020, nella formulazione modificata dall’art. 13, co. 13, d.l. n. 183 del 2020, come convertito, applicabile anche al decreto di trasferimento del bene espropriato. Pertanto, secondo la Corte, il bilanciamento sotteso alla temporanea sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è divenuto, nel tempo, irragionevole e sproporzionato, inficiando la tenuta costituzionale della seconda proroga (dal 1° gennaio al 30 giugno 2021), prevista dell’art. 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, come convertito. Il Giudice delle leggi, peraltro, ha rammentato al legislatore la possibilità, ove l’evolversi dell’emergenza epidemiologica lo richieda, di adottare le misure più idonee per realizzare un diverso bilanciamento, ragionevole e proporzionato, contemperando il diritto all’abitazione del debitore esecutato e la tutela giurisdizionale in executivis dei creditori procedenti.
Autore: a cura di Paolo Nasini 24 giu, 2021
Emergenza covid ed esecuzione sull'abitazione principale del debitore: il bilanciamento dei diritti secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 128 del 22 giugno 2021) 1. Il contesto normativo di riferimento. La disciplina degli istituti processuali speciali che hanno trovato applicazione durante la fase iniziale dell’emergenza pandemica da Covid-19, nei giudizi civili come in quelli penali, è stata dettata, in prima battuta, dall’art. 83, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. in l. 24 aprile 2020, n. 27 [1] . La più importante misura adottata durante tale prima fase dal legislatore, per evitare la presenza di più persone nello stesso luogo fisico, è stata il rinvio generalizzato delle udienze, dapprima dal 9 marzo al 15 aprile 2020 [2] e, quindi, sino all’11 maggio 2020 [3] . Si è trattato di un rinvio ex lege delle udienze, di carattere generale, trasversale, con alcune puntuali e tipizzate eccezioni. Parallelamente, l’art. 83, comma 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, ha sancito la sospensione, per il medesimo periodo indicato, del decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto nei procedimenti civili e penali. Successivamente, nel periodo ricompreso tra l’11 maggio e il 30 giugno 2020, è stato affidato ai capi degli uffici giudiziari il compito di adottare le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, ritenute più idonee ad affrontare i rischi derivanti dal contagio, contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria ed evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone. Quindi, con l’art. 221, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 [4] , convertito con modificazioni in l. 17 luglio 2020, n. 77, il legislatore ha introdotto una serie di disposizioni volte alla ripresa delle attività processuali, pur con modalità compatibili con il permanere dell’emergenza epidemiologica [5] . Un ulteriore adattamento degli istituti processuali si è avuto con l’art. 23, d.l. n. 137 del 2020, come convertito, con la previsione, in particolare, dell’udienza a porte chiuse e della cosiddetta camera di consiglio telematica. Le procedure esecutive non hanno formato oggetto di uno specifico e ampio intervento normativo, ma rientravano nell’ambito di applicazione “generale” delle suddette norme, ferma la necessità di “adattamento” in considerazione dei peculiari adempimenti che caratterizzano tali procedure, soprattutto con riguardo alle espropriazioni immobiliari, implicanti non di rado contatti ravvicinati tra persone. A tal fine, quindi, si è assistito all’esercizio, da parte dei giudici dell’esecuzione, dei poteri direttivi di cui all’art. 484 c.p.c. [6] , che si è spesso concretizzato nella emanazione di direttive operative di carattere generale [7] . Le procedure esecutive, quindi, nella prima fase dell’emergenza pandemica, nel vigore delle disposizioni dettate dall’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, hanno visto un sostanziale arresto delle attività non urgenti. Nella seconda fase, ricompresa tra l’11 maggio e il 30 giugno 2020, dall’esame delle circolari degli uffici giudiziari si evince che nelle procedure esecutive sono state svolte le sole attività urgenti e di norma sono state differite le vendite forzate. Tale situazione si è rivelata essere, in parte, anche effetto della precedente sospensione generalizzata delle attività, che non aveva consentito di porre in essere, entro i termini previsti dall’art. 490 c.p.c., i necessari adempimenti pubblicitari. Poiché la mancanza di una specifica disciplina normativa ritagliata sulle esigenze puntuali delle procedure esecutive ha comunque dato origine ad alcune divergenze interpretative nelle indicazioni fornite dagli uffici giudiziari, il Consiglio superiore della magistratura, con la delibera plenaria adottata in data 4 giugno 2020 [8] , ha sottolineato l’opportunità che, nel secondo periodo dell’emergenza, si adottassero le misure organizzative necessarie a far sì che fossero immesse nel circuito economico le somme liquide già realizzate e venisse, al contempo, garantita un’efficace ripresa dell’attività liquidatoria, ove consentito dalla normativa, con modalità che tutelassero in ogni caso gli interessi convergenti del debitore e dei creditori al corretto realizzo dei valori dei beni, ad esempio mediante l’adozione di modalità di vendite telematiche pure, sincrone o asincrone, anche per le procedure per le quali si era inizialmente previsto diversamente. Dopo il 30 giugno 2020, vi è stata una ripresa delle attività giudiziarie anche nelle procedure esecutive, sia pure nel rispetto delle generali prescrizioni normative sul distanziamento sociale e sulla mobilità delle persone. D’altronde, nell’ambito della valanga di norme d’emergenza che ha contraddistinto (e continua purtroppo a contraddistinguere) l’”era covid-19”, il legislatore ha però emanato, già a partire proprio dal d.l. n. 18 del 2020, come convertito [9] , l’art. 54-ter. La norma, ai sensi della quale « [a]l fine di contenere gli effetti negativi dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, in tutto il territorio nazionale è sospesa, per la durata di sei mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ogni procedura esecutiva per il pignoramento immobiliare, di cui all’articolo 555 del codice di procedura civile, che abbia ad oggetto l’abitazione principale del debitore », è stata introdotta, in sede di conversione del predetto decreto dall’Allegato alla legge di conversione n. 27 del 2020, nell’ambito della prima fase della legislazione emergenziale sui processi, anche civili ed esecutivi, dovuta al diffondersi della pandemia da Covid-19. La durata della sospensione era stata originariamente limitata a sei mesi, sicché gli effetti della stessa avrebbero dovuto cessare dopo il 30 ottobre 2020. Tuttavia, l’art. 4, d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, in l. 18 dicembre 2020, n. 176, ne ha prorogato gli effetti sino al 31 dicembre 2020, e l’art. 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, convertito, con modificazioni, in l. 26 febbraio 2021, n. 21, ne ha ulteriormente prorogato l’applicazione sino al 30 giugno 2021. Rispetto alle disposizioni dettate per il processo civile dall’art. 83, d.l. n. 18 del 2020, la disposizione che precede si distingue per aver contemplato una sospensione generalizzata delle attività di alcune procedure esecutive immobiliari (quelle aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore) e non solo dei termini per il compimento degli atti processuali. Il legislatore ha “costruito” la norma escludendo qualunque potere di valutazione discrezionale da parte del giudice dell’esecuzione, collegando la sospensione alla sola circostanza “oggettiva” che il bene pignorato costituisca l’abitazione principale del debitore, ossia il luogo dove dimora abitualmente, coincidente in genere con la residenza anagrafica, e non necessariamente, a dispetto della rubrica dello stesso art. 54-ter, con la «prima casa». Quindi, la condizione necessaria e sufficiente dell’arresto temporaneo del procedimento esecutivo consisteva nella sola circostanza, che il giudice dell’esecuzione era tenuto a verificare, che il suo oggetto fosse l’abitazione principale del debitore esecutato. La disciplina in esame – che null’altro richiede – non fornisce una definizione di «abitazione principale», la quale però può rinvenirsi nella normativa tributaria e segnatamente nell’art. 10, comma 3-bis, d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 [10] , in forza della quale « [p]er abitazione principale si intende quella nella quale la persona fisica, che la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale, o i suoi familiari dimorano abitualmente ». La sospensione investe tutti gli atti della procedura, compresa l’emanazione del decreto di trasferimento del bene espropriato contenente l’ordine di rilascio ai sensi dell’art. 586, co. 2, c.p.c.. Sempre nell’ambito del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, peraltro, il legislatore ha previsto un’altra disposizione “specifica” in materia esecutiva, l’art. 103, co. 6, la quale, originariamente, prevedeva che l’«esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è sospesa fino al 1° settembre 2020». Il legislatore, con l’art. 17 bis, d.l. n. 34 del 2020, come convertito [11] , ha precisato che, « [a]l comma 6 dell’articolo 103 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, le parole: “1° settembre 2020” sono sostituite dalle seguenti: “31 dicembre 2020” ». La modifica, inerendo specificamente (per come indicato in rubrica) la sola proroga della sospensione dell’esecuzione degli sfratti, sembrerebbe aver accolto l’opzione interpretativa più restrittiva relativamente all’art. 103, co. 6 citato, nel senso, in particolare, di escludere i titoli per il rilascio degli immobili pignorati pronunciati, come il decreto di trasferimento, nel corso dell’esecuzione forzata. Il legislatore, d’altronde, intervenendo nuovamente sulla norma in questione, ne ha modificato la portata con l’art. 13, co. 13, d.l. n. 183 del 2020, come convertito, stabilendo che la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, prevista dall’art. 103, co. 6, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, è prorogata sino al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze nonché a quelli conseguenti all’adozione, ai sensi dell’art. 586, co. 2, c.p.c., del decreto di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari [12] . L’art. 103, co. 6, si applica, quindi, anche all’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento del bene espropriato. Ne consegue che l’art. 54 ter, d.l. n. 18 del 2020 finisce con l’assicurare un plus di protezione al debitore esecutato, quando oggetto della procedura è la sua abitazione principale; una protezione ulteriore che copre tutti gli atti della procedura esecutiva e che si aggiunge, sovrapponendosi, a quella, più generale, concernente la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili anche ad uso non abitativo. 2. Il caso Con una prima ordinanza, n. 40/21 del 13 gennaio 2021, il Giudice dell’esecuzione immobiliare presso il Tribunale ordinario di Barcellona Pozzo di Gotto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della suddetta norma, per contrarietà agli artt. 3, co. 2, 24, co. 1, 47, co. 2, 111 co. 2, e 117, co. 1, Cost. – quest’ultimo in relazione agli artt. 6 par. 1, e 1, co. 1, Prot. addiz CEDU [13] . Avanti al G.E. del Tribunale siciliano, infatti, si era posto il problema, a fronte della richiesta di rinnovo della delega alle operazioni di vendita da parte del professionista delegato alla vendita (scaduta in data 4 gennaio 2021 e conferita il 2 maggio 2016) della, medio tempore intervenuta proroga dell’efficacia, ad opera dell’art. 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, conv. in l. n. 21 del 2021, dell’art. 54-ter. La sospensione, in altre parole, secondo il giudice dell’esecuzione impediva il rinnovo della delega trattandosi di un atto esecutivo finalizzato alla liquidazione del bene. Secondo il Tribunale quindi, l’art 54 ter si sarebbe posto in contrasto: - con l’art. 24, co. 1, Cost., in quanto il diritto del creditore di soddisfarsi in sede esecutiva è parte essenziale della tutela giurisdizionale e la sospensione non potrebbe essere giustificata dall’esigenza di tutelare altri beni di rango costituzionale, come il risparmio e la salute individuale o collettiva, laddove la suddetta norma si correla alla mera destinazione del bene pignorato ad abitazione principale del debitore, circostanza neutra rispetto alla capacità reddituale dello stesso; - con gli artt. 3, co. 2, e 47, co. 2, Cost., per non avere il legislatore ponderato adeguatamente né i contrapposti interessi dei creditori (anche di quelli «occasionali» e non solo di quelli «istituzionali») e dei debitori esecutati, né l’incidenza negativa che una progressiva stabilizzazione della misura di sospensione di cui all’art. 54-ter, prorogata sino al 30 giugno 2021, potrebbe avere sulla collettività, per l’idoneità a determinare un sensibile aumento dei tassi di interesse sui mutui a causa dell’incertezza dei creditori «istituzionali» sulle possibilità di recupero coattivo delle somme erogate; - con l’art. 111, co. 2, Cost., con particolare riferimento al principio di ragionevole durata del processo, l’art. 54 ter determinando un arresto della procedura esecutiva per un periodo di tempo significativo, non giustificata dall’esigenza di consentire al debitore di ripianare la propria posizione, né dalla crisi economica determinata dall’emergenza sanitaria, non avendo previsto la possibilità per l’autorità giudiziaria di vagliare la relativa incidenza sulla situazione dell’esecutato; - con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1, CEDU e all’art. 1, co. 1, Prot. addiz. CEDU, in quanto, per effetto delle proroghe disposte, la norma inciderebbe negativamente sulla ragionevole durata del processo, e potrebbe, inoltre, incidere sulla tutela che l’art. 1, co. 1, Prot. addiz. CEDU, garantisce ai diritti su beni [14] . Parallelamente, anche il Giudice delle esecuzioni immobiliari presso il Tribunale ordinario di Rovigo, con ordinanza del 18 gennaio 2021 ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, co. 1, d.l. n. 137 del 2020, e 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, nella parte in cui hanno esteso il termine di efficacia dell’art. 54-ter in questione, per asserita violazione degli artt. 3, 24, 41, 42, co. 3, 47, 111 e 117, co. 1, Cost. – quest’ultimo in relazione agli artt. 6 CEDU e 16 CDFUE [15] . Avanti al Giudice rodigino la questione dell’applicabilità dell’art. 54 ter è sorta in quanto, nell’ambito di una procedura esecutiva immobiliare incardinata nell’anno 2019, il creditore procedente aveva chiesto, all’udienza del 15 gennaio 2021, l’autorizzazione alla vendita del cespite pignorato, il quale, però, secondo quanto riscontrato dal custode, era l’abitazione principale del debitore, con conseguente impossibilità di proseguire le operazioni di vendita prima del termine di cessazione della sospensione ex lege . Secondo il Giudice a quo , le disposizioni di proroga censurate avrebbero inciso sulla libertà di iniziativa economica privata, che potrebbe essere compromessa dal ritardo nel recupero giudiziale del credito, senza che sussistessero ragioni per tale differimento di tutela, non potendosi ravvisare le stesse nell’esigenza, determinata dall’emergenza COVID-19, di tutelare la parte colpita dalla crisi economica, in quanto le procedure sospese, a partire dalla data del 30 aprile 2020, riguardavano debitori inadempienti prima di tale momento; inoltre, non sarebbe veunta in gioco nemmeno la necessità di garantire la salute pubblica, sia perché ad essere state sospese sono solo le procedure immobiliari aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore sia, comunque, per la possibilità di fronteggiare le relative esigenze con misure di protezione e distanziamento sociale. Secondo il Tribunale, quindi, l’unico scopo delle previsioni censurate, estraneo all’emergenza epidemiologica, sarebbe stato la tutela delle esigenze abitative dei soggetti ritenuti economicamente più deboli, obiettivo, d’altronde, che il legislatore dovrebbe perseguire mediante politiche strutturali di sostegno del diritto all’abitazione, senza “scaricare” tale onere sui cittadini. Si sarebbe posto, poi, un possibile contrasto delle disposizioni censurate con l’art. 42, co. 3, Cost., poiché l’effetto della prevista sospensione, impedendo al creditore di diventare proprietario del bene oggetto della procedura esecutiva mediante la proposizione dell’istanza di assegnazione, sarebbe stato assimilabile ad una forma di espropriazione o, comunque, una “misura ablativa reale” non fondata su un interesse pubblico preminente e priva di ogni forma di indennizzo. La proroga, poi, avrebbe contrastato con l’art. 47 Cost., in quanto la sospensione, rendendo più difficile il recupero dei crediti, inciderebbe sulle condizioni di accesso della generalità dei cittadini al credito bancario, rendendole più rigorose. Infine, secondo il giudice rimettente, le norme censurate si sarebbero poste in contrasto con il combinato disposto degli artt. 24, 111 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, CEDU, in quanto le stesse avrebbero comportato una limitazione del diritto di azione del creditore non giustificata né dalla crisi economica, né dall’esigenza di tutela della salute, bensì finalizzata a una “indiscriminata politica di favore” del diritto di determinati soggetti all’abitazione, laddove tale diritto, anche nell’ottica della solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., deve essere realizzato attraverso interventi di sostegno in favore dei soggetti che versino in particolari condizioni di disagio economico. La Corte costituzionale, nel precisare il thema decidendum complessivamente sottoposto dalle ordinanze di rimessione al Giudice delle leggi, ha sottolineato come la norma in concreto sottoposta a censure vada identificata, ratione temporis , e alla luce delle difese delle parti, nell’art. 13, comma 14, d.l. n. 183 del 2020, come convertito, che ha disposto la (seconda) proroga della sospensione delle procedure esecutive immobiliari aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore esecutato, dal 1° gennaio al 30 giugno 2021: in tal senso, pur iscrivendosi le questioni di legittimità costituzionale in un contesto normativo più ampio [16] , lo scrutinio della Corte si è incentrato sulla predetta disposizione. 3. La decisione della Corte Costituzionale. Il Giudice delle leggi ha dichiarato, quindi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 14, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, in l. 26 febbraio 2021, n. 21. In particolare, la Corte ha ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, co. 1, e 24, commi 1 e 2, Cost., con assorbimento delle altre censure. L’art. 24, co 1, Cost., infatti, garantisce a tutti di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, e tale garanzia comprende anche la fase c.d. esecutiva, attraverso la quale è possibile rendere effettiva e, quindi, attuare, anche materialmente, quanto accertato e statuito dal giudice con il provvedimento giudiziale cognitorio [17] . In tal senso, la tutela esecutiva è strumento processuale indispensabile e costituzionalmente necessario [18] per la menzionata garanzia di effettività [19] dell’accesso giurisdizionale, consentendo al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore [20] . Pertanto, ricorda la Corte, il legislatore certamente può esercitare una discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, ma con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina [21] , limite da ritenersi valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» [22] . Viene, pertanto, sottolineata dal Giudice delle leggi la necessità che, in linea di principio, una compressione del diritto ad agire in giudizio, anche in via esecutiva, sia prevista solo in termini e in relazione ad eventi eccezionali, quindi, temporanei, perché un intervento legislativo che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale [23] . Nessun diritto può considerarsi, a ben vedere, privo di limiti, specie laddove, venendo in gioco altri diritti meritevoli di tutela, come quello fondamentale all’abitazione, si renda necessario valutare un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite [24] . In tal senso, la possibilità per il legislatore di procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva può essere ammessa laddove trovi giustificazione in un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in relazione anche alle specifiche modalità con le quali il bilanciamento viene posto in essere. Il diritto all’abitazione, in particolare, costituisce «diritto sociale» [25] e «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» [26] , rientrando – pur in mancanza di espressa previsione normativa - nel catalogo dei diritti inviolabili [27] , l’abitazione dovendosi considerare «bene di primaria importanza» [28] . D’altronde, secondo la Corte, anche nell’ipotesi in cui sia in discussione il diritto all’abitazione del debitore esecutato, la sospensione delle procedure esecutive può essere contemplata dal legislatore solo a fronte di circostanze eccezionali e per un periodo di tempo limitato, e non già con una serie di proroghe, che superino un ragionevole limite di tollerabilità [29] . Il dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, infatti, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni – i creditori procedenti in executivis – a beneficio di altri maggiormente esposti, selezionati inizialmente sulla base di un criterio a maglie larghe: tutti i debitori esecutati che dimorano nell’abitazione principale posseduta a titolo di proprietà o altro diritto reale . È necessario, allora, verificare se la proroga della sospensione delle esecuzioni - avente ad oggetto l’abitazione principale del debitore esecutato -, reiterata dal legislatore, sia giustificata da un ragionevole e proporzionato giudizio di bilanciamento . La Corte Costituzionale ha valorizzato, in un’ottica diacronica, il diverso modo di atteggiarsi del giudizio di bilanciamento in considerazione del tempo e del mutamento delle circostanze socio-sanitarie ed economiche: - nel primo periodo dell’emergenza pandemica [30] il legislatore, con l’introduzione dell’art. 54 ter, d.l. n. 18 del 2020, ha voluto evitare che tanto l’esecuzione del rilascio degli immobili quanto le procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale potessero costituire causa di aggravamento delle difficoltà economiche e fonte di preoccupazioni ulteriori per i debitori esecutati [31] , limitando, comunque, l’efficacia temporale di tale misura; - la disposizione, d’altro canto, da un lato, è stata inserita, come detto, in un quadro “sospensivo” di carattere generale inerente l’intero processo civile, accanto ad altra previsione puntuale inerente il processo esecutivo [32] , dall’altro lato è rimasta inalterata nelle successive proroghe, le quali, avendone esteso gli effetti sino al 30 giugno 2021, hanno portato il periodo di compressione del diritto di difesa a quattordici mesi, di cui l’ultimo semestre è ascrivibile alla disposizione censurata avanti alla Corte delle Leggi; - in particolare, in occasione delle due proroghe, il bilanciamento (tra il diritto del creditore procedente alla tutela giurisdizionale nella forma esecutiva e l’eccezionale protezione, giustificata dall’emergenza pandemica, del debitore esecutato, per garantirgli la disponibilità dell'abitazione principale), sotteso alla misura in esame, è rimasto invariato nei termini inizialmente valutati dal legislatore, che ha introdotto il blocco di tali esecuzioni; - con l’evolversi della situazione emergenziale, però, il legislatore ha previsto – quanto al settore della giustizia – misure più mirate che, sempre finalizzate a contenere il rischio di contagio secondo un criterio di precauzione, assicurassero in parallelo la ripresa dell’attività giudiziaria, così “dando il via” alla seconda fase, connotata dall’assegnazione ai capi degli uffici giudiziari della facoltà di adottare misure organizzative, comprensive della adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, nonché del loro possibile rinvio a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, peraltro con alcune eccezioni tipizzate; - la terza fase (dapprima fino al 31 ottobre 2020), introdotta dall’art. 221 del d.l. n. 34 del 2020 [33] , come convertito, si è caratterizzata, come detto, per avere il legislatore adottato una serie di prescrizioni e cautele per la generale ripresa. La Corte, quindi, ha sottolineato che a questo progressivo adattamento delle misure emergenziali dettate per i giudizi civili, comprensivi delle procedure esecutive, non è rimasta estranea neppure la prevista sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, fattispecie distinta rispetto alla sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale. L’art. 13, comma 13, del d.l. n. 183 del 2020, come convertito, ha peraltro ulteriormente prorogato la sospensione fino al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze, oltre che ai provvedimenti di rilascio contenuti nei decreti di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari [34] , e la Corte ha evidenziato che, a fronte di una disciplina processuale affinatasi progressivamente – sia quella generale della giustizia civile comprensiva delle procedure esecutive, sia quella molto specifica del rilascio coattivo degli immobili – la prevista sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è invece rimasta invariata nei suoi presupposti fino alla seconda proroga, oggetto delle censure in esame. È mancato, cioè, un aggiustamento dell’iniziale bilanciamento, sia quanto alla possibile selezione degli atti della procedura esecutiva da sospendere, sia soprattutto quanto alla perimetrazione dei beneficiari del blocco. L’individuazione di questi ultimi in termini ampi – perché fatta con riferimento alla mera circostanza che il debitore esecutato dimorasse nell’abitazione principale e che questa fosse assoggettata ad esecuzione forzata – poteva giustificarsi inizialmente per rendere più agevole, rapida e immediatamente efficace la misura di protezione, ma con l'andare avanti del tempo sono emerse l’irragionevolezza e la sproporzione di un bilanciamento calibrato su tutti, indistintamente, i debitori esecutati. Il protrarsi del sacrificio richiesto ai creditori procedenti in executivis , che di per sé non costituiscono una categoria privilegiata e immune dai danni causati dall’emergenza epidemiologica, avrebbe dovuto essere, tuttavia, dimensionato rispetto alle reali esigenze di protezione dei debitori esecutati, con l’indicazione di adeguati criteri selettivi quali quelli previsti, tra gli altri, in materia di riscossione esattoriale [35] . Invece, nella proroga della sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale, di cui alla disposizione censurata, nessun criterio selettivo è stato previsto a giustificazione dell’ulteriore protrarsi della paralisi dell’azione esecutiva. Il legislatore, cioè, ha prorogato una misura generalizzata e di extrema ratio , quale quella della sospensione delle predette espropriazioni immobiliari, mentre avrebbe dovuto specificare i presupposti soggettivi e oggettivi della misura, anche eventualmente demandando al vaglio dello stesso giudice dell’esecuzione il contemperamento in concreto degli interessi in gioco. Ne deriva, secondo la Corte, una irragionevole sproporzione conseguente al mancato aggiustamento del bilanciamento sotteso alla misura in esame, resa ancor più evidente dal fatto che il diritto del debitore a conservare la disponibilità dell’abitazione è stato comunque tutelato dalla già ricordata proroga della sospensione dei provvedimenti di rilascio di immobili di cui all’art. 103, co. 6, d.l. n. 18 del 2020, nella formulazione modificata dall’art. 13, co. 13, d.l. n. 183 del 2020, come convertito, applicabile anche al decreto di trasferimento del bene espropriato. Pertanto, secondo la Corte, il bilanciamento sotteso alla temporanea sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è divenuto, nel tempo, irragionevole e sproporzionato, inficiando la tenuta costituzionale della seconda proroga (dal 1° gennaio al 30 giugno 2021), prevista dell’art. 13, co. 14, d.l. n. 183 del 2020, come convertito. Il Giudice delle leggi, peraltro, ha rammentato al legislatore la possibilità, ove l’evolversi dell’emergenza epidemiologica lo richieda, di adottare le misure più idonee per realizzare un diverso bilanciamento, ragionevole e proporzionato, contemperando il diritto all’abitazione del debitore esecutato e la tutela giurisdizionale in executivis dei creditori procedenti. 4. L’ordinanza n. 12 del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 12/21, pubblicata il 18 giugno 2021, ha rinviato la trattazione della controversia ad una udienza da fissarsi da parte del Presidente del Consiglio di Stato in data successiva al deposito della decisione della Corte costituzionale sopra annotata. L’Adunanza plenaria, infatti, è stata adita, con ordinanza 21 aprile 2021 n. 3211, dalla Quinta sezione del Consiglio di Stato, la quale ha chiesto al Supremo consesso amministrativo di pronunciarsi sulla compatibilità dei principi affermati nella sentenza Cons. Stato, Ad. plen. 5 agosto 2020 n. 15 con i principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in special modo quelli enunciati nella sentenza 24 settembre 2013 n. 43870/04 De Luca c. Italia, dove vengono valutati i limiti alla compressione del diritto al rispetto dei propri beni nonché a quello di accesso ad un tribunale (art. 1 del protocollo 1 e art. 6, par. 1, della Convenzione CEDU). Il rinvio della trattazione della causa, quindi, si è giustificato, a parere dell’Adunanza Plenaria, in quanto: - i principi contenuti nella detta sentenza - unitamente a quella coeva, CEDU 24 settembre 2013 n. 43892/04 Pennino c. Italia – sono stati individuati quale ‘norma interposta’ nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale n. 40 del 2021, del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, sopra ricordata, sollevata con riguardo a disciplina diversa, ma parimenti concernente limitazioni all’esecuzione forzata, tramite la sospensione di ogni procedura esecutiva immobiliare avente a oggetto l'abitazione principale del debitore; - le valutazioni sull’impatto ordinamentale delle citate sentenze CEDU, operate nella detta ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, risulterebbero in gran parte analoghe a quelle fatte proprie dall’ordinanza n. 3211 del 2021 della Quinta sezione. Orbene, la Corte Costituzionale non si è pronunciata con riguardo alle specifiche questioni di incostituzionalità vertenti sugli aspetti di diritto internazionale sopra ricordati, assorbite in considerazione dell’incostituzionalità delle proroghe dell’art. 54 ter in violazione degli artt. 3 e 24 Cost, di modo che le problematiche rimesse all’esame dell’Adunanza plenaria dovranno essere adesso autonomamente valutate, considerato, altresì, che oggetto del relativo giudizio amministrativo è una normativa differente da quella dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi. [1] Recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. [2] Art. 83, comma 1, d.l. n. 18 del 2020. [3] Ai sensi dell’art. 36, co. 1, d.l. 8 aprile 2020 n. 23, recante “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali”, conv. con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40. [4] Recante “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”. L’art. 1, co. 3, lett. a) e b), n. 7), d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, recante «Misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, per il differimento di consultazioni elettorali per l’anno 2020 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID, nonché per l’attuazione della direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, e disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale», conv. con modif. in l. 27 novembre 2020, n. 159, ha poi prorogato questa disciplina fino al 31 dicembre 2020. [5] Il legislatore ha adottato una serie di prescrizioni e cautele per la generale ripresa, quali l’obbligatorietà del deposito degli atti introduttivi con modalità telematiche, la cosiddetta cartolarizzazione dell’udienza e la possibilità che l’udienza civile si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza. [6] Ai sensi del quale < >. [7] Soprattutto nei confronti degli ausiliari. [8] «L’organizzazione del settore delle procedure esecutive e concorsuali nella “fase 2” dell’emergenza COVID-19»: il CSM ha rimarcato la peculiarità del settore delle esecuzioni civili in quanto indubbiamente nevralgico per la funzionalità del sistema sotto il profilo della circolazione delle risorse economiche. [9] Più precisamente in forza dell’Allegato alla legge 24 aprile 2020, n. 27, di conversione. [10] Recante il c.d. Testo unico delle imposte sui redditi, in tema di oneri deducibili dal reddito complessivo. [11] Recante «Proroga della sospensione dell’esecuzione degli sfratti di immobili ad uso abitativo e non abitativo». [12] Più recentemente l’art. 40-quater del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 21 maggio 2021, n. 69, ha stabilito che la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo, è prorogata: a) fino al 30 settembre 2021 per quelli adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020; b) fino al 31 dicembre 2021 per quelli adottati dal 1°ottobre 2020 al 30 giugno 2021. [13] Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952. [14] I quali comprenderebbero qualsiasi entità materiale o immateriale economicamente valutabile, inclusi i diritti di credito derivanti da una decisione giudiziaria. [15] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. [16] Quello descritto al par. 1 che precede. [17] In tal senso, Corte Cost., 6 dicembre 2002, n. 522. [18] Corte Cost., 8 settembre 1995, n.419. [19] Corte Cost. 5 dicembre 2018, n. 225; id., 11 novembre 2011 n. 304. [20] Ex plurimis, Corte Cost. n. 225 del 2018, cit.; id., n. 335 del 2004, cit.; id., n. 522 del 2002, cit. [21] ex plurimis, Corte Cost., 3 marzo 2016, n. 44; id., 23 gennaio 2013, n. 10; id., 20 giugno 2008, n. 221. [22] Corte Cost., n. 225 del 2018 cit.; negli stessi termini, id., 5 maggio 2021, n. 87; id., n. 44 del 2016, cit; id., n. 335 del 2004, cit.; id., 13 dicembre 2019, n. 271 (con la quale la Corte ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 120, co. 2-bis, All. 1 c.p.a., sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal TAR Puglia; nonché dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 103, 113 e 117, co. 1, Cost., - quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU- dal sempre dal TAR Puglia). [23] Corte Cost., 12 luglio 2013, n. 186. [24] Ex plurimis, Corte Cost., 14 ottobre 2020, n. 212; id., 30 aprile 2015, n. 71 (in materia di provvedimento ex art. 42 bis, d.p.r. n. 327 del 2001); id., 20 gennaio 2011, n. 17 del 2011; id., n. 221 del 2008, cit.. [25] Corte Cost., 24 maggio 2018 n. 106. [26] Corte Cost., 9 marzo 2020, n. 44. [27] Corte Cost., 27 giugno 2013, n. 161; id. 25 febbraio 2011, n. 61. [28] Corte Cost., 24 aprile 2020, n. 79; id., 20 luglio 2018, n. 166. [29] Ex multis, Corte Cost., 28 maggio 2004, n. 155; id.,07 ottobre 2003, n. 310. [30] Durante il quale si è avuto, di fatto, l’arresto della “macchina economica” del Paese, numerose attività essendo state del tutto interrotte, con conseguente difficoltà di ampi strati della popolazione. [31] Ove esposti al rischio di perdere la disponibilità dell’abitazione principale. [32] Come più sopra ricordato, da un lato, la sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore (art. 54-ter), e, dall’altro lato, quella dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili in genere (art. 103, comma 6). [33] Prorogata da art. 1, co.3, lett. a) e b), n. 7), d.l. 7 ottobre 2020, n. 125, conv. in l. 27 novembre 2020, n. 159; con l’art. 23, d.l. n. 137 del 2020, come convertito, poi, è stata prevista l’udienza a porte chiuse a la c.d. camera di consiglio telematica. [34] L’art. 40-quater, d.l. 22 marzo 2021, n. 41, ha prorogato la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche ad uso non abitativo: a) fino al 30 settembre 2021 per quelli adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020; b) fino al 31 dicembre 2021 per quelli adottati dal 1°ottobre 2020 al 30 giugno 2021. [35] Art. 76, co. 1, lett. a, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, ai sensi del quale l'agente della riscossione non dà corso all'espropriazione < >.
Autore: relazione tratta dal convegno "Il possibile contributo della giustizia amministrativa alla ripartenza del Paese" 17 giu, 2021
Il recente d.l. n. 77 del 2020, approvato il 28 maggio 2021, che ha costituito sostanzialmente il primo, parziale, strumento di attuazione del PNRR, si compone di 67 articoli (e 4 allegati), si pone espressamente in attuazione dei traguardi e degli obiettivi stabiliti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, di cui al regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, dal Piano nazionale per gli investimenti complementari di cui al decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, nonché dal Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima 2030 di cui al Regolamento (UE) 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 dicembre 2018. Il decreto-legge per prima cosa, quindi, definisce la c.d. “struttura di governance” (artt. 2- 13), cioè i soggetti che concorrono nel coordinamento, gestione, attuazione, monitoraggio e controllo del PNRR, con annesse disposizioni di natura finanziaria (artt. 14-16); il restante blocco di norme è un insieme eterogeneo (per l’ambito di applicazione) di interventi finalizzati alla “ semplificazione” (inteso in un senso più complesso del mero “taglio” normativo o procedimentale) e “implementazione” delle strutture e degli strumenti a disposizione della pubblica amministrazione. Per quanto la prima parte, relativa alla governance , abbia in sé dei risvolti di sicuro interesse, si approfondirà nel presente contributo il secondo, e molto più corposo e articolato, blocco di norme. Si tratta di un insieme di disposizioni che, parafrasando la rubrica della Parte II, sono volte ad incidere, migliorandola, sull’attività amministrativa, rafforzandone la “capacità” e accelerando i tempi delle procedure e cercando di ridurre (snellire) l’articolazione delle stesse. Nel concetto di “rafforzamento della capacità” può farsi ricomprendere anche il concetto di “ottimizzazione” dell’agire amministrativo a fini di certezza delle situazioni giuridiche, piena tutela dei diritti e degli interessi tutelati dall’ordinamento e adeguato bilanciamento degli interessi in gioco. Si tratta di una serie di interventi che si innestano, modificandole in modo più o meno ampio, su discipline normative complesse come nel caso del T.U. ambiente, il c.d. codice dei beni culturali o il c.d. codice dei contratti pubblici, attraverso, però, un insieme di disposizioni, nelle intenzioni, ad effetto “chirurgico”. Esemplificativi, al riguardo, sono gli interventi operati sulla l. n. 241 del 1990 , inseriti tra gli ultimi articoli del decreto, apparentemente irrisori, ma in realtà rilevanti, trattandosi, comunque, di disposizioni ad efficacia “trasversale”, applicandosi, di regola, a ogni procedimento. In particolare, le novità normative riguardano il potere sostitutivo (art. 2 legge n. 241/1990); la disciplina del silenzio assenso (art. 20 legge n. 241/1990) e il regime dell’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies legge n. 241/1990). Sotto il primo profilo, l’art. 61, modificando i commi 9 bis e 9 ter dell’art. 2 (Conclusione del procedimento) della legge n. 241/1990, prevede che il potere sostitutivo in caso di inerzia procedimentale della P.A. possa essere attribuito oltre che a un soggetto nell'ambito delle figure apicali (come previsto in precedenza), anche a un’unità organizzativa. Inoltre, decorso inutilmente il termine per la conclusione del procedimento (anche considerando le previste ipotesi di sospensione legittima di questo termine), il responsabile o l'unità organizzativa cui è attribuito il potere sostitutivo può, d'ufficio o su richiesta dell'interessato, esercitare il suddetto potere sostitutivo e, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto, concludere il procedimento attraverso le strutture competenti o con la nomina di un commissario ad acta . In secondo luogo, nell’ambito della disciplina del silenzio assenso di cui all’art 20 l. n. 241 del 1990, l’art. 62 ha inserito il comma 2 bis, ai sensi del quale nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento (ovverosia nell’ipotesi di perfezionamento del silenzio assenso) l'amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare, in via telematica, un'attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell'intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo (fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso). Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l'attestazione è sostituita da una dichiarazione del privato sostitutiva dell’atto di notorietà, ai sensi dell'art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. Infine, rilevante la modifica operata dall’art. 63 all’istituto dell’annullamento d’ufficio da parte della P.A., di cui al comma 1 dell’art. 21-nonies legge n. 241/1990, avendo diminuito da 18 a 12 mesi il termine massimo entro il quale l’Amministrazione può esercitare il potere di autotutela di annullamento sui suoi atti, senza peraltro prevedere una particolare disposizione transitoria. Tornando alla struttura del decreto legge, i settori di intervento sono: a) Ambiente e paesaggio (c.d. transizione ecologica); b) Titolo II - Transizione digitale (artt. 38-43) c) Titolo III - Procedura speciale per alcuni progetti pnrr (artt. 44-46) d) Titolo IV - Contratti pubblici (artt. 47-56); e) Titolo V - Semplificazione delle norme in materia di investimenti e interventi nel mezzogiorno (att. 57-59); f) Titolo VI - Modifiche alla legge 7 agosto 1990 n. 241 (artt. 60-62), di cui si è già detto; g) Titolo VII - Ulteriori misure di rafforzamento della capacità amministrativa (artt. 63-67). a) AMBIENTE E PAESAGGIO Uno degli elementi centrali del Pnrr e del Pniec è la realizzazione in tempi brevi di opere e progetti anche infrastrutturali: in considerazione dell’impatto che dette opere e interventi possono avere sotto il profilo ambientale e paesaggistico il legislatore ha inteso intervenire per cercare di semplificare sempre nel senso di “ottimizzare” ed “efficientare” il procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) mediante: - l’istituzione di una apposita commissione tecnica per la VIA, composta da un massimo di 40 persone nominate con decreto del Ministro che devono lavorare a tempo pieno in modo da garantire efficienza e capacità produttiva; - la modifica di alcuni termini procedimentali in modo più stringente, sia in termini generali, come nel caso degli artt. 19, 20 e 25, comma 2, t.u. 152 del 2006; sia con specifico riferimento ai progetti che rientrano nel PNRR, a quelli finanziati dal fondo complementare e ai progetti attuativi del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC); - la previsione di uno specifico potere sostitutivo in caso di inerzia della commissione tecnica predetta, oltre che dei dirigenti del Ministero della transizione ecologica e del Ministero della cultura; - la previsione di forme di coinvolgimento e “consultazione del pubblico” (con possibilità di prendere visione del progetto e della relativa documentazione e fare osservazioni), con la modifica dell’art. 23 TU; - l’istituzione presso il ministero della Cultura di una “Soprintendenza speciale”, per la tutela dei beni culturali e paesaggistici interessati dagli interventi previsti nel PNRR, ufficio di livello dirigenziale generale straordinario operativo fino al 31 dicembre 2026, e che svolge le funzioni di tutela dei beni culturali e paesaggistici nei casi in cui tali beni siano interessati dagli interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale oppure rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero; Per accelerare il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, efficientamento energetico, tutela dell’ambiente e promozione dell’economia circolare e contrasto al dissesto idrogeologico, poi, sono state semplificate le procedure autorizzative che riguardano la produzione di energia da fonti rinnovabili, la INSTALLAZIONE DI INFRASTRUTTURE ENERGETICHE, IMPIANTI DI PRODUZIONE E ACCUMULO DI ENERGIA ELETTRICA e, inoltre, sono introdotte puntuali previsioni in punto di BONIFICA DEI SITI CONTAMINATI , riconversione siti industriali contaminati, rifiuti, nonché semplificazione amministrativa per le opere di sistemazione idraulica forestale in aree collinari e montane ad altro rischio idrogeologico: - tra le altre, ad esempio, per i progetti riguardanti impianti alimentati da fonti rinnovabili localizzati in aree sottoposte a tutela, anche in itinere, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché nelle aree contermini ai beni sottoposti a tutela ai sensi del medesimo decreto legislativo, al fine di raggiungere gli obiettivi nazionali di efficienza energetica contenuti nel PNIEC e nel PNRR, è stato previsto che il Ministero in caso di inutile decorso del termine per esprimere il proprio parere obbligatorio non vincolante NON potrà attivare i rimedi per le amministrazioni dissenzienti di cui all'articolo 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241; Per quanto riguarda la c.d. rigenerazione urbana , importante intervento di semplificazione in materia di superbonus, per gli interventi previsti per favorire l’efficientamento energetico degli edifici: - l’accesso alla misura è stato esteso agli interventi volti alla rimozione delle barriere architettoniche; - il superbonus al 110% è stato escluso per "gli immobili rientranti nella categoria catastale D/2", ossia per la categoria in cui rientrano gli alberghi e pensioni (con fine di lucro) che sembravano essere compresi nel decreto, ma è stato esteso a case di cura ed ospedali, poliambulatori, collegi e convitti, ovvero per i proprietari di immobili rientranti nelle categorie catastali B/1, B/2 e D/4.; - sotto il profilo del titolo attraverso il quale poi poter usufruire del beneficio fiscale del Superbonus 110%, è stato ampliato l’ambito di applicazione della Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila), con essa potendo essere realizzati tutti i lavori (costituenti manutenzione straordinaria) con esclusione di quelli comportanti la demolizione e la ricostruzione degli edifici ; - la presentazione della CILA non richiede l’attestazione dello stato legittimo di cui all’ articolo 9-bis, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380; - per gli immobili la cui costruzione sia stata completata dopo il 1° settembre 1967, «dovranno essere attestati gli estremi del titolo abilitativo che ha previsto la costruzione dell'immobile oggetto d'intervento o del provvedimento che ne ha consentito la legittimazione»; mentre per gli immobili precedenti, «è attestato che la costruzione è stata completata in data antecedente al 1° settembre 1967». In questo modo, si dovrebbero accelerare gli interventi di efficientamento energetico e antisismico ed eliminare le lunghe attese per accedere alla documentazione degli archivi edilizi dei Comuni (3 mesi in media per ogni immobile oggetto di verifica); l'eliminazione dell’attestazione di stato legittimo comporterebbe, secondo alcune stime, inoltre un risparmio di spesa per adempimenti burocratici per diversi milioni di euro (da reinvestire in spesa produttiva, ossia in progettazione e realizzazione degli interventi). b) TRANSIZIONE DIGITALE Si tratta di una serie di norme finalizzate ad implementare ed ottimizzare l’uso dei mezzi di comunicazione digitale, e quindi anche delle correlate necessarie infrastrutture, anche al fine di colmare il c.d. divario digitale. Tra i vari interventi si possono segnalare: - le modifiche al d.lgs. n. 82 del 2005, al fine di semplificare e favorire l'utilizzo del domicilio digitale e dell'identità digitale e l'effettivo esercizio del diritto all'uso delle nuove tecnologie; in particolare, è stato inserito nel codice l’art. 64 ter che disciplina il SISTEMA DI GESTIONE DELLE DELEGHE (SDG) che consentirà a chiunque di individuare un “delegato Spid“, una persona che potrà agire rappresentando “virtualmente” l’interessato per avere accesso ai servizi PA. In particolare, una volta acquisita la delega il sistema genererà “un attributo qualificato associato all’identità digitale del delegato”, che consentirà di identificare il soggetto come “delegato virtuale”. In tal modo, anziani e tutti coloro che non hanno familiarità col digitale potranno avere accesso e utilizzare i sistemi digitalizzati della Pubblica Amministrazione per mezzo di una persona fidata; - sono state introdotte una serie di modifiche normative di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per l’installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica e agevolazione per l’ infrastrutturazione digitale degli edifici e delle unità immobiliari: si tratta di una serie di importanti modifiche di previsioni normative contenute nel d.lgs. 259 del 2003, in particolare, gli artt. 86, 87 e 88, tra le quali, la riduzione dei termini per l’adozione di provvedimenti per la concessione del diritto di installare infrastrutture di comunicazione elettronica, da 6 mesi a 90 giorni; una concentrazione procedimentale e provvedimentale sia con riferimento ai procedimenti autorizzatori relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici – art. 87 - sia con riferimento ai casi in cui l'installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica presupponga la realizzazione di opere civili o, comunque, l'effettuazione di scavi e l'occupazione di suolo pubblico. - gli speciali poteri attribuiti all’AGENZIA per L’ITALIA DIGITALE: al fine di assicurare l'attuazione dell'Agenda digitale italiana ed europea, la digitalizzazione dei cittadini, delle pubbliche amministrazioni e delle imprese, con specifico riferimento alla realizzazione degli obiettivi fissati dal PNRR, nonché garantire il coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale, , mediante l’introduzione dell’art. 18 bis d.lgs. n. 82 del 2005 sono stati attribuiti all’Agenzia poteri di controllo, vigilanza, monitoraggio, di segnalazione (ad esempio al difensore civico digitale, a ciascuna amministrazione e competenti organismi indipendenti di valutazione) e sanzionatori in ordine al rispetto delle norme del CODICE e di ogni altra norma in materia di innovazione tecnologica e digitalizzazione della pubblica amministrazione, ivi comprese quelle contenute nelle Linee guida e nel Piano triennale per l'informatica nella pubblica amministrazione; - è stata implementata poi la piattaforma nazionale per l’emissione e la validazione delle certificazioni verdi Covid -19, rafforzando il sistema delle banche dati e dello scambio di informazioni tra le medesime. c) SEMPLIFICAZIONE DELLE PROCEDURE PER LE OPERE DI IMPATTO RILEVANTE Si tratta di un pacchetto di misure riguardante taluni progetti: l’alta velocità ferroviaria sulla tratta Salerno-Reggio Calabria, l’alta velocità/alta capacità sulla Palermo-Catania-Messina, il potenziamento della linea Verona-Brennero, la diga foranea di Genova, la diga di Campolattaro a Benevento, la messa in sicurezza e l’ammodernamento del sistema idrico del Peschiera nel Lazio e il potenziamento delle infrastrutture del porto di Trieste. Va segnalata, al riguardo, l’istituzione di un Comitato Speciale all’interno del Consiglio Superiore Dei Lavori Pubblici (del quale fa parte anche 1 magistrato amministrativo con qualifica di consigliere, un consigliere della Corte dei Conti e un avvocato dello Stato), la cui funzione, in estrema sintesi, è quella di verificare, entro quindici giorni dalla ricezione del progetto di fattibilità tecnico - economica, l’esistenza di evidenti carenze, di natura formale o sostanziale, ivi comprese quelle afferenti gli aspetti ambientali, paesaggistici e culturali, tali da non consentire l’espressione del parere e, in tal caso, provvedere a restituirlo immediatamente alla stazione appaltante richiedente, con l’indicazione delle integrazioni ovvero delle eventuali modifiche necessarie ai fini dell’espressione del parere in senso favorevole. Dopo di che la stazione appaltante deve procedere alle modifiche e alle integrazioni richieste dal Comitato speciale, entro e non oltre il termine di quindici giorni dalla data di restituzione del progetto. Quindi il Comitato speciale deve esprimere il parere entro il termine massimo di trenta giorni dalla ricezione del progetto di fattibilità tecnica ed economica ovvero entro il termine massimo di venti giorni dalla ricezione del progetto modificato o integrato secondo quanto previsto dal presente comma. d) CONTRATTI PUBBLICI Sono state introdotte una serie di disposizioni per disciplinare In modo speciale gli investimenti pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal Regolamento (UE) 2021/240 del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 febbraio 2021 e dal Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, nonché dal PNC. Si tratta di novità articolate e complesse, anche perché in parte incidenti non direttamente sulla disciplina generale dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma sulla normativa derogatoria introdotta anche sulla spinta dell’emergenza pandemica con decretazione d’urgenza, come ad esempio il d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (cosiddetto Decreto Semplificazioni) e su altra normativa derogatoria in materia, quale il cosiddetto decreto sblocca cantieri, d.l. 18 aprile 2019, n. 32. Vediamone il dettaglio. 1) Per perseguire le finalità relative alla TUTELA DELLE PARI OPPORTUNITÀ , generazionali e di genere, è stato previsto che le aziende, anche di piccole dimensioni (sopra i 15 dipendenti) che partecipano alle gare per le opere del PNRR e del Fondo complementare e che risultino affidatarie dei contratti hanno l’obbligo di presentare un rapporto sulla situazione del personale in riferimento all’inclusione delle donne nelle attività e nei processi aziendali. Le stazioni appaltanti devono prevedere nei bandi di gara (salvo motivata deroga in casi particolari indicati dalla normativa ), negli avvisi e negli inviti, specifiche clausole dirette all'inserimento, come requisiti necessari e come ulteriori requisiti premiali dell'offerta, di criteri orientati a promuovere l'imprenditoria giovanile, la parità di genere e l'assunzione di giovani, con età inferiore a trentasei anni, e di donne; viene precisato che è requisito necessario dell'offerta l'assunzione dell'obbligo di assicurare una quota pari almeno al 30 per cento, delle assunzioni necessarie per l'esecuzione del contratto o per la realizzazione di attività ad esso connesse o strumentali, all'occupazione giovanile e femminile. In caso di violazione dei suddetti obblighi da parte degli operatori economici, è disposto che i contratti prevedano L’APPLICAZIONE DI PENALI e, nel caso di violazione dell’obbligo di relazione, L’IMPOSSIBILITÀ DI PARTECIPARE PER 12 MESI A ULTERIORI PROCEDURE. Sono previsti però anche STRUMENTI PREMIALI : come la possibilità nei bandi di riconoscere punteggi aggiuntivi per le aziende che utilizzano strumenti di conciliazione vita-lavoro, che si impegnino ad assumere donne e giovani sotto i 35 anni, che nell’ultimo triennio abbiano rispettato i principi di parità di genere e adottato misure per promuovere pari opportunità per i giovani e le donne nelle assunzioni, nei livelli retributivi e negli incarichi apicali. 2) In riferimento agli interventi pubblici finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal PNRR e dal PNC e dai programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell'Unione europea, l’art. 48 del D.L. n. 77/2021 prevede la possibilità di ricorrere alla procedura alla PROCEDURA NEGOZIATA SENZA PUBBLICAZIONE DI BANDO , di cui all'art. 63 del codice degli appalti, per i settori ordinari, e alla procedura negoziata senza previa indizione di gara di cui all'art. 125 del medesimo codice per i settori speciali, nella misura strettamente necessaria, quando, per ragioni di estrema urgenza derivanti da circostanze imprevedibili, non imputabili alla stazione appaltante, l'applicazione dei termini, anche abbreviati, previsti dalle procedure ordinarie può compromettere la realizzazione degli obiettivi o il rispetto dei tempi di attuazione di cui al PNRR nonché al PNC (Piano nazionale complementare) e ai programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell'Unione Europea. Sotto il profilo processuale, è prevista una importante disposizione secondo cui, in caso di impugnativa degli atti relativi a procedure di affidamento relative a lavori pubblici di competenza statale, o comunque finanziati per almeno il 50% dallo Stato, di importo pari o superiore ai 100 milioni di euro, si applica l'ART. 125 c.p.a. (riguardante le controversie aventi a oggetto le c.d. infrastrutture strategiche) il quale prescrive che il Giudice amministrativo, prima di concedere la tutela cautelare, debba valutare le probabili conseguenze del provvedimento richiesto in relazione ai diversi interessi in gioco, nonché il “ preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera”, valutando altresì in modo adeguato l’interesse del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle opere" (comma 2). Inoltre, l’annullamento dell’affidamento non comporta in via ordinaria la caducazione del contratto medio tempore stipulato e il risarcimento del danno eventualmente dovuto avviene solo per equivalente, con esclusione della tutela in forma specifica attraverso il subentro nell’esecuzione (in tali ipotesi la caducazione del contratto viene prevista solo a fronte delle più gravi violazioni della normativa in tema di appalti ai sensi dell’articolo 121 c.p.a.). Viene, inoltre, contemplata, sempre in ordine alla realizzabilità degli interventi in questione, la possibilità di fare ricorso all’affidamento di APPALTI INTEGRATI (di progettazione ed esecuzione dei relativi lavori) in deroga a quanto previsto dall'articolo 59, commi 1, 1-bis e 1-ter, del D.lgs. n. 50 del 2016, anche sulla base del progetto di fattibilità tecnica ed economica. L’aggiudicazione avviene sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che tiene conto anche degli aspetti qualitativi oltre che economici. 3) l’art. 49 interviene significativamente sul SUBAPPALTO, istituto oggetto di interventi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (decisioni 26 settembre 2019 - C63/18; 27 novembre 2019 - C402/18; 30 gennaio 2020, C395/18), che a più riprese ne hanno sancito, anche recentemente, l’incompatibilità con il diritto eurounitario, in primo luogo per quanto riguarda i limiti massimi di possibile ricorso al subappalto da parte della stazione appaltante, fissati nel regime ordinario nel 30% e temporaneamente derogati dal decreto sblocca cantieri. In particolare è stato previsto: • un regime temporaneo che abroga quello introdotto dal cosiddetto decreto sbloccacantieri (d.l. 18 aprile 2019 n. 32, convertito in legge 14 giugno 2019, n. 55), secondo cui fino al 31 ottobre 2021 - in deroga alle norme dell’art. 105 del codice dei contratti, che prevedono un limite del 30% (sia per i subappalti “ordinari”, sia per quelli su categorie superspecialistiche) ma anche alla legge di conversione del decreto sblocca cantieri che l’aveva portato al 40% – il subappalto non può superare la quota del 50% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture; • la rimozione, a partire dall’1 novembre 2021, di ogni limite quantitativo generale e predeterminato al subappalto, con la modifica del comma 2 dell’art. 105, del codice dei contratti. • la prescrizione per cui le stazioni appaltanti indicano nei documenti di gara - previa adeguata motivazione nella determina a contrarre, eventualmente avvalendosi del parere delle Prefetture competenti - le prestazioni o le lavorazioni oggetto del contratto di appalto da eseguire a cura dell'aggiudicatario in ragione: delle specifiche caratteristiche dell'appalto, ivi comprese quelle delle categorie superspecialistiche di opere (di cui all'articolo 89, comma 11 del codice dei contratti pubblici); dell'esigenza, tenuto conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare, di rafforzare il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro e di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori; dell’esigenza di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali, a meno che i subappaltatori siano iscritti nelle cosiddette white lists (ex comma 52 dell'art. 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190), ovvero nell'anagrafe antimafia (ex art. 30 del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito in legge 15 dicembre 2016, n. 229). • l'abrogazione, sempre dall’1 novembre 2021, il limite del 30% anche per le opere superspecialistiche, con l’abrogazione del comma 5 dell’art. 105 del codice dei contratti, rientrando anche queste categorie di opere nella disciplina generale; detto comma 5 stabiliva anche il divieto di suddividere, senza ragioni obiettive, gli affidamenti in subappalto delle opere superspecialistiche e, quindi, l’abrogazione della norma sembrerebbe aver fatto venir meno anche tale limitazione: • la responsabilità in solido del contraente principale e del subappaltatore nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto di subappalto, con la modifica del comma 8 dell’art. 105 del codice dei contratti pubblici, a partire dall’1 novembre 2021; • l’immediata modifica del comma 1 dell’art. 105 del codice dei contratti con la previsione del divieto, a pena di nullità oltre che della cessione del contratto (salvo le ipotesi previste espressamente dall’art. 106, comma 1, lettera d del codice degli appalti), anche dell’ affidamento a terzi dell'integrale esecuzione delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto, nonché la prevalente esecuzione delle lavorazioni relative al complesso delle categorie prevalenti e dei contratti ad alta intensità di manodopera; • il venir meno con decorrenza immediata del divieto per l’affidatario dell’appalto di praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con ribasso non superiore al venti per cento, già oggetto della pronuncia di incompatibilità con il diritto eurounitario da parte della CGUE nella già citata pronuncia del 27 novembre 2019 (C‑402/18 a seguito alla modifica del comma 14 dell’art. 105 del codice dei contratti. Al suo posto è stata inserita l’espressa previsione secondo cui, il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l'applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l'oggetto dell'appalto ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell'oggetto sociale del contraente principale. Le amministrazioni competenti assicurano la piena operatività della Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici di cui all'articolo 81 del d.lgs. n. 50 del 2016; adottano il documento relativo alla congruità dell'incidenza della manodopera, di cui all'articolo 105, comma 16, del codice dei contratti pubblici e dell'art. 8, comma 10- bis, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, in legge 11 settembre 2020, n. 120; adottano entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del d.l. in esame il regolamento di cui all'art. 91, comma 7, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (che individua le diverse tipologie di attività suscettibili di infiltrazione mafiosa nell'attività di impresa). 4) ALTRE PREVISIONI RILEVANTI : - l’art. 50 disciplina il potere sostitutivo in caso di inutile decorso dei termini per la stipulazione del contratto, la consegna dei lavori, la costituzione del collegio consultivo tecnico, gli atti e le attività di cui all'articolo 5 del decreto-legge 16 luglio 2020 n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, nonché gli altri termini, anche endoprocedimentali, previsti dalla legge, dall'ordinamento della stazione appaltante o dal contratto per l'adozione delle determinazione relative all'esecuzione dei contratti pubblici PNRR e PNC; - Il contratto diviene efficace con la stipulazione e non trova applicazione l'articolo 32, comma 12, del decreto legislativo 18 aprile 2016 n. 50 (condizione sospensiva dell’esito positivo dell’eventuale approvazione e degli altri controlli previsti dalle norme proprie delle stazioni appaltanti) - la stazione appaltante prevede, nel bando o nell'avviso di indizione della gara, che, qualora l'ultimazione dei lavori avvenga in anticipo rispetto al termine ivi indicato, è riconosciuto, a seguito dell'approvazione da parte della stazione appaltante del certificato di collaudo o di verifica di conformità, un premio di accelerazione per ogni giorno di anticipo determinato sulla base degli stessi criteri stabiliti per il calcolo della penale, mediante utilizzo delle somme indicate nel quadro economico dell'intervento alla voce imprevisti, nei limiti delle risorse ivi disponibili, sempre che l'esecuzione dei lavori sia conforme alle obbligazioni assunte. In deroga all'articolo 113-bis del decreto legislativo n. 50 del 2016, le penali dovute per il ritardato adempimento possono essere calcolate in misura giornaliera compresa tra lo 0,6 per mille e l'1 per mille dell'ammontare netto contrattuale, da determinare in relazione all'entità delle conseguenze legate al ritardo, e non possono comunque superare, complessivamente, il 20 per cento di detto ammontare netto contrattuale. 5) APPALTI SOTTOSOGLIA: L’art. 51 del decreto legge n. 77/2021 in esame proroga sino al 30 giugno 2023 la possibilità di adottare le procedure, previste dal d.l. 76 del 2020, in deroga agli articoli 36, comma 2, per i contratti sotto soglia, e 157, comma 2, inerente agli incarichi di progettazione, coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, direzione dei lavori, direzione dell'esecuzione, coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e collaudo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Il medesimo articolo modifica anche i presupposti delle indicate procedure di affidamento intervenendo sulle lettere a) e b) dell’art. 1, comma 2 del d.l. n. 76/2020, in particolare prevedendo: a) l’affidamento diretto per lavori di importo inferiore a 150.000 euro e per servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l'attività di progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro. In tali casi la stazione appaltante procede all'affidamento diretto, anche senza consultazione di più operatori economici, fermo restando il rispetto dei principi di cui all'articolo 30 del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50; b) la procedura negoziata, senza bando, di cui all'art. 63 del d.lgs. n. 50 del 2016, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, ove esistenti, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, che tenga conto anche di una diversa dislocazione territoriale delle imprese invitate, individuati in base ad indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, per l'affidamento di servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l'attività di progettazione, di importo pari o superiore a 139.000 euro e fino alle soglie di cui all'articolo 35 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e di lavori di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a un milione di euro, ovvero di almeno dieci operatori per lavori di importo pari o superiore a un milione di euro e fino alle soglie di cui all'art. 35 del code dei contratti pubblici. Inoltre, il medesimo art. 51 del D.L. n. 77/2021 proroga sino al 30 giugno 2023 i termini della disciplina transitoria del D.L. 76/2020 inizialmente prevista sino al 31 dicembre 2021. Il comma 3 dell’art. 51 del D.L. n. 77/2021, pone una norma di carattere intertemporale indicando che le modifiche apportate alle diposizioni del D.L. n. 76/2020 sull’affidamento delle procedure sottosoglia si applicano alle procedure avviate dopo data dell’1 giugno 2021 di entrata in vigore del decreto n. 77/2021. Per le procedure i cui bandi o avvisi di indizione della gara pubblicati prima dell'entrata in vigore del decreto n. 77/2021 ovvero i cui inviti a presentare le offerte o i preventivi siano inviati entro la medesima data, continua ad applicarsi la disciplina del d.l. n. 76/2020 nella formulazione antecedente alla modifica. In sostanza, attualmente e sino al 30 giugno 2023, secondo l’interpretazione più plausibile la stazione appaltante può procedere all’affidamento degli appalti sotto soglia comunitaria utilizzando, a sua scelta, la disciplina “ordinaria” prevista dall’art. 36 del codice dei contratti (che non risulta formalmente derogato o sospeso, neanche temporaneamente, né dal D.L. n. 76/2020, né dal D.L. n. 77/2021) oppure la disciplina temporanea “semplificata” introdotta dal D.L. n. 76/2020, così come modificata dall’art. 51 del D.L. n. 77/2021. 6) Nelle more di una compiuta razionalizzazione, riduzione e qualificazione delle stazioni appaltanti, si vieta ai Comuni non capoluogo di affidare appalti per interventi del PNRR, dovendo ricorrere alle UNIONI DI COMUNI, CONSORZI, CITTÀ METROPOLITANE, PROVINCE E COMUNI CAPOLUOGO. 7) L’art. 53 del D.L. n. 77/2021 prevede una PROCEDURA SEMPLIFICATA per gli acquisti di beni e servizi informatici strumentali alla realizzazione del PNRR e in materia di procedure di e-procurement e acquisto di beni e servizi informatici sopra soglia comunitaria (per quelli sottosoglia si applicano le previsioni semplificate di cui al d.l. n. 76/2020, così come modificate dal D.L. in esame), contemplando la possibilità di ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione di bando, ex art. 63 del codice dei contratti pubblici per i settori ordinari (e uso della procedura negoziata senza previa indizione di gara ex art. 125 del medesimo codice per i settori speciali), in relazione agli affidamenti aventi ad oggetto l'acquisto di beni e servizi informatici, in particolare basati sulla tecnologia cloud, nonché servizi di connettività, finanziati in tutto o in parte con le risorse previste per la realizzazione dei progetti del PNRR, la cui determina a contrarre o altro atto di avvio del procedimento equivalente sia adottato entro il 31 dicembre 2026, anche ove ricorra la rapida obsolescenza tecnologica delle soluzioni disponibili tale da non consentire il ricorso ad altra procedura di affidamento. 8) Sono poi previste specifiche disposizioni in ordine alle procedure per la realizzazione degli interventi in materia di ISTRUZIONE ED EDILIZIA SANITARIA . 10) Viste le plurime e gravi problematiche relative alla sicurezza della infrastrutture ferroviarie, stradali e autostradali, il decreto legge individua più puntualmente le competenze e le attività dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali ( ANSFISA ) eliminando possibili interferenze o sovrapposizioni con le attività per la sicurezza svolte dai concessionari o dagli enti gestori, dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, dalla Commissione permanente per le gallerie istituita presso il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In particolare, ANSFISA adotta entro il 31 gennaio di ogni anno, e per il 2021 entro il 31 agosto, il programma annuale di vigilanza sulle condizioni di sicurezza di strade e autostrade, svolge attività ispettiva per la verifica della manutenzione da parte dei concessionari ed effettua verifiche a campione sulle infrastrutture.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 12 giu, 2021
E’ notizia di questi giorni che il vaccino Vaxzevria (più noto con il vecchio nome di AstraZeneca) sarà somministrato soltanto a chi ha più di 60 anni. Almeno così ha “consigliato” il CTS al Ministro della Salute, dopo la morte della giovane Camilla. Prima di oggi, Astrazeneca era stato soltanto “raccomandato” agli over 60, e allegramente distribuito, nonostante ciò, ai diciottenni nei famigerati Open Day. Prima ancora, quando il vaccino di Oxford non era ancora entrato nell’occhio del ciclone per le correlazioni con episodi di trombosi venose cerebrali, la sua somministrazione era stata limitata agli under 55 e poi agli under 65. Da domani, chi ha fatto la prima dose con Astrazeneca e ha meno di 60 anni dovrà fare il richiamo con un diverso vaccino. Chiamarlo caos scientifico e normativo è un eufemismo. Ma chi risponde per tutto questo? C’è un Tribunale che potrà accertare delle eventuali responsabilità giuridiche? C’è qualcuno che secondo il nostro ordinamento rappresenta individualmente l’apparato dello Stato non solo nella gestione del potere e nelle parate, ma anche nella cattiva sorte, quando si cumulano errori su errori? Secondo la nostra Carta costituzionale qualcuno c’è. E le recenti vicende del processo all’ex Ministro dell’Interno sul presunto sequestro di migranti, e della mozione di sfiducia presentata (e respinta) nei confronti dell’attuale Ministro della Salute per omissioni e comportamenti connessi alla gestione della pandemia, ne sono la dimostrazione, riportando in auge il mai sopito dibattito sui confini della responsabilità. Responsabilità morale, responsabilità politica, responsabilità giuridica. Quanti tipi di responsabilità esistono? E che cos'è di fondo, la responsabilità ? Responsabilità, in linea generale, è il fatto di essere responsabili, cioè di rispondere delle proprie azioni e dei propri comportamenti, rendendone ragione e subendone le conseguenze. E’ un concetto tipico del diritto, laddove individua una situazione giuridicamente “sanzionabile” di obbligo gravante su un soggetto, che si instaura o per inadempimento di un obbligo primario (ad esempio, nascente da un contratto) o per qualunque atto illecito doloso o colposo che abbia arrecato ad altri un danno ingiusto, e che acquista diverse sfumature a seconda del campo di elezione (responsabilità patrimoniale, responsabilità amministrativa, responsabilità penale, responsabilità internazionale). Ma è anche un concetto strettamente connesso al dibattito politico, all’interno di un rapporto di rappresentanza tra titolare di una carica pubblica elettiva e i suoi elettori. Nel sistema costituzionale italiano, ad esempio, è tipicamente politica la responsabilità del Governo verso il Parlamento, che si concretizza nell’obbligo del primo di dimettersi quando non abbia più la fiducia del secondo. Vi è infine la responsabilità morale , definibile per inclusione quale corollario della responsabilità giuridica – qualora, come normalmente avviene, la condotta illecita sia riprovevole anche sotto un aspetto ideale -, ovvero, per esclusione, definibile come “ non estraneità ” ad atti illeciti da parte di chi, per la posizione occupata, per le affermazioni fatte o per la condotta mantenuta, pur non violando l’ordinamento giuridico, non ha rispettato una norma morale ritenuta universalmente valida, o ha offeso, in un dato contesto storico e sociale, i principi morali correnti. Le conseguenze delle azioni dei Ministri , organi monocratici che compongono il Governo della Repubblica, si situano molto spesso a metà strada tra responsabilità politica e responsabilità giuridica; i Ministri della Repubblica sono inoltre sempre moralmente responsabili, per l'indiscusso potere di cui godono, delle scelte governative e delle loro ricadute sul tessuto ordinamentale, economico e sociale del Paese. Secondo l'art. 95, comma 2 della Costituzione, i Ministri " sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri ". La responsabilità dunque si riconnette a un potere proprio nella formazione tanto degli atti del Governo intero, quanto degli atti dei rispettivi Ministeri. La titolarità di questo potere è ciò che caratterizza la figura del Ministro nel governo parlamentare, rispetto al passato. La vera trasformazione del Ministro, dalla risalente posizione di funzionario, posto prima al servizio della persona del Re, e poi, quale suo diretto subordinato, alla guida dell’apparato per la gestione degli “affari” del regno (da cui il titolo, solo di recente abbandonato, di Segretario di Stato), è indubbiamente avvenuta con l’avvento della forma di governo parlamentare e la corrispondente emarginazione politica del Sovrano. Poiché il monarca aveva mantenuto la posizione di Capo dello Stato, ma aveva perso quella di Capo del Governo, il compito di direzione dello Stato si era trasferito naturalmente sugli uomini al vertice delle diverse branche operative del relativo apparato amministrativo. Ed è in tal modo che è nato il potere decisionale autonomo del Ministro, organo monocratico al quale è istituzionalmente attribuita, nell’ambito del potere esecutivo, la cura di una determinata serie di interessi pubblici. La relativa funzione di cura e, al contempo, di rappresentanza di tali interessi, si fa valere non solo nel Consiglio dei Ministri, ma anche in sedi istituzionali diverse, sia interne che esterne al Governo, dove il Ministro, quale portatore di interessi settoriali, può avvalersi contestualmente del concorrente valore di rappresentante del Governo inteso nella sua unità. Ciò avviene, in particolare, nei rapporti con l’Unione europea, nonché con le Camere, perché la posizione del Governo in Parlamento – con i connessi poteri, recepiti nei regolamenti parlamentari, fra i quali spicca la proposta di emendamento ai disegni di legge anche in assenza, di norma, di una specifica pronuncia del Consiglio dei Ministri – finisce naturalmente per fare capo al Ministro competente per materia, che li esercita personalmente, ovvero per il tramite dei sottosegretari. Per quanto poi attiene alla individuazione della sfera di interessi di cui ciascun Ministro si fa portatore in queste molteplici forme, l’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 300/1999 rinvia espressamente (per i Ministri preposti ai Ministeri) alle funzioni di spettanza statale nelle materie e secondo le aree funzionali normativamente indicate per ciascuna amministrazione. L’unità di azione con i titolari degli altri Ministeri, non più assicurata dalla comune sottoposizione alle direttive del Sovrano, viene assicurata oggi, da un lato, dal Consiglio dei Ministri, che è diventato titolare delle decisioni più importanti del Governo - come tali idonee a condizionare l’azione di ciascun Ministro nel proprio ramo di amministrazione -, e, dall’altro, da un organo ulteriore e distinto, la cui denominazione (Presidente del Consiglio, primo Ministro, Cancelliere), nelle varie esperienze, tradisce pur sempre l’origine per così dire “ministeriale” dell’organo medesimo e comporta per tale organo una responsabilità diretta nei confronti delle Camere rappresentative, con tutta una serie di implicazioni, in punto di potere di nomina e revoca dell'incarico, incidenza sulle decisioni collegiali e autonomia nella definizione delle questioni di pertinenza ministeriale. La responsabilità di cui parla l'art. 95 della Costituzione è una responsabilità politica , che si scinde in responsabilità collegiale e responsabilità individuale , in relazione alla duplice veste del Ministro di componente della compagine governativa, da un lato, e di vertice del dicastero, dall'altro. Risulta dai lavori preparatori della Costituzione che la responsabilità del singolo Ministro era stata qualificata in un primo tempo come "personale", diventando poi nel testo definitivo "individuale", a rimarcare l'intento di stabilire una correlazione tra le due forme di responsabilità - collegiale ed individuale - nel comune quadro della responsabilità politica. Nella forma di governo parlamentare la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale laddove esiste indirizzo politico esiste responsabilità, nelle due accennate varianti, e laddove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario. L'indirizzo politico che si colloca al centro di una siffatta articolazione di rapporti è assicurato, dunque, nella sua attuazione, dalla responsabilità collegiale e dalla responsabilità individuale contemplate dall'art. 95 della Costituzione; responsabilità che fanno capo ai soggetti specificamente indicati dall'art. 92 della Costituzione, vale a dire il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, nella duplice veste di componenti del Governo e di vertici dei dicasteri, e che sono definite nei loro termini anche temporali di riferimento, ai sensi dell'art. 94 della Costituzione, dall'instaurazione, da un lato, e dal venir meno, dall'altro, del rapporto fiduciario . L'attività collegiale del Governo e l'attività individuale del singolo Ministro - svolgendosi in armonica correlazione - si raccordano all'unitario obiettivo della realizzazione dell'indirizzo politico, a determinare il quale concorrono Parlamento e Governo. Al venir meno di tale raccordo, l'ordinamento prevede strumenti di risoluzione politica del conflitto a disposizione tanto dell'esecutivo, attraverso le dimissioni dell'intero Governo ovvero del singolo ministro, quanto del Parlamento, attraverso la sfiducia, atta ad investire, a seconda dei casi, il Governo nella sua collegialità ovvero il singolo ministro, per la responsabilità politica che deriva dall'esercizio dei poteri a lui spettanti. Sussiste in particolare la possibilità di proporre una sfiducia “individuale”, nei confronti del singolo Ministro – secondo quanto precisato dalla Corte costituzionale –, quando il comportamento dissonante di costui infrange la collegialità come metodo di azione dell’esecutivo, di modo che il recupero dell'unitarietà di indirizzo può essere favorito proprio dal ricorso, allorché una delle Camere lo ritenga opportuno, all'istituto della sfiducia individuale . Invero, la Costituzione configura una responsabilità politica individuale che implica una correlazione sul piano delle conseguenze, e la lesione del metodo collegiale che caratterizza l'azione del Governo ad opera del singolo Ministro trova sanzione proprio nella sfiducia ad personam . D’altra parte, in veste di uguali componenti del Consiglio dei Ministri, i Ministri concorrono da un lato all'adozione delle decisioni più importanti del Governo, ovvero "la politica generale del governo e, ai fini dell'attuazione di essa, l'indirizzo generale dell'azione amministrativa" (art. 2 comma 1 della L. n. 400 del 1988), ma dall'altro, quali titolari di un dicastero, o, comunque, di una cerchia determinata di attribuzioni, sono individualmente preposti alla concreta attuazione delle stesse decisioni di governo, che hanno concorso ad adottare come componenti del Consiglio. In particolare, tocca a ciascun Ministro il compito di dar corso alle deliberazioni consiliari «concernenti schemi di provvedimento da lui stesso approntati». Risulta così propriamente affidata alla figura dei Ministri, organi di vertice dell’amministrazione statale e componenti del Consiglio dei Ministri, l’opera di ideazione, proposizione, deliberazione ed infine attuazione delle decisioni del potere esecutivo. La Costituzione conferma la relazione di stretta continuità fra posizione del Ministro nel Consiglio dei Ministri e posizione del Ministro nel Ministero, non distinguendo affatto fra attività di governo ed attività di amministrazione, bensì ricorrendo alla nozione della “politica generale di governo”, la quale non è soltanto l’attività politica in senso stretto, bensì riguarda tutta l’attività governativa comunque rivolta alla gestione della cosa pubblica, e cioè l’operato complessivo del Governo e dei singoli elementi che lo compongono. Per quanto attiene ai veri e propri poteri di amministrazione attiva , tipici dell’attività di esecuzione delle leggi e delle decisioni generali di Governo, a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, al Ministro è stato lasciato il solo potere di indirizzo politico-amministrativo (e cioè la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare) nonché le funzioni di controllo (e cioè la verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti), mentre è stata affidata alla competenza esclusiva di una classe di funzionari appositamente creata – i dirigenti – l’attività amministrativa in senso stretto (adozione degli atti e provvedimenti) nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa del Ministero. In particolare, l’art. 14 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo l’impossibilità per il Ministro del potere di « revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti », ha sanzionato definitivamente il venir meno della sua posizione di capo gerarchico del Ministero a lui affidato. In tal modo, tuttavia, si è andato potenzialmente ad acuire il conflitto già in linea di principio esistente tra l’accoglimento espresso nella Costituzione di due criteri organizzativi tra di loro diversi (la responsabilità ministeriale e l’imparzialità dell’amministrazione: artt. 95 e 97), poiché la responsabilità dei Ministri di fronte alle Camere origina proprio dalla titolarità del potere esecutivo, imputata ad essi quali organi al vertice delle rispettive amministrazioni, cosicché se al Ministro residua soltanto il potere di direttiva, ad esserne colpita è proprio la previsione costituzionale secondo cui i Ministri sono responsabili individualmente degli atti dei loro dicasteri. Né è possibile risolvere il problema limitando la responsabilità politica del Ministro ai contenuti delle direttive ministeriali, posto che, per propria natura, la responsabilità politica non sembra sottoponibile a queste forme di limitazione, data l’impossibilità di sindacare in alcun modo il contenuto della censura della Camera nei confronti del Governo. Sembra quindi necessario ribadire, nonostante le intervenute modifiche normative in tema di separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione, che l’art. 95 Cost., nell’imputare a ciascuno dei Ministri la responsabilità individuale per gli atti del proprio dicastero, esprime un principio tuttora connaturato al governo parlamentare. Diversa deve essere invece la conclusione per la responsabilità giuridica del Ministro. Valendo qui necessariamente il carattere personale della responsabilità, non si può chiedere al Ministro di rispondere di una gestione amministrativa le cui decisioni sono riservate ai dirigenti. Ne deriva pertanto che, ad integrare la nozione degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni di Ministro (atti cd. “ministeriali”), ricadenti, in quanto tali, nell’area della sua responsabilità giuridica, restano i soli atti di indirizzo e di controllo, nonché gli atti adottati dal Consiglio dei Ministri, in particolare se emanati con decreto del Presidente della Repubblica, per i quali l’apposizione della controfirma implica per ciò solo, ai sensi dell’art. 89 Cost., assunzione della relativa responsabilità. Per tali atti sussiste, secondo le tradizionali ripartizioni, sia responsabilità civile ed amministrativa, per le quali l’ordinamento non pone per il Ministro regole diverse da quelle valevoli per ogni amministratore della cosa pubblica, sia responsabilità penale, per la quale invece residua – sulla scorta della tradizione – una disciplina speciale, che ha mantenuto integro sul piano costituzionale l’istituto del “reato ministeriale”. Nella vicenda della gestione della pandemia , con particolare riferimento alla mancata istituzione della “zona rossa” ad Alzano e Nembro e del mancato aggiornamento del piano pandemico, i profili di responsabilità del Ministro competente (Ministro della Salute), e degli altri soggetti istituzionali connessi, si sono aggrovigliati in un nodo a tratti inestricabile. Le indagini della Procura della Repubblica di Bergamo stanno cercando di fare luce su una possibile correlazione tra decessi per covid-19 e condotte illecite ascrivibili a persone fisiche. Si tratta di un’attività doverosa, in quanto l’art. 112 della Costituzione stabilisce che “ il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale ” e l’unico modo che le Procure della Repubblica hanno per rispettare tale norma è di vagliare, di ufficio o su evidenza degli organi di polizia giudiziaria, tutte le notizie di reato, anche quelle che appaiono prima facie infondate. Non è possibile ovviamente prevedere, ad oggi, quali saranno gli esiti di tale attività di indagine – le cui “carte” sono coperte da segreto – ma possono comunque essere delineati alcuni punti fermi e oggettivi rispetto alle potenziali responsabilità (politiche, giuridiche e morali) dei soggetti istituzionali coinvolti. Mancata istituzione delle zone rosse ad Alzano e Nembro. L’art. 3 del decreto-legge n. 6 del 2020 (prima “barriera” normativa adottata dal Governo Conte per fronteggiare concretamente l’epidemia) aveva stabilito che le misure di cui agli articoli 1 e 2 dello stesso decreto (tra cui, appunto l’istituzione di ulteriori zone rosse, rispetto a quelle già individuate nei Comuni di Codogno e dintorni) avrebbero dovuto essere adottate “ con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale ”. Dal verbale n. 16 del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo 2020 apprendiamo che i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro, situati in stretta prossimità di Bergamo, denotavano una situazione di “alto rischio di ulteriore diffusione del contagio”. Il Comitato proponeva, pertanto, agli organi competenti – che, come visto, erano già stati normativamente individuati nel Presidente del Consiglio dei Ministri e, quale organo proponente, nel Ministro della Salute – “ di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa anche in questi due comuni, al fine di limitare la diffusione delle infezione nelle aree contigue ”. Tuttavia, in data 4 marzo 2020 non veniva disposta l’istituzione della nuova zona rossa invocata dal Comitato tecnico scientifico, e il Presidente del Consiglio dei Ministri emanava un decreto che, pur dando atto di avere tenuto conto delle indicazioni formulate dal Comitato tecnico scientifico nelle sedute del 2, 3 e 4 marzo 2020, non conteneva alcun divieto di spostamento dai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Soltanto il successivo 8 marzo 2020 tutta la Regione Lombardia, in cui l’epidemia era ormai chiaramente fuori controllo, veniva sottoposta ai “rigori” della zona rossa. Vi è stata dunque certamente un’omissione o comunque un ritardo imputabile, in astratto, primariamente al Ministro competente a proporre le misure da adottare, ovvero il Ministro della Salute. Ma che tipo di responsabilità ha generato tale omissione? Certamente, e innanzitutto, di natura politica. L’art. 1, comma 1 del d.l. n. 6 del 2020 aveva previsto che “ allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio del menzionato virus le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica ”. Chi stabiliva l’adeguatezza della misura da disporre? Si direbbe che la competenza fosse proprio del Comitato tecnico scientifico nominato a tale scopo in data 3 febbraio 2020 dal Capo del Dipartimento della protezione civile. La norma primaria era dunque chiara: ricorreva il presupposto (positività di almeno una persona per la quale non si conosceva la fonte del contagio) e l’obbligo di adozione della misura suggerita dall’organo tecnico. La responsabilità politica è innegabile. E la responsabilità giuridica? La misura adeguata e “consigliata” dal CTS per i due Comuni a rischio della bergamasca era la zona rossa e nonostante ciò non è stata adottata. Il ritardo decisionale si è rivelato astrattamente “catastrofico” in termini di vita umane, per una scelta non tecnica, ma di opportunità: resta in ogni caso il difficilissimo compito dell’accusa di provare in giudizio la rilevanza causale della inerzia sui singoli decessi. Più facile potrebbe essere accertare la responsabilità penale dei soggetti che nella catena decisionale hanno commesso un ulteriore errore o una leggerezza. Nel caso di “non” commissione di tale ulteriore errore, l’accertamento della responsabilità penale e civile degli organi di vertice dovrà confrontarsi anche con la necessità di verificare preliminarmente se gli atti e le omissioni “incriminati” abbiano o meno natura essenzialmente politica. Mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale. Il Ministro della Salute ha dichiarato in aula che si tratta di un’omissione ascrivibile a ben sette governi prima del suo. Basta una tale giustificazione per declinare un’ipotesi di responsabilità politica? Ovviamente no. Al massimo c’è corresponsabilità, ma non assenza di responsabilità. Quando l’OMS ha dato notizia dell’epidemia nata in Cina l’attuale Ministro della Salute era già da alcuni mesi in carica. Le notizie che giungevano da Oriente erano preoccupanti e avevano preoccupato il suo Governo, che infatti aveva dichiarato il 31 gennaio 2020 lo stato di emergenza. Ma il mancato aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale – magari in funzione anti-covid -, che avrebbe dovuto essere in quel contesto un’ovvia priorità, è stato soltanto una parte della forte impreparazione del Paese alla tragedia che successivamente lo avrebbe travolto, come attestato anche dal report del dott. Zambon poi fatto ritirare – a beneficio di chi? - dall’OMS. D’altra parte, è un fatto che la dottoressa che ha scoperto il primo paziente affetto da covid-19 senza catena di trasmissione nota o riconducibile a Paesi dove era cominciata la pandemia (il famoso Mattia di Codogno), abbia dato seguito alla sua intuizione in violazione della circolare del Ministero della Salute adottata in data 27 gennaio 2020, secondo cui gli unici casi da ritenersi sospetti , operatori sanitari a parte, erano i soggetti che contemporaneamente presentassero una infezione respiratoria acuta grave - in assenza di altra eziologia che spiegasse pienamente la presentazione clinica -, e che avessero avuto contatti con aree o persone a rischio. Peccato che nel frattempo l’epidemia dilagava sottotraccia. Ed è un altro fatto inoppugnabile che all’inizio dell’emergenza gli ospedali erano a corto di dispositivi di protezione individuali. Anche qui valgono, per quanto riguarda la responsabilità giuridica, le stesse considerazioni già svolte in precedenza sulle omissioni imputabili. Con l’aggiunta che la Procura della Repubblica di Bergamo starebbe approfondendo anche la sussistenza di comportamenti “scorretti” di soggetti che a vario titolo e con ruoli diversi nella catena gerarchica – ma sempre nell’ambito della struttura del Ministero della Salute – avrebbero disatteso o comunque aggirato le indicazioni di OMS e UE sulla necessità di una revisione sostanziale ed effettiva del piano pandemico del 2006. Ma, al di là di quanto accerteranno le Procure e i Tribunali competenti, residua un’amara considerazione finale sulla responsabilità morale che nasce dalle scelte umane di chi gestisce la cosa pubblica, nel momento in cui tali scelte non siano all’altezza del compito assegnato o avallino decisioni intempestive ed errate. E’ un viaggio che ci porta, prima ancora che nel campo della competenza in certi ruoli chiave, nel campo della dignità dei comportamenti umani e della corretta percezione, in chiave oggettiva, del proprio valore, che non sempre è pretendibile, nemmeno nei confronti di chi rappresenta un’Istituzione. A volte, però, quando il dolore di chi vede morire - in modo brutale, inaspettato e improvviso - un proprio caro, è così grande, quando anche solo il dubbio di avere contribuito a creare questo dolore è il frutto di considerazioni razionali e non di fantasia, l’uomo giusto dovrebbe sempre ricordare a se stesso che può restituire dignità al ruolo ricoperto, ed evitare al contempo di chiudersi in un moto di arroganza autoreferenziale, tramite un atto semplice ma potentissimo e nobile, che va al di là del rapporto fiduciario con la maggioranza di turno: un atto chiamato dimissioni. In alternativa, uno Stato che si rispetti dovrebbe chiedere scusa a chi ha pagato un costo troppo alto per scelte sbagliate. Anche se forse non chiedere scusa è solo l’estremo e goffo tentativo di sentirsi ancora degno della carica ricoperta.
09 giu, 2021
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sez. I, 27 gennaio 2021 IL CASO E LA DECISIONE Una donna ha chiesto al Tribunale ordinario, con ricorso ex art. 700 c.p.c., di ordinare al centro in cui erano stati trasportati quattro “suoi” embrioni crioconservati, nati dalla fecondazione dell’ovocita tramite procreazione medicalmente assistita (PMA), di procedere con urgenza all'impianto degli embrioni in utero. L’iter di fecondazione assistita era stato inizialmente avviato con il consenso della donna stessa e di suo marito, ma, successivamente, non era stato portato a termine per motivi di salute. A seguito della separazione intervenuta tra i coniugi, infine, la donna, che nel frattempo ha superato i 40 anni, avrebbe voluto procedere allo scongelamento degli embrioni crioconservati, mentre l’uomo si era opposto a tale scongelamento sul presupposto che i due non erano più una coppia e che dunque avrebbe dovuto ritenersi implicitamente revocato il consenso inizialmente prestato alla PMA. Il Giudice di prime cure ha concesso la cautela richiesta dalla parte, con decisione che è stata confermata dall’ordinanza emessa dal Tribunale adito in sede di reclamo. In particolare, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha così articolato i passaggi principali della sua motivazione: - la legge 40/2004 tutela espressamente l'embrione, al quale è riconoscibile un grado di soggettività correlato alla genesi della vita e non certamente riducibile a mero materiale biologico, essendo espressamente riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell'embrione, riconducibile al precetto generale dell'art. 2 della Costituzione, e dovendo ritenersi tale tutela suscettibile di affievolimento solo in casi di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in termini di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti; - la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, come dichiarato all'art. 1 della L. n. 40/2004, è attuata assicurando, da un lato, la consapevolezza del consenso alla P.M.A. e la possibilità di revoca sino alla fecondazione, e, dopo tale momento, ritenendo prevalente il diritto alla vita dell'embrione, che potrà essere sacrificato solo a fronte del rischio di lesione di diritti di pari rango ritenuti prevalenti, perché facenti capo, per esempio, a soggetti già viventi (per lo più, a tutela della salute della donna); - non risulta prevalente il diritto alla famiglia costituita da coniugi non separati rispetto al diritto alla vita dell'embrione; - gli interessi delle parti, e in particolare le esigenze di tutela dei terzi “nuovi partner”, devono bilanciarsi con la tutela dell'aspettativa di vita dell'embrione; - nemmeno è ravvisabile un trattamento sanitario obbligatorio in contrasto con l'art. 13 della Costituzione, in quanto il divieto di revoca del consenso dopo la fecondazione non impone alcun trattamento sanitario non voluto, limitandosi a produrre effetti vincolanti sull'assunzione di genitorialità, né si ravvede il contrasto con i principi in materia di consenso informato, in quanto, in ambito sanitario, il consenso non costituisce accordo, ma assenso, ossia una manifestazione di volontà che non si coniuga con un'altra volontà, con la conseguenza che esso non crea un vincolo, ma soltanto un'autorizzazione per il medico, sempre revocabile; - tenendo peraltro conto della ratio legis , volta alla tutela non solo degli interessi privatistici dei soggetti coinvolti ma anche pubblicistici di ordine etico e sanitario, una corretta interpretazione logica impone di ritenere che, ferma la necessità per la struttura di adempiere agli obblighi informativi per ogni fase del trattamento, il consenso deve essere rinnovato solo in caso di rilevate problematiche o anomalie del processo di fecondazione. Il Tribunale ha dunque respinto il reclamo concludendo che da un punto di vista formale non vi era alcuna necessità di integrare il consenso già reso e divenuto irrevocabile con la fecondazione, di modo che tale consenso avrebbe dovuto dispiegare effetti anche nei confronti della diversa struttura incaricata di proseguire il processo attivato, perché ciò che rileva per la legge è soltanto che le parti abbiano prestato il consenso, e che non abbiano precluso la possibilità di optare per una diversa struttura, come in effetti avvenuto nel caso di specie. QUESTIONI INTERPRETATIVE Gli embrioni non sono persone giuridiche e non hanno capacità giuridica ai sensi dell'art. 1 c.c., ma sono destinatari delle sole garanzie previste dalla legge. Al riguardo, occorre comprendere se la ratio della L. n. 40/2004 sia nel senso di attribuire rilievo “al diritto alla vita” del concepito e, in caso di risposta affermativa, entro quali limiti. La legge 40 sopra citata tutela non solo gli interessi dei privati che accedono alla PMA ma anche gli interessi pubblicistici sottesi alla delicata materia che involge la genesi della vita, di ordine etico e sanitario. L'art. 1 dice che “ al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito ”. Nei lavori preparatori alla legge si parla poi espressamente di diritto alla vita dell'embrione, e su questo diritto è costruito l'intero impianto della legge stessa; il concepito si identifica dunque con l'embrione, specie se si considera che, sempre nei lavori preparatori, si legge, con riguardo all'art 13, che pone il divieto di sperimentazione sugli embrioni, che "Le disposizioni in questione danno quindi fondamento al diritto del concepito a nascere previsto dall'articolo 1”. La preminente tutela della vita è consacrata, poi, dalla disposizione dell'art. 6, comma 3, e dall'art. 14. L'art. 6 espressamente sancisce l' irrevocabilità del consenso successivamente alla fecondazione e l'art. 8 attribuisce alla volontà manifestata, irrevocabile con la fecondazione, funzione determinativa della maternità, della paternità e dello status di figlio, escludendo, in conformità della ratio della legge, la rilevanza di comportamenti e di eventi successivi alla fecondazione dell'ovulo. La libertà di ripensamento di una delle parti è dunque ammessa solo fino alla fecondazione medesima. E dunque, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) è legata anche al "consenso" prestato, e alla "responsabilità" conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa. I nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato, così come, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, il coniuge o il convivente della madre naturale, pur in assenza di un suo apporto biologico, non può, comunque, poi esercitare l'azione di disconoscimento della paternità né l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità. Sotto questo profilo, l’unico limite alla PMA nel nostro ordinamento, come recentemente confermato anche dalla Corte costituzione, è che occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Invero, secondo la Corte costituzionale, l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale, e nello stesso senso si è espressa la Corte europea dei diritti dell'uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all'inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime. Né ad opposte conclusioni, sempre secondo la Corte costituzionale, può condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso - non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto dal rinvio che il comma 20 dell'art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia ) restano escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l'adozione legittimante. La scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» sottende l'idea, « non [...] arbitraria o irrazionale », che « una famiglia ad instar naturae - due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile - rappresenti, in linea di principio, il "luogo" più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato » (così la Corte costituzionale, sentenza n. 221 del 2019). E tale scelta non violerebbe gli artt. 2 e 30 Cost., perché l'aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona. A sua volta, l'art. 30 Cost. non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà e volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori non implica che possa esplicarsi senza limiti. E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, con altri interessi costituzionalmente protetti, in particolare quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico. Né sussiste la violazione del principio di uguaglianza tra situazioni simili, in quanto la circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che non può obbligare un’evoluzione in tal senso dell'ordinamento nazionale, posto che, diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia. Tornando dunque alla fecondazione assistita omologa a cui abbiano prestato il consenso soggetti di sesso diverso, la Corte di Cassazione si è trovata recentemente ad affrontare anche il tema della fecondazione della donna dopo la morte del marito con embrioni crioconservati, e si è interrogata sulla possibilità di estendere ad un caso del genere le strette maglie della disciplina codicistica sulla presunzione di concepimento di cui all’art. 232 c.c., secondo cui “ si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell'annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio ”. In particolare, i giudici di legittimità hanno dovuto stabilire se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da "controlimite" alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa. Nel caso specifico affrontato, la Cassazione ha dovuto decidere se il consenso prestato alla fecondazione assistita dal marito, così come ribadito dallo stesso prima della morte, sia in grado di prevalere, quale atto idoneo a dimostrare la paternità, sul principio secondo cui un concepimento effettuato dopo i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (la morte di uno dei coniugi è infatti una delle cause di tale scioglimento) non si presume avvenuto durante il matrimonio stesso. La premessa è che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, e che, addirittura, mediante l'applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell'unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall'importante ruolo della "responsabilità" genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una "funzione" genitoriale. In un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, il ruolo della madre resta chiaramente delineato, ma non altrettanto evidente può risultare l’identificazione giuridica della paternità, quando la corrispondenza del fatto reale (paternità dell'ex coniuge della madre ovvero di altra persona) con quello riprodotto nell'atto dello stato civile dipende dall'operare, o meno, della presunzione stabilita dall'art. 232 c.c.. Come detto, in materia di filiazione conseguente all’applicazione dei percorsi medici disciplinati dalla L. n. 40 del 2004, l’art. 8 sotto la rubrica " stato giuridico del nato ", sancisce che " I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'art. 6 ". Qualsivoglia sia la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della specifica modalità di P.M.A. utilizzata all’estero (quale è ad esempio la fecondazione “post mortem”), tale valutazione non può certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull'intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all'estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento, non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l'applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all'esito di tale percorso, come, peraltro, affermato, con chiarezza, della Corte EDU nelle due sentenze "gemelle" Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), oltre che sancito anche dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire della L. n. 40 del 2004) sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso. Occorre, nella pratica, verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua , o si inserisca in quest'ultimo, che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni. Dalla soluzione di tale questione, infatti, deriva l'applicabilità, o meno, alla filiazione da P.M.A. dei principi e criteri attributivi dello status del nato da procreazione naturale, e, poiché lo status risulta in ultima analisi dall'atto di nascita, dalla soluzione della medesima questione discendono anche le regole da seguire nella formazione di tale documento. Ormai, figlio è non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa, quest'ultima nella misura in cui è oggi consentita dalla L. n. 40 del 2004 a seguito dei ripetuti interventi della Corte costituzionale), o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini, una volta ritenuti invalicabili, del principio tradizionale della legittimità della filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 Cost., del resto, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica , rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale. Orbene, secondo una prima opinione, che muove dall'assunto che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico, lo status di figlio del nato da P.M.A. non deriverebbe dalle regole applicabili alla generazione biologica naturale, diverse a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori di esso, poiché, invece, detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A., indipendentemente dal fatto che i genitori siano, o meno, sposati, sicché il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale (che non risulti revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo) avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di "consenso informato" al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà. Per chi ritiene, viceversa, che al nato da P.M.A. si applichino i medesimi principi in tema di filiazione naturale, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull'attribuzione dello status del figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all'assenso da lui prestato alla P.M.A.. Un siffatto dilemma interpretativo produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem , dovendosi, peraltro, rimarcare che rientrano, in questo particolare contesto, ipotesi affatto diverse tra loro, quali: il prelievo del seme dal cadavere dell'uomo; l'inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso; infine, l'impianto, nel corpo della donna, dell'embrione formatosi quando entrambi i componenti la coppia erano in vita. La L. n. 40 del 2004, art. 5, nel riservare l'accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano "entrambi viventi", sembra escludere che possa ricorrervi una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative (art. 12, della medesima legge), probabilmente allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna. La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del complesso procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia, sicché spetta all'interprete, alla luce dei principi sottesi alla disciplina in materia, stabilire se debbano considerarsi illecite, o meno, tutte e tre le diverse ipotesi precedentemente prospettate, ed a tal fine non potrebbe prescindersi da quanto sancito dal successivo art. 6, comma 1, - a tenore del quale, per le finalità indicate dal comma 3 del medesimo articolo (afferente il consenso informato dei soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita), " prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all'art. 5... " - norma che, almeno prima facie , sembra postulare l'esistenza in vita dei menzionati soggetti appunto in ogni fase di applicazione della tecnica prescelta. Peraltro, una volta verificatasi la nascita, non ci si può sottrarre all'individuazione della disciplina da applicarsi in materia di filiazione. Tanto, per la evidente ragione che, in ogni caso, il nostro ordinamento non può disinteressarsi dei correlativi diritti del soggetto venuto al mondo a seguito di una procreazione medicalmente assistita post mortem eventualmente effettuata dal cittadino italiano in un Paese ove tale pratica è ammessa ed avvenuta nel pieno rispetto dei limiti temporali di sua esecuzione prevista dalla corrispondente disciplina. Si pone, allora, la necessità di individuare, nel silenzio del legislatore, lo status del figlio in tal modo venuto al mondo. Infatti, a differenza di quanto previsto per la procreazione eterologa (inderogabilmente vietata nel disegno originario della L. n. 40 del 2004, ma alla quale oggi possono accedere, invece, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, le "coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi" per le quali è stata accertata e certificata una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità per uno o per entrambi i partner), nel caso di procreazione post mortem la nuova normativa non detta una disciplina dedicata alla fattispecie (in ipotesi) vietata, sicché occorre chiedersi se possa applicarsi la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato (come nella specie) oltre i trecento giorni dalla morte del padre. Il riferimento agli " atti concludenti " di cui all’art. 9, comma 1 della L. n. 40 del 2004, da cui deve desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa "lecita", costituisce un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi "atti concludenti" siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento. La legge 40 sopra citata esprime, poi, l'assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell'accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis , rispetto all'interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l'accesso a tale diversa modalità procreativa. E’ dunque possibile l'applicazione della disciplina della L. n. 40 del 2004, art. 8 (anche) alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui fecondazione post mortem , apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato e ribadito prima del decesso il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell'art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell'embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l'utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell'ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il/la figlio/a possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità . Tale scelta interpretativa deve peraltro fondarsi sulla rilevanza che assume la discendenza biologica , della quale deve essere fornita idonea prova, tra l'uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l'utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione in ordine al tempo e alla liceità del concepimento (non potendo riflettersi sul nato eventuali responsabilità dei genitori e/o dei medici che hanno assecondato i loro progetto). Proprio perché le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita , senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano dunque inapplicabili, in materia, quei principi, dettati nel codice civile (artt. 232 e 234 c.c., ma si veda anche l'art. 462 c.c., comma 2), basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza. Alla predetta soluzione, peraltro, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l'assunto secondo cui l'ordinamento deve proteggere l'infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto al diritto alla genitorialità. Al contrario, si può comunque osservare che, nel caso della fecondazione post mortem , l'alternativa è il non nascere affatto, e che l'affermazione secondo cui nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto tale da preferire la non vita. D'altra parte, superate le "barriere" concettuali e normative che si frappongono tra la fecondazione assistita e la nascita, l'interesse del nato da tutelare diventa anche quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità. L'ordinamento "flette" così, sospinto dalla straordinaria evoluzione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, verso una dimensione dello status di figlio che prescinde dalle umane vicende (separazione, morte) che causano la disgregazione della coppia di genitori dopo la fecondazione in vitro, o addirittura anche prima, una volta che questi abbiano validamente espresso il consenso a tale fecondazione, e che dilata nel tempo il tradizionale concetto di riproduzione umana .
Autore: di Roberto Lombardi 28 mag, 2021
T.A.R. per il Lazio, decreto n. 2845 pubblicato in data 18 maggio 2021 IL CASO E LA DECISIONE Una cittadina aderente alla campagna di vaccinazione anti-covid 19 si è vista posticipare la data di somministrazione della seconda dose del vaccino Comirnaty (anche noto come “Pfizer”, dal nome del produttore), da quella originariamente prevista (17 maggio) ad una successiva (31 maggio). Ha chiesto pertanto al Tribunale amministrativo competente di sospendere la determinazione della Regione Lazio in base alla quale è stato adottato il rinvio, unitamente alla circolare del Ministero della Salute del 5 maggio 2021 e al presupposto parere del comitato tecnico-scientifico del 30 aprile 2021 n. 13, per i profili incidenti sulla sua posizione individuale. Il TAR del Lazio, con decreto monocratico presidenziale pronunciato “per il caso di estrema gravità ed urgenza” (art. 56 c.p.a.), dopo avere osservato che la prima camera di consiglio utile per la celebrazione dell’udienza di trattazione della domanda cautelare era quella prevista per l’1 giugno, e che la data inizialmente prevista per la somministrazione della seconda dose di vaccino era nel frattempo già trascorsa, ha respinto la domanda di sospensiva, sulla base delle seguenti osservazioni: - la domanda cautelare ex art. 56 c.p.a. riveste carattere di eccezionalità, nel sistema delle tutele assicurate dal codice del processo amministrativo, sostituendo all’ordinaria cognizione collegiale quella monocratica, e traducendosi in un accoglimento al mero fine di mantenere adhuc integra la res li tigiosa, vale a dire onde evitare un pregiudizio irreparabile tale da rendere la decisione di merito come inutiliter data ; - la cognizione presidenziale urgente non può affrontare alcun profilo di merito, dovendosi limitare alla valutazione della sussistenza del ridetto pregiudizio, pena un’inammissibile compressione della valutazione collegiale, che rimane astretta alla medesima fase processuale, ovvero quella cautelare; - la ricorrente aveva ormai irreparabilmente subìto la lesione del proprio interesse principale, vale a dire la somministrazione alla data originariamente prevista; - l’individuazione di una data diversa ma in ogni caso prossima a quella ormai scaduta e comunque precedente a quella del 31 maggio già fissata si sarebbe sostanziata nella richiesta al giudice di sostituirsi all’amministrazione, con conseguimento di quanto solo la sentenza di merito può assicurare, e ciò anche ove si ordinasse all’amministrazione di provvedere alla scelta di una nuova data e non si fissasse la stessa ex officio . QUESTIONI SOSTANZIALI E PROCESSUALI Il nucleo fondamentale del ricorso esaminato dal Giudice adito – al di là dell’esito schiettamente processuale della domanda cautelare, su cui si tornerà – tende a porre in discussione la decisione della Regione Lazio di “aderire” immediatamente, incidendo sull’intervallo temporale già prestabilito tra la somministrazione della prima e della seconda dose del vaccino anti covid-19, alle nuove indicazioni provenienti dal Ministero della Salute. In particolare, il suddetto Ministero aveva “veicolato” agli organi competenti, tramite circolare, le ulteriori specificazioni contenute in un parere del Comitato tecnico-scientifico sull'estensione dell'intervallo tra le dosi di vaccino a mRNA, oltre che sulla seconda dose del vaccino Vaxzevria. Tali ulteriori specificazioni erano del seguente tenore letterale: “ In relazione all’evoluzione nella conduzione della campagna vaccinale contro SARS-CoV-2, il CTS rimarca che rimane una quota significativa di soggetti non vaccinati che, in ragione di connotazioni anagrafiche o per patologie concomitanti, sono a elevato rischio di sviluppare forme di COVID-19 marcatamente gravi o addirittura fatali. Sulla scorta di questa considerazione, pur a fronte di studi registrativi che indicano come l’intervallo tra la prima e la seconda dose dei vaccini a RNA (PfizerBioNtech e Moderna) sia di 21 e 28 giorni rispettivamente, è raccomandabile un prolungamento nella somministrazione della seconda dose nella sesta settimana dalla prima dose. Questa considerazione trova il suo razionale nelle seguenti osservazioni: • la somministrazione della seconda dose entro i 42 giorni dalla prima non inficia l’efficacia della risposta immunitaria; • la prima somministrazione di entrambi i vaccini a RNA conferisce già efficace protezione rispetto allo sviluppo di patologia COVID-19 grave in un’elevata percentuale di casi (maggiore dell’80%); • in uno scenario in cui vi è ancora necessità nel Paese di coprire un elevato numero di soggetti a rischio di sviluppare forme gravi o addirittura fatali di COVID-19, si configurano condizioni in cui è opportuno dare priorità a strategie di sanità pubblica che consentano di coprire dal rischio il maggior numero possibile di soggetti nel minor tempo possibile; […] Il parere potrà in futuro essere supportato da ulteriore approfondimento epidemiologico su: letalità per fascia d’età, infetti per fascia l’età (dati correnti delle nuove infezioni), stima degli infetti modellizzata anche rispetto ai dati dello studio di prevalenza. Inoltre, il CTS ritiene che, sulla scorta delle informazioni a oggi disponibili sull’insorgenza di trombosi in sedi inusuali (trombosi dei seni venosi cerebrali, trombosi splancniche, trombosi arteriose) associate a piastrinopenia, riportate essersi verificate solamente dopo la prima dose del vaccino di AstraZeneca, i soggetti che hanno ricevuto la prima dose di questo vaccino senza sviluppare questa tipologia di eventi, non presentano controindicazione per una seconda somministrazione del medesimo tipo di vaccino. Questa posizione potrà essere eventualmente rivista qualora dovessero emergere evidenze diverse nelle settimane prossime venture, derivanti in particolare dall’analisi del profilo di sicurezza del vaccino nei soggetti che nel Regno Unito hanno ricevuto la seconda dose ”. Si tratta di valutazione in parte tecnica e in parte di opportunità, che può dunque essere sindacata soltanto se manifestamente illogica o basata su errati presupposti di fatto. Resta il dubbio sul profilo di contrasto tra quanto prescritto dall’azienda farmaceutica e quanto si va concretamente a stabilire, con assunzione di rischio da parte di chi somministra il vaccino connessa ad una tempistica delle somministrazioni che è da considerarsi al di fuori del protocollo sperimentale di chi ha prodotto il vaccino stesso. L’applicazione immediata di tale nuova “modalità” di somministrazione da parte dell’ente somministrante (Regione) – quanto all’intervallo temporale da rispettare tra prima e seconda dose – è anch’essa una scelta di tipo discrezionale o comunque di opportunità e quindi sindacabile sotto il profilo della possibile violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, che vanno peraltro sempre contemperati con i principi pari ordinati di efficienza ed efficacia dell’ agere pubblico. D’altra parte, non pare una strada percorribile far discendere dal consenso espresso dal paziente in sede di prima somministrazione – consenso che è precipuamente rivolto alla conoscenza e accettazione del rischio connesso al tipo di farmaco che va somministrandosi – un’estensione di tale consenso, quasi in termini contrattuali, anche alla programmazione della seconda data di somministrazione, potendosi al più esigere la somministrazione nel tempo previamente stabilito, soltanto se il ritardo sia astrattamente idoneo a cagionare un serio rischio per la salute del soggetto interessato (ma nel caso di specie il comitato tecnico-scientifico, come visto, ha escluso tale eventualità). Dal punto di vista processuale, la decisione del Giudice monocratico (Presidente della Sezione presso cui è incardinato il ricorso) si pone ad un crocevia delicato di diversi interessi tra di loro ugualmente rilevanti. L’art. 56, comma 1 del codice del processo amministrativo stabilisce che “ prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie ”. A loro volta, come noto, le misure cautelari servono ad evitare di subire un pregiudizio grave e irreparabile “durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso” ed è ordinariamente il Collegio a disporle, motivando in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato e indicando i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull'esito del ricorso. Dall’analisi del disposto normativo appena citato emerge dunque che soltanto se vi è una situazione di estrema gravità e urgenza il Presidente, in qualità di organo monocratico, si può sostituire al Collegio nel disporre misure cautelari “provvisorie”, che mantengono la loro efficacia fino a quando non sarà proprio il Collegio a decidere la fase interinale. Nel caso esaminato dal TAR Lazio si è profilata un’ipotesi di scuola che però non è stata contemplata dal codice del processo amministrativo e che di tanto in tanto ricorre, nell’ambito dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: se il giudice non sospende immediatamente l’efficacia del provvedimento impugnato, il ricorrente perde definitivamente il bene della vita primario e quindi l’interesse ad una decisione di merito sulla domanda di annullamento proposta; ma se il giudice sospende il provvedimento impugnato, restituendo, ad esempio, efficacia alla situazione pregressa (come nel caso della signora che aveva già un appuntamento fissato per la seconda dose in epoca precedente sia a quello ricalendarizzato sia alla prima camera di consiglio collegiale utile), di fatto chiude la controversia attribuendo definitivamente, e per di più in fase monocratica, il bene della vita al ricorrente. Questo capita perché il provvedimento amministrativo sottoposto alla valutazione di legittimità del giudice determina la sussistenza di una fattispecie materiale che si realizza soltanto una volta all’interno del periodo temporale di interesse o che si consuma definitivamente, quanto ad effetti concreti sui soggetti coinvolti, prima della decisione collegiale. Quid iuris , dunque? Sono ipotesi di scuola che però meriterebbero una più approfondita riflessione, per le possibili conseguenze negative sul principio di effettività della tutela giurisdizionale. Posto che la rinuncia preventiva a tale tutela, seppure in casi limite, pare in contrasto con i più elementari principi dello Stato di diritto, ed esclusa la rilevanza in queste fattispecie dell’istituto della cauzione “compensativa”, una soluzione potrebbe essere (e viene a volte adottata nella prassi) - qualora sia impossibile fissare una udienza ad horas , come normativamente previsto per il processo elettorale -, quella di interpretare il potere decisionale insito nel decreto presidenziale in una dimensione più vicina a quella di merito che a quella cautelare. In altri termini, si dovrebbe convertire se del caso un istituto processuale eccezionale e sbilanciato sulla gravità e sull’urgenza del pregiudizio, a scapito del “fumus”, in un rimedio monocratico immediato e assimilabile ad una sentenza di merito, con il non trascurabile problema, in questa ipotesi, che il decreto cautelare ante causam di rigetto non è astrattamente impugnabile, ex art. 61, comma 4 c.p.a.. D’altra parte, invece, se il problema si pone in sede di valutazione collegiale della domanda cautelare, il codice del processo amministrativo offre due potenziali strumenti idonei a garantire insieme l’effettività e l'equità della tutela giurisdizionale, ovvero la sentenza “breve” ex art. 60 c.p.a. o la sollecita fissazione della discussione del ricorso nel merito ex art. 55, comma 10 c.p.a..
Autore: di Nicola Fenicia 25 mag, 2021
Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 20 aprile 2021, nella causa C-896/19 Repubblika/ Il-Prim Ministru IL CASO E LA SOLUZIONE Repubblika è un’associazione il cui oggetto è promuovere la tutela della giustizia e dello Stato di diritto a Malta. A seguito della nomina di nuovi giudici delle giurisdizioni superiori, avvenuta nell’aprile del 2019, tale associazione ha proposto un’azione popolare dinanzi alla Prim’Awla tal-Qorti Ċivili – Ġurisdizzjoni Kostituzzjonali (Prima sezione del Tribunale civile, in veste di giudice costituzionale, Malta), allo scopo di contestare la procedura di nomina dei giudici stessi, quale disciplinata dalla Costituzione maltese. Le disposizioni costituzionali interessate, che sono rimaste immutate dalla loro adozione, nel 1964, fino alla riforma del 2016, conferiscono al Primo ministro il potere di presentare al Presidente della Repubblica i soggetti da scegliere. In pratica, il Primo ministro dispone così di un potere decisivo nella nomina dei giudici maltesi delle giurisdizioni superiori, potere che, ad avviso di Repubblika, induce a dubitare dell'indipendenza dei giudici in parola. I candidati devono cionondimeno soddisfare talune condizioni, anch’esse previste dalla Costituzione, e, dalla riforma del 2016, è stato istituito un Comitato per le nomine in magistratura, incaricato di valutare i candidati e di fornire un parere al Primo ministro. In tale contesto, il giudice adito ha sottoposto alla Corte la questione della conformità del sistema maltese di nomina dei giudici con il diritto dell’Unione e, più precisamente, con l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In particolare, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, impone agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare, nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione, una tutela giurisdizionale effettiva, e l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea enuncia il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva di ogni singolo che si avvalga, in una determinata fattispecie, di un diritto che gli deriva dal diritto dell'Unione. La Corte, riunita in Grande Sezione, ha concluso dichiarando che il diritto dell’Unione non osta a disposizioni nazionali come le citate disposizioni di diritto maltese relative alla nomina dei giudici. Tali disposizioni, infatti, non sembrano atte a condurre ad una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità dei giudici tale, da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto. Nel giungere a tale conclusione la Corte enuncia una serie di importanti principi: 1) La tutela giurisdizionale effettiva presuppone il rispetto dei requisiti d’indipendenza del sistema giudiziario degli Stati membri . La Corte pone in evidenza, anzitutto, che mentre l’articolo 47 della Carta contribuisce al rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva di ogni singolo che si avvalga, in una determinata fattispecie, di un diritto che gli deriva dal diritto dell’Unione, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma del TUE, mira, dal canto suo, a garantire che il sistema di rimedi giurisdizionali istituito da ogni Stato membro garantisca la tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Dunque la Corte dichiara che fra i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva che devono essere soddisfatti dagli organi giurisdizionali nazionali che possono trovarsi a statuire sull’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione, l'indipendenza dei giudici riveste un'importanza fondamentale. Essa è infatti essenziale per il buon funzionamento del meccanismo di rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE, che può essere attivato unicamente da un organo indipendente. 2) La necessità del rispetto di fondamentali garanzie di indipendenza e imparzialità degli organi giurisdizionali . Successivamente la Corte ricorda la sua costante giurisprudenza in base alla quale le garanzie di indipendenza e di imparzialità richieste ai sensi del diritto dell’Unione presuppongono l’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo nei confronti di elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti. Secondo la giurisprudenza della Corte inoltre, conformemente al principio della separazione dei poteri che caratterizza il funzionamento di uno Stato di diritto, l’indipendenza dei giudici deve essere garantita nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo. A tal riguardo, precisa la Corte, è necessario che i giudici si trovino al riparo da interventi o da pressioni esterni che possano mettere a repentaglio la loro indipendenza. Tali garanzie devono, in particolare, consentire di escludere non solo qualsiasi influenza diretta, sotto forma di istruzioni, ma anche le forme di influenza più indiretta che possano orientare le decisioni dei giudici interessati. Per quanto riguarda, in particolare, le condizioni in cui avvengono le decisioni di nomina dei giudici, la Corte richiama la propria giurisprudenza, secondo la quale il solo fatto che i giudici interessati siano nominati dal Presidente della Repubblica di uno Stato membro non è idoneo a creare una dipendenza di questi ultimi nei suoi confronti, né a generare dubbi quanto alla loro imparzialità, se, una volta nominati, gli interessati non sono soggetti ad alcuna pressione e non ricevono istruzioni nell’esercizio delle loro funzioni. E’ tuttavia necessario assicurarsi che le condizioni sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione delle suddette decisioni di nomina siano tali da non poter suscitare, nei singoli, dubbi legittimi in merito all’impermeabilità dei giudici interessati nei confronti di elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, una volta avvenuta la nomina degli interessati. 3) Il dovere di non regressione nel livello di tutela dei valori dell’Unione da parte di ciascuno degli Stati membri . La Corte rileva, poi, che la Repubblica di Malta ha aderito all’Unione sulla base dell’art. 49 del TUE; tale articolo prevede la possibilità per ogni Stato europeo di domandare di diventare membro dell’Unione, e precisa che quest’ultima riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni attualmente previsti dall’articolo 2 TUE, che rispettano tali valori e che si impegnano a promuoverli. Ne consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, valore che si concretizza, in particolare, nell’articolo 19 TUE. Gli Stati membri sono quindi tenuti a provvedere affinché sia evitata qualsiasi regressione, riguardo a detto valore, della loro legislazione in materia di organizzazione della giustizia, astenendosi dall’adottare misure che possano pregiudicare l’indipendenza dei giudici. In tale contesto, la Corte ricorda come l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE debba essere interpretato nel senso che osta a disposizioni nazionali nell’ambito dell’organizzazione della giustizia tali da costituire una regressione, nello Stato membro interessato, della tutela del valore dello Stato di diritto, in particolare delle garanzie di indipendenza dei giudici. Esaminando il caso oggetto di decisione alla luce di tali principi, la Corte osserva che l’intervento, nel contesto di un processo di nomina dei giudici, di un organo quale il Comitato per le nomine in magistratura istituito, in occasione della riforma della Costituzione nel 2016, dall’articolo 96A di tale Costituzione può, in linea di principio, contribuire a rendere obiettivo tale processo, delimitando il margine di manovra di cui dispone il Primo ministro nell’esercizio della competenza conferitagli in materia. Occorre inoltre che siffatto organo consultivo sia a sua volta sufficientemente indipendente dai poteri legislativo ed esecutivo e dall’autorità alla quale è chiamato a presentare un parere sulla valutazione dei candidati al posto di giudice. Secondo la Corte dunque, nel caso di specie, una serie di regole menzionate dal giudice del rinvio apparirebbero idonee a garantire l’indipendenza del Comitato per le nomine in magistratura nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo. In particolare, sebbene il Primo ministro disponga di un potere certo nella nomina dei giudici, ciò non toglie che l’esercizio di tale potere sia delimitato dai requisiti di esperienza professionale che devono essere soddisfatti dai candidati ai posti di giudice, requisiti che sono previsti all’articolo 96, paragrafo 2, e all’articolo 100, paragrafo 2, della Costituzione maltese. Inoltre, l’ipotesi che il Primo ministro possa decidere di presentare al Presidente della Repubblica la nomina di un candidato non proposto dal Comitato per le nomine in magistratura istituito dall’articolo 96A della Costituzione maltese, sarebbe da ritenersi, secondo la Corte, del tutto eccezionale e andrebbe comunque, in base alla Costituzione in discorso, motivata ed adeguatamente pubblicizzata nonché comunicata alla Camera dei deputati. Se esercitato entro tali limiti, il potere di nomina del Primo ministro non sarebbe tale da creare dubbi legittimi quanto all'indipendenza dei candidati prescelti. Riflessioni sulla conformità ai principi espressi dalla Corte di Giustizia della nomina governativa o regionale di componenti di alcuni organi della Giustizia amministrativa. La nostra Corte Costituzionale, in ordine alla nomina governativa dei giudici, ha sempre espresso un orientamento coerente con i sopra citati principi della CGUE. Da ultimo, nella sentenza n. 215 del 7 ottobre 2016, nel giudicare sulla questione di legittimità costituzionale, promossa dalla Corte di Cassazione, dell’art. 17 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13.4.1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell'esercizio delle professioni stesse) - nella parte in cui, in esito alle modifiche di dettaglio intervenute nel tempo, la stessa prevede che, della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, organo di giurisdizione speciale chiamato a definire controversie in materia elettorale e disciplinare, nonché inerenti la tenuta dei rispettivi albi professionali, facciano parte, tra gli altri, anche due dirigenti del Ministero della salute - la Corte Costituzionale ha ribadito il proprio orientamento, assunto nel tempo, sulla nomina governativa di giudici. Si è ivi precisato che, nella sua esperienza interpretativa, “ è costante l’insegnamento in forza del quale, in linea di principio, fonte e modalità della nomina sono momenti non decisivi nella verifica di legittimità costituzionale inerente ai parametri della indipendenza e della imparzialità, assumendo, piuttosto, rilievo centrale il grado di autonomia che il legislatore ha garantito all’organo giurisdizionale rispetto all’autorità designante nel concreto esercizio della funzione (per tutte si veda la sentenza n. 1 del 1967, relativa alla nomina governativa dei componenti la Corte dei conti, precedente costantemente richiamato dai numerosi interventi successivi in tal senso resi dalla Corte, tra i quali meritano menzione le sentenze n. 49 del 1968, relativa alle commissioni per il contenzioso elettorale e n. 196 del 1982, riferita alle commissioni tributarie) (...)" . Secondo la Corte costituzionale italiana, ferma l’indifferenza della fonte governativa della nomina, occorre individuare, a monte, al momento della designazione, la predeterminazione legislativa di adeguati criteri selettivi dei componenti designati rispetto alla funzione da assumere (si veda la sentenza n. 177 del 1973, relativa alla nomina governativa dei componenti il Consiglio di Stato, i cui principi sono stati ribaditi anche con le sentenze n. 25 del 1976 e n. 316 del 2004 quando la Corte ha avuto modo di interessarsi delle vicende relative alla nomina, da parte del Presidente della Regione Sicilia, di alcuni membri del Consiglio di giustizia amministrativa). In particolare, con la sentenza n. 25 del 1976 la Corte Costituzionale, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 3, secondo comma, del decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, nella parte in cui disponeva che i membri del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana in sede giurisdizionale, designati dalla Giunta regionale, potessero essere riconfermati, ha affermato che il carattere temporaneo della nomina, per i membri del C.G.A. in sede giurisdizionale designati dalla Giunta regionale, ed estranei ai ruoli organici del Consiglio di Stato, non contrasta, di per sé, con i principi costituzionali che garantiscono l'indipendenza, e con essa la imparzialità, dei giudici, siano essi ordinari o estranei alle magistrature: a tal fine, infatti, non appare necessaria una inamovibilità assoluta, specie per i cosiddetti membri laici o estranei, che ben possono essere nominati per un determinato e congruo periodo di tempo, senza che perciò venga meno l'indipendenza dell'organo, o del singolo giudice. Viceversa, la Corte ha ritenuto l'indipendenza dei membri del C.G.A. designati dalla Giunta regionale sicuramente compromessa per effetto della disposizione che prevedeva, al termine del quadriennio, la possibilità di riconferma nell’incarico, secondo il discrezionale apprezzamento del Governo regionale. Dunque, per la Corte, la sola prospettiva del reincarico discrezionale è sufficiente ad escludere l'indipendenza dei giudici dall’organo governativo. Al di fuori di tale ipotesi di riconferma nel mandato, la Corte costituzionale è sempre stata ferma nel sostenere che sull’indipendenza e terzietà di componenti di consessi giurisdizionali, come lo stesso Consiglio di Stato, non incide la circostanza che la nomina degli stessi avvenga su designazione di soggetti politici, essendo sufficiente predeterminare adeguati criteri selettivi, come senz’altro avviene oggi. Anche lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, ispirato dalla medesima concezione autonomistica siciliana in tema di organizzazione della giustizia amministrativa, riproduce sostanzialmente, a distanza di anni, il modello organizzativo siciliano basato sulla presenza, nell’organo di giustizia amministrativa, di membri “non togati” designati in sede locale, e tale peculiare composizione deve ritenersi pienamente giustificata dal principio di autonomia regionale (cfr. Corte Cost. n. 316 del 2004). Il Consiglio di Stato si è confrontato con la problematica in esame, pronunciandosi su rilievi di illegittimità costituzionale, riguardanti la ‘quota’ di magistrati assegnati al TRGA di Bolzano la cui nomina compete al Consiglio provinciale. Con sentenza della Sez. V, n. 1097 del 1991, il Consiglio di Stato, previa analisi approfondita del quadro di riferimento normativo e giurisprudenziale, ha giudicato adeguate le garanzie di idoneità all’ufficio e di indipendenza dei magistrati addetti ai TRGA di Bolzano, sul rilievo: “ che la scelta dei magistrati, ancorché non concorsuale, avviene nell’ambito di categorie qualificate (v. art. 2, comma 3, d.P.R. n. 426 del 1984, come modificato dall’art. 2, d.P.R. 17 dicembre 1987, n. 554), e che, con la nomina, tutti i predetti magistrati sono collocati in un ruolo speciale, con peculiare garanzia-vincolo di inamovibilità e per il resto con lo statuto giuridico dei magistrati amministrativi regionali (v. art. 5, comma 2, d.P.R. n. 426 del 1984). In particolare, questi ultimi elementi sembrano idonei a concretare qual nucleo minimo di requisiti, indispensabile per garantire l’indipendenza del giudice speciale ex art. 108 comma 2 Cost, e corrispondente, secondo le tesi della Corte Costituzionale, alle esigenze: - che l’organo giudicante sia immune da vincoli che comportino la sua soggezione formale o sostanziale ad altri organi (cfr, già C.cost. 13 novembre 1962, n. 92); - che sia assicurata una certa forma di inamovibilità anche se diversamente articolata da quella prevista per i giudici ordinari (cfr., C. cost. 3 dicembre 1964, n. 103) ”. Infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo, occupandosi della questione della nomina di magistrati del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana designati dal Presidente della Regione Siciliana, ha confermato la legittimità e non violazione dell’imparzialità e indipendenza del soggetto nominato (CEDU 26 maggio 2005). Peraltro, la nomina governativa di una quota della magistratura è un modello adottato da diversi Stati membri dell’Unione europea, come la Francia, il Belgio e la Germania.
Autore: di Gabriella De Michele, Magistrato amministrativo in quiescenza 24 mag, 2021
Premessa a cura di Roberto Lombardi Il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, nella seduta del 21 maggio appena trascorso, è stato impegnato nel dibattito su due questioni di particolare importanza per l'assetto del plesso giurisdizionale che rappresenta. Da un lato, occorreva decidere sull'istanza di un magistrato del Consiglio di Stato tesa ad ottenere l’inclusione dell’anzianità da lui maturata in primo grado in quella computata ai fini dell’attribuzione degli incarichi direttivi in appello; dall'altro, si è reso necessario interpretare, su istanza di un'associazione di categoria, l’art. 19, comma 1, n. 3, terzo periodo, della legge 27 aprile 1982, n. 186, al fine di verificare i "confini" di tale norma in termini di retrodatazione fittizia dell'anzianità di servizio dei vincitori del concorso per Consigliere di Stato. Il Consiglio di Presidenza - sostanzialmente diviso in due nelle votazioni (da una parte la componente TAR più un magistrato del CdS ex TAR e dall'altra la componente concorsuale del Consiglio di Stato e quella "laica") - ha per un verso risposto negativamente alla prima istanza, e per altro verso interpretato l'art. 19 sopra citato escludendo la retrodatazione fittizia per i Consiglieri di Stato vincitori di concorso, ai soli fini della nomina a presidente di sezione del Consiglio di Stato stesso. La vicenda, per i non addetti ai lavori, parrebbe avere un mero rilievo "interno" e/o di natura tecnica. In realtà, arriva ad esito di un percorso storico che parte dalla scelta della Costituzione di "salvare" alcuni Giudici speciali, tra cui il CdS, e arriva al riconoscimento "esterno" della pari dignità del Giudice amministrativo rispetto al Giudice ordinario, quale "garante" effettivo di interessi legittimi e diritti soggettivi (anche fondamentali), passando per la tardiva istituzione del Giudice amministrativo di primo grado, formalizzata dalla legge n. 1034 del 6 dicembre 1971. La "separazione" tra TAR e Consiglio di Stato, astrattamente Giudici di primo e secondo grado all'interno dello stesso plesso giurisdizionale, pur essendo stata pienamente superata dal punto di vista delle garanzie processuali - anche per merito dell'introduzione del Codice del processo amministrativo - è rimasta sotto altro profilo, anche se in modo subdolo, a causa di tutta una serie di questioni ordinamentali irrisolte. Si è creata in particolare, con il tempo, una sempre più visibile "barriera" tra i magistrati entrati al Consiglio di Stato tramite concorso diretto e i magistrati transitati dal primo al secondo grado per anzianità, barriera che costituisce un "unicum" nel panorama giurisdizionale italiano, e che risente di uno squilibrio strutturale tra i due Giudici che ha trovato copertura costituzionale e "avallo" da parte del Giudice delle Leggi. In mezzo, tutta una serie di incontri e scontri che testimoniano la persistenza di un problema ordinamentale che a tratti non sembra essere tanto giuridico, quanto ideologico e lato sensu sociologico, e che sono la spia, per certi versi, dell'indole utilitaristica che spesso e volentieri caratterizza una certa concezione del potere. Ma per conoscere meglio il presente, e affrontare con le idee chiare il futuro, è come al solito necessario ripercorrere con cura il passato. Gabriella De Michele, che è stata prima giudice della Corte dei Conti, poi per ventitré anni giudice amministrativo di primo grado, per otto anni giudice amministrativo di secondo grado e per quattro anni Presidente di TAR, oltre che Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (ANMA) e del Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (CoNMA), ci aiuta, dall'alto della sua esperienza di parte sul "campo", a compiere questo sforzo ricostruttivo e generazionale, con una forza narrativa che supera spesso i confini della mera cronaca per trasformarsi in un intrigante racconto di situazioni in chiaroscuro che offrono, come in un gioco di specchi - per chi sa cogliere le similitudini con altre più importanti e note evoluzioni ordinamentali -, un significativo ed esemplare spaccato delle vicende italiane degli ultimi quarant'anni. Magistrati amministrativi: come eravamo (e come siamo rimasti) di Gabriella De Michele Nella bufera – di immagine e autorevolezza – che sta investendo la magistratura italiana, tra segnalazioni di inefficienza e insinuazioni scandalistiche, emerge una storia ancora da scrivere: una storia, che attiene al ruolo svolto dalle associazioni di categoria. Per la magistratura amministrativa, in particolare, vanno in primo luogo ricostruite le ragioni di rappresentanze diverse e spesso contrapposte (negli ultimi tempi, addirittura quattro per circa quattrocento magistrati). La prima causa, in effetti, è da ricercare nella molto tardiva – rispetto alle previsioni costituzionali – istituzione del giudice di primo grado, formalizzata dalla legge n. 1034 del 6 dicembre 1971, con primo reclutamento dei giudici per titoli (molti provenienti dalla carriera prefettizia) e primi regolari (nonché altamente selettivi) concorsi solo tra la metà e la fine degli anni settanta. Il sopravvissuto concorso per l’accesso diretto al Consiglio di Stato (giudice in precedenza unico e storico consulente del Governo), nonché l’assenza di funzioni consultive per i magistrati dei Tribunali Amministrativi Regionali determinarono, fin dall’inizio, una “frattura orizzontale” profonda, fra giudici amministrativi di primo e di secondo grado, con netta divaricazione ideologica e, inevitabilmente, anche associativa. Di certo, ai nuovi magistrati TAR venne riservata una posizione appartata e, si potrebbe dire, “ancillare”, rispetto ai potenti “grand commis” del piano superiore. Non saranno ulteriormente approfondite, in questa sede, le condizioni istituzionali di partenza, né la straordinaria evoluzione della disciplina processuale, intervenuta negli anni successivi, con piena trasformazione del processo amministrativo da giudizio su atti a giudizio sul rapporto fra cittadino e poteri pubblici, nonché sui contrasti fra detti poteri, nella moderna dimensione pubblicistica “a geometrie variabili”, da affrontare con accresciuti strumenti istruttori e pluralismo delle azioni proponibili, non senza piena affermazione del principio di effettività della tutela, estesa all’ambito risarcitorio. Oggetto dell’attuale riflessione saranno piuttosto le peculiari modalità di uno sviluppo anomalo, che ha interessato solo gli istituti processuali, in un contesto di persistente – ed anzi addirittura crescente – frattura tra primo e secondo grado di giudizio, con sostanziale fallimento di trentennali battaglie associative, condotte – fra gli anni ottanta del secolo scorso e il primo decennio del duemila – per la realizzazione di un Plesso giurisdizionale unitario. E’ quindi necessario fare un passo indietro, per focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche e sugli sviluppi dell’associazionismo giudiziario, con prioritario riguardo al settore della Giustizia Amministrativa. I Tribunali Amministrativi Regionali compaiono, come già accennato, tardivamente e in via subordinata (per reclutamento e carriera) rispetto al Consiglio di Stato: negli anni settanta c’era ancora chi riteneva che, per la relativa collocazione costituzionale, si trattasse di organi regionali, appena un po’ più evoluti delle vecchie Giunte provinciali amministrative. Con il crescente reclutamento concorsuale, tuttavia, cominciò ad affermarsi una diversa consapevolezza di sé dei nuovi magistrati, che all’inizio del 1980 misero in atto drastiche proteste, non escluse iniziative di sciopero, per ottenere una più dignitosa regolamentazione del Plesso giurisdizionale nella sua interezza. E’ improbabile che siano ancora in servizio alcuni dei protagonisti associativi di allora e, se ci fossero, la categoria non avrebbe molte ragioni per ringraziarli: la legge n. 186 del 1982, frutto di quelle prime battaglie, è infatti all’origine di molti mali, dei quali non dovrebbe rallegrarsi nemmeno l’apparente parte vincitrice, come più avanti si cercherà di illustrare. Di fatto, l’Associazione di categoria dei magistrati TAR e quella dei Consiglieri di Stato si mossero su linee strategiche molto diverse: la prima, ottenendo un cospicuo vantaggio per chi conduceva la trattativa (il passaggio al Consiglio di Stato con tutta l’anzianità maturata nella qualifica di consigliere e, per chi non possedesse tale qualifica ma fosse già in servizio, riconoscimento “forfettario” di cinque anni: quota percentuale, all’epoca, di discreta rilevanza, essendo il passaggio in questione molto anticipato rispetto ai tempi attuali); la seconda – guardando più lontano – ottenne che nulla venisse disposto per i successivi reclutamenti di magistrati TAR, ma che il riconoscimento dell’intera anzianità per i relativi consiglieri avesse luogo “limitatamente” alle Presidenze dei medesimi Tribunali (art. 21, comma 4, della citata legge n. 186/82). Negli anni successivi con granitica giurisprudenza, avallata anche dalla Corte Costituzionale, tale disposizione implicò la perdita dell’intera anzianità, per chi – senza essere stato in servizio nel 1982 – fruisse della prevista quota del 50% di posti nel Consiglio di Stato, riservata ai magistrati TAR. La rappresentanza associativa dei Consiglieri di Stato operò quindi, a differenza della rappresentanza TAR, quella che più avanti venne definita la tutela dei propri “ nascituri ”, ovvero dei futuri magistrati reclutati per concorso. Quanto sopra, con conseguenze ben più ampie e importanti di quelle superficialmente prevedibili. Il concorso che, alla data di istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, era solo l’ordinaria modalità di accesso alla Magistratura amministrativa – venendo sostanzialmente a “sdoppiarsi” –, fu all’origine di quello, che, più di trent’anni dopo la Corte Costituzionale, nella nota sentenza n. 273 del 2011, definì uno “spartiacque” fra primo e secondo grado di giudizio. In nome delle funzioni consultive, infatti, l’accesso al Consiglio di Stato veniva in pratica configurato come un nuovo inizio di carriera (solo leggermente anticipato per i “concorsuali” CdS: un regalo, per legge, di circa due o più anni, come se fossero entrati in servizio alla data di indizione del concorso); quanto sopra, tuttavia, nella contraddittoria dimensione di “ruolo unico”, affermato nella misura – e nei limiti – in cui si desiderava calcolare sul primo grado i posti, resi disponibili per pensionamenti e passaggi in fuori ruolo, da destinare anche ai concorsi per il CdS. Le conseguenze puramente anagrafiche del doppio concorso, per il primo ingresso nella magistratura in questione, resero inoltre inaccessibili, per i magistrati TAR, le funzioni direttive in appello. Le caratteristiche dei concorsi per la magistratura – su base nozionistica, approfondita al massimo livello – implicano infatti una importante fase preparatoria di puro studio, normalmente affrontata prima dell’inizio del percorso professionale prescelto: ovvero, anche per una magistratura con accesso “di secondo grado”, come quella amministrativa, fra i trenta e i trentacinque anni di età. Ogni “concorsuale” del CdS, pertanto, “libera” un posto per pensionamento, in media, dopo più di trent’anni e, per ogni posto liberato, solo mezzo è riservato al passaggio per anzianità dal primo grado. Le “quote”, teoricamente previste dalla legge per l’inserimento nel ruolo dei Consiglieri di Stato, quindi, non sono fisse, ma “scorrono” a velocità diverse: quella dei “concorsuali” è più bassa, ma si sedimenta per tempi lunghissimi, sconosciuti ad ogni altra magistratura superiore, a cui si accede in età più avanzata (e percentualmente, pertanto, il numero degli appartenenti continua a crescere); la quota dei magistrati TAR scorre con tempi analoghi in primo grado, ma, con ogni pensionamento, “regala” un quarto di posto al concorso per il CdS, così come avviene attraverso il più veloce scorrimento della “quota” di nomina governativa (almeno in passato, composta da soggetti inizialmente più anziani). Ma non basta: alla “rendita di posizione”, così garantita per merito anagrafico, i “negoziatori” del 1982 aggiunsero appunto, come già ricordato, la preclusa valutazione, nel ruolo di appello, di tutta l’anzianità maturata in primo grado nelle tre qualifiche di Referendario, Primo Referendario e Consigliere, per un totale che può avvicinarsi ai venticinque o trenta anni di servizio in magistratura. In tale contesto emergono situazioni paradossali, mantenendosi nella magistratura amministrativa il ferreo rispetto dell’ordine di anzianità, per l’accesso a qualifiche superiori: principio in sé giusto (basti pensare al “vaso di Pandora”, aperto dalla magistratura ordinaria con il relativo abbandono), ma reso illogico dall’azzeramento dell’intera carriera, svolta esercitando funzioni giurisdizionali di primo grado (mentre, come è noto, l’interruzione di tali funzioni per periodi – anche lunghissimi – trascorsi in posizione di “fuori ruolo” non comporta alcuna penalizzazione). Una vera e propria contraddizione in termini, quando si consideri che l’avanzamento per anzianità viene giustificato come “merito assoluto”, corrispondente all’esperienza maturata. Al momento attuale, sono ormai prossimi alla linea di pensionamento (o l’hanno appena varcata) i magistrati amministrativi, entrati in servizio nel decennio successivo alla “trattativa” del 1982, con il seguente quadro riferibile alle qualifiche direttive: nessun Presidente di sezione del Consiglio di Stato proviene dal TAR per anzianità, tutti i Consiglieri di Stato entrati per concorso sono stati investiti nel corso del tempo – anche mentre si trovavano in posizione di fuori ruolo – delle funzioni direttive in questione (per le quale si riconoscono venti posti, su una platea di poco più di cento magistrati); non tutti i magistrati TAR sono invece pervenuti, nello stesso trentennio, all’equivalente qualifica direttiva di Presidente di Tribunale (più o meno un numero di posti uguale, ma in rapporto a circa quattrocento magistrati, la maggior parte dei quali “si accontenta”, fino al collocamento a riposo, della qualifica semi-direttiva di Presidente di sezione interna, mentre più volte le stesse Presidenze di TAR sono state assegnate a Consiglieri di Stato). In tale contesto, molti magistrati TAR rinunciano alla pur preziosa esperienza dell’esercizio di funzioni di appello (dalle quali, peraltro, è preclusa la “discesa” alle Presidenze di sezione interna) e – se decidono di assumere dette funzioni superiori – si trovano ad operare con Presidenti più giovani, che hanno in effetti superato un ulteriore concorso (con una prova scritta in più, ma erano già quattro per il primo grado), senza comunque che di tale concorso – comunque simile per modalità e contenuti – sia definita la natura: se quale progressione nella medesima carriera, o quale accesso ad una carriera diversa. Nel primo caso, con uno sbilanciamento di prospettive che (nei termini sopra esaminati) oltrepassa ogni criterio di proporzionalità e ragionevolezza; nel secondo, con inevitabili ombre, di seguito meglio esaminate, circa la compatibilità della nuova figura di giudice – “diverso” in quanto anche consulente – con la terzietà che deve caratterizzare il “giusto processo”. Quanto sopra, con l’aggravante del fatto che alla “bravura”, accertata sul piano culturale, non si richiede di aggiungere una corrispondente (non meno preziosa, per pronunciarsi in ultimo grado di giudizio) esperienza giurisdizionale. Lo stesso attuale Presidente aggiunto del Consiglio di Stato è, notoriamente, reduce da una brillante carriera politica, con complessivo esercizio di funzioni giudicanti per poco più di un decennio. Si aggiunga che spesso e volentieri i Presidenti di sezione del Consiglio di Stato non si dedicano in via esclusiva alle funzioni istituzionali, ma fanno incetta di incarichi extra-istituzionali (quelle che i rigoristi chiamano “carriere parallele”, ma che un autorevole esponente del Consiglio di Stato definì, in un’intervista televisiva, “ cursus honorum ”), con polemiche che al riguardo non sono mai mancate: qualcuno forse ricorda un divertente articolo degli anni ottanta pubblicato sul settimanale l’“Europeo”, dal titolo “Scappa e Spada”, in cui si giocava sul nome della prestigiosa sede dell’Istituto, per illustrare come fossero regolarmente altrove (in uffici ministeriali e governativi) i più noti Presidenti di sezione del CdS di allora. Per l’attualità, si rinvia alle cronache emergenti ad ogni cambio di Governo, circa la “squadra” dei Consiglieri di Stato di volta in volta “reclutati”, con o senza collocamento in fuori ruolo. Al tempo parziale dei “bravissimi” si aggiunge l’apporto volenteroso, ma non sempre adeguato, dei Consiglieri di Stato di nomina governativa, nessuno dei quali ha affrontato un concorso di accesso in magistratura, pur avendo alle spalle importanti, ma del tutto diversi percorsi professionali: da ruoli prefettizi a posizioni di comando nel Corpo dei Vigili Urbani. Tali nuovi magistrati – quali persone anche di valore, ma prive della specifica formazione richiesta per il ruolo giudicante – venivano in effetti utilmente collocate, fino a tempi abbastanza recenti, soltanto nelle sezioni consultive, ma – dal 2010 circa in poi – sono stati progressivamente addetti alle sezioni giurisdizionali, con esiti talvolta problematici, di cui si potrebbero fornire ampi riscontri. La “spina dorsale” del Consiglio di Stato – si può affermarlo – è dunque la “componente TAR”, che – con minime percentuali di accesso agli incarichi extra-istituzionali e ancor più ai collocamenti in fuori ruolo – svolge la maggior parte del lavoro istituzionale, concernente le funzioni di relatore ed estensore delle sentenze. Come già accennato, tuttavia, la totale sottrazione dell’anzianità, maturata in primo grado, induce un numero crescente di validi magistrati di TAR a non aspirare al ruolo di Consigliere di Stato: per ogni posto da occupare in appello per la corrispondente quota, pertanto, il ruolo deve “scorrere” di molte posizioni, prima di trovare un soggetto disponibile. Per le ragioni appena illustrate le sentenze, emesse in ultimo grado di giudizio, provengono in non lieve percentuale da magistrati in possesso di minore esperienza giudiziaria media, rispetto a quelli cui è riconducibile la sentenza di primo grado appellata. Tale sistema – certamente inedito rispetto ad ogni altro Ordine magistratuale, per quanto attiene all’esercizio di funzioni superiori – non sembra in grado di coniugare nel modo migliore l’eccellenza nello studio del diritto con la sensibilità dell’interprete (quest’ultima, senza alcun dubbio, progressivamente maturata attraverso l’espletamento delle funzioni giurisdizionali). Non può dunque non essere fonte di stupore, per un imparziale osservatore esterno, la costante glorificazione, da parte dei vertici dell’Istituto, della “triplice provvista” di magistrati, che formano il ruolo dei Consiglieri di Stato, risalendo a tale eterogeneità di “provvista” un plausibile abbassamento – in ultimo grado di giudizio – del livello qualitativo delle pronunce, benché di sempre più forte impatto sulla società e sull’economia del Paese. Si vuole, forse, superare tale consapevolezza, concentrando gli esercizi di “bravura” sulle cause di maggiore importanza? Si potrebbe dimostrare che non sempre tale meccanismo – peraltro non certo tollerabile e potenziale fonte di discredito – è stato in grado di funzionare. Non meno problematica, inoltre, risulta la nozione di “spartiacque”, quale principio introdotto dalla Corte Costituzionale (alla cui composizione, com’è noto, non concorrono i magistrati di TAR), per giustificare l’accesso al Consiglio di Stato “partendo da zero”, in termini di anzianità, per la peculiare funzione anche consultiva dell’Organo di vertice della Giustizia Amministrativa. Se quest’ultima infatti – seguendo l’interpretazione del dettato costituzionale fornita dalla Corte – deve intendersi come “Giustizia” resa, in ultima istanza, da quello che deve continuare ad intendersi come il più alto consulente dell’apparato pubblico, non potrebbe che escludersi l’imparzialità di questo giudice, con impellente esigenza di una riforma costituzionale, come quella preordinata dalla Commissione Parlamentare costituita nel 1997, al fine di ripristinare le regole – nazionali ed eurounitarie – del “giusto processo”. Nessuna voce si è levata, invece, per sottolineare l’incongruità di affermazioni, secondo cui il parere dovrebbe intendersi come mero “ ius dicere ” (non ontologicamente difforme dalla funzione giurisdizionale) e al tempo stesso – a “corrente alternata”, secondo le esigenze da soddisfare – come espressione di una singolare e diversa professionalità, che per comportare l’irrilevanza di qualsiasi anzianità, maturata nell’esercizio delle medesime funzioni giurisdizionali, non potrebbe che giustificarsi con una peculiare connessione fra il Giudice e il Potere sottoposto a giudizio, ovvero con l’esplicita negazione della terzietà. Come si è arrivati a questo punto? E come può giustificarsi un ulteriore silenzio, da parte di chi dovrebbe ben comprendere questa insanabile contraddittorietà concettuale? Per rispondere, è utile ripercorrere le vicende associative, successive all’approvazione della ricordata legge n. 186 del 1982. Si può registrare, in primo luogo, un dato di fatto: i nuovi magistrati TAR – quelli che costituirono ignara “merce di scambio” nella “trattativa” ed entrarono in servizio dopo la promulgazione della legge – trovarono in pochi anni una forte compattezza interna, di cui divenne espressione la rappresentanza di categoria, ovvero l’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (ANMA), che già nella denominazione conteneva il senso di una vocazione unitaria per l’intero Plesso giurisdizionale. Si trattava tuttavia di una vocazione, ancorata a principi ben diversi da quelli che per l’altra rappresentanza di categoria (Associazione Magistrati del Consiglio di Stato) si traducevano nella gelosa tutela della “Giustizia nell’Amministrazione”, con tutta l’ambiguità che tale formula racchiude, nei termini di cui si è già fatto cenno. Di certo, nell’ANMA si trovarono ad avere voce prevalente magistrati, fortemente orientati verso l’unicità dei valori della giurisdizione e inclini a riconoscere la specializzazione, ma non anche la specialità della Giustizia Amministrativa, che volevano più legata a principi di forte tutela dell’indipendenza e rigorosa dedizione dei giudici all’attività di Istituto: principi, quelli appena indicati, in cui pure si riconosceva la Magistratura Ordinaria, la cui Associazione di categoria – Associazione Nazionale Magistrati (ANM) – esprimeva a sua volta, nella stessa denominazione, un concetto di sostanziale rappresentatività esclusiva dei valori della giurisdizione. Erano già allora presenti, nella rappresentanza di categoria della Magistratura Ordinaria, le cosiddette “correnti” (all’epoca ignote alle due Associazioni della Magistratura Amministrativa, benché quest’ultima si mostrasse comunque divisa), ma non si trattava di correnti “politiche” nel senso proprio del termine, essendo la relativa ispirazione riconducibile, piuttosto, a tendenze ideologiche presenti nella società civile, in direzione innovativa e solidaristica, ovvero più o meno conservatrice. L’intera ANM e lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), in ogni caso, apparivano compatti nel tutelare in via sostanziale i principi sopra indicati, né si registrava la vera e propria corsa verso gli incarichi esterni, in cui primeggiava il Consiglio di Stato, che il Capitolato dei Lavori Pubblici, nel testo all’epoca vigente, rendeva anche destinatario esclusivo della Presidenza di collegi arbitrali, che fino a metà circa degli anni novanta consentivano guadagni rapportati in percentuale al “ petitum ”: si parla, a quest’ultimo riguardo, di decine di miliardi di vecchie lire all’anno, con una platea di beneficiari inferiore alla ottanta unità (inutilmente incalzate dai magistrati TAR, esclusi dalla formulazione della norma – presumibilmente – solo per inesistenza dei Tribunali Amministrativi alla data di promulgazione della stessa). Ma non ad una equiparazione di tal genere aspirava la nuova ANMA degli anni ottanta, per la quale sia gli incarichi arbitrali, sia l’eccessiva concentrazione di consulenze extra-istituzionali di ogni tipo (per non parlare delle vere e proprie imprese, in campo editoriale o didattico) avrebbero dovuto ritenersi incompatibili con la funzione giurisdizionale, in modo tale da ricevere una disciplina non meno rigorosa di quella, riservata alla magistratura ordinaria. Erano gli anni in cui circolava un motto di spirito – attribuito ad un noto Presidente di sezione del Consiglio di Stato di allora (e certo dallo stesso frequentemente ripetuto) – secondo cui “ le sentenze sono la moglie e gli incarichi l’amante ” (con evidente concentrazione del desiderio su quest’ultima), mentre un altro antico Presidente chiedeva retoricamente ai fautori del rigore, presenti in sparuta minoranza nell’Organo di Autogoverno: “ Vorreste forse che guadagnassi meno di un miliardo l’anno? ” (Si parlava, ovviamente, di vecchie lire). Battute, certo, ma significative del clima che si avvertiva nella magistratura amministrativa. Tutto questo, fino ai primi anni novanta, quando l’opinione pubblica fu investita da notizie di forte impatto circa l’operato della magistratura ordinaria, che stava scardinando fenomeni di corruzione dilagante ai “piani alti” della politica, nonché degli organismi pubblici e privati in collusione con i principali partiti. Era la stagione che fu denominata “Mani Pulite” e che portò, almeno inizialmente, un irripetibile lustro alla funzione giudiziaria. Né vanno dimenticate grandi figure di magistrati, che nello stesso periodo (ma anche in anni antecedenti e successivi) sacrificarono la vita per lottare contro la criminalità organizzata, o entrarono nel mirino del terrorismo. Alla stessa “carica ideale” si ispiravano – come la maggior parte dei magistrati italiani – i componenti del Direttivo ANMA, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta: si viveva con disagio, all’epoca, il divario tra l’operato del CSM, che tutelava con rigore l’indipendenza dei giudici, escludendo la maggior parte delle funzioni extra-giudiziarie, e l’opposto indirizzo del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, che un bellicoso neo-Presidente dell’ANMA arrivò a definire pubblicamente “Comitato d’Affari”, in quanto il 98% dell’attività consisteva nel distribuire incarichi e collocamenti in fuori ruolo, mentre ben poco ci si occupava delle condizioni di lavoro dei magistrati (quelli di primo grado, in prevalenza, “pendolari” a proprie spese e senza incarichi né strumenti di lavoro: per consultare atti normativi e giurisprudenza si andava in biblioteca, o si acquistavano di tasca propria riviste e banche dati). Fu in tali condizioni che scoppiò la “scintilla”, ovvero – in realtà – l’inizio di un’“onda lunga” che portò lontano, tanto da far definire i protagonisti associativi di quegli anni come “gruppo storico”. L’innesco, in realtà, fu di stampo corporativo, ma gli effetti sarebbero stati – come si vedrà – molto diversi, senza il “retroterra culturale” sopra descritto. Nel 1988, gli appartenenti al ruolo TAR “scoprirono” che i “cugini” della Corte dei Conti (dal cui ruolo alcuni provenivano) avevano ottenuto, con la legge n. 177, un temporaneo dimezzamento dei tempi richiesti per il passaggio dal grado di partenza di referendario alle qualifiche di Primo Referendario e di Consigliere: quattro anni in tutto e non più otto (beneficio ancora noto come “2+2”). L’interesse per ottenere lo stesso trattamento fu subito vivissimo, ma per ragioni inizialmente non economiche: il trattamento retributivo dei magistrati di ogni ordine, infatti, è regolato dalla legge n. 425 del 1984, con progressione legata esclusivamente all’anzianità. Pieni di entusiasmo, comunque, molti giovani magistrati TAR entrarono nell’associazione di categoria, con l’intenzione di promuovere subito una riforma, analoga a quella della Corte dei Conti. Il terreno, aperto da quest’ultima, era stato arato da poco in sede politica e i nuovi rappresentanti trovarono subito, con relativa facilità, i sostegni necessari per portare in Parlamento una norma estensiva del beneficio, che non comportava per lo Stato alcuna spesa e appariva del tutto ragionevole, visto che – dal primo giorno di servizio e per ben più di otto anni – tutti i magistrati in questione erano (come sono tuttora) addetti alle medesime funzioni. La norma in questione fu quindi inserita, in rapida successione, in svariati disegni di legge che offrivano tale opportunità, ma sempre costantemente invano. Ci vollero un paio d’anni per comprendere come mai una disposizione equa e semplice, facilmente ottenuta dalla Corte dei Conti, si rivelasse irraggiungibile per i magistrati TAR. L’illuminazione arrivò quando il Presidente dell’Associazione Magistrati del CdS si lasciò sfuggire, in uno dei periodici incontri, che tale norma non poteva essere approvata, senza l’introduzione di una “salvaguardia”. Emerse così una nuova realtà, fino a quel momento ingenuamente ignorata. In primo luogo, infatti, si comprese che la tutela dei “ nascituri ” non era un modo di dire, ma un modo di essere difeso con la massima intransigenza: non si poteva permettere quindi che – acquistando la qualifica di consigliere in metà tempo – i magistrati TAR potessero, in tempi più o meno lontani, anticipare la concorrenza con i Consiglieri di Stato per le Presidenze dei Tribunali Amministrativi (a precludere le Presidenze di sezione del CdS, infatti, aveva già provveduto la legge n. 186, ma le Presidenze di TAR restavano accessibili e lo “scalino” degli otto anni era ritenuto irrinunciabile, quanto meno per innalzare l’età e avvicinare il pensionamento degli eventuali Presidenti di provenienza TAR). In secondo luogo, si comprese che cosa significasse la costante presenza di Consiglieri di Stato negli uffici legislativi e nei Gabinetti ministeriali, in stretto rapporto di collaborazione con gli esponenti del Governo, con acquisizione immediata di informazioni su ogni iniziativa normativa di interesse per la categoria da parte dell’Associazione magistrati del CdS, e successivo parere di "gradimento". Nonostante ciò, l’ANMA riuscì comunque a venire a conoscenza di frequenti riunioni di Consiglieri di Stato e della Corte dei Conti presso la sede di quello che si chiamava allora Ministero del Tesoro, per elaborare con adeguata riservatezza un testo normativo, in grado di travolgere l’equiordinazione retributiva dei magistrati, fino a quel momento legata solo all’anzianità di servizio. Esistevano infatti da tempo, per il pubblico impiego, disposizioni introduttive del cosiddetto “allineamento stipendiale”, volto ad evitare che soggetti pervenuti, per merito, in posizioni di maggiore responsabilità, percepissero retribuzioni inferiori rispetto a colleghi più anziani, che occupassero posizioni anche gerarchicamente inferiori. Ove una tale situazione si fosse verificata, la retribuzione più elevata del grado inferiore avrebbe quindi fatto “lievitare” quella del grado superiore: per rendere meglio l’idea, l’istituto era anche noto come “galleggiamento”. Di recente, detto istituto era stato applicato alla magistratura ordinaria, essendo rimasto in ruolo, ma sospeso dal servizio per molti anni, un magistrato coinvolto in una gravissima vicenda penale, in cui veniva contestato il reato di pedofilia. Al momento del rientro il ruolo, tale magistrato aveva un’anzianità maggiore – e quindi una retribuzione più elevata – rispetto ai colleghi che nel medesimo ruolo lo precedevano e, con valutazione che potrebbe suscitare qualche perplessità (tenuto conto della ratio dell’istituto), l’allineamento stipendiale era stato effettuato. Si era quindi affacciata un’ipotesi applicativa di rilevante entità per le magistrature speciali, nel cui ruolo erano presenti, per nomina governativa, persone provenienti da altre carriere, di norma dopo avere maturato una notevole anzianità. Questi nuovi magistrati entravano in servizio in posizione iniziale, ma con tutto il proprio maturato economico; in più, l’intera carriera precedente era considerata come resa in magistratura, con trattamento economico, pertanto, corrispondente a tale fittizia anzianità di servizio. Una norma in via di predisposizione avrebbe dunque dato il “via libera” al galleggiamento per il personale di magistratura del Consiglio di Stato, dove coesistevano nomine governative e accesso per concorso: la soluzione escogitata era quella di ritenere pacifica l’applicazione – mai prima effettuata – dell’istituto di cui trattasi, ma circoscrivendolo al trattamento stipendiale, con esclusione degli assegni “ad personam”. I rappresentati dell’ANMA videro nell’iniziativa un ingiustificato declassamento del ruolo dei Giudici del TAR, non interessato da nomine governative: non a caso, nessuno li aveva invitati alle riunioni in corso. Il gruppo dirigente di allora si recò quindi dal Presidente del Consiglio di Stato rappresentando allo stesso una ferma opposizione al progetto. Fu quindi coinvolto il Presidente dell’Associazione magistrati del Cds, espressamente invitato ad evitare insanabili spaccature della categoria. In primo luogo, quindi, in una successiva riunione presso il Tesoro, l’ANMA si trovò presente. La situazione era delicata, per il seguente, duplice ordine di ragioni: - notevole entità del beneficio economico (oltre un milione di vecchie lire mensili nette, con mero “patto fra gentiluomini” – poi disatteso – di non chiedere interessi e rivalutazione sui cospicui arretrati, che superavano per alcuni i cento milioni di lire); - comune volontà di non dare luogo ad alcun clamore mediatico al riguardo. Subito, quindi, si cercò di spiegare ai nuovi convitati ANMA che la vicenda avrebbe avuto risvolti favorevoli anche per loro (testuale: “ Anche i ragazzi dei TAR ci guadagnano qualcosa ”): il riferimento era a qualche centinaio di migliaia di lire, per allineamento alla retribuzione di avvocati dello Stato e magistrati ordinari, che avessero vinto il concorso di accesso al TAR con qualche anzianità di servizio. Non era stato però messo in conto l’orgoglio di una categoria, che non accettava alcuna deminutio economica, quale sostanziale deminutio di status : i giovani rappresentanti di TAR si scagliarono, quindi, contro quella che venne definita “lotteria stipendiale”, da denunciare al più presto all’opinione pubblica in quanto lesiva di valori-cardine della giurisdizione, da ritenere estesi – nello spirito dell’art. 107 della Costituzione – anche ad un trattamento retributivo uguale per tutti, in base all’anzianità di servizio; mentre abbandonavano platealmente la riunione, tuttavia, gli stessi indignati rappresentanti furono letteralmente rincorsi da alcuni dei presenti e ricondotti al “tavolo”. Il resto venne da sé: il Consiglio di Stato (avendo ben compreso il rischio di perdere il risultato atteso, ove reso oggetto di iniziative di protesta e negative forme di pubblicità) enucleò immediatamente una singolare – e nemmeno richiesta – concezione di ruolo “a pettine”, che consentiva al Consigliere TAR di “allinearsi” al miglior trattamento economico del primo Consigliere di Stato governativo, entrato in ruolo in data successiva. Non sarà l’ultima volta, come vedremo, in cui l’interesse economico, sottostante ad iniziative del Consiglio di Stato, sarebbe stato utile per i magistrati TAR, quando la relativa rappresentanza di categoria si fosse mostrata intransigente nel difendere il prestigio della funzione. L’ANMA aveva ottenuto, quindi, un risultato che riteneva prezioso anche al di là del beneficio economico, dipendendo quest’ultimo dall’equiparazione a tutti gli effetti del Consigliere di TAR al Consigliere di Stato. Perché, poi, non sia stato così anche sotto ulteriori profili, lo si comprenderà solo nel seguito della presente narrazione. All’epoca l’operato dell’Associazione comportò, comunque, una maggiorazione retributiva importante, che però non raggiungeva proprio i protagonisti della nuova trattativa, non avendo ancora gli stessi raggiunto la qualifica di Consigliere. Non poteva che riaccendersi, quindi, lo scontro sul “2+2”. Ci si guardò bene, tuttavia, dal lanciare una battaglia concentrata su tale fronte, meramente corporativo (ed anche, ora, di rilevanza economica), ma si avviarono iniziative di protesta estese a tutte le ragioni del malessere, avvertito dalla categoria. Venne quindi proclamato uno sciopero ad oltranza – all’epoca possibile – con effetti realmente paralizzanti in tutti i Tribunali Amministrativi Regionali: la legge n. 189 del 13 luglio 1990 – che estendeva a termine i benefici di carriera, originariamente ottenuti dalla Corte dei Conti – arrivò dopo poco più di due settimane, ma lo sciopero non venne sospeso, fino a che il Ragioniere Generale dello Stato invitò il Presidente dell’ANMA – che in casa stava lavorando sui provvedimenti urgenti, non compresi nell’astensione dal lavoro – ad un incontro che avvenne meno di un’ora dopo, previo invio di un’autovettura di servizio. In tale incontro – evidentemente suggerito “dall’alto” – i due soli partecipanti elaborarono le linee di un maggiore supporto per il lavoro dei magistrati amministrativi, con istituzione di un nuovo capitolo di bilancio, di cui venne elaborata la denominazione e che è alla base delle dotazioni informatiche, nonché dell’acquisto di banche dati, di cui ancora i magistrati amministrativi dispongono. Solo dopo tali ultime conquiste lo sciopero venne interrotto. Il notevole successo ottenuto, in ogni caso, non rappresentò la fine dei problemi da affrontare. Innanzi tutto, infatti, si aveva la precisa impressione che il cosiddetto galleggiamento avrebbe avuto vita breve e, per tale ragione, si accettò la “salvaguardia”, imposta dal Consiglio di Stato come pre-condizione dell’accordo: per i nuovi consiglieri, quindi, l’art. 1 della ricordata legge n. 189 del 1990 faceva espressamente salvo l’ordine di ruolo di cui all’art. 21, primo comma, della legge n. 186 del 1982. Successivamente, all’inizio degli anni novanta, partì un nuovo, fortissimo confronto. Come si temeva, infatti, l’allineamento stipendiale – sempre mal digerito dal Tesoro e imposto da una vera e propria “manovra di Palazzo” – ebbe bruscamente termine, con l’art. 2, comma 4, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito in legge n. 359 del 1992. Contribuirono alla velocità della “caduta” le iniziative di svariati colleghi che – pur preavvertiti e dopo avere incassato somme cospicue – iniziarono a chiedere sulle stesse interessi e rivalutazione monetaria. Anche per l’avidità di pochi, pertanto, furono abrogate le disposizioni di legge, che consentivano l’allineamento stipendiale nel pubblico impiego. Tutte meno una: quella contenuta nel nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984, che prevedeva l’allineamento stipendiale per i magistrati che fossero pervenuti alle Corti d’appello o alla Cassazione a seguito di “concorso per esami”. E’ ragionevole ritenere che tale norma non sia stata tenuta in considerazione – benché ancora non formalmente abrogata – in quanto priva di destinatari, non essendo più effettuato, nella magistratura ordinaria, alcun concorso per esami, finalizzato all’accesso alle citate Corti superiori. Non la pensarono allo stesso modo, però, i Consiglieri di Stato vincitori di apposito concorso, che per ottenere un’interpretazione estensiva della norma in questione proposero ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Si prefigurava ancora una volta, pertanto, un disallineamento di status per il ruolo TAR: i magistrati più giovani, infatti, avrebbero avuto accesso alla qualifica di consigliere con retribuzione decurtata rispetto agli stessi colleghi TAR più anziani e a regime, poi, rispetto ai nuovi vincitori di concorso per il CdS, che – con l’intervenuto accoglimento del ricorso straordinario – avrebbero ritagliato per se stessi un’ulteriore “nicchia” di privilegio, rispetto non solo alla restante magistratura amministrativa, ma anche alla Corte dei Conti e all’Avvocatura dello Stato. La protesta, in ogni caso, partì dall’ANMA, i cui rappresentanti avevano ormai, all’epoca, già ottenuto la qualifica superiore e l’allineamento stipendiale, ma scelsero la via di una solidale tutela dell’intera categoria e non dei propri specifici interessi. A seguito di nuova dichiarazione di sciopero, l’ANMA venne convocata dal Ministro per la Funzione Pubblica dell'epoca che, in parallelo, doveva già avere registrato il malumore dei funzionari del Tesoro, messi di fronte ad un atto giustiziale, ritenuto non condivisibile e assunto in conflitto di interessi. All’epoca, peraltro, il parere emesso in sede di ricorso straordinario non comportava un obbligo di emanazione di decreto presidenziale conforme e – mancando tale decreto – i Consiglieri di Stato ricorrenti avevano promosso una inedita azione di ottemperanza, nominando commissario ad acta il Segretario Generale dell’Istituto di appartenenza. La “prova di forza”, questa volta, non ebbe successo: nonostante alcuni convulsi tentativi di accordi separati (che coinvolsero purtroppo anche alcuni colleghi del TAR), per conservare una differenza di trattamento retributivo a favore dei vincitori di concorso per il CdS, l’art. 50, quarto comma, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) – fortemente voluto dal Ministro Bassanini, che non aveva apprezzato la “fuga in avanti” di alcuni pur abituali collaboratori – conteneva la soppressione retroattiva, in via di interpretazione autentica, dell’art. 4, comma 9, della legge n. 425 del 1984, con perdita di “ogni efficacia” dei provvedimenti e decisioni “ di autorità giurisdizionali, comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione….In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni e provvediment i”. Al posto del “regalo” per pochi, tuttavia, i magistrati di ogni ordine e gli avvocati dello Stato, che non avessero usufruito del soppresso istituto dell’allineamento stipendiale, avrebbero avuto accesso – con il conseguimento della qualifica di consigliere o qualifica equiparata – al “trattamento economico complessivo annuo pari a quello spettante ai magistrati di Cassazione”. Giunti a questo nuovo successo, che ristabiliva gli equilibri retributivi all’interno dei singoli ordini giudiziari (fatta salva un’aspra polemica con la rappresentanza della magistratura ordinaria, che registrava una straordinaria progressione per le magistrature speciali) i rappresentanti dell’ANMA si mossero verso un solo obiettivo: quello dell’unicità di accesso e di carriera, all’interno del Plesso di appartenenza. Anche questo obiettivo venne raggiunto, benché con disposizione solo programmatica, attraverso l’art. 18 della legge n. 205 del 2000. Dietro una norma così importante, che poteva cambiare il corso della storia per la magistratura amministrativa, c’erano tutta la coesione interna che ancora sussisteva e la convinta partecipazione esterna ai lavori della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, che aveva concluso i propri lavori il 4 novembre 1997, trasmettendo al Senato un progetto che lasciava al Consiglio di Stato la sola funzione consultiva, a fronte di una magistratura amministrativa unitaria – in pieno possesso di una posizione di terzietà – con due gradi di giudizio affidati al medesimo Plesso di giudici e facoltà iniziale di scelta per i consiglieri di stato, circa l’organismo di appartenenza, ma senza più alcuna sovrapposizione di funzioni diverse e non compatibili. Questi risultati furono anche frutto di un’ampia collaborazione, instaurata con il relatore, Marco Boato, e con il senatore Giovanni Pellegrino, che fu in seguito il “padre” della legge n. 205. E’ ragionevole ritenere che – se non fossero venuti meno quei presupposti di coesione e convincimento, che si concentravano sui valori primari della giurisdizione – anche l’obiettivo finale, quello più importante, sarebbe stato raggiunto. Si trattava, dunque, di assicurare i presupposti per una Giustizia Amministrativa rinnovata, in grado di affrontare la sfida della complessità, costituita dalla trasformazione degli apparati pubblici: una trasformazione, a cui non poteva che corrispondere un Plesso giurisdizionale moderno e unitario, secondo il caloroso invito del Senatore Pellegrino, in un memorabile convegno sulla legge n. 205 del 2000, di cui lo stesso era stato ispiratore e relatore. Quell’entusiasmo e quelle speranze non hanno ancora avuto seguito, a venti anni di distanza, ma, soprattutto, sembrano avere perso consistenza, nella categoria che più fortemente le aveva volute. Subito dopo l’approvazione della legge n. 205, infatti, gli stessi protagonisti di quello, che è stato successivamente definito “Gruppo storico”, intendevano concentrare l’intera forza dell’Associazione sull’obiettivo sopra descritto, come preordinato dall’art. 18 della medesima legge, ma cominciarono ad avvertire che la categoria non era più la stessa. Gli stessi successi, ottenuti dall’ANMA, avevano indotto molti magistrati ordinari a partecipare ai successivi concorsi per referendari TAR, puntando su una magistratura, in cui ravvisavano maggiori possibilità di carriera e di guadagno. Già in precedenza, tuttavia, alcune crepe erano emerse ai margini del Direttivo, la cui intransigenza sulle questioni di status non era gradita a tutti, quando si potesse temere la compromissione di interessi personali. Poco prima dell’approvazione della legge finanziaria 2001, alcuni magistrati TAR avevano concordato la possibilità di maggiorazioni retributive per i vincitori di concorso del Consiglio di Stato: accordo ignorato e poi respinto con forza dalla dirigenza dell’Associazione (oltre a rivelarsi del tutto inutile, poiché lo stesso Ministro Bassanini rifiutò, con una certa durezza, di ascoltare il rappresentante del CdS che lo proponeva). La tentazione di accordi "in parallelo" però rimase e divenne via via più evidente, traducendosi nell’accusa all’Associazione di non volere una riapprovazione del “2+2”, in cambio di un modesto aumento dell’aliquota per l’accesso concorsuale al CdS (dal 25% al 40%). Si trattava, in realtà, di un vero e proprio “specchietto per le allodole”, in quanto l’aumento dell’aliquota – definito riduttivamente “fotografia dell’esistente”, per il singolare meccanismo in precedenza descritto – avrebbe comportato, se posto in essere, in questi ultimi venti anni, una più che dimezzata presenza di magistrati TAR in CdS, con ulteriore paralisi nello scorrimento del ruolo a tutti gli effetti, mentre il “2+2” non sarebbe mai stato approvato, per le conseguenze economiche che ormai comportava e che erano particolarmente invise alla magistratura ordinaria. Non bastò, tuttavia, che si lasciasse presentare il frutto dell’accordo in sede parlamentare – ove fu subito affossato dalla furibonda reazione del Presidente dell’ANM dell'epoca – perché fu avviata una raccolta di firme contro la dirigenza dell’Associazione, colpevole di “pensiero unico” e di rifiuto della strategia dei “piccoli passi”, attraverso cui realizzare traguardi anche minori ma concreti, coltivando rapporti amichevoli e non di contrapposizione col Consiglio di Stato. L’alto numero di adesioni al documento fece battezzare i promotori come “Gruppo dei 100”, poi denominato “Rinnovamento” . Il cammino unitario del “Gruppo storico” è terminato qui, nei primi anni duemila, mentre la perdita dell'unità interna è coincisa con una maggiore penetrazione di magistrati TAR nel mondo degli incarichi extra-istituzionali e con un cambiamento di direzione dell'attenzione della categoria, o almeno di una parte consistente di essa. Per concludere questa parte della narrazione, può essere anche interessante segnalare la tenacia, con cui i promotori del ricorso straordinario hanno continuato a battersi contro la formulazione dell’art. 50 della finanziaria 2001, questa volta perseguendo sia una riforma, in senso più spiccatamente giurisdizionale, dello stesso istituto giustiziale di originario riferimento, sia la via di ricorsi giurisdizionali in primo e in secondo grado: ricorsi, in esito ai quali ben due pronunce della Corte Costituzionale (nn. 282 del 2005 e 24 del 2018) – la prima promossa dal TAR del Lazio e la seconda dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – hanno posto fine alla vicenda, in termini negativi per i ricorrenti. Nel frattempo, è stata fondata nel 2008 una nuova Associazione di categoria di Consiglieri di Stato, il Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (CoNMA), che ha come finalità statutaria il perseguimento di un reale e non fittizio ruolo unico. Nella nuova sede associativa gli “ultimi giapponesi” del Gruppo Storico – come quelli originari, che continuarono a combattere nella seconda guerra mondiale, ignorando la resa del Giappone – hanno lasciato una testimonianza finale, dal titolo “Prospettive di Riforma della Giustizia Amministrativa”: un testo approvato all’unanimità dall’assemblea il 2 luglio del 2014 e consegnato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riprendendo le proposte, oggetto del documento CoNMA del 2014, la scrivente, come Presidente di TAR, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019, ha così idealmente riassunto la sua parabola associativa e professionale: “ Non si dovrebbe attendere oltre, per porre mano al preannunciato riordino della Giustizia Amministrativa, in termini tali da imprimere un forte impulso per l’ammodernamento dell’intero sistema: riordino che sembra, viceversa, sparito sia dall’agenda programmatica degli ultimi Governi sia da un serio contesto propositivo interno, in passato fatto proprio anche dall’Organo di Autogoverno. Detto ammodernamento, da più parti invocato, difficilmente potrà prescindere da linee di riforma, in grado di rafforzare l’intervento del giudice amministrativo: un intervento che, nell’attuale assetto istituzionale, dovrebbe presupporre un potenziamento delle funzioni sia consultive che giurisdizionali, ma in una innovativa dimensione di separatezza…... Da una parte, infatti, sarebbe auspicabile un ruolo realmente unitario di giudici, di primo e di secondo grado, rigorosamente terzi rispetto alle parti del giudizio e mai contigui (anche in via extra-istituzionale) ad una di esse: giudici, dai quali provengano indirizzi giurisprudenziali imparziali e univoci, quale momento di sintesi dell’infinita casistica vissuta attraverso i processi; dall’altra, potrebbe riconoscersi un altrettanto eccellente, ma distinto ruolo di consulenti – del Governo e di altre istituzioni pubbliche – in grado non solo di contribuire, come già ora avviene, all’opera di semplificazione e codificazione delle norme, ma anche di svolgere una nuova funzione di “problem solving”. Tale funzione potrebbe essere istituita con modalità tali, da consentire la prevenzione e il contenimento del contenzioso, aiutando soggetti pubblici e privati – attraverso risposte “neutre”, oltre che altamente qualificate, su precisi quesiti giuridici – a individuare linee interpretative corrette e a superare quei blocchi o difficoltà procedurali, che troppo spesso dilatano i tempi dell’azione amministrativa. Questa peculiare dimensione del parere, illustrata dal Presidente Pajno in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, meriterebbe ampia riflessione, elaborazione delle possibili modalità attuative e iniziative concrete di realizzazione, di sicuro interesse pubblico. Non si dubita, infatti, della concezione del Consiglio di Stato come “serbatoio di eccellenza”, in grado di fornire adeguati indirizzi tecnico-giuridici, nell’interesse del Paese, ma – quando tali indirizzi e gli atti conseguenti vengano resi oggetto di giudizio – occorre che i giudici non solo siano, ma anche appaiano rigorosamente equidistanti dalle parti in causa, nonché dediti in via esclusiva alle proprie delicate funzioni. Una riforma indirizzata nel senso sopra indicato, dunque, non potrebbe che accrescere la forza e l’autorevolezza del Plesso giurisdizionale TAR/Consiglio di Stato, senza nulla sottrarre alla peculiare posizione di un distinto ruolo consultivo del medesimo Consiglio di Stato – da rendere anzi più incisivo – anche nell’assetto costituzionale vigente. Poche parole di conclusione. Consapevoli del privilegio di appartenere ad una categoria, che può dare un rilevante contributo per lo sviluppo sostenibile del Paese, i magistrati amministrativi dovranno trovare in tempi brevi maggiore coesione interna e univocità di indirizzi, concentrandosi sui tempi e sui modi, in cui possono essere garantiti principi di respiro europeo, quali l’effettività della tutela e il giusto processo. La sfida di un cambiamento profondo, nella cultura e nelle prassi operative dell’intero Apparato pubblico, non può essere affrontata con formule gattopardesche (“bisogna che tutto cambi, perché tutto rimanga com’è”): auspichiamo, dunque, che sia arrivato il tempo di innovazioni reali, nella predisposizione delle regole e nella relativa applicazione, senza pretendere l’avvento di una società ideale, ma senza sottrarci a nuove, più avanzate dimensioni deontologiche, istituzionali e funzionali. All’individuazione dei nuovi orizzonti, nonchè al diretto coinvolgimento nei conseguenti percorsi, non potranno restare estranee la cultura e la grande tradizione della Giustizia Amministrativa.”
Autore: M. Barbara Cavallo 12 mag, 2021
Riflessioni sul ruolo dell’autogoverno e su nuove possibili forme di rappresentanza. La drammatica situazione nella quale versa il Consiglio Superiore della Magistratura, il più importante e rappresentativo organo di autogoverno della magistratura italiana, è ormai da tempo nota alle cronache, alla classe politica, agli operatori del diritto, e naturalmente, agli stessi magistrati. Il caso Palamara - con l’eco mediatica che ne è seguita, le dimissioni di componenti togati e i successivi risvolti disciplinari e penali (peraltro, ancora in essere) - ha avuto l’effetto di rendere “ecumeniche” alcune dinamiche dell’attività del C.S.M. che non si può dire fossero ignote o segrete, e ha riproposto a vari livelli la questione delle cd. “correnti” all’interno della magistratura, con l’ampio discredito dal quale le stesse sono investite almeno da trent’anni a questa parte. Considerate in passato, in maniera un po’ acritica e piuttosto tralatizia, quali punti di contatto ed ingresso delle forze ed ideologie politiche all’interno della Magistratura ordinaria, esse sono ormai identificate come lo strumento che muove e indirizza l’attività dei componenti togati all’interno del C.S.M. e, quindi, come il lasciapassare obbligato per trasferimenti, conferimenti di funzioni, esercizio del potere disciplinare, attribuzione di incarichi interni ed esterni. Ed in effetti non può negarsi che, nate storicamente sotto la spinta della volontà di aggregazione dei magistrati “culturalmente simili”, per scopi collegati allo svolgimento dell’attività dell’Associazione Nazionale Magistrati – quindi attività sindacale e di tutela degli iscritti – abbiano mutato la loro natura unitamente al mutamento delle finalità perseguite, diventando dei centri di potere interni alla Magistratura, al punto da condizionarne dall’interno una serie molteplice di dinamiche, aventi sempre più incidenza sulla vita e sul lavoro di tutti i magistrati, anche di quella maggioranza silenziosa che, evitando di iscriversi all’una o all’altra corrente, riteneva e ritiene di essere immune da un certo tipo di logiche e dagli effetti di queste ultime. Gli eventi di questi ultimi anni hanno dimostrato e dimostrano che non è così. I gruppi di potere interni alle varie Magistrature, non solo quella ordinaria, ma anche quella contabile, amministrativa e tributaria, nati e consolidatisi con il tempo per l’esigenza di consentire il confronto in sede sindacale a tutela dei loro iscritti o semplici simpatizzanti, si sono ovunque evoluti secondo un’unica direttrice, che è quella del rafforzamento del potere dei vari leader e rappresentanti di spicco (spesso coincidenti con alcuni degli eletti negli organi di autogoverno o nelle associazioni sindacali), fino a condizionare la funzione di autogoverno stesso, ponendola al servizio di logiche corporative, se non anche personali, come è stato dimostrato dai recenti fatti di cronaca, di cui il caso Palamara , lungi dall’essere una eccezione, è solo la punta dell’iceberg. Se è dunque abbastanza semplice registrare le disfunzioni, raccontarne le immediate conseguenze e immaginarne gli effetti, è molto più complesso capire la profonda ragione che ha determinato l’evidente crisi del sistema correntizio in Magistratura ordinaria, e i danni che tale sistema causa e può causare anche nei plessi che non sono, fortunatamente, ancora assurti agli “onori“ delle cronache per comportamenti illeciti dei loro componenti. È fin troppo facile, infatti, collegare tale situazione alla riforma operata dal d.lgs. 160 del 2006, che ha legittimato l’esercizio del potere discrezionale del C.S.M. sulle valutazioni dei magistrati ai fini degli avanzamenti di carriera, rendendo residuale il criterio dell’anzianità di ruolo rispetto quello della valutazione di titoli, attitudini, capacità organizzative. Il cosiddetto “merito” è stato ritenuto da più parti la causa del rafforzamento del potere dei gruppi interni all’organo di autogoverno, perché ha disancorato l’esercizio della discrezionalità dall’unico parametro certo e oggettivo (l'anzianità di servizio) per collegarla a parametri soggettivi e ogni volta diversi, sicché anche creare un sistema di precedenti ai quali man mano fare riferimento si è rivelato praticamente inutile. Se il problema fosse soltanto questo, basterebbe modificare la legge per tornare indietro e risolvere il problema a monte, magari attribuendo all’anzianità un valore non più residuale e rendendo i criteri di merito ancillari della prima, e non è escluso che, in prospettiva di una riforma del CSM, si metta mano anche al sistema di valutazione e avanzamento attualmente vigente. Ma la realtà con la quale è ormai giunta l’ora di confrontarsi, per ogni magistrato che voglia farlo a mente sgombra da pregiudizi - e soprattutto per coloro che svolgono o intendono svolgere la funzione di autogoverno nei rispettivi Consigli -, è che normative quale quella citata hanno solo costituito il presupposto legale per legittimare la prevaricazione degli uni sugli altri, in un contesto nel quale assume valore preponderante il ruolo del “gruppo” (chiamiamolo anche “corrente”), inteso come viatico esclusivo per il raggiungimento degli obiettivi del singolo e come unica forma di intermediazione tra esigenze e richieste del magistrato/lavoratore e organo di autogoverno, che di tali esigenze, per legge, deve occuparsi. La dinamica appena descritta è identica a quella di moltissimi altri contesti professionali: si pensi, ma solo a titolo esemplificativo e sempre per essere stati oggetto della cronaca giudiziaria degli ultimi venti anni, alle facoltà universitarie o alle amministrazioni militari. Tuttavia, quando essa si verifica nell’ambito di una magistratura, le conseguenze, anche sul piano mediatico, sono completamente diverse, e ciò perché l’attribuzione di un ruolo di primazia ad un gruppo non può che minare alla base il principio fondamentale sul quale si basa la funzione giurisdizionale, intesa come funzione attribuita al singolo magistrato: l’autonomia e l’indipendenza da ogni altra forma di potere. Ed è qui che la riflessione deve cambiare registro rispetto al passato. Per troppo tempo, infatti, si è ritenuto che tali prerogative fossero riferite esclusivamente all’autonomia dal potere politico e da quello esecutivo, e d’altra parte questo è il principio della separazione dei poteri di montesquieiana memoria nonché l’impostazione assunta dalla nostra Carta costituzionale. Poco si è riflettuto, e forse la cosa non è casuale, sull’indipendenza e autonomia dei magistrati al loro interno, posto che è stato ritenuto sufficiente il disposto dell’art. 101 della Costituzione ( i giudici sono soggetti soltanto alla legge ), per ritenere immune qualsiasi magistrato da ingerenze di altri colleghi, presidenti, procuratori e operatori interni al plesso di appartenenza. Nel tempo, infatti, il fenomeno correntizio è cresciuto e si è rafforzato senza che gli stessi magistrati vedessero nello stesso il principale limite alla loro autonomia e indipendenza, posto che, in un contesto di normalità ed equilibrio, non sarebbe questo il ruolo che esso dovrebbe avere. Perché, allora, da anni, forse almeno tre decenni ma anche più, si assiste impietosamente ad una degenerazione del sistema delle correnti che sta conducendo alla delegittimazione del ruolo stesso del magistrato, senza che vi sia una vera e aperta ribellione dei singoli e, anzi, con una volontà di adesione sempre maggiore che, a tratti, diventa quasi connivenza con decisioni che, guardate dall’esterno, appaiono indifendibili, se non altro sotto un profilo etico e di opportunità? La risposta, probabilmente, sta nel fatto che la degenerazione del sistema correntizio corrisponde ad una sempre più evidente perdita di identità, da parte del singolo magistrato, del suo ruolo nel sistema di separazione dei poteri e della importanza e unicità della funzione che svolge. Il ruolo delle correnti, in questo, è purtroppo fondamentale, in quanto ne è la causa – anche se non l’unica – ed incredibilmente ne costituisce anche l’oggetto: è in parte a causa delle correnti se si sta perdendo, fin dall’ingresso in magistratura, il senso della funzione , e più questo avviene più le correnti mostrano evidenti segni di malfunzionamento, senza assolvere, se non in minima parte, allo scopo per il quale sono storicamente nate e che resta, di fatto, imprescindibile; è infatti impensabile che gruppi di persone che fanno lo stesso lavoro non sentano il bisogno di aggregarsi, al loro interno, in base a sensibilità/ desiderata /obiettivi omogenei. Se questo, tuttavia, è accettabile in altri contesti, diventa mille volte più drammatico e criticabile se calato in un ambito di persone che più di altre dovrebbero rispettare le regole, anche e soprattutto auto-imposte, e dare anche all’esterno l’idea di soggetti imparziali, equilibrati e rispettosi della funzione svolta. Le ragioni di quanto sta accadendo sono molteplici e possono correlarsi anche a fenomeni di natura sociologica, quale, ad esempio, il dilagare del populismo su scala mondiale, accentuato dalla diffusione dei mezzi di informazione di massa in forme sempre più social ma senza confronto reale. Tale tipologia di nuova comunicazione ha determinato una superfetazione di fonti informative che garantisce, a ogni livello, una conoscenza solo apparente delle notizie, posto che la sovrapposizione delle stesse equivale, in concreto, alla diffusione di notizie spesso false o non veritiere, incrementando la logica delle fake news , basata sull'assenza di contraddittorio immediato, sicché la notizia falsa, anche in chiave associativa, fa immediatamente presa ed è difficilmente smentibile. Ecco che dunque l’ingresso dei nuovi magistrati nei relativi plessi di appartenenza è ridotto alla trasmissione di informazioni spicciole, di immediata spendibilità, normalmente da parte di esponenti di rilievo di gruppi “correntizi”, fondamentalmente per legittimarsi come mentori di soggetti ancora inesperti e favorirne l’immediata affiliazione al gruppo, senza reali tavoli di confronto su questioni davvero importanti e senza i giusti tempi di sedimentazione di notizie, informazioni e riflessioni sui temi riguardanti l’attività sindacale e quella di autogoverno. La conseguenza di ciò è che una Istituzione che dovrebbe essere esente da certe sollecitazioni, diventa essa stessa, per così dire, populista, perché i suoi componenti, ossia i singoli giudici, entrano a farne parte e crescono imbevuti di cultura di massa, che considerano compatibile con un’attività nella quale il giudice dovrebbe, al contrario, essere esente da condizionamenti. Si realizza una sorta di effetto che Gustave le Bon , nel suo celebre Psicologia delle folle (Alcan, 1895) ha riassunto nella legge “dell’unità mentale delle folle”, in cui il gruppo diventa un agglomerato di uomini i quali, al suo interno, perdono completamente le caratteristiche che possiedono come individui singoli, assumendo una unità psicologica nella quale l’individuo si deresponsabilizza e si priva dell’autocontrollo, fino a rendersi partecipe, anche inconsciamente, di iniziative e attività che esso ritiene perfettamente giustificate nell’ottica dell’azione collettiva, pur se esse fossero le più errate, moralmente deprecabili e persino illegittime. “ Nell’anima collettiva le attitudini intellettuali degli individui si azzerano; l’individuo, nella folla, acquisisce, per il solo fatto del numero, una sensazione di potenza e invincibilità che gli permette di cedere ai propri istinti, che, se fosse stato da solo, avrebbe dovuto frenare ”. Cosa comporta tutto questo? Può comportare, ad esempio, l’allontanamento del magistrato dal rapporto esclusivo con la Legge, e naturalmente questo non nell’ambito della sua attività “esterna” (ossia come giudicante o inquirente), bensì nei rapporti interni di tipo associativo, nei rapporti, per l’appunto, di massa, dove si verifica la dissoluzione dell’individuo e la successiva fusione nel gruppo. È sufficiente, ormai, un contatto anche minimo per invogliare il singolo a far parte del gruppo, per perseguirne collettivamente gli obiettivi, godere dei benefici e, perché no, tentare la scalata alle posizioni di comando. Ecco che dunque si è gradualmente passati da un’idea delle correnti quali soggetti presenti nella vita e carriera del magistrato in forma del tutto eventuale e trascurabile, sì da non giustificare l’iscrizione alle stesse se non per ragioni di passione “politica” latu senso, e anzi auspicandone la non iscrizione quale dimostrazione di autentica indipendenza, a un sistema nel quale la corrente viene considerata quale unica e sicuramente più efficace forma di garanzia per lo svolgimento della propria carriera o per l’ottenimento di incarichi interni o extragiudiziari, capovolgendo completamente la relazione che il singolo magistrato ha con il gruppo. Non è più il gruppo che necessita dell’iscritto o del seguace per rafforzarsi, accettando la scelta di neutralità di chi non voglia farlo, ma, al contrario, è il gruppo stesso che si impone ab origine sul singolo, mostrandosi quale scelta necessaria per la carriera e per qualsivoglia necessità di altro tipo, dal trasferimento all’attribuzione di incarichi interni e persino alla valutazione di infermità o alle richieste di aspettativa che non sia dovuta per legge. Tutto questo, per effetto di un fenomeno chiarissimo, studiato da oltre cento anni a livello psicologico e sociologico, ma mai seriamente valutato in relazione a gruppi di magistrati. In realtà, come detto, non vi è nulla di diverso da ciò che accade in altri contesti professionali. Ci si potrebbe chiedere allora perché, con il tempo e negli ultimi decenni, il fenomeno è diventato dilagante. È probabile che ogni ambito categoriale abbia ragioni specifiche che ne stanno alla base, ma una è presumibilmente comune a tutti, ed è il dilagare dell’ autoreferenzialità nel comportamento dei singoli, con ricadute inevitabili anche nel contesto collettivo. Nel caso del plesso magistratuale, le correnti corrono il rischio di diventare arbitre non solo delle nomine, ma di tutto ciò che riguarda la vita professionale dei magistrati. Ancora, il rafforzamento delle correnti in chiave di potere sul singolo, facendole deviare dalla logica che invece deve permeare l'associazionismo “puro”, ha contribuito a scardinare il sistema della "rotazione implicita", che, in sostanza, consentiva un ricambio nel vertice politico dei gruppi, per premiare i personalismi e i risultati, anche elettorali, dei singoli. Questo perché, quale effetto della citata tendenza alla massificazione, nella impossibilità di far passare messaggi che siano frutto di vera elaborazione collettiva (ossia, del gruppo, nella accezione buona del termine), ciò che si impone all’esterno nei confronti dei terzi è il ruolo del “capo-corrente”, ossia del leader del gruppo, quale garante delle promesse fatte “di persona” e degli obiettivi prefissati. Anche in questo caso, le teorie di Le Bon, sempre più attuali, ci dicono che esiste sempre un capo che guida le folle verso quelli che sono i suoi personali obiettivi e persino verso la distruzione dell’ordinamento esistente. Spesso e volentieri lo fa tramite il linguaggio, che è semplice e non argomentativo, in quanto non deve dimostrare alcunché, ma solo governare un gruppo che vuole semplicemente essere guidato, senza usare ragionamenti di tipo logico. In un contesto del genere, al capo sono sufficienti poche affermazioni, reiterate, ripetute fino allo sfinimento, per affermare verità incontrovertibili anche se razionalmente assurde, a condizione che il Cesare di turno sia dotato di sufficiente prestigio, carisma, sia convincente in quello che dice e non manifesti mai dubbi. Ecco che dunque il capo-corrente , che sa come parlare alla pancia della massa, fa consapevolmente leva sul sostrato inconscio dell’unità mentale del gruppo, sicché, in questo contesto, è del tutto irrilevante che quel gruppo sia composto da magistrati, posto che il ruolo e il volere del singolo è ormai dissolto in quello della massa. È per effetto del ruolo del “capo”, della figura carismatica del gruppo, che si è pervenuti, e le cronache degli ultimi anni lo dimostrano, alla ulteriore degenerazione del sistema, per cui la ricerca del consenso a tutti i costi diventa l'unico obiettivo perseguito e il correntismo ad personam prevale su ogni logica di buon senso, con buona pace dei rapporti sociali e personali: l'unico vero obiettivo che si ha nella socializzazione è quello di farsi conoscere, possibilmente suscitare simpatia umana, per poi gestire il consenso acquisito in chiave esclusivamente elettorale, ossia farsi votare o far votare i propri candidati. A questo nuovo mondo populista non servono giudici, ma burocrati resi parte di un sistema che più che una magistratura assume i connotati di un reality , perché così è percepito dall’opinione pubblica. Le generazioni passate possono sicuramente aver commesso errori, ma c’è da dubitare che abbiano inteso calpestare qualsiasi forma di rispetto per le minoranze politiche e per i dissenzienti, per i rapporti umani, per le esigenze dei singoli a prescindere da ciò che poi costoro abbiano votato o decidano di votare. La conseguenza di quanto detto è che la crisi di identità del singolo, causata dalla degenerazione della funzione di autogoverno, diventa essa stessa crisi irreversibile dell’autogoverno, sempre più volto a porsi come forma di gestione del potere e come gestione dei magistrati, svolta in modo burocratico e amministrativo. L’ulteriore e drammatica conseguenza è l’effetto che tutto questo ha sui magistrati che si pongono fuori dal sistema, in maniera sempre più consapevole rispetto al passato, non riuscendo a trovare alcuna forma di rappresentanza tra quelle esistenti. Più nella magistratura ordinaria che nelle magistrature speciali, anche solo per un fatto semplicemente numerico, per moltissimi magistrati il rapporto strettissimo esistente tra correnti e autogoverno sta diventando perdita di fiducia anche e soprattutto nell’associazionismo come valore comune da perseguire e portare avanti, posto che impegnarsi in attività sindacali è sempre più percepito, e nei fatti lo è diventato, non come attività svolta al servizio dei colleghi e nell’interesse pubblico, ma come trampolino di lancio verso una vera e propria carriera “politica”. In quest’ottica, il singolo magistrato non schierato, si vede e si sente solo, ma soprattutto si sente non rappresentato in seno all’organo di autogoverno, che resta soggetto collocato in un empireo lontano, incapace di mantenere il contatto diretto con una base che lavora duramente e silenziosamente subendo l’eco mediatica negativa del comportamento di soggetti che hanno fatto scelte diverse, tradendo i valori che dovrebbero guidarne l’azione. Cosa deve essere, invece, l’Autogoverno? In primo luogo, autogoverno è scrittura e gestione delle regole generali ed astratte che sovrintendono allo svolgimento dell'azione della Magistratura. In secondo luogo, poiché gli amministrati sono "magistrati", quindi singoli pezzi dello Stato, inamovibili e liberi nella loro capacità di autodeterminarsi e, quindi, di decidere, è evidente che l'autogoverno nasce per dare ai magistrati stessi il diritto e il dovere di autorappresentarsi e di autogestirsi. E' la più alta forma di tutela che la Costituzione garantisce, sicché la perdita di credibilità del meccanismo di controllo interno, fino al punto di far ipotizzare una possibile esternalizzazione , può rappresentare una catastrofe sotto il profilo delle garanzie costituzionali, basate sul principio di separazione dei poteri, che è la base della democrazia, e presuppone una magistratura libera dall'intervento dell'Esecutivo e quindi anche del Parlamento, ossia dei due poteri che, con azioni esterne, possono intaccare nei modi più vari la libertà dei magistrati ed eliminare l'unica vera forma di controllo che esiste sul potere politico. Assicurare l'effettività del principio di separazione tra poteri è dunque possibile soltanto mediante l'organo di autogoverno. Ma un organo di autogoverno che dolosamente o colposamente svolga male lo scopo per cui è stato eletto dalla base, ha già fallito in partenza. La soluzione non è quindi di sostituirlo con un altro organo inadatto allo scopo, ma di indirizzarne l'azione, dall'esterno, pur sempre all'interno delle singole Magistrature, mediante il dibattito, il voto, le azioni sindacali, il confronto, e soprattutto, evitando di pensare che esso esista per favorire i singoli o proteggere ciascuno dagli errori commessi, perché ogni volta che un giudice va a chiedere "aiuto" o protezione a un membro dell'organo di autogoverno, lo accoltella , lo ferisce, ne lede la funzione: è come se uccidesse se stesso, colpendo il soggetto, l'organo, che deve garantire l'autonomia e, in conclusione, la libertà di tutti. Quando si innesca una reazione a catena come quella che leggiamo sui giornali in questi giorni, la situazione è talmente grave che una risposta auspicabile non può che essere l'azzeramento di tutto e l'inizio di una nuova fase; ma finché resterà una legge che consentirà all'uomo di esercitare la propria discrezionalità per scegliere il proprio "sodale", il proprio elettore, il proprio amico, da aiutare o mandare avanti, ci sarà poco da fare. In una prospettiva di riforma, nuove regole devono dunque servire per ripristinare un criterio corretto di gestione del potere di autogoverno, perché altrimenti l'alternativa sarà, a breve, la soppressione dello stesso potere di autogoverno. L’autonomia, infatti, come prezioso valore da preservare e difendere, implica necessariamente grandi responsabilità. Se usata in modo vetero corporativo, se non addirittura clientelare, rischia di aprire la strada all’intervento eteronomo. A normativa invariata, peraltro, sono già possibili alcuni correttivi. Certamente, occorrerebbe evitare sin dall’inizio di accettare la logica delle correnti intese come gruppi organizzati, per le ragioni sin qui esposte e che è inutile ripetere. I magistrati, in particolar modo quelli neo assunti, dovrebbero essere aiutati a comprendere che il ruolo delle associazioni sindacali da una parte, e degli organi di autogoverno dall’altra, non è esclusivamente quello di un aiuto materiale nelle piccole o grandi questioni che li riguardano, ma quello di garanzia della loro carriera al di fuori di ogni logica di affiliazione e di clientelismo. Se questa sensibilità non viene sviluppata fin dall'inizio, è improbabile che il futuro sia foriero di azioni positive, e chi si avvicinerà alla "politica" interna lo farà non nell'ottica della tutela del plesso, ma in chiave esclusivamente personale, con gli effetti più volte ricordati. Nella teoria di Le Bon le masse sono dipinte come forze prive di visione di insieme, indisciplinate, distruttive e portatrici di decadenza, ma al contempo una soluzione al problema deriva dall’esaltazione del ruolo dei singoli e delle minoranze, che sono invece forze dotate di energia positiva, capaci di discernere, ragionare e creare, proprio perché esenti dai meccanismi di condizionamento dei gruppi di cui sopra, e di per sé non hanno una struttura interna se non essenziale, caratterizzandosi per una sorta di liquidità in cui l’evoluzione al loro interno non deve essere letta in chiave negativa ma come strumento per imporre il cambiamento all’esterno, spezzando il legame dell’unità mentale che caratterizza, invece, i gruppi organizzati. La minoranza, fosse anche rappresentata da un singolo soggetto che si fa portavoce dei sentimenti altrui, raccolti in piena autonomia ed elaborati in solitudine, si pone come elemento di contrapposizione all’inconscio collettivo che fa capo alle masse, perché cerca di minarne i presupposti puntando sul confronto con i singoli, affinché gli stessi – con uno sforzo reso non semplice dal proprio vissuto – riescano a ragionare con logiche individuali del tutto esterne al gruppo e, soprattutto, comprendano l’effetto negativo che il “capo” ha avuto per tutto il tempo nel quale lo si è assecondato, accettando acriticamente qualsiasi sua affermazione e qualsiasi sua scelta. È evidente che questo compito sarebbe reso più semplice laddove, come recentemente accaduto, il prestigio del leader venga improvvisamente e irrimediabilmente compromesso da eventi esterni, che ne minino la credibilità. Ma, in mancanza di tale tipo di situazioni, peraltro non auspicabili per gli effetti devastanti che determinano su tutta la categoria, non può non ritenersi che le forze di minoranza abbiano in sé le capacità e le risorse per cercare di cambiare un sistema irrimediabilmente danneggiato da anni di correntismo esasperato e subìto come unica ineluttabile condizione per garantire il funzionamento della magistratura e del suo autogoverno. Ecco che torna d’attualità più che mai il celebre assunto di Cicerone, secondo cui l'uomo di Stato deve curare l'interesse dei cittadini in maniera tale da indirizzare ad esso ogni loro azione, dopo essersi dimenticato del suo, di interesse (“ qui rei publicae profuturi sunt, duo Platonis praecepta teneant: in primis utilitatem civium sic tueantur, ut omnia quae agunt, ad eam dirigat, cum obliti sint commodorum suorum; in secundis totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant: Marco Tullio Cicerone, De Officiis, 85). Ed ancora, secondo Cicerone, “come la tutela, allo stesso modo anche la delega della politica, deve essere amministrata nell'interesse di coloro che hanno delegato, non di coloro ai quali è stata delegata. Invece, coloro che provvedono ad una parte dei cittadini, e ne trascurano un'altra, introducono nello Stato il più funesto dei malanni: la discordia e la sedizione. A partire da ciò, accade che alcuni si presentino come sostenitori del popolo, altri come sostenitori degli aristocratici, e pochi (si presentino come sostenitori) di tutti.“ A legislazione invariata, l’uscita dal momento difficile nel quale la magistratura italiana, sia ordinaria che speciale, è piombata da tempo, non può che risiedere nell’attribuzione di fiducia e sostegno a forze alternative e di minoranza, che si prefiggano di tutelare l’interesse collettivo adeguando ad esso intendimenti, proposte concrete e azioni, senza la volontà di sostituire alle vecchie correnti nuove correnti, per evitare di entrare nello stesso meccanismo descritto, dal quale è poi impossibile uscire. Se questo non accadrà, se i magistrati di nuova nomina e quelli già in servizio ma ancora non fagocitati dal processo di “unità mentale” quale effetto dell’azione correntizia , non inizieranno a sostenere forze di cambiamento e di innovazione che propongano nuovi modelli di associazionismo e di condivisione delle idee da veicolare all’interno degli organismi sindacali e degli organi di autogoverno, l’uscita dalla crisi non potrà che passare per l’intervento eteronomo, con tutte le conseguenze immaginabili in ordine alla autonomia e indipendenza di ciascun plesso. Se ciascun magistrato trovasse il coraggio di farsi portavoce pubblico delle proprie richieste quando esse coinvolgono interessi generali o valori fondamentali per la categoria, tante cose potrebbero migliorare. La condizione è l’abbandono dell’autoreferenzialità come riferita all’intera categoria, per favorire nuove forme di socialità e di scambio di idee che partano dal presupposto che il governo di una magistratura non è un regno da gestire, ma un approdo al quale giungere e far giungere gli altri. Il perseguimento di azioni unitarie, che portino vantaggi all’intero plesso, è la consapevolezza dell’esistenza di anime diverse che non devono essere viste come contrapposte, ma come punto di partenza per cercare la condivisione di progetti comuni che puntino il più possibile a garantire un futuro "equo" ai colleghi più giovani, i quali dovrebbero usare le loro fresche energie per porsi in un’ottica di medio/lungo periodo, invece di accontentarsi del poco che viene spesso elargito come contributo per una sovente inconsapevole affiliazione. Il futuro dipende quindi dalle scelte dei singoli, che riversino le loro speranze e la loro fiducia nelle forze di cambiamento, e magari decidano di impegnarsi in prima persona per favorirlo. Il futuro è nelle mani dei tantissimi magistrati che lavorano nel silenzio dei loro tribunali o delle loro case, di quei magistrati che in un fascicolo vedono storie, vedono persone, e a quelle storie e a quelle persone pensano ogni giorno della loro vita professionale, incuranti di quello che succede fuori, nelle stanze di chi decide anche per loro. Orbene, non è più tempo di stare in silenzio, ma è tempo di ridare vita alle coscienze, per poter continuare a occuparsi del proprio lavoro a testa alta, sapendo di essere parti di un tutto che non può e non deve esaurirsi con l’accostamento a coloro che di quel tutto hanno scientemente deciso di farne parte solo sulla carta: Magistrati, con la M maiuscola, lo si è non solo firmando provvedimenti ponderati e ben fatti, ma decidendo di lottare insieme agli altri per riappropriarsi in modo consapevole del proprio ruolo nella società e della propria funzione all’interno dello Stato democratico. Per dirla con le parole di Piero Calamandrei, “ ciò che può costituire un pericolo per i magistrati non è la corruzione (….) o le inframmettenze politiche (..) Il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché la intransigenza costa troppa fatica .”
01 mag, 2021
Decreto che dispone il giudizio del GUP del Tribunale di Palermo, in data 17 aprile 2021 IL CASO E LE QUESTIONI GIURIDICHE SOTTESE Un’imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorre diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2019, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la nave con a bordo i migranti viene autorizzata ad entrare in acque territoriali italiane, ma fino al 20 agosto non le viene consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa. Dopo quasi due anni dai fatti, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha disposto il rinvio a giudizio nei confronti di un ex Ministro dell’Interno per il delitto di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti di ufficio, reati che sarebbero stati commessi nel corso dello svolgimento di funzioni ministeriali. In particolare, all’imputato viene contestato, con accusa che adesso deve affrontare il vaglio dibattimentale, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS ( place of safety ) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. Il decreto di rinvio a giudizio giunge a seguito della articolata sequenza procedimentale prevista dal nostro ordinamento giuridico in materia di reati ministeriali , e dopo che il Tribunale competente, ai sensi della legge costituzionale n. 1 del 1989, aveva trasmesso, a mezzo della Procura della Repubblica di Palermo, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato (Camera di appartenenza dell’ex Ministro). In tale richiesta sono affrontati in modo diffuso gli elementi giuridicamente più complessi della vicenda. Innanzitutto, il Tribunale dei Ministri si è chiesto, dopo avere individuato, nel caso di specie, un sicuro obbligo a carico alle Autorità italiane, se l’indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico. La conclusione dei Giudici è che si tratta di un atto amministrativo – e quindi come tale giustiziabile -, sulla base delle seguenti ragioni: - è l’atto finale di un procedimento disciplinato da fonti internazionali e nazionali che ne individuano i presupposti giuridici e fattuali; - è un atto vincolato nell’ “ an ”, ricorrendo determinate condizioni, seppure discrezionale nel “ quomodo ”, in quanto la concreta localizzazione del luogo di sbarco sicuro dipende da valutazioni “di tipo tecnico-amministrativo”; - è un atto la cui forma libera non esclude la sua riconducibilità al genus degli atti amministrativi; - è un atto suscettibile di produrre immediati e diretti effetti giuridici in capo a singoli individui. La qualificazione dell’atto con cui viene indicato il POS come atto amministrativo – insieme all’accertamento dell’obbligatorietà di tale indicazione nel caso di specie – è necessaria al Tribunale dei Ministri per dedurre la sindacabilità dell’omissione di tale atto. Se infatti si trattasse di atto politico, lo stesso, essendo libero nei fini, non potrebbe essere mai sindacato da un organo del potere giudiziario, in virtù del principio di separazione dei poteri. La responsabilità sarebbe solo e soltanto di natura politica. Ne conseguirebbe, ai fini dell’imputabilità del reato di sequestro di persona – così come contestato nel caso di specie – che tale sequestro sarebbe stato commesso tramite la mancata adozione di un atto di natura politica, di per sé non obbligato né vincolato, sulla base di una valutazione libera nei fini e non giustiziabile, in quanto esercizio diretto di un potere costituzionalmente riconosciuto. In altri termini, la condotta materiale del reato, pur astrattamente sussistente, sarebbe in partenza scriminata dall’esercizio del diritto. Ma davvero siamo di fronte a un atto amministrativo e non ad un atto politico, nel caso della decisione di non indicare il POS sul territorio nazionale, nel momento in cui si erano realizzate tutte le condizioni che obbligherebbero secondo il diritto internazionale tale indicazione? Seguendo l’orientamento secondo cui occorrerebbe definire come politico l’atto che, a prescindere dal contenuto, è funzionalizzato alla realizzazione di uno scopo politico, il fine di ridurre drasticamente l’immigrazione clandestina e di imporre all’Unione europea un preventivo accordo sulla ripartizione dei migranti dovrebbe di per sé bastare a ricondurre l’omissione de qua nell’ambito delle scelte politiche non sindacabili. L’orientamento preferibile in materia appare però quello che prescinde dal fine o dai motivi dell’atto e che qualifica un atto come politico in presenza non solo del requisito soggettivo (atto emanato dal Governo o comunque dai supremi organi dello Stato individuati dalla Costituzione), ma anche di un particolare requisito oggettivo, traducibile nel fatto che l’atto stesso deve essere espressione di un potere politico che assolve, in conformità al dettato costituzionale, alla funzione di cura di interessi statali supremi e unitari, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri. Nel caso di specie, dunque, non si tratterebbe di un atto politico, ma di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, avendo la Costituzione stessa conferito pari dignità costituzionale alle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, con il corollario di assicurare ai soggetti soccorsi in mare un luogo sicuro in cui avere riparo e di potersi avvalere delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo). L’indicazione del POS non è dunque un atto libero nei fini ma un atto amministrativo di natura mista (vincolata nell’ an e discrezionale nel quomodo ), che si rende necessario al ricorrere di determinati presupposti. Il Tribunale dei Ministri si è chiesto, a questo punto, se la competenza a indicare il POS nel nostro ordinamento sia del Ministro dell’Interno. E’ sostenibile, in realtà, secondo una tesi avallata su un caso analogo anche dalla Procura della Repubblica di Roma, che la competenza sia del Comando generale del Corpo delle Capitanerie dei Porti, nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare. Anche a non volere accogliere tale tesi, è evidente che il potere di assegnazione del POS è stato scisso nel nostro ordinamento in due segmenti tra di loro distinti ma indissolubilmente interconnessi, il primo (di natura vincolata) volto ad esprimere il nulla-osta all’assegnazione in astratto del POS – che sarebbe di competenza del Centro di coordinamento -, il secondo, finalizzato alla concreta individuazione sul territorio nazionale del luogo di assegnazione. Quest’ultima fase è connotata da un ampio margine di discrezionalità nella scelta del luogo e sarebbe in astratto di competenza del Dipartimento per le libertà civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno. Tuttavia, nella prassi recente, anche tramite lo strumento operativo del “divieto di ingresso” nei confronti di navi private battenti bandiera straniera in acque territoriali italiane – in quanto possibili strumenti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina -, l’Ufficio di Gabinetto del Ministero dell’Interno e il Ministro stesso hanno sostanzialmente avocato a sé il potere di indicazione del POS, trasformando impropriamente quello che avrebbe dovuto essere un atto amministrativo vincolato nell’ an in un atto politico libero nei fini. D’altra parte, le norme sovranazionali, come sostenuto dal Tribunale di Roma su caso analogo, sembrerebbero offrire indicazioni univoche – da cui scaturiscono i connessi obblighi – soltanto nell’ipotesi in cui uno Stato effettui direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assuma il coordinamento di tali operazioni, ma non nel caso in cui le operazioni di ricerca e salvataggio vengano effettuate in autonomia da navi appartenenti ad organizzazioni umanitarie che battono bandiera di Stati europei molto distanti dai luoghi in cui è avvenuto il salvataggio. REATO E FATTISPECIE CONCRETA Il reato di sequestro di persona è integrato da qualsiasi condotta che privi la vittima della libertà fisica e di locomozione, anche se in modo non assoluto, ma comunque per un tempo apprezzabile. E’ un reato a forma libera che può consistere sia in una condotta attiva che in una condotta omissiva, secondo lo schema generale punitivo della combinazione tra norme che prevedono fattispecie penali e il disposto di cui all’art. 40, comma 2 del codice penale. La costrizione idonea a privare della libertà non deve necessariamente estrinsecarsi con mezzi fisici ma può anche consistere in una violenza morale che, in relazione alle particolari circostanze del caso, sia suscettibile di privare la vittima della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria autonoma e indipendente volontà. Basta in ogni caso la condizione di non legalità dello stato di costrizione. Possono inoltre integrare il reato di sequestro di persona, da un lato, l’omissione di restituzione ad un soggetto della sua libertà di movimento, una volta che cessino le condizioni legali di trattenimento in un determinato luogo in cui il soggetto sia già ristretto, e, dall’altro, la privazione di libertà nei confronti di un soggetto che sarebbe in ogni caso sottoposto, immediatamente dopo, ad ulteriori (e diverse) legittime limitazioni della sua libertà personale (come accade normalmente per i migranti una volta condotti agli hotspots ). Il reato di sequestro di persona si configura infine anche se la libertà di movimento sia astrattamente recuperabile da parte della vittima, ma solo a mezzo di una condotta non immediata, non agevole e comportante rischi (come avrebbero potuto fare nel caso affrontato dal GUP di Palermo i migranti, tuffandosi a mare dalla nave su cui erano stati soccorsi e poi di fatto “detenuti”, e nuotando così fino alla costa). Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, il reato in discorso richiede la coscienza e volontà di privare illegittimamente una persona della sua libertà personale, essendo sufficiente, a tali fini, il dolo generico, senza che venga in rilievo l’accertamento di uno scopo particolare. Nel caso affrontato dal GUP del Tribunale di Palermo, ai fini della decisione sul rinvio a giudizio, è stata considerata libertà fisica sottratta ai migranti quella di non godere per un tempo apprezzabile (sei giorni) dello sbarco in un porto sicuro a cui avevano diritto, non potendosi considerare place of safety , sulla base degli obblighi convenzionali gravanti sullo Stato interessato, la nave sulla quale erano stati soccorsi. Più difficile è però individuare il soggetto attivo (e cioè la persona fisica rappresentante l’organo statale competente, nel caso di specie) di tale condotta. L’indicazione del POS avrebbe dovuto essere effettuata senza ritardo dallo Stato competente secondo le convenzioni internazionali e sulla base della procedura prevista all’interno del singolo Stato. Si è visto però che si trattava di nave privata battente bandiera straniera, e che lo Stato italiano non aveva effettuato direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di modo che la normativa sovranazionale applicabile al caso di specie risulterebbe non prevedere obblighi precisi a carico di uno Stato che versi in una condizione come quella in cui versava lo Stato italiano, all’atto del soccorso in mare. In seguito, la nave straniera – inizialmente assoggettata ad un formale divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane – era stata autorizzata a ripararsi a ridosso della costa di Lampedusa dalla Guardia costiera italiana, una volta sospeso il divieto di ingresso da parte del Tribunale amministrativo regionale competente, e in relazione al potenziale pericolo per le vite umane che il permanere in mare aperto, in vista del peggiorare delle condizioni atmosferiche, avrebbe potuto comportare. Tale circostanza sembra incidere in modo rilevante sull’elemento oggettivo del reato contestato, sia sotto il profilo dell’individuazione del soggetto attivo che sotto il profilo delle modalità di commissione del reato. Invero, l’ascrivibilità della condotta di sequestro di persona al Ministro dell’Interno dovrebbe trovare fondamento, in base alla ricostruzione dell’accusa, nella reiterata negazione di un POS sul territorio nazionale, che di per sé e di fatto avrebbe impedito alla Guardia costiera di far sbarcare i migranti, pur con i dubbi esposti sul soggetto a cui spetti realmente la competenza ad esercitare un potere che dovrebbe essere di natura quanto meno concertata. In quest’ottica, peraltro, non ci si trova più al cospetto di una condotta omissiva – essendo ormai la nave straniera entrata nelle acque territoriali e dunque entro i confini nazionali – ma eventualmente di una condotta attiva, prescindente dalla legittimità o illegittimità del precedente divieto di ingresso nel frattempo sospeso dal TAR. Ma tale condotta dovrebbe allora considerarsi come istigatrice di un reato commesso da altri o come abusivamente impeditiva di una condotta legittima che sarebbe stata di competenza di differenti soggetti istituzionali. Nella relazione posta alla base della richiesta di autorizzazione a procedere inoltrata al Senato dalla Procura della Repubblica di Palermo, si legge che il Comando generale delle Capitanerie di Porto (nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare) aveva autorizzato la nave privata con a bordo i migranti ad ottenere “un punto di fonda nei pressi dell’isola di Lampedusa”, contestualmente vietandone, “all’attualità, l’ingresso in porto”. In altri termini, il Centro di coordinamento di soccorso in mare ha assolto al proprio compito di mettere in sicurezza la nave con a bordo i migranti, ma è non stato altrimenti esercitato il potere-dovere, che in questi casi grava sulla polizia di frontiera, di condurre lo straniero presso la struttura a ciò deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza, in assenza di mancata comunicazione da parte del Ministro dell’Interno del place of safety (quando ormai tale comunicazione non poggiava più direttamente sull’obbligo internazionale connesso al salvataggio in mare). E’ stato anzi espressamente vietato dal Centro di coordinamento stesso lo sbarco nel porto di Lampedusa, nonostante ormai l’imbarcazione in precarie condizioni di navigazione fosse già all’interno delle acque territoriali e ben vicina alla costa. Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la condotta del Centro di coordinamento sembra interrompere il nesso causale tra condotta omissiva contestata all’imputato ed evento giuridico lesivo della privazione di libertà, andandosi a innestare, come fatto nuovo e parzialmente indipendente dalle circostanze pregresse, nello “status” dei soggetti passivi. In pratica, il Centro di coordinamento interviene assumendo la responsabilità dell’obbligo di protezione dei migranti soccorsi a mare, ma contemporaneamente vieta lo sbarco a Lampedusa, dove vi è tra l’altro uno degli hotspot presenti sul territorio nazionale, nonostante l’art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisca l’obbligo di condurre lo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare presso la struttura deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza. Chi è dunque a privare della libertà personale i migranti, una volta che questi sono entrati nella acque domestiche? Il raggiungimento del territorio nazionale sembra definitivamente recidere il legame tra gli obblighi statali connessi alle zone di ricerca e salvataggio, il soccorso in mare e l’assegnazione di un POS. E ciò non può che incidere anche sulle modalità di commissione della condotta di reato contestata, che parrebbe a questo punto fuori fuoco rispetto alla fattispecie ipotizzata dal Tribunale dei Ministri, perché commessa attraverso un’omissione (mancato trasporto del migrante nell’ hotspot ) diversa dalla mancata individuazione di un place of safety , individuazione che non aveva più ragione di essere, allo stadio in cui era giunta la vicenda. In altri termini, il sequestro di persona ci sarebbe stato e sarebbe certamente “imputabile” anche allo Stato italiano, ma non chiaramente sovrapponibile, sotto un profilo squisitamente giuridico, con la responsabilità penale – che, vale la pena ricordarlo, è di natura personale – del Ministro dell’Interno. Dal punto di vista soggettivo, infine, è un fatto che, all’epoca di contestazione del reato (14/15 agosto 2019) era in vigore il decreto-legge n. 43 del 2019, che autorizzava il Ministero dell’Interno a vietare l’ingresso di navi nel mare territoriale – anche per ragioni di ordine e sicurezza pubblici, oltre che di violazione delle leggi sulla immigrazione -, e che tale divieto fosse stato nella fattispecie adottato fin da subito nei confronti della nave su cui erano stati tratti in salvo i migranti. Il Tar per il Lazio, con decreto monocratico emesso in data 14 agosto 2021, aveva sospeso il divieto de quo , ma soltanto “ al fine di consentire l’ingresso della nave (…) in acque territoriali italiane ” - per “ prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli ” -, di modo che la consapevolezza e volontà di “sequestrare” i migranti potrebbe essere messa in discussione dalla contrapposta certezza di adempiere a un dovere imposto da una legge dello Stato e sotto lo scudo giuridico di un divieto ancora in parte vigente, restando sullo sfondo del diritto penale (e nella possibile irrilevanza dei “motivi” della condotta) ogni altra considerazione sull’opportunità e sulle responsabilità del complessivo disegno politico architettato.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 10 apr, 2021
Siamo all’ultimo miglio. O forse no. Tutto è cominciato il 27 dicembre 2020 con il V-Day. Avrebbe dovuto essere il “vaccine day” in Italia e in Europa, da non confondere con l’altro V-day di Grillo. Ma poi la cronaca di quello che è accaduto in seguito ha accostato beffardamente i due diversi eventi. Come avremmo dovuto forse capire subito dalla vaccinazione “pubblica” del Presidente della Regione Campania. Il 2 gennaio 2021 il Ministero della Salute ha approvato con decreto il primo piano vaccinale anticovid , quello che era stato predisposto e poi aggiornato il 12 dicembre 2020. Si tratta di una “sintesi delle linee di indirizzo” in tema di target, attori e operatività della campagna vaccinale nazionale. Con l’approvazione della legge di bilancio per il 2021, dal comma 457 in poi dell’art. 1 della L. n. 178 del 2020, sono state contemporaneamente descritte le regole fondamentali in materia di vaccinazione anti-Covid. Lo Stato ha lasciato alle Regioni l’attuazione della campagna vaccinale, con potere sostitutivo del Commissario all’Emergenza, che all’epoca era ancora Arcuri. Il primo piano strategico dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 adottato con D.M. del 2 gennaio 2021 era molto generico, fatta eccezione per le categorie che sicuramente si sarebbero dovute vaccinare nella prima fase (anche se ancora volontariamente e non obbligatoriamente): operatori sanitari e sociosanitari, personale e ospiti delle RSA, ultraottantenni. Si è cominciato con gli operatori sanitari e sociosanitari, tutti gli operatori sanitari e sociosanitari, anche quelli che lavoravano allo sportello di un ente privato accreditato, anche quelli senza alcun contatto diretto con i pazienti. Eppure nel piano vi era scritto operatori “in prima linea”. E intanto i “meno giovani” continuavano ad ammalarsi e morire, perché estromessi per motivi di “comodità” dalla prima, effettiva fase di somministrazione (era molto più facile e immediato vaccinare direttamente i soggetti già presenti in ospedale e nelle Aziende sanitarie piuttosto che convocare prioritariamente i soggetti più fragili). Ma tanto avremmo dovuto essere “ inondati da centinaia di milioni di vaccini ” (così l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte a ottobre 2020). Abbiamo però scoperto nel frattempo due cose. Le dosi fornite sono state di gran lunga inferiori a quelle promesse e molti soggetti non appartenenti a nessuna delle categorie prioritarie (giuste e sbagliate che siano state, nella loro individuazione) si sono vaccinati tramite una corsia preferenziale. Siamo pur sempre in Italia, d’altra parte. Ad esempio, il giorno dell’Epifania, la cronaca giudiziaria ci ha svelato che in Sicilia alcune persone non rientranti in nessuna delle categorie prioritarie si sono trovate “inaspettatamente” a ricevere il vaccino pfizer mentre passavano dinanzi a un ospedale. Poi la Direzione sanitaria regionale è corsa ai ripari e ha disposto che non avrebbero ricevuto la seconda dose. Il 6 febbraio 2021 sono arrivate le prime dosi di Astrazeneca a Pratica di Mare. Sembrava fatta. E invece no. AIFA lo riserva originariamente ai soggetti con età inferiore ai 55 anni, per la asserita mancanza di dati clinici sperimentali adeguati nella popolazione più anziana. Quindi si apre una doppia corsia nel piano vaccinale, Pfizer e Moderna agli ultraottantenni e Astrazeneca agli under 55. Ma tra gli under 55 le Regioni sono libere di scegliere chi vaccinare. Si va allora per categorie, secondo il fumoso disposto del piano vaccinale dell’epoca, aggiornato alla singolare nota con cui il Ministro della Salute, in data 8 febbraio 2021, ha stabilito le “priorità” per la seconda fase. Tra le categorie prioritarie, non meglio specificata, spunta il “ personale di altri servizi essenziali ”. Il diavolo si annida nei dettagli, e in questo caso l’elemento debole della catena ministeriale era tutto nelle categorie prioritarie individuate dall’aggiornamento del piano vaccinale effettuato l’8 febbraio 2021, con particolare riferimento alla sesta fascia. Inizialmente, solo tale fascia, tra cui rientravano i soggetti in buone condizioni tra i 18 e i 54 anni, concorreva alla vaccinazione insieme agli ultraottantenni, proprio perché la limitazione di età stabilita per l’iniezione del medicinale prodotto da Astrazeneca aveva riservato di fatto la disponibilità immediata del suddetto medicinale alla categoria di popolazione considerata meno a rischio dallo stesso Ministero della Salute. E’ restata così nella disponibilità delle Regioni la decisione di individuare chi fosse all'interno delle categorie prioritarie della sesta fascia prevista dall'aggiornamento del piano vaccinale, e in particolare quali fossero i soggetti appartenenti al “personale di altri servizi essenziali”, da immunizzare subito dopo (o subito prima, a seconda dei gusti) “ il personale scolastico e universitario docente e non docente, le forze armate e di polizia ”, e i “ setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità ”. Si trattava dunque di un insieme generico e non facilmente individuabile, che lasciava un grande e paradossale spazio di libertà alle Regioni, ai limiti dell’arbitrio. Scopriamo così, tra l’altro, che in Toscana sono stati vaccinati, con questo sistema, anche praticanti avvocati di 26 anni. Il target di età di somministrazione del vaccino Astrazeneca viene intanto rivisto dall’AIFA (prima spostando l’età dai 65 anni in giù e poi eliminando del tutto il limite di età), ma la frittata ormai è fatta e le “categorie professionali” si sono mobilitate. Soltanto con le raccomandazioni ad interim sui gruppi target del 10 marzo 2021 si rielaborano le categorie prioritarie e viene eliminato il “mostro giuridico” creato dall’evanescente categoria del personale dei servizi essenziali. Resta comunque altamente discutibile avere continuato a mettere sullo stesso piano gli ultrasessantenni e il personale non docente scolastico e universitario, a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche di tale personale. Per la serie: un anno di morti da covid-19 non è servito quasi a nulla, dal punto di vista dell’individuazione dei soggetti fragili. Le case farmaceutiche continuano intanto a fornire molte meno dosi di quelle promesse. Si scopre allora anche che l’Europa ha contrattato male, pur avendo finanziato salatamente, tramite acconti sulle future forniture, la produzione dei vaccini, e che non vi sono strumenti contrattuali per “costringere” i produttori a rispettare gli impegni presi. Il nuovo Governo Draghi prova allora con il blocco delle esportazioni di vaccini all’Australia. Ma si tratta di poche dosi. Nel frattempo, Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele – che hanno avuto accesso ai medesimi vaccini dell’Unione europea – implementano con forza la campagna vaccinale e ottengono risultati straordinari di calo dei contagi e dei morti. Comincia a questo punto il dramma Astrazeneca . Dopo che in Italia è stato finalmente aperto a tutti (e quindi anche dai 55 e 65 anni in su), il 15 marzo la Germania “impone” di fatto agli altri Paesi lo stop per casi di sospetta correlazione tra la somministrazione di quel vaccino ed episodi di trombosi venose cerebrali. Lo sospendiamo, senza alcuna base scientifica “interna” – e su pressioni chiaramente politiche –, anche noi. Qualche giorno di sospensione, prima del parere nuovamente favorevole alla somministrazione da parte di EMA, e crollo di immagine del vaccino Astrazeneca, che comincia ad incontrare formidabili resistenze tra i potenziali fruitori. Passa qualche altra settimana, ed è notizia di pochi giorni fa che Astrazeneca – che nel frattempo ha cambiato nome e la cui fornitura continua ad essere largamente inferiore alle attese – viene “raccomandato” soltanto per gli ultrasessantenni, nonostante l’EMA avesse detto che l’introduzione di eventuali limitazioni anagrafiche avrebbe dovuto essere subordinata ad un’ampia disponibilità di vaccini (disponibilità che allo stato noi non abbiamo). Con questa ulteriore paradossale conseguenza: gli insegnanti “giovani” (under sessanta) che hanno fatto il vaccino Astrazeneca dovranno fare la seconda dose di questo stesso vaccino, nonostante per loro non sia più “indicato”. I non più giovanissimi (over sessanta) dovranno invece fare Astrazeneca al posto di Pfizer e Moderna, nonostante gli effetti collaterali ordinari del primo siano per comune esperienza molto più pesanti (febbre alta e forti dolori). Nel frattempo, le dosi continuano a non arrivare. Il nuovo commissario all’Emergenza, il Generale Figliuolo, annuncia con cadenza regolare numeri di somministrazione che poi non corrispondono alla realtà. Dovevamo arrivare a 300.000 dosi il 23 marzo (ma non è accaduto), dovremmo adesso arrivare a 500.000 dosi al giorno per il 15 aprile, ma la verità è che il giorno 8 eravamo ancora a 200.000 somministrazioni giornaliere, mentre Spagna, Francia e Germania superavano le 400.000 dosi (la Germania toccava addirittura una “punta” di somministrazioni di quasi 650.000 dosi). Sorge spontanea però una domanda a questo punto: ma gli altri Paesi hanno anche più dosi di noi o sono soltanto più veloci? Scopriamo in ogni caso che il Presidente del Consiglio stima molto il suo Ministro della Salute. E meno male. L’obiettivo della campagna di vaccinazione di massa sarebbe quello del raggiungimento dell’immunità di gregge, ma gli strumenti per il raggiungimento di tale obiettivo sono due, l’efficacia dei singoli vaccini e la velocità della campagna vaccinale. Al momento ci siamo “incasinati” con il vaccino di cui abbiamo e avremo maggiore disponibilità (Astrazeneca), e corriamo contro vento nella somministrazione. Abbiamo inoltre probabilmente sbagliato il target di popolazione da vaccinare con priorità e continuiamo a pagare dazio con tante, troppe morti. Mentre metà del Paese produttivo continua a restare fermo. Ma allora si potrebbe investire un po’ di denaro per comprare sul mercato altri vaccini ed aumentare la capacità di somministrazione, se il problema è la disponibilità di vaccini. Neanche questo si può. Secondo la Commissione europea, Stati e Regioni membri dell’Unione europea non possono procedere con acquisti che vadano a ridurre gli stock già promessi dai produttori di vaccini tramite “accordi di acquisto preliminare”. Nell’ambito dell’Unione è stato statuito, infatti, che la Commissione contratta unitariamente (cioè per tutti), con relativa impossibilità di contrattazione parallela da parte dei singoli Paesi, fatto salvo l’esercizio del diritto di “ opt out ” (una sorta di rinuncia all’accordo, con riespansione del potere statale “solitario” di contrattazione). Sembra dunque paralizzato, al momento – con riferimento a questa specifica problematica – l’esercizio del potere-dovere che pure l’art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con L. n. 27 del 2020, ha conferito al Commissario all’Emergenza, ovvero di adottare ogni misura idonea a fronteggiare la pandemia, ivi compresa l’individuazione di risorse umane e, per quel che più interessa in questo momento storico, “l’acquisizione di farmaci”. Il Governo non può in definitiva comprare altri vaccini e non riesce ad imporsi sulle Regioni per una corretta attuazione del piano vaccinale - anche se adesso Figliuolo ci riprova con una nuova, freschissima “direttiva” -, ma colpisce “duro” i medici no vax e impone loro la vaccinazione obbligatoria, salvo poi stigmatizzare in conferenza-stampa, per mezzo del Presidente del Consiglio dei Ministri, il fatto che un giovane soggetto “obbligato” non abbia lasciato la sua dose di vaccino a chi ne ha più bisogno. Nel frattempo, tuttavia, l’operosa Unione Europea non sta a guardare. La Commissione, dopo il mezzo disastro nell’approvvigionamento di vaccini, comincia a pensare al dopo, alle vacanze estive. Al “passaporto vaccinale”. E lo fa con una proposta di regolamento che paradossalmente ha l’obiettivo di ripristinare la libera circolazione delle persone in uno spazio fisico dove la libera circolazione delle persone è stata forse la prima e più importante conquista. Stavolta, però, la libera circolazione delle persone, maltrattata in vario modo dai singoli Stati membri (emblematici sono stati al riguardo i due interventi del Governo e del Ministero della Salute italiani volti a “punire” chi andava a sciare o a fare vacanza pasquale nell’ambito dello “spazio Schengen”), è condizionata a un presupposto di natura sanitaria. Il 25 marzo scorso il Parlamento europeo ha favorito l’accelerazione dell’adozione del “ Certificato verde digitale ” (così dovrebbe chiamarsi), applicando la procedura di urgenza di cui all’articolo 163 del suo Regolamento, che consente un esame parlamentare più rapido delle proposte delle Commissione. La proposta di regolamento in questione è volta a stabilire una cornice ordinamentale per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione dalla COVID-19 - ai fini di agevolare l'esercizio del diritto di libera circolazione durante la pandemia di COVID-19 da parte dei loro titolari -, e vuole fornire la base giuridica per il trattamento dei dati personali necessari per rilasciare tali certificati e per il trattamento delle informazioni necessarie per comprovare e verificare l'autenticità e la validità di tali certificati. Il certificato verde digitale non è altro, dunque, che un contenitore “centralizzato” – ai fini della interoperabilità fra le diverse soluzioni tecniche sviluppate dagli Stati membri – che stabilisce condizioni uniformi per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione dalla COVID-19. I certificati sottostanti veri e propri, considerati tra di loro equivalenti, che dovrebbero consentire la libera circolazione, restano pertanto i seguenti: a) un certificato comprovante che al titolare è stato somministrato un vaccino anti COVID-19 nello Stato membro di rilascio del certificato ("certificato di vaccinazione"); b) un certificato indicante il risultato per il titolare e la data di un test NAAT o di un test antigenico rapido, figurante nell'elenco comune e aggiornato dei test antigenici rapidi per la COVID-19 stabilito sulla base della raccomandazione 2021/C 24/01 del Consiglio21 ("certificato di test"); c) un certificato comprovante che il titolare risulta guarito da un'infezione da SARS-CoV-2 successivamente a un test NAAT positivo o un test antigenico rapido positivo, figurante nell'elenco comune e aggiornato dei test antigenici rapidi per la COVID-19 stabilito sulla base della raccomandazione 2021/C 24/01 ("certificato di guarigione"). Il regolamento non viene peraltro né inteso né rappresentato come un'agevolazione o un incentivo all'adozione di restrizioni alla libera circolazione durante la pandemia. Esso cerca piuttosto di fornire un quadro armonizzato per il riconoscimento dei certificati sanitari COVID-19 nel caso in cui uno Stato membro applichi tali restrizioni. Qualsiasi limitazione alla libera circolazione all'interno dell'UE, giustificata da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica, dovrebbe essere infatti necessaria, proporzionata e basata su criteri obiettivi e non discriminatori, anche se di competenza degli Stati membri. Questi devono agire in conformità al diritto dell'UE, e mantengono in ogni caso “la flessibilità” di non introdurre restrizioni alla libera circolazione. Per garantire l'interoperabilità e la parità di accesso, la Commissione ritiene necessario che gli Stati membri rilascino i certificati che costituiscono il certificato verde digitale in formato digitale o cartaceo, o in entrambi i formati. Ciò dovrebbe consentire al potenziale titolare di richiedere e ricevere una copia cartacea del certificato o di conservare e visualizzare il certificato su un dispositivo mobile. I certificati dovrebbero contenere un codice a barre interoperabile a lettura digitale, contenente i dati pertinenti relativi ai certificati stessi, mentre la loro l'autenticità, validità e integrità, anche a mezzo sigilli elettronici, dovrebbe essere garantita dai singoli Stati membri. La proposta di regolamento si propone infine di evitare la discriminazione di persone che non sono vaccinate, ad esempio per motivi medici, o perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino è attualmente raccomandato, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate, stabilendo che il possesso di un certificato di vaccinazione, o di un certificato di vaccinazione che attesti l'uso di uno specifico medicinale vaccinale, non dovrebbe costituire una condizione preliminare per esercitare i diritti di libera circolazione. In particolare, se le persone in questione sono in grado di dimostrare con altri mezzi il rispetto degli obblighi di legge relativi alla salute pubblica, il possesso del “passaporto vaccinale” non può essere una condizione preliminare per usare servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman o traghetti. Secondo la Commissione, il nuovo regolamento non può essere interpretato nel senso di istituire un obbligo o un diritto ad essere vaccinati. Tutti devono potere continuare ad esercitare il diritto fondamentale alla libera circolazione, ove necessario assoggettandosi a restrizioni come un test obbligatorio e un periodo di quarantena/autoisolamento. Il presupposto di questo ragionamento, però, è che si dà per scontato che le restrizioni alla libera circolazione dureranno e saranno tollerate ancora a lungo, e che su questo l’Unione europea ha fatto marcia indietro, piegandosi, più ancora che al virus, alla “improvvisazione” normativa dei singoli Governi. Ne deriva che probabilmente vincerà anche questa estate, e chissà per quanto tempo ancora, il cosiddetto turismo di prossimità. La vacanza nella casa isolata con piscina a pochi km di distanza, per chi se lo può permettere (milionari a parte). Siamo tutti molto stanchi, ormai. Siamo tutti un po’ come Carlito Brigante nella curva finale della sua formidabile avventura. Ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo, il sole se ne va... Dove andiamo per colazione? Non troppo lontano.
26 mar, 2021
Tribunale di Reggio Emilia, Sezione GIP-GUP, sentenza n. 54 del 27 gennaio 2021 IL CASO Due persone, in data 13 marzo 2020, vengono controllate dai Carabinieri, in “zona rossa”, al di fuori della loro abitazione, e compilano un’autocertificazione in cui attestano fatti non veritieri per sfuggire alla sanzione allora prevista dal DPCM dell’8 marzo 2020, che si limitava a richiamare sul punto l'abrogato art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (il quale, a sua volta, puniva il mancato rispetto delle misure di contenimento ai sensi dell’art. 650 del codice penale). I due vengono indagati per l’ipotesi di reato di cui all’art. 483 c.p. (“ Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni ”) ma il GIP di Reggio Emilia, pronunciandosi sulla corrispondente richiesta di decreto penale, proscioglie i due imputati “perché il fatto non costituisce reato”. In particolare, il Giudice penale di primo grado: - parte dall’illegittimità del DPCM dell’8 marzo 2020 per contrasto con l’art. 13 della Costituzione, in quanto prescrivente l’obbligo della permanenza domiciliare nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, senza il rispetto della doppia riserva, di legge e di giurisdizione, prescritta dalla Carta fondamentale (riserva che per le restrizioni della libertà personale implica necessariamente un provvedimento individuale autorizzato dalla legge e dal giudice); - fa discendere da tale illegittimità la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo per violazione di legge; - fa infine conseguire alla disapplicazione del DPCM l’assenza dell’antigiuridicità in concreto della condotta di falso, o comunque l’integrazione di un falso inutile, in quanto la falsità avrebbe inciso su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere. L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DELLO SPOSTAMENTO Il caso esaminato dal GIP di Reggio Emilia, al di là della fattispecie concreta – che si è realizzata in una fase di contrasto della pandemia giuridicamente ancora “acerba” -, acquista rilevanza generale in ordine alla possibilità o meno di imporre ai cittadini obblighi di “giustificazione”, anche solo per uscire di casa. L’autocertificazione tramite cui “giustificarsi” è stata prevista e adottata dal Ministero dell’Interno, a partire da una direttiva alle Autorità coinvolte emessa in data 8 marzo 2020 dal Ministro competente, per consentire agli interessati di comprovare, tramite una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la sussistenza di uno dei motivi in base ai quali si può uscire di casa nelle “zone rosse” (fatta salva la possibilità illimitata di rientro nella propria residenza, abitazione o domicilio, che, però, proprio perché “rientro”, non attiene alla fase di “uscita” dall’abitazione). Il giudice di primo grado assimila il divieto di spostamento tipico che vige all’interno dei “territori in zona rossa” (“ È vietato ogni spostamento (…) all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute ”), così come riprodotto anche dall’ultimo DPCM del 2 marzo 2021, a un obbligo di permanenza domiciliare, e sottopone, conseguentemente, ogni norma – avente fonte di legge o di atto amministrativo – allo scrutinio di legittimità previsto dall’art. 13 della Costituzione. Invero, il suddetto art. 13 stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su «… atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge »; il primo corollario di tale principio costituzionale, dunque, è che un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare e non già di un atto normativo avente forza di legge; secondo corollario del medesimo principio costituzionale è, peraltro, quello secondo cui neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) può prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini. A parere del Giudice di Reggio Emilia, la disposizione che stabilisce un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configurando un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, costituisce una misura restrittiva della libertà personale, e può essere prevista, nel nostro ordinamento giuridico, in conformità con il precetto costituzionale sopra evidenziato, soltanto quale sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio, ovvero, quale misura di custodia cautelare disposta dal Giudice stesso, nella ricorrenza di rigidi presupposti di legge, all’esito di un procedimento disciplinato normativamente, e in ogni caso nel rispetto del diritto di difesa. Ne consegue che non sussiste, secondo questo ragionamento, alcun obbligo per il cittadino di specificare alle forze dell’ordine che lo richiedano, nell’ambito di un controllo di routine o di necessità, quale sia il motivo di allontanamento dalla propria abitazione, trattandosi di obbligo di permanenza domiciliare non disposto in forza di una legge “dettagliata” e sotto il controllo motivato di un Giudice. L’ONERE DI AUTOCERTIFICAZIONE DELLO SPOSTAMENTO Il ragionamento del Giudice di Reggio Emilia - in sé corretto, se si parte dal presupposto che il divieto di spostamento prescritto per le zone rosse sia riconducibile a una restrizione della libertà personale e non alle limitazioni della circolazione di cui all’art. 16 della Costituzione (per le quali basterebbe una legge autorizzativa) -, ha ricadute importanti sul cosiddetto e improprio “obbligo” di autocertificazione dei motivi “legittimi” che hanno costretto il cittadino ad evadere dalla sua permanenza domiciliare. Cominciamo col dire che in nessuna norma “emergenziale” è stato previsto un obbligo, salvo che non lo si voglia dedurre, l’obbligo, dall’uso del termine “ comprovate ” (“comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”). Nella sua direttiva dell’8 marzo, peraltro, il Ministro dell’Interno afferma che “l'onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento incombe sull'interessato” e che “tale onere potrà essere assolto producendo un'autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”. Si tratta dunque di un onere e non di un obbligo. Ma siamo proprio sicuri che l’onere probatorio gravi sul cittadino e non sulle forze dell’ordine, e che l’autodichiarazione da cui discende un obbligo di “verità” penalmente sanzionato sia lo strumento corretto per assolvere a tale onere? Innanzitutto, il ”comprovate” del d.P.C.M. pare riferirsi alle sole esigenze lavorative; inoltre, provare un fatto non implica la necessità di una dichiarazione “obbligatoria”, ma è un onere giuridico che può essere assolto in vari modi (documentalmente, per presunzioni, tramite testimonianza, etc.), entro un limite temporale non predeterminato per legge, e fatto salvo, in ultima analisi, un accertamento di tipo giudiziale sull’effettivo assolvimento dell’onere probatorio stesso. Trattandosi di dichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, occorre a questo punto verificare se la sua utilizzabilità per giustificare gli spostamenti si possa trarre implicitamente dal citato disposto normativo. L’art. 46 prevede che “ sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni ” alcuni stati, qualità personali e fatti tassativamente descritti nella stessa norma (ad esempio, residenza, stato familiare e qualifica professionale). Tra questi stati, qualità personali e fatti non rientra – e sarebbe d’altra parte quanto mai anomalo il contrario, in un ordinamento democratico – la circostanza rappresentativa di un valido motivo per uscire di casa. Peraltro, l’art. 47, intitolato “Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà”, estende genericamente la possibilità di autocertificazione anche a “ stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato ”. E, in ogni caso, “ nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ”. Ma cos’è l’atto di notorietà? Nel senso tradizionale della formula giuridica, l’atto di notorietà, o atto notorio, o ancora attestazione giurata, consiste nella dichiarazione sotto giuramento resa da due testimoni maggiorenni (muniti di documento valido) dinanzi ad un pubblico ufficiale (che può essere sia un notaio che un cancelliere), per certificare stati, qualità personali o fatti (morte, nascita, sussistenza o meno di testamento, ecc...), di cui sono a conoscenza e che sono pubblicamente noti. E’ ad esempio un atto di notorietà quello previsto dall’art. 100, comma 2 c.c., in relazione alla dispensa dalle pubblicazioni di matrimonio (“gli sposi davanti al cancelliere dichiarano sotto la propria responsabilità che nessuno degli impedimenti stabiliti dagli articoli 85, 86, 87, 88 e 89 si oppone al matrimonio”). L’art. 30 della legge sul procedimento amministrativo, intitolato “atti di notorietà”, stabilisce che “ in tutti i casi in cui le leggi e i regolamenti prevedono atti di notorietà o attestazioni asseverate da testimoni altrimenti denominate, il numero dei testimoni è ridotto a due ” e che “ è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e alle imprese esercenti servizi di pubblica necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prevista ”, quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato. Da questa norma, in combinato disposto con l’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, si ricavano due informazioni fondamentali, quanto al regime giuridico e definitorio degli atti di notorietà. La prima, è che l’atto di notorietà è indefettibilmente un’attestazione asseverata da testimoni; la seconda, è che tale atto può consistere sia nella prova di qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato e che lo riguardino, sia nella prova di stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui l’interessato abbia diretta conoscenza, ma che mai le pubbliche amministrazioni possono esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, quando ricorra il primo caso (qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato e che lo riguardino). Dal punto di vista funzionale, peraltro, l’atto notorio, in quanto atto pubblico, costituisce prova legale della sua provenienza dal dichiarante e di quanto fatto o dichiarato davanti al funzionario pubblico o al pubblico ufficiale (come il notaio) che lo riceve, ma non vale, al contrario, come prova legale dei contenuti delle dichiarazioni; in altre parole, non fa prova legale dell’esistenza di fatti giuridici, ma solo della loro notorietà. Tanto premesso sul concetto di atto notorio, l’autodichiarazione adottata dal Ministero dell’Interno non rientra nei parametri legali né della dichiarazione sostitutiva di certificazioni, né della dichiarazione sostitutiva di atto notorio. Non rientra nei casi previsti dall’art. 46 del d.P.R. n. 445 del 2000, perché il fatto da comprovare non è nessuno di quelli stabiliti tassativamente dal medesimo articolo; non rientra nei casi previsti dall’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, perché il fatto da comprovare non è uno di quei fatti che sono dimostrabili tramite atto di notorietà, mancando il requisito della “pubblicità” della notizia. Si tratta in realtà di fatti per loro natura privati (esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute). Né si può dire che sia applicabile al caso di specie il comma 3 dell’art. 47, che pare alludere ad un rapporto (contrattuale) già in atto con la pubblica amministrazione o con un concessionario di pubblici servizi (“nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà). In ogni caso, anche a volerla forzatamente fare rientrare nei parametri legali di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000 (con evidente intento di sanzionare penalmente le eventuali dichiarazioni false), l’autocertificazione in discorso resta al più una facoltà del privato (una forma di allegazione), e non certo un obbligo, potendosi provare uno dei fatti contemplati dal DPCM (esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute) in tutti i modi consentiti dall’ordinamento giuridico. LEGITTIMITA’ DELLA SANZIONE AMMINISTRATIVA Premesso dunque che non sussiste alcun obbligo né alcun onere in senso tecnico di autodichiarazione potenzialmente autoincriminante; assodato inoltre che l’autocertificazione adottata dal Ministero dell’Interno non può essere considerata alla stregua di un “biglietto” di viaggio, da avere necessariamente in tasca per potere uscire di casa, né che ne può essere imposta la sottoscrizione, occorre a questo punto verificare se e come l’agente di pubblica sicurezza possa elevare legittimamente la sanzione prevista dall’art. 4, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 35 del 2020. La citata norma così recita, per quanto di stretto interesse: “ Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, commi 1 e 2, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 1.000 ”. I provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, commi 1 e 2 sono i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (o le ordinanze del Ministero della Salute) che adottano una o più misure tra quelle previste dal legislatore per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla pandemia; i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 3 sono le ordinanze regionali ulteriormente restrittive. Dal momento che la legge lascia uno spazio di discrezionalità al potere esecutivo (o alle Regioni) nel decidere quale misura adottare in concreto (“possono essere adottate (…) una o più misure”, “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso”: art. 1, commi 1 e 2 del d.l. n. 19 del 2020), oggetto di eventuale contestazione “primaria” da parte del cittadino sanzionato resta l’atto amministrativo (DPCM) che ha disposto, su autorizzazione legislativa, la misura astrattamente non rispettata. Se in concreto l’agente di pubblica sicurezza individua una violazione del DPCM – come avvenuto nel caso esaminato dal GIP di Reggio Emilia –, scatta oggi la procedura prevista dalle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, da applicarsi nei limiti di “compatibilità”, con irrogazione della sanzione affidata al Prefetto. Soffermiamoci un attimo sulla trasgressione della misura in base alla quale all’interno dei “territori in zona rossa” “è vietato ogni spostamento, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”. La procedura, emendata dal percorso di autocertificazione suggerito dal Ministro – modalità la cui inottemperanza non dà comunque luogo ad alcuna autonoma sanzione -, dovrebbe consistere nell’accertamento puntuale, da parte dell’agente di pubblica sicurezza, di uno “spostamento” da una parte all’altra di un determinato territorio, non giustificato da specifiche esigenze. Il primo problema di una fattispecie di illecito così formulata è: quando inizia e quando finisce lo spostamento? Chi ha formulato la norma ha utilizzato il termine “spostamento” probabilmente per agganciare il divieto a quello di cui all’art. 16 della Costituzione (limitazione alla circolazione sul territorio nazionale), che come visto, a differenza delle restrizioni della libertà personale, non prevede il controllo del giudice sulla misura applicata. Un soggetto che esce di casa per fare una lunga passeggiata e poi tornare a casa da quale momento in poi configura l’ipotesi “del rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza” (consentito) e non più dello spostamento non consentito? Lo spostamento implica necessariamente il recarsi da un punto A fino ad un punto B o è anche solo il mero uscire di casa a prendere aria? Se inteso nel secondo senso, è difficile negare che si tratti di un “divieto di uscire di casa” e dunque di un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Se inteso nel primo senso, la genericità del precetto impedisce l’applicazione della sanzione nei confronti di chi si limita a circolare nel proprio Comune, e può acquistare rilievo soltanto se lo spostamento si completi dal punto A al punto B, non sia giustificato da nessuna delle esigenze stabilite dalla legge e metta a rischio l’interesse protetto dalla norma, che è e deve restare quello di “contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus (…)” (art. 1, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020). Quid iuris dunque? La dichiarazione del privato non costituisce un’autocertificazione ma vale allegazione di un fatto, che esclude la sussistenza dell’illecito amministrativo. L’illecito non può essere configurato come un obbligo di permanenza domiciliare, pena l’illegittimità “derivata” della sanzione applicativa di un atto amministrativo (DPCM) a sua volta illegittimo per violazione di legge costituzionale (art. 13 della Costituzione). Qualora correttamente interpretato – ovvero come divieto di circolazione e accesso in luoghi diversi dalla propria abitazione o comunque diversi da altri luoghi in cui è consentito l’accesso (supermercati, negozi di abbigliamento o di generi di prima necessità) - l’illecito amministrativo si configura soltanto se l’organo accertatore riesce a dimostrare che lo spostamento costituisce una condotta almeno colposa che ha esposto il soggetto e/o altri soggetti a un contatto rischioso, portando il “trasgressore” da un punto A consentito a un punto B non consentito. L’accertamento, se possibile, deve essere effettuato nell’immediatezza, in contraddittorio con l’interessato; in ogni caso, entro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o della notificazione della violazione, l’incolpato può far pervenire al Prefetto scritti difensivi e documenti, e chiedere di essere ascoltato. Se il Prefetto ritiene fondato l’accertamento, emette ordinanza-ingiunzione di pagamento, contro cui può essere proposta opposizione dinanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’articolo 6 del d.lgs. n. 150 del 2011. In caso di opposizione, il Giudice ha due possibilità, in teoria. Se la contestazione riguarda semplicemente l’essere usciti di casa senza una giustificazione, dovrebbe limitarsi a disapplicare il d.P.C.M. impositivo dell’obbligo, se ritenuto violativo dell’art. 13 della Costituzione, o comunque accogliere l’opposizione per infondatezza dell’accertamento, in quanto illegittimo rispetto alla corretta interpretazione della misura violata. Qualora invece la contestazione riguarda uno spostamento in teoria vietato, ma l’opponente ha allegato una giustificazione, senza che l’amministrazione abbia provato l’insussistenza di tale giustificazione, il giudice dovrebbe senz’altro accogliere l’opposizione, in quanto “non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente” (art. 6, comma 11 del d.lgs. n. 150 del 2011, applicabile al caso di specie in virtù del richiamo alla L. n. 689 del 1981 contenuto nel d.l. n. 19 del 2020, art. 3, comma 4). Resta in ogni caso il problema di fondo. Il divieto assoluto di spostamento dalla propria abitazione, salvo limitate eccezioni, costituisce restrizione della libertà personale o limitazione alla circolazione? Secondo la Corte costituzionale, la restrizione della libertà personale si risolve in una sorta di degradazione giuridica , e, per aversi degradazione giuridica, occorre che il provvedimento “restrittivo” provochi “ una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da potere essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell’habeas corpus ”. All’interprete la scelta, dunque.
Autore: Roberto Lombardi 20 mar, 2021
T.A.R. per la Toscana, sentenza n. 334 pubblicata il 5 marzo 2021 IL CASO Il presidente della Regione Toscana, con l’ordinanza n. 3 del 22 gennaio 2021, intitolata “Ulteriori misure per il contenimento dell'emergenza epidemiologica da Covid 19. Disposizioni per il rientro alla propria residenza, domicilio, abitazione”, aveva ordinato, ai sensi dell’articolo 32, comma 3 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica, che il rientro presso la propria residenza, domicilio o abitazione in Toscana dalle zone classificate gialle, arancioni e rosse fosse consentito solo per coloro che hanno sul territorio regionale il proprio medico di medicina generale o il pediatra di famiglia. Unica eccezione a tale divieto, “i rientri motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, per motivi di salute o di studio”. Dalla motivazione dell’ordinanza, si evinceva che la disposizione fosse stata condizionata da tre presupposti valutativi: - ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge n. 2 del 2021, dal 16 gennaio 2021 al 15 febbraio 2021 (con norma la cui efficacia temporale è stata poi estesa fino al 27 marzo 2021) era vietato ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute, e ad eccezione del rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione (sempre consentito); - il riferimento al domicilio, all’abitazione e alla residenza si sarebbe prestato ad essere applicato, nel senso di permettere alle persone che rientrano in Toscana di recarsi anche nelle "seconde case" per motivi non di effettiva necessità, in quanto tale riferimento ricomprende anche le fattispecie abitative saltuarie e non stabili; - in tale contesto, in relazione alla necessità di realizzare una compiuta azione di prevenzione, l’assunzione immediata di ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica avrebbe imposto di individuare (ulteriori) idonee precauzioni per fronteggiare adeguatamente possibili situazioni di pregiudizio per la collettività, e tali precauzioni sarebbero consistite nello stabilire, a tutela della salute collettiva, che i soggetti che rientrano in Toscana dalle zone gialla, rosse e arancioni abbiano sul territorio regionale il proprio medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta. Alcuni cittadini “interessati” a recarsi nelle seconde case in Toscana, pur non avendo in quel territorio il proprio “medico di famiglia”, hanno impugnato l’ordinanza de qua , e il Tribunale di primo grado, pronunciandosi ad esito dell’esame della domanda cautelare, ha definito l’intero giudizio con sentenza in forma semplificata, accogliendo la proposta domanda di annullamento. LA SOLUZIONE La ratio della disposizione del provvedimento impugnato, secondo quanto emerso in giudizio, sarebbe stata quella di evitare un sovraccarico del servizio sanitario regionale, per evitare che le persone ospiti nelle seconde case, in caso di necessità, fossero costrette, in assenza dell’assistenza e del filtro del medico di base, a rivolgersi direttamente al pronto soccorso dell’ospedale di zona. Il TAR Toscana ha disatteso la tesi difensiva della Regione ricordando che l’art. 1, comma 16, del d.l. n. 33 del 16 maggio 2020 (convertito dalla legge 14 luglio 2020, n. 74) riserva, di regola, allo strumento del d.P.C.M., previsto dall’art. 2 del decreto-legge n. 19 del 2020, eventuali interventi limitativi della circolazione delle persone tra le varie Regioni italiane, e che le disposizioni limitative della libera circolazione delle persone, incidendo su un diritto costituzionalmente garantito (art. 16 della Costituzione), possono, in base alle suddette fonti normative, essere adottate con ordinanza regionale, solo in presenza di ragioni di straordinaria necessità ed urgenza e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio epidemiologico effettivamente presente in determinate aree, e sempre che si tratti di interventi destinati a operare nelle more dell’adozione di un nuovo d.P.C.M.. Tali interventi devono essere inoltre giustificati dall' "andamento della situazione epidemiologica sul territorio”, ovvero dalla necessità di fronteggiare situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario proprie della Regione interessata. L’ordinanza regionale è stata conseguentemente annullata, in quanto il Tribunale ha ritenuto che non fosse stata emanata nel rispetto delle citate disposizioni e che comunque non sussistessero, rispetto al momento di adozione dell’ultimo d.P.C.M, situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario nel territorio regionale, tali da dovere giustificare, per motivi di urgenza, un intervento, da parte del presidente della Regione Toscana, ulteriormente limitativo della circolazione delle persone sul territorio nazionale. In effetti, il provvedimento regionale impugnato è intervenuto solo pochi giorni dopo l’adozione del d.P.C.M. del 14 gennaio 2021, che già aveva tenuto conto dell’evolversi in tutte le Regioni dell’epidemia in corso, ed è stato volto a introdurre una disciplina intesa a derogare la regolamentazione degli spostamenti verso le "seconde case" stabilita dal Governo centrale, senza però alcuna motivazione a supporto dell’introduzione della misura sopra descritta, e, in ogni caso, senza che fosse stata condotta una preliminare istruttoria sull’evoluzione in ambito regionale della situazione sanitaria, ovvero sul raggiungimento di soglie di rischio tali da imporre ulteriori limitazioni alla libera circolazione delle persone nelle more dell’adozione di un successivo d.P.C.M.. Al riguardo, occorre rammentare che, al di là dei “paletti” specifici fissati dalla normativa nazionale in materia di emergenza pandemica (e che il TAR ha ritenuto violati), in linea teorica, i limiti alla libera circolazione sul territorio nazionale possono essere stabiliti soltanto dalla legge (statale), in via generale per motivi di sanità o di sicurezza, ai sensi dell’art. 16 della Costituzione, mentre la singola Regione non può adottare provvedimenti " che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni" , secondo quanto previsto dall’art. 120 della Costituzione. Il presidente della Regione Toscana, peraltro, ha utilizzato lo strumento normativo "eccezionale" dell’art. 32 della L. n. 833 del 1978, che lo facoltizza ad emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa alla Regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni. Tuttavia, tali ordinanze non paiono potere derogare a rigidi e tassativi principi costituzionali quali sono quelli stabiliti dall’art. 16 e 120 della Costituzione, che vanno inequivocabilmente nelle direzione di precludere alla singola Regione anche solo la possibilità di stabilire regole di accesso e circolazione “discriminatorie” nei confronti di alcune categorie di cittadini. Diversamente, stabilire regole “limitative” uguali per tutti, e/o “dettagliare”, nei limiti del consentito, norme stabilite dal legislatore nazionale, alla luce di dati sanitari aggiornati e che depongano per un pericolo non fronteggiabile se non con misure eccezionali e immediate, potrebbe rimanere una strada percorribile dal decisore regionale, previa adeguata motivazione. L’ordinanza annullata è sembrata infine scontare un mancato approfondimento del concetto di “ rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione ”, che il legislatore nazionale ha previsto come motivo legittimo e non derogabile dello spostamento da una Regione all'altra (“ è comunque consentito il rientro …”), ma che l'ente regionale interessato potrebbe se del caso subordinare ad obblighi di comunicazione – anche ai fini di “verifica” della sussistenza effettiva della condizione di “rientro” –, tali da consentirgli di individuare (e fronteggiare) l’aumento di rischio sul proprio territorio, in connessione con l’aumento dei soggetti che vi circolano in un determinato periodo.
Autore: di Paolo Nasini 14 mar, 2021
Talvolta, il tentativo di modificare le regole del gioco cercando di addivenire a un compromesso tra quello che avrebbe dovuto e ciò che può in concreto essere, può generare delle soluzioni particolarmente irragionevoli e inidonee, a ben vedere, a raggiungere il fine che si intende perseguire. Nella consapevolezza dell’eccezionalità di una pandemia e dei problemi pratici che ciò comporta, in relazione alle difficoltà di organizzare la compresenza fisica di migliaia di persone per sostenere delle prove scritte, il legislatore “emergenziale” (che poi, di fatto, è il Governo e non il Parlamento) si è trovato di fronte a tre possibili scelte: provare a gestire in modo ordinato e rispettoso del distanziamento personale la procedura ordinaria, rinviare ulteriormente lo svolgimento dell’esame, o elaborare regole straordinarie di valutazione dei candidati. Con il d.l. 13 marzo 2021, n. 31 (recante “Misure urgenti in materia di svolgimento dell'esame di Stato per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato durante l'emergenza epidemiologica da COVID-19”), il Consiglio dei Ministri ha imboccato la terza strada, sia pure limitatamente alla sessione di esame indetta con decreto del Ministro della Giustizia del 14 settembre 2020. In particolare, è stato stabilito che l’esame di Stato si articoli in due prove orali. Con riferimento alla prima prova orale, la stessa avrà ad oggetto “ l'esame e la discussione di una questione pratico-applicativa, nella forma della soluzione di un caso, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, in una materia scelta preventivamente dal candidato tra le seguenti: materia regolata dal codice civile; materia regolata dal codice penale; diritto amministrativo (..) ”. La sottocommissione, quindi, prima dell'inizio della prima prova orale, “ deve predisporre per ogni candidato tre quesiti per la materia prescelta, ognuno dei quali collocato all'interno di una busta distinta e numerata ”. Sotto il profilo operativo, viene previsto che “ per lo svolgimento della prima prova orale è assegnata complessivamente un'ora dal momento della dettatura del quesito: trenta minuti per l'esame preliminare del quesito e trenta minuti per la discussione. Durante l'esame preliminare del quesito, il candidato può consultare i codici, anche commentati esclusivamente con la giurisprudenza, le leggi ed i decreti dello Stato. Scaduti i trenta minuti concessi per l'esame preliminare del quesito, il segretario provvede al ritiro dei testi di consultazione nella disponibilità dal candidato. Al candidato è consentito, per il mero utilizzo personale, prendere appunti e predisporre uno schema per la discussione del quesito utilizzando fogli di carta messi a disposizione sul banco, prima della prova, e vistati da un delegato della sottocommissione scelto tra i soggetti incaricati dello svolgimento delle funzioni di segretario ” [1] . La seconda prova orale, invece, deve durare non meno di quarantacinque e non più di sessanta minuti per ciascun candidato. Essa si svolge a non meno di trenta giorni di distanza dalla prima e consiste: a) nella discussione di brevi questioni relative a cinque materie scelte preventivamente dal candidato, di cui: una tra diritto civile e diritto penale, purché diversa dalla materia già scelta per la prima prova orale; una tra diritto processuale civile e diritto processuale penale; tre tra le seguenti: diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto tributario, diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto dell'Unione europea, diritto internazionale privato, diritto ecclesiastico. In caso di scelta della materia del diritto amministrativo nella prima prova orale, la seconda prova orale ha per oggetto il diritto civile e il diritto penale, una materia a scelta tra diritto processuale civile e diritto processuale penale e due tra le seguenti: diritto costituzionale, diritto amministrativo, diritto tributario, diritto commerciale, diritto del lavoro, diritto dell'Unione europea, diritto internazionale privato, diritto ecclesiastico; b) nella dimostrazione di conoscenza dell'ordinamento forense e dei diritti e doveri dell'avvocato. Dall’esame della struttura della prima prova orale, per come normativamente costruita, appare evidente che il legislatore abbia inteso sostituire il c.d. parere (e l’atto) con la soluzione ragionata e spiegata oralmente di un “caso”: il “quesito”, in questo senso, se interpretato alla luce della prima parte dell’art. 2, non può limitarsi ad una domanda teorico-pratica, anche di largo respiro, ma deve avere la “ forma della soluzione di un caso ”, cioè deve consistere in una articolata fattispecie in cui vengano in gioco elementi di diritto sostanziale e processuale, da applicare alla specificità della situazione concreta. Ebbene, partendo da questo dato normativo, si palesano con evidenza le incongruenze della “soluzione” approntata dal legislatore. In primo luogo, viene in rilievo l’esiguità del tempo a disposizione del candidato. Se consideriamo che nella versione “ordinaria” dell’esame di abilitazione per le prove scritte i candidati hanno a disposizione un tempo di ben sette ore, un tempo totale di un’ora è evidentemente irrisorio; peraltro, a fronte di un tempo così esiguo, rispetto all’ordinario, ancor meno ragionevole è la scelta di “spezzarlo in due”, concedendo solo mezz’ora per cercare la normativa di riferimento, inquadrare la problematica, trovare la soluzione, organizzare un discorso coerente e che dia conto di tutte le questioni e di tutti i passaggi logici, per poi prevedere un tempo – eccessivo – di mezz’ora per esporre oralmente il tutto. E’ chiaro, infatti, che il “grosso” del lavoro sta nella prima parte della prova, e non nella seconda, la quale, in realtà può essere debitamente ridotta ad un quarto d’ora. Resta evidente, in ogni caso, che un’ora di tempo complessiva è un termine quasi irreale e comunque inidoneo a far emergere le effettive capacità di ragionamento e di soluzione che la prova scritta è ordinariamente tesa a dimostrare. Il che apre anche la strada a un esito valutativo caratterizzato, nel suo complesso, da una duplicità di alternative, entrambe discutibili, e poste l’una all’estremità dell’altra: o la commissione di esame adotta lo stesso grado di severità che normalmente viene riservato alla correzione degli scritti (e allora si profila una percentuale di bocciature altissima) o sceglie la strada di un colloquio “blando” e quasi di stile (e allora si profila una sorta di ammissione di massa al secondo orale). Senza dimenticare che un esito così irragionevole, dipendendo dalla scelta della singola commissione, renderebbe ancora più evidente la significativa differenza tra percentuali di ammissione che già oggi esiste tra i candidati, a seconda della Corte di appello a cui è destinata la correzione dei loro scritti. Se, poi, la questione si sposta sulla intrinseca difficoltà o complessità dei “quesiti”, nel senso che lo standard degli stessi, per renderli compatibili al tempo così esiguo, viene ad essere molto meno complesso rispetto alla prova scritta “ordinaria”, allora nuovamente viene in evidenza una incongruenza logica: se si intende “condizionare” il conseguimento dell’abilitazione alla dimostrazione, da parte del candidato, di idonee capacità deduttivo-argomentative, per l’accertamento delle quali normalmente sono sottoposte questioni complesse, concepire una prova orale “plus”, incentrata non tanto sulla difficoltà del quesito, quanto sulla velocità e capacità di reazione del candidato, si pone al di fuori della logica e delle finalità che stanno alla base di tali prove di esame. A ben vedere, quindi, sia che i quesiti siano complessi, sia che, a fortiori , non lo siano, una prova di esame “ fast and furious ” rischia di ingenerare solo una forma stressogena a carico del candidato, senza garantire l’emersione delle effettive capacità deduttive da parte dello stesso. Né a contrario può valere l’obiezione per cui “un avvocato deve saper rispondere velocemente al parere richiesto dal cliente in studio”, perché chi ha lavorato presso uno studio legale sa che la dinamica “normale” nel rapporto cliente/avvocato non è così banale, e che ordinariamente il “buon” avvocato deve esaminare in modo approfondito le questioni che gli vengono sottoposte, prima di rendere un parere deontologicamente e professionalmente adeguato. Peraltro, è superfluo sottolineare come, specialmente nel diritto civile e nel diritto amministrativo, dove l’attività dell’avvocato si esplica al 90% per iscritto, l’analisi della capacità di scrittura non può essere in alcun modo sopperita dalla valutazione, magari anche approfondita, delle abilità dialettiche ed espositive orali del candidato. Non è poi meno preoccupante, rispetto alla effettiva correttezza della procedura immaginata, il fatto che, mentre nella prova di esame “ordinaria” il testo delle tracce è unico per tutti i candidati d’Italia, nel caso di specie il quesito cambia di volta in volta “ per ciascun candidato ”, il che, oltre a implicare un lavoro molto dispendioso per le commissioni, può determinare delle ingiustificate disparità, anche rilevanti, a carico dei candidati stessi. Né, a tale riguardo, vale sottolineare come ciò accada normalmente, per la (seconda) prova orale; invero, la “cifra” di difficoltà della prima prova orale, così come accade per la prova scritta, non è paragonabile con quella della seconda, che mira a testare la conoscenza della materie da parte del candidato, ma non le sue capacità deduttivo-argomentative, il che imporrebbe la necessità di garantire, nella prima prova, una maggiore uniformità in ordine alla base di giudizio delle performance dei candidati. A questo punto, forse, una volta esclusa ancora una volta a priori la capacità infrastrutturale e strutturale dello Stato di garantire la coesistenza tra pandemia e pseudo-normalità, sarebbe stato meglio limitarsi a prevedere che, nel corso della sola prova orale, i commissari procedessero a valutare anche la capacità di ragionamento “pratico” dei candidati, in funzione delle domande teoriche agli stessi sottoposte, piuttosto che creare una fattispecie ibrida ma inefficiente, per valutare la capacità di “aderenza” pratica delle conoscenze del candidato. Infine, non è nemmeno chiaro per quale motivo, a differenza dell’ordinario esame da avvocato, non si possa comunque portare in sede di seconda prova orale la medesima materia scelta per la prima, visto che, comunque, la finalità e anche il tipo di domande dovrebbero essere differenti, e tendere ad accertare abilità e conoscenze a loro volta diverse, possedute dal candidato. Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare, diceva Winston Churchill. A volte è meglio soprassedere piuttosto che azzardare, aggiungeremmo noi. (1) I candidati non possono portare con se' testi o scritti, anche in formato digitale, ne' telefoni cellulari, computer, e ogni sorta di strumenti di telecomunicazione, ne' possono conferire con alcuno, pena la immediata esclusione dall'esame disposta con provvedimento motivato del presidente della sottocommissione esaminatrice anche su immediata segnalazione del segretario.
Autore: Francesco Tallaro 14 mar, 2021
I mezzi di informazione hanno dato grande rilievo ad alcune decisioni dei TAR e del Consiglio di Stato che sono intervenute sui provvedimenti adottati, dallo Stato o dagli altri Enti di cui si compone la Repubblica, per contrastare la pandemia di Covid-19. Come troppo spesso accade, per alcuni notisti politici tali pronunce sono state pretesto per stigmatizzare l’interventismo dei giudici sulle decisioni delle Autorità politiche. Ma, a parte la scontata (ma forse non così tanto banale) osservazione che il giudice amministrativo si pronuncia solo se qualcuno propone un ricorso contro una decisione dell’amministrazione pubblica, è interessante verificare come vadano le cose in altri Paesi occidentali. In Germania , per esempio, già nel corso della prima ondata di pandemia ha avuto grande eco l’ordinanza pronunciata il 13 maggio 2020 dal Tribunale Amministrativo Superiore della Bassa Sassonia (Niedersächsischen Oberverwaltungsgerichts) [1] . Un cittadino tedesco, nel rientrare in patria dopo aver trascorso un periodo di tempo in una casa vacanza in Svezia, aveva infatti contestato la legittimità del provvedimento con cui il Ministero degli Affari sociali, della Salute e dell'Uguaglianza della Bassa Sassonia, aveva imposto l’isolamento per 14 giorni a tutti coloro che entrassero nel Land dall’estero. Secondo il Tribunale, che ha sospeso l’efficacia della disposizione, l’ordinanza non aveva un’adeguata base legale, giacché la legge tedesca consente di ordinare l’isolamento, limitando così la libertà personale, solo a coloro per i quali vi sia un concreto sospetto che siano stati contagiati da una malattia infettiva. Dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, grande scalpore ha invece destato la decisione, anch’essa di natura cautelare, assunta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in data 25 novembre 2020 [2] . La Corte, in particolare, ha riformato le pronunce con cui la Corte d’Appello del Secondo Circuito aveva rigettato i distinti ricorsi proposti dalla Diocesi Cattolica di Brooklyn e dall’organizzazione ebraica ortodossa Agudath Israel per ottenere la sospensione del provvedimento con cui il Governatore dello Stato di New York aveva limitato, nelle aree più a rischio dello Stato, la partecipazione alle celebrazione religiose a 10 o 25 persone, a seconda che l’area fosse catalogata come zona rossa o zona arancione. La combattuta decisione, che ha visto allegate ben tre opinioni dissenzienti, ha ritenuto che il provvedimento violasse il Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che assicura la libertà religiosa, in quanto assoggettava i luoghi di culto a una disciplina sfavorevole rispetto ad altri luoghi pubblici. Come si legge nella caustica opinione concorrente del giudice Gorsuch, «in pratica, secondo il Governatore (dello Stato di New York, NDR), potrebbe essere pericoloso andare in chiesa, ma è sempre un’ottima idea scegliere una bottiglia di vino, comprare una bicicletta, passare un pomeriggio con l’agopuntore che esplora i punti distali e i meridiani». È peraltro interessante notare come nella decisione della Corte non si ometta di sottolineare che le chiese della Diocesi di Brooklyn e la sala riunioni di Agudath Israel possano ospitare diverse centinaia di persone, sicché la limitazione contestata difettava del necessario requisito di proporzionalità, posto che provvedimenti recanti questo tipo di restrizioni «must be “narrowly tailored”». Due giorni dopo i giudici supremi degli Stati Uniti, è toccato al Conseil d’État [3] occupare le prime pagine dei giornali del proprio Paese. Il massimo organo di giustizia amministrativa francese ha, con decisione del 27 novembre 2020, parzialmente sospeso l’ordinanza con cui il Presidente della Repubblica aveva autorizzato l’uso della videoconferenza nei procedimenti penali indipendentemente dal consenso delle parti. Ha infatti statuito che le udienze davanti alle Corti d’Assise e alle Corti criminali debbano continuare a svolgersi in presenza. Ciò in quanto «la gravità delle accuse e il ruolo attribuito all’intima convinzione dei magistrati e dei giurati conferisce un ruolo specifico all’oralità del dibattimento», con la conseguenza che le esigenze di salute pubblica debbono cedere il passo al cospetto dei principi fondanti il processo penale e al diritto della parti, imputati o persone offese, di partecipare di persona al processo. La decisione cautelare del Conséil d’ État ha anticipato di qualche settimana la pronuncia del Conseil Constitutionnel del 15 gennaio 2021 [4] , con la quale è stato affermato che, pur essendo ragionevole l’obiettivo del legislatore di contemperare le esigenze di tutela della salute con quelle di continuità dell’esercizio della giurisdizione, l’attribuzione a qualunque giudice penale del potere di disporre l’udienza in videoconferenza, senza una puntuale specificazione dei presupposti dell’esercizio del potere, costituisce una violazione del diritto della difesa. Il giudice delle leggi francese, nondimeno, ha inteso salvaguardare i processi svolti sotto il regime della disciplina dichiarata in contrasto con la Costituzione, stabilendo che le misure organizzative adottate dal giudice penale durante l’efficacia dell’ordinanza presidenziale non possano essere annullate per la sola ragione dell’incostituzionalità della normativa su cui sono fondate. Tornando alle pronunce giurisdizionali in materia più squisitamente amministrativa, va sottolineato che si tratta di decisioni eterogenee, in alcuni casi fonte di aspre polemiche. Ma esse testimoniano che in una società complessa, soprattutto in tempi in cui le decisioni delle Autorità pubbliche assumono un ruolo preponderante in ragione della necessità di contrastare la pandemia di Covid-19, il diritto amministrativo riveste un ruolo centrale, anche in quei Paese, come gli Stati Uniti, nei quali, secondo il luogo comune, il diritto amministrativo è recessivo. Contestualmente, il giudice amministrativo, quale presidio contro le decisioni arbitrarie delle pubbliche amministrazioni, diviene cerniera per assicurare la tenuta democratica degli ordinamenti, verificando che i provvedimenti dell’Autorità abbiano una base legale, siano ragionevoli e proporzionati agli interessi in ballo e agli scopi perseguiti, e non finiscano per ledere ingiustificatamente i diritti fondamentali dei cittadini. [1] OVG Lüneburg 13. Senat, Beschluss vom 11.05.2020, 13 MN 143/20, reperibile al seguente link: http://www.rechtsprechung.niedersachsen.juris.de/jportal/quelle=jlink&docid=MWRE200001695&psml=bsndprod.psml&max=true [2] Roman Catholic Diocese of Brooklyn v. Cuomo, 592 U. S. ____ (2020)), reperibile al seguente link: https://www.supremecourt.gov/opinions/20pdf/20a87_4g15.pdf [3] Conseil d’État, le Juge de référé, ordonnance du 27 novembre 2020, reperibile al seguente link: https://www.conseil-etat.fr/Media/actualites/documents/2020/11-novembre/446712-724-728-736-816-adap-et-autres.pdf [4] Conseil Constitutionnel, décision n° 2020-872 QPC du 15 janvier 2021, reperibile al seguente link: https://www.conseil-constitutionnel.fr/sites/default/files/as/root/bank_mm/decisions/2020872qpc/2020872qpc.pdf .
14 mar, 2021
Tribunale di Roma, II Sezione penale, I Collegio, sentenza n. 6388 del 2020, depositata l’11 dicembre 2020 IL CASO Un Consigliere di Stato viene imputato di concorso in più delitti di corruzione in atti giudiziari, posti in essere attraverso fatti singolarmente riconducibili a episodi di corruzione per l’esercizio della funzione e di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio. In particolare, il magistrato, da un lato, avrebbe agevolato in alcuni giudizi dinanzi al Consiglio di Stato un avvocato e il di lui cliente imprenditore, a fronte di utilità economicamente valutabili in circa 64.000,00 euro per sé e per suo padre; dall’altro, sarebbe intervenuto presso i suoi colleghi e avrebbe partecipato egli stesso a decisioni di giudizi proposti avanti al Consiglio di Stato, in cui erano coinvolte società di interesse di un avvocato suo amico, ricevendo, a fronte del suo apporto istigatorio e decisionale, somme per complessivi € 18.500,00. E’ stato accertato, sotto quest’ultimo profilo, che il Consigliere di Stato avesse ricevuto dazioni di denaro in tre diverse tranches, in cambio di decisioni favorevoli del Giudice amministrativo di appello in altrettanti contenziosi. I TRE CONTENZIOSI “SOSPETTI” DINANZI AL CONSIGLIO DI STATO Il Tribunale di Roma parte da una chiamata di correo dell’avvocato amico del Consigliere di Stato, per vagliare la credibilità non solo dell’accusatore, ma anche l’attendibilità estrinseca delle sue accuse, attraverso una lente di ingrandimento sui contenziosi “incriminati”. Una prima analisi concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva escluso per difetto dei requisiti una società cooperativa dalla gara per l’affidamento di servizi di pulizia. In questo caso, l’imputato era stato relatore ed estensore dell’ordinanza con cui il Consiglio di Stato, in riforma della decisione cautelare del giudice di primo grado, aveva disposto una sollecita fissazione dell’udienza di merito dinanzi al TAR, ai sensi dell’art. 55, comma 10, del c.p.a., e contestualmente accolto la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati. A fronte di tale decisione, che rimetteva in gioco la ricorrente e che “sposava” di fatto uno dei due orientamenti all’epoca esistenti in ordine all’applicazione retroattiva del disposto di cui all’art. 31, comma 8 del d.l. n. 69 del 2013, in materia di dichiarazioni di regolarità contributiva, il Tribunale di Roma ha ritenuto accertato che, dopo una decina di giorni dall’adozione dell’ordinanza di cui era stato relatore ed estensore, l’imputato si fosse fatto vanto della decisione stessa con l’amico avvocato, che aveva partecipato all’udienza in delega, e gli avesse poi chiesto un prestito (mai restituito) di € 8.500,00. La seconda analisi concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva aggiudicato a società diversa dalla società ricorrente la gara per l’affidamento del servizio luce. In questo caso, l’imputato aveva partecipato al Collegio decidente, ma non era stato né relatore né estensore del provvedimento cautelare favorevole alla ricorrente; tale provvedimento era stato basato sul presupposto che l’aggiudicataria avesse inserito indicazioni di carattere economico nell’offerta tecnica, e che per ciò solo avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, coerentemente a quanto disposto dalla lex specialis . La terza analisi, speculare alla seconda, concerne l’esito in appello di un’ordinanza cautelare a mezzo della quale, in primo grado, il TAR per il Lazio aveva respinto la domanda di sospensione incidentale del provvedimento con cui Consip S.p.A. aveva aggiudicato a società diversa dalla società ricorrente la gara per l’affidamento dei servizi di gestione integrata della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. In questo caso, l’imputato non aveva partecipato al Collegio decidente, ma si era “speso dall’interno”, e il provvedimento era stato redatto dallo stesso estensore dell’ordinanza cautelare pronunciata sulla gara per l’affidamento del servizio luce, basandosi nuovamente sul presupposto che l’aggiudicataria avesse inserito indicazioni di carattere economico nell’offerta tecnica, e che per ciò solo avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, coerentemente a quanto disposto dalla lex specialis . In quest’ultimo contenzioso, peraltro, si sarebbe verificata, secondo il Tribunale di Roma, anche una vistosa anomalia processuale, avendo il Consiglio di Stato sospeso (sempre con lo stesso estensore) il dispositivo della sentenza di primo grado con cui il TAR per il Lazio aveva ribadito il suo orientamento sfavorevole alla società ricorrente, nonostante nel frattempo i giudici di primo grado avessero depositato anche le motivazioni della sentenza e l’appellante non avesse ancora impugnato con motivi aggiunti tali motivazioni. In particolare, avrebbe destato “sospetto”, in relazione agli effetti di una condotta di agevolazione in favore dell’appellante da parte dell’imputato, la sospensione in sede cautelare e al “buio” (senza cioè conoscere la motivazione della decisione di merito di primo grado) della convenzione nel frattempo stipulata, sulla base dell’esito favorevole del contenzioso dinanzi al TAR Lazio, tra l’aggiudicataria e la stazione appaltante. A fronte delle decisioni del Consiglio di Stato in questi due giudizi, l’imputato veniva pagato con altri due prestiti dissimulati, facendo valere in un caso (quello in cui faceva parte del collegio decidente) l’espressa richiesta di intervento dell’amico avvocato, e, nell’altro caso, (quello in cui non faceva parte del collegio decidente) un’iniziativa personale, “spontanea” e risolutiva. PROFILI PROCESSUALI E SOSTANZIALI DI RESPONSABILITA’ Il Tribunale ha ritenuto accertata la responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. La chiamata in correità dell’avvocato amico del Consigliere di Stato è risultata intrinsecamente credibile perché sorretta dall’effettiva possibilità dell’accusatore di conoscere i fatti narrati, dall’adeguato grado di conoscenza della materia “incriminata”, dal tipo e dall’intensità dei rapporti intrattenuti con i protagonisti della vicenda e dall’assenza di un movente calunnioso, essendo indifferente a tali fini il fatto di mirare anche alla fruizione di vantaggi (in sede cautelare e di patteggiamento) in funzione della collaborazione prestata. A tale intrinseca credibilità si è affiancato l’accertamento della sussistenza di adeguati riscontri estrinseci (indipendenti e avulsi dalla chiamata in correità), specifici ed individualizzati, quali conferme documentali e storiche, elementi di prova logica e un’altra chiamata in correità, seppure sulla base di dichiarazione de relato . Sotto il profilo sostanziale, il Tribunale ha precisato che, secondo la fattispecie tipica, l’alternativa alla dazione di somme di danaro – in relazione alla ricompensa dell’accordo corruttivo – rifluisce nella nozione di “altra utilità”, che consiste in un qualsiasi vantaggio materiale o morale concretamente attribuito a sé o ad altri; nel caso di specie, può considerarsi in tale concetto la nomina retribuita del padre dell’imputato a presidente di un collegio arbitrale. I giudici di primo grado hanno poi chiarito che è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio; ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto proprio del pubblico ufficiale: se essa è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, risulta indifferente ricevere l’utilità dopo il compimento dell’atto (corruzione susseguente) o prima dell’atto (corruzione antecedente). L’imputato ha realizzato, con le sue plurime condotte, entrambe le fattispecie (integrando a seconda dei casi una condotta contraria ai doveri di ufficio o apparentemente coerente con i doveri di ufficio, ma di per sé viziata dall’essere venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà non solo soggettiva ma anche oggettiva); l’imputato ha altresì realizzato una ipotesi di corruzione in atti giudiziari anche commettendo fatti sussumibili sotto l’ipotesi dell’art. 318 c.p., con il mettersi a disposizione agli interessi dell’ extraneus , e tramite l’asservimento della funzione pubblica ad interessi privati, al di là dell’adozione di atti determinati. In quest’ultimo senso, la posizione del Consigliere di Stato condannato è stata definita dal Tribunale di Roma in termini “parassitari, ossia di vera e propria ricerca di rendita, tipica del funzionario corrotto che può contare (…) sulla stabilità del patto illecito e sull’appartenenza ad una selezione cerchia di beneficiari, condizioni che rendono efficace e sicura la ripartizione di lucrosi profitti nel lungo termine ed a più riprese”. I REATI DI CORRUZIONE E IL RUOLO DEL PUBBLICO UFFICIALE "PRESSO" IL COLLEGIO GIUDICANTE Il delitto descritto dall’art. 319-ter del codice penale consiste in una fattispecie autonoma rispetto ai delitti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., la cui peculiarità è individuabile nell’oggetto del “pactum sceleris”, consistente nel compimento di un fatto corruttivo al fine di favorire o danneggiare una parte in un processo (civile, penale o amministrativo, ma anche, estensivamente, tributario o dinanzi alla Corte dei Conti). Tale elemento costitutivo determina la natura plurioffensiva del reato, idoneo a ledere non solo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività amministrativa – al pari delle altre fattispecie corruttive – ma anche il corretto esercizio delle funzioni giudiziarie. A ciò corrisponde un inasprimento sanzionatorio rispetto alle fattispecie di cui all’art. 318 e 319 c.p., al quale si affianca l’aggravamento della pena per l’ipotesi in cui dal fatto derivi un’ingiusta condanna di natura penale. Ulteriore elemento specializzante è la particolare connotazione soggettiva dell’autore del reato, che deve rivestire necessariamente la qualifica di pubblico ufficiale. Sotto quest’ultimo profilo, occorre precisare che, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, l’individuazione del soggetto agente e la perimetrazione della nozione di pubblico ufficiale richiamata dall’art. 319-ter c.p. devono essere condotte alla luce di una nozione ampia di atti giudiziari, nella quale viene fatto rientrare ogni atto funzionale ad un procedimento giudiziario, che si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una parte del processo. Da tale soluzione ermeneutica discende che la predetta qualifica soggettiva può essere rivestita da tutti quei pubblici ufficiali che si trovino a compiere degli atti, direttamente o indirettamente, idonei ad influire sull’esito di un processo (ad esempio, il teste che deponga nell’ambito di un processo penale o il funzionario di cancelleria). Di regola, peraltro, il pactum sceleris interviene tra un privato extraneus ed un magistrato con funzioni requirenti o giudicanti, il quale in simili ipotesi viene meno ai propri doveri costituzionali di imparzialità e terzietà soggettiva e oggettiva, alterando così la dialettica processuale. La condotta tipica del delitto di corruzione in atti giudiziari viene descritta mediante il rinvio agli artt. 318 e 319 c.p., i quali prevedono e puniscono rispettivamente la corruzione per l’esercizio della funzione e la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio. Il delitto di cui all’art. 318 c.p., riformulato nella sua struttura nel 2012 – e, quanto al trattamento sanzionatorio, nel 2019 – consiste nel ricevere, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o nell’accettarne la promessa per l’esercizio della propria funzione o del proprio potere. Ai fini della consumazione del reato, pertanto, è richiesta la conclusione di un accordo avente ad oggetto la compravendita dell’esercizio delle funzioni o dei poteri di un funzionario pubblico, intervenuto tra un extraneus , che dà o promette denaro o altra utilità, ed un intraneus che riceve tali beni o ne accetta la promessa. In particolare, tale delitto si configura per effetto della violazione del dovere di ricevere indebite remunerazioni per lo svolgimento del munus publicum , prescindendo dal giudizio di conformità o meno ai doveri di ufficio della condotta posta in essere in adempimento dell’accordo corruttivo. In seguito alla novella introdotta con la legge n. 190 del 2012, la commissione dell’illecito è svincolata dal compimento di uno specifico atto di ufficio e il disvalore del fatto discende dall’indebita remunerazione per l’esercizio delle funzioni ossia dall’asservimento della funzione pubblica ad interessi privati e della messa a disposizione retribuita del soggetto pubblico (c.d. messa a libro paga). Quanto alla fattispecie di cui all’art. 319 c.p., il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio consiste nel fatto del pubblico ufficiale che riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa per omettere o ritardare o per avere omesso o ritardato un atto del suo ufficio ovvero per compiere o avere compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio. Anche in questo caso si è in presenza di un accordo tra un intraneus , che riceve o accetta una promessa di denaro o altra utilità, e un extraneus che dà o promette denaro o altra utilità. La principale differenza tra tale delitto e quello di cui all’art. 318 c.p. è ravvisabile nella centralità assunta dal compimento dell’atto, che, a seconda dei casi, può essere un atto dell’ufficio omesso o ritardato o un atto contrario ai doveri di ufficio. In altri termini, il reato di cui all’art. 318 c.p. ha natura di reato di pericolo, e lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi è sussumibile nella previsione di cui all’art. 319 c.p. soltanto se la messa a disposizione della funzione abbia in concreto prodotto il compimento di specifici e individuabili atti contrari ai doveri di ufficio. La linea di confine tra la fattispecie sulla funzione di cui all’art. 318 c.p. e quella di cui all’art. 319 c.p. cade dunque sul grado di determinatezza dell’oggetto dell’accordo corruttivo e comunque dell’atto da compiere; se l’utilità viene corrisposta per garantire atti non determinati né determinabili e quindi generici e futuri favori resta integrata la fattispecie della corruzione per l’esercizio della funzione, ma se sussiste una vera e propria “vendita” della funzione si rientra nell’ipotesi di cui all’art. 319 c.p., qualora venga provato che oggetto del patto corruttivo sia la stessa funzione, che viene integralmente asservita agli interessi del privato. Soltanto con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 319 c.p., poi, ha rilievo la distinzione tra corruzione antecedente – riferibile alle situazioni in cui l’accordo corruttivo si correli ad un atto che il pubblico ufficiale deve ancora compiere – e corruzione susseguente – qualora l’accordo corruttivo si riferisca ad un atto che il pubblico ufficiale ha già compiuto. Nella sfera di applicazione dell’art. 319-ter c.p. rientrano tutte le categorie delittuose previste dalle fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p., ivi comprese anche le ipotesi di corruzione susseguente. Ciò che conta, per la configurabilità del più grave delitto di corruzione in atti giudiziari, è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto dal pubblico ufficiale: se essa è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio. Quanto all’elemento soggettivo, poi, ai fini dell’integrazione dell’illecito previsto dall’art. 319-ter c.p. è necessario che la condotta sia sorretta dal dolo specifico, consistente nel fine di favorire una parte in un processo civile, penale o amministrativo (ma anche tributario o dinanzi alla Corte dei Conti). Qualora un magistrato sia parte di un accordo corruttivo sorretto dall’elemento psicologico sopra citato, il disvalore della condotta è tale da rendere indifferente che l’atto compiuto sia conforme o meno ai doveri di ufficio, andando ad inficiare il metodo con cui si perviene alla decisione, giacché il giudice che riceva da una delle parti denaro o altra utilità, o ne accetti la promessa, rimane inevitabilmente condizionato nei suoi percorsi valutativi, e la soluzione del caso portato al suo esame – pur se formalmente corretta sul piano giuridico – soffre comunque dell’inquinamento metodologico “a monte”. Inoltre, la particolare potenzialità offensiva del fatto è considerata tale da compromettere anche le deliberazioni assunte da un collegio giudicante, sul presupposto che la presenza di un componente privo del requisito dell’imparzialità, perché partecipe ad un accordo corruttivo, inficia, nonostante l’estraneità degli altri componenti all’accordo corruttivo, la validità dell’intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico. Sotto quest’ultimo profilo, una differenza rispetto alla validità del provvedimento giudiziario emanato può essere rinvenuta tra l’ipotesi in cui il corrotto faccia parte del collegio giudicante e l’ipotesi in cui il corrotto non faccia parte del collegio giudicante, ma si attivi “dall’interno” – in quanto magistrato dello stesso Ufficio giudiziario – per favorire una parte del processo. La struttura del reato (reato di pericolo astratto) è tale da consentire l’incriminazione e la condanna del magistrato, anche se questi accetta denaro o promessa di denaro per favorire una decisione alla quale non parteciperà, e a prescindere dal “buon esito” del suo intervento sulla decisione stessa. Se tuttavia il magistrato del collegio decidente che ha subito “pressioni” dal corrotto, pur nella inconsapevolezza dell’esistenza a monte di un accordo corruttivo, si fa influenzare da tali pressioni, non denunciandole nelle competenti sedi o comunque avallando in sede decisoria gli argomenti giuridici a lui “suggeriti”, anche solo sulla base di un rapporto di amicizia e/o stima professionale, la mancata configurazione nella sua condotta del reato di corruzione in atti giudiziari - non sussistendone né l’elemento oggettivo né l’elemento soggettivo – non escluderà la possibile realizzabilità, da parte sua, di una violazione deontologica, in quanto ai magistrati è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, e per tale ragione gli stessi sono tenuti non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò, secondo la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 197 del 2018) “per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”.
02 mar, 2021
Tribunale di Ragusa - Giudice del lavoro, ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 10/02/2021 Il Tribunale di Ragusa, con decisione cautelare adottata nel pieno della campagna vaccinale anti covid-19, ha esaminato il caso di alcune persone che chiedevano l’accertamento del loro asserito diritto ad avere la somministrazione della seconda dose del vaccino prodotto da Pfizer. Secondo i ricorrenti, il richiamo già fissato dall’Azienda sanitaria competente a distanza di 21 giorni dalla somministrazione della prima dose avrebbe dovuto comportare l’obbligo per la struttura sanitaria di procedere al richiamo stesso, senza che potessero considerarsi impeditivi dell’adempimento di tale obbligo provvedimenti nel frattempo adottati dalla Regione Sicilia e volti a specificare, in coerenza con le priorità del piano vaccinale nazionale, chi avesse diritto e chi non avesse diritto alla dose vaccinale, nella prima fase della campagna vaccinale. In particolare, era pacifico che i ricorrenti non rientrassero, in quel dato momento storico, in nessuna delle categorie considerate prioritarie ai fini della vaccinazione e che fossero quindi da considerarsi come beneficiari “abusivi” delle prime dosi a loro somministrate, dosi a cui, secondo le previsioni stabilite nel piano nazionale adottato nel gennaio 2021 con decreto ministeriale, avrebbero dovuto avere accesso altri destinatari. Tuttavia, gli stessi ricorrenti avevano allegato la loro incolpevolezza rispetto alla suddetta contestazione di abusività – avendo appreso informalmente il giorno dell’Epifania dell’esistenza di alcune dosi già scongelate e disponibili presso la struttura sanitaria di riferimento – e qualificato le prestazioni rese nell’ambito del servizio pubblico sanitario come obblighi connessi ad una posizione creditoria che, essendo correlata al “diritto del cittadino alla salute”, non avrebbe mai potuto essere affievolita dal potere autoritativo della pubblica amministrazione. Il Tribunale, in funzione di Giudice del lavoro, ha ricostruito diversamente la pretesa dei ricorrenti. In particolare, è stato affermato che, pur trattandosi della tutela di un diritto soggettivo fondamentale quale è il diritto alla salute, tale causa petendi non radica di per sé la giurisdizione del Giudice ordinario, in quanto “ la categoria dei diritti primari non delimita un’area impenetrabile all’intervento dei pubblici poteri (…) e la natura fondamentale di un diritto soggettivo non è di per sé sufficiente a devolvere la controversia al giudice ordinario quale giudice naturale dei diritti coperti da garanzia costituzionale ”. Nel caso di specie, secondo il Tribunale di Ragusa, si verterebbe in una delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva dei Tribunali amministrativi regionali (ex art. 133, comma 1 lett. c) del codice del processo amministrativo), e non sarebbe condivisibile la tesi secondo cui l’amministrazione, una volta somministrata la prima dose di vaccino, assumerebbe un vero e proprio obbligo di stampo privatistico, consistente nell’effettuare il tempestivo richiamo del farmaco. Al contrario, il contesto pubblicistico in cui si colloca la complessiva condotta dell’amministrazione e la connessione del potere esercitato con le decisioni autoritative e discrezionali in chiave di selezione delle categorie prioritarie e della tempistica di somministrazione costituiscono quel collegamento (anche mediato) con il potere pubblicistico, necessario e sufficiente per fare rientrare una controversia su diritti fondamentali nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo. Il Tribunale si spinge poi a delineare, pur non approfondendone le conseguenze in termini di ricadute sostanziali, la coesistenza tra la posizione di diritto alla salute del richiedente la somministrazione del vaccino e la posizione soggettiva connessa al corretto adempimento da parte dell’amministrazione del servizio pubblico alla stessa affidato. Il Giudice di primo grado distingue tra “ diritto ad ottenere la vaccinazione contro il virus pandemico ” e “ diritto a vedersi somministrato il richiamo del farmaco ”, ponendo poi, implicitamente, un’ulteriore differenziazione tra diritto pieno e incondizionato alla somministrazione della seconda dose, e diritto condizionato al rispetto dell’ordine di priorità nella popolazione, così come stabilito dal piano nazionale. Il punto di tensione tra le due diverse posizioni soggettive resta però bilanciato dal potenziale pregiudizio della salute individuale che derivi dal rifiuto, pur astrattamente legittimo, di operare il richiamo vaccinale. Altro tema interessante è la consistenza della posizione soggettiva attribuita dall’ordinamento al cittadino, a fronte dell’esercizio del potere autoritativo e ampiamente discrezionale del Ministero della Salute di scegliere le modalità e i tempi di vaccinazione, e dei conseguenti provvedimenti attuativi del piano vaccinale adottati dalle Regioni. Occorre distinguere. Se la contestazione afferisce alla scelta dei singoli criteri di priorità, siamo probabilmente in presenza di un interesse legittimo connesso alla più generale organizzazione ministeriale in materia di servizio sanitario pubblico. Se la contestazione afferisce invece, come nel caso di specie, ad una decisione della Regione successiva alla prima somministrazione, è difficile negare alla posizione sostanziale del soggetto che si vede negato il richiamo una posizione di diritto soggettivo, con la conseguenza che il forte restringimento dello spazio di discrezionalità amministrativa derivante dalla diversa situazione di fatto dovrebbe comportare un più serrato vaglio di idoneità tecnica e di corretto perseguimento dell’interesse pubblico nella scelta adottata. Questa ulteriore tematica non è stata peraltro approfondita dal Giudice ordinario, anche e soprattutto in considerazione della sua decisione di declinare la giurisdizione in favore del Giudice amministrativo.
Autore: Paolo Nasini 24 feb, 2021
(Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale dell’11 febbraio 2021, n. 18) Il Tribunale di Bolzano, nell’ambito di un giudizio instaurato dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 95, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (recante “Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile”) [1] , al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente voluto attribuire il solo cognome materno, confermando tale volontà anche nel corso del procedimento dinanzi al giudice a quo , ha rimesso alla Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 262, primo comma, c.c. [2] , nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno. In particolare, la suddetta limitazione si porrebbe in contrasto, secondo il Tribunale di Bolzano, in primo luogo, con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale; sarebbe, inoltre, violato l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza tra donna e uomo, come già rilevato dalla Corte nella sentenza n. 286 del 2016; ancora risulterebbe violato l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, che trovano corrispondenza negli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. La questione di legittimità costituzionale sarebbe ammissibile e rilevante in quanto, da un lato, nonostante la citata pronuncia n. 286 del 2016, la facoltà delle parti di scegliere il solo cognome materno risulta preclusa, non essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata; dall’altro lato, l’accoglimento delle censure prospettate e, quindi, la correzione della norma in parte qua , consentirebbe l’accoglimento del ricorso del P.m. e, quindi, la rettifica del cognome della minore, con l’attribuzione del solo cognome materno, come richiesto da entrambi i genitori. La Corte, nel ritenere ammissibile e rilevante la questione di costituzionalità, sottolinea che ciò che viene chiesto dal giudice a quo è una decisione “additiva” di una specifica ipotesi derogatoria, ritenuta costituzionalmente imposta, volta a riconoscere il paritario rilievo dei genitori nella trasmissione del cognome al figlio. D’altronde, la Corte, ritenute le questioni sollevate dal giudice a quo , relative alla preclusione della facoltà di scelta del solo cognome materno, strettamente connesse alla più ampia questione dell’automatica attribuzione del cognome paterno, ha ritenuto [3] di sollevare d’ufficio davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c., nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu. Ma facciamo un passo indietro. Il cognome [4] è un elemento del “nome” [5] , oggetto di uno specifico diritto sancito dall’art. 6, comma 1, c.c. e tutelato anche dalla Costituzione [6] . In quanto tale, il cognome partecipa di una funzione sostanzialmente ancipite attribuita al “nome”, conferendo al prenome una particolare doppia specificità: pubblicistica, in quanto segno distintivo dell’individuo rispetto agli altri appartenenti alla collettività; privatistica, in quanto fa parte del bagaglio identitario della persona, ciò che questa è per se stessa e nei rapporti con gli altri, elemento quindi, qualificativo della propria identità personale, diritto fondamentale dell’individuo, comprendente anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» [7] . Nonostante la riforma del diritto di famiglia del 1975 e le pronunce della stessa Corte Costituzionale intervenute in materia, è rimasta la regola, anche in parte non scritta, dell’automatica attribuzione del cognome paterno al nuovo nato. Nel caso di figlio nato da genitori coniugati, infatti, non è rinvenibile una puntuale e specifica previsione di legge, ma si ritiene, pacificamente, che la regola dell’automatica trasmissione del patronimico corrisponda ad una norma sottesa al sistema e ricavabile in via ermeneutica [8] . Le disposizioni che, nell’insieme, fanno emergere, quale regola generale, quella dell’attribuzione automatica del patronimico sono: - gli artt. 33 [9] e 34 [10], d.p.r. n. 396 del 2000[11] ; quest’ultimo, in particolare, nel prevedere un divieto d'imposizione al figlio dello stesso prenome del padre, al fine di evitare omonimie, comporta o presuppone, implicitamente, che il cognome dello stesso padre venga trasmesso ai figli; - l' art. 237 c.c.[12] stabiliva che ai fini dei fatti costituivi del possesso di stato dovesse concorrere che la persona abbia sempre portato il cognome del padre; - l' art. 262 c.c. , con riferimento ai – soli – figli nati fuori dal matrimonio, prevede che il figlio assuma il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto; se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre [13] ; - l’ art. 299 c.c . , in materia di adozione, prevede che l’adottato assuma il cognome dell'adottante anteponendolo al proprio; d’altronde, se l'adozione è compiuta da coniugi, l'adottato assume il cognome del marito e, se l'adozione è compiuta da una donna coniugata, l'adottato, che non sia figlio del marito, assume il cognome della famiglia di lei.   L’ordinamento nazionale, sotto altro profilo, viene a doversi confrontare non solo con le disposizioni costituzionali e l’interpretazione evolutiva che attraverso di esse è possibile imprimere al sistema, ma anche con l’ordinamento internazionale e comunitario, la cui efficacia può trovare oggi sempre più penetrazione nel diritto interno attraverso norme costituzionali come l’art. 117 della Costituzione. Al riguardo, l’art. 8, comma 1, CEDU prevede che < >, mentre l’art. 14 sancisce il divieto di discriminazione, nel senso che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella CEDU deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione. La c.d. Carta di Nizza, invece, all’art. 7 (recante “rispetto della vita privata e della vita familiare”) prevede che < >, all’art. 21 (recante “non discriminazione”) prevede che <<è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale>>. Ebbene, la Corte Costituzionale - guardando alle decisioni più recenti [14] - con la pronuncia n. 61 del 2006 [15] è intervenuta sulla questione, sollevata dalla Corte di Cassazione [16] , di legittimità costituzionale della disciplina del cognome, in relazione a una richiesta di attribuzione del matronimico al figlio nato in costanza del matrimonio, respinta dall’ufficiale dello stato civile: pur dichiarando inammissibile la questione proposta, in quanto implicante un intervento esorbitante le sue competenze, ha comunque censurato l’automatismo attributivo del cognome paterno, in quanto anacronistico [17] . D’altronde, il legislatore italiano, nonostante la riforma operata dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 [18] e le modifiche di alcune norme in materia di cognome [19] , non ha preso posizione sulla questione in esame e non ha approntato una disciplina compiuta al riguardo. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo, nel caso dei coniugi "omissis" c. Italia [20] , ha ritenuto che la rigidità del sistema italiano – che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo ad una diversa volontà concordemente espressa dai genitori – costituisca una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando, altresì, una discriminazione ingiustificata tra i genitori, in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU. Si tratterebbe di una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, imporrebbe l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori. Viceversa, la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrificherebbe il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno. Dieci anni dopo la sentenza n. 61 del 2006, a fronte di un caso di rifiuto da parte dell'Ufficiale dello stato civile di acconsentire all'attribuzione al figlio anche del cognome materno, la Corte Costituzionale [21] , ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 237, 262 e 299 c.c. ; degli artt. 72, comma 1, r.d. 9 luglio 1939, n. 1238 (ordinamento dello stato civile), 33 e 34, d.p.r. 3 novembre 2000 , n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell' articolo 2, comma 12, della l. 15 maggio 1997, n. 127 ), nella parte in cui non prevedono la possibilità per i genitori, di comune accordo, di attribuire alla prole “anche” il cognome materno al momento della nascita. La regola dell’attribuzione del cognome paterno determina una violazione dell'art. 2 Cost., il quale riconosce la tutela del diritto all'identità personale, di cui il nome è la massima espressione; sotto altro profilo, con riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., la trasmissione del solo patronimico determina, secondo la Corte, un'evidente violazione del diritto di uguaglianza tra uomo e donna, proprio in considerazione del mutamento della società e del superamento del sistema patriarcale familiare, tale regola non trovando neppure giustificazione nell'esigenza di tutelare l'unità familiare, in considerazione del fatto che tale unità verrebbe maggiormente tutelata riconoscendo una pari dignità morale e giuridica ai coniugi [22] . La Corte costituzionale, nel rimettere avanti a sé una questione ulteriore e di più ampia portata rispetto a quella proposta dal giudice rimettente, parte dal rilievo per cui, nonostante quanto indicato dalla sentenza n. 286 del 2016 citata, nonché dai precedenti arresti dei quali si è dato conto più sopra, il legislatore non ha accolto << gli inviti ad una sollecita rimodulazione della disciplina – in grado di coniugare il trattamento paritario delle posizioni soggettive dei genitori con il diritto all’identità personale del figlio >>. Sicché, a fronte della previsione dell’art. 262, comma 1, c.c. che ancora impone la trasmissione automatica del solo cognome paterno, il mero riconoscimento, come richiesto dal Tribunale di Bolzano, in capo ai genitori della facoltà di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, non impedirebbe, secondo la Corte, che la suddetta regola venga ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi o, comunque, non sia stato legittimamente espresso; in questi casi, verosimilmente più frequenti, dovrebbe dunque essere riconfermata la prevalenza del cognome paterno, ancorché la relativa incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza sia stata da tempo affermata dalla Corte con precedenti decisioni. Secondo il Giudice delle leggi < >. Quindi, posto che «il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite», secondo la Corte sussiste, tra la questione proposta dal giudice a quo e il più radicale problema sollevato dalla Corte stessa, un rapporto di presupposizione e di continenza, per cui la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice rimettente. Non solo, ma la Corte ritiene che, ancorché siano legittimamente prospettabili soluzioni normative differenziate, l’esame di queste specifiche istanze di tutela costituzionale, attinenti a diritti fondamentali, non può essere pretermesso, poiché « l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia ». Quindi, secondo la Corte, la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale sarebbe rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia, il che porterebbe a dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico, che trova espressione nell’art. 262, primo comma, del codice civile. Inoltre, come già rilevato nella sentenza n. 286 del 2016, secondo la Corte, « la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno ». Infine, la Corte ha sottolineato che il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, c.c., attiene anche alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU. Pur nella consapevolezza che il provvedimento della Corte costituzionale si iscrive in un “trend” interpretativo ormai consolidato pressoché a tutti i livelli, interno e internazionale, si ritiene, tuttavia, possibile fare delle osservazioni parzialmente in controtendenza e “fuori dal coro”, specialmente con riguardo alla specifica iniziativa giudiziale in questa sede in esame. Una prima osservazione, infatti, riguarda la sostanziale nota di biasimo, quasi sanzionatoria, con la quale la Corte ha inteso rimproverare il legislatore di non essere adeguatamente intervenuto sulla normativa in materia di cognome. Al riguardo, sebbene una compiuta disciplina in materia sia opportuna, d’altronde, con specifico riguardo alla questione per cui la Corte ha ritenuto di dover procedere d’ufficio, una così impellente necessità di intervenire “scavalcando” il potere legislativo non pare, francamente, sussistere. Ciò a differenza della puntuale – e più ristretta – questione sollevata dal Tribunale di Bolzano, la quale presenta, a parere di chi scrive, tutti i presupposti per essere accolta. Il fatto che il legislatore finora non abbia risolto il problema sollevato dalla Corte è spiegabile non solo in considerazione della difficoltà di aderire ad una delle diverse opzioni di fondo (solo il cognome paterno, solo il cognome materno, tutte i due i cognomi), ma anche perché qualunque sia l’opzione di fondo cui aderire occorrerebbe, in ogni caso, approntare una articolata disciplina applicativa. Al contrario, certamente ingiustificabile pare essere l’inerzia del legislatore con riguardo alla mancata introduzione di una norma che consenta ai genitori, in accordo tra loro, e al figlio, anche minore (qualora in grado di autodeterminarsi, eventualmente rappresentato da curatore speciale), di modificare in qualunque tempo il cognome del figlio, aggiungendo o sostituendo al patronimico il cognome della madre. Già solo questa modifica consentirebbe di ridurre quella rigidità del sistema censurata sia dalla Corte Costituzionale, sia dalla Corte Edu. Ciò premesso, sotto il profilo strettamente processuale, va sottolineato come la Corte abbia, scientemente, deciso di andare “ultra petita”: è forse possibile, infatti, mettere in dubbio che la questione sollevata d’ufficio dal Giudice delle leggi, per quanto si ponga in rapporto di continenza con la censura proposta dal Tribunale di Bolzano, costituisca un necessario “presupposto” per la decisione di quest’ultima. Infatti, il problema sottoposto dal Tribunale di Bolzano, da un lato, concerne una questione diversa e comunque più circoscritta rispetto a quella relativa all’automatica trasmissione del patronimico; dall’altro lato, un’eventuale decisione da parte della Corte nel senso dalla stessa prospettato in relazione all'automatica trasmissione del doppio cognome, non consente di ritenere superata la censura sollevata dal Giudice a quo e soddisfatto l’interesse ad essa sotteso (ovvero consentire l’attribuzione del solo cognome materno in conseguenza dell’accordo dei genitori). In tal senso, quindi, pare di poter dubitare che sia concretamente rilevante la questione sollevata d’ufficio dalla Corte, rispetto alla fattispecie di cui al giudizio di partenza. A questa notazione di carattere “processuale”, può, poi, associarsi una valutazione di natura sostanziale, per vero non slegata dalla prima. Infatti, a fronte di una, quantomeno apparente, possibile forzatura dei poteri officiosi esercitati dalla Corte, si può altresì dubitare che vi sia una così impellente necessità di un intervento in via giudiziale, inevitabilmente, solo parziale, sulla regola di attribuzione automatica del cognome. Una volta salvaguardata la possibilità dei genitori (e del figlio ex post ) di concordemente modificare il cognome, la regola censurata, ancorché avente ad oggetto il solo patronimico, può, a parere di chi scrive, essere tranquillamente salvaguardata valorizzandone la funzione di regola di “chiusura” del sistema, quale necessaria disposizione ultima da applicare in caso di diverso accordo, a tutela non tanto della funzione privatistica del cognome, ma di quella pubblicistica. La scelta dell’attribuzione in via residuale e automatica del solo patronimico (così come del solo matronimico o di entrambi i cognomi), valutata in modo oggettivo, senza, cioè, considerare la radice storica della norma, è niente più che una delle possibili opzioni a disposizione per garantire all’individuo di avere un diretto senso di appartenenza con la famiglia di origine, senza che possa ritenersi esclusa la possibilità per lo stesso, “cammin facendo” [23] , di adeguare il relativo cognome al suo sentire identitario, unendo al patronimico il cognome materno ovvero anche sostituendolo con quest’ultimo. Non può, infatti, ritenersi un dato assoluto o anche solo presuntivo il fatto che il figlio percepisca come elemento identitario necessario il doppio cognome, così come lo stesso, già in età non adulta, potrebbe maturare un senso identitario confliggente e contrario alla identificazione con il matronimico (così come il patronimico). Considerata la questione in questi oggettivi termini, sembra chiaro che le tre opzioni sopra ricordate possono assumere un rilievo equivalente, sempre nella misura in cui, ovviamente, sia garantito “il diverso accordo dei genitori” o la volontà modificativa del figlio. Così posta, quindi, la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte, non solo non appare necessaria e rilevante, ma di fatto presenta dubbi circa la sostanziale fondatezza. Viene meno, poi, in quest’ottica, che prescinde da ed esclude ogni rilievo storico, l’aspetto relativo alla asserita lesione della parità tra i coniugi. D’altronde, a parere dello scrivente, il cognome del figlio non appare proprio essere una fattispecie nella quale possa venire a configurarsi una tale questione. Il diritto al cognome appartiene al figlio e solo in funzione di quest’ultimo e della salvaguardia dell’interesse alla sua identità personale deve essere risolta la problematica in oggetto. In tal senso, non può ritenersi che i coniugi vantino “diritti” sul cognome del figlio, la cui attribuzione, parimenti all’individuazione del prenome, costituisce (o almeno dovrebbe costituire) un atto giuridico posto in essere nel solo interesse del concepito. [1] Ai sensi del quale, <<1. chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento. 2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. 3. L'interessato può comunque richiedere il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale>>. [2] In forza del quale, «se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre». [3] Affermando di non poter < >. [4] Sul tema, senza pretesa di esaustività, R. Favale, Il cognome dei figli e il lungo sonno del legislatore, in Giur. it., 2017, 815; L. Tullio, The Child's Surname in the Light of Italian Constitutional Legality, in Italian Law Journal, 2017, 221 ss.; C. Cicero, Diritto di Famiglia e delle Persone (Il), fasc.1, 2018, 245. C. Favilli, Il cognome tra parità dei genitori ed identità dei figli, in N.g.c.c.., 2017, 818 ss.; Al Mureden, L'attribuzione del cognome tra parità dei genitori e identità personale del figlio, in Fam. dir., 2017, 213 ss.; M. Trimarchi, Il cognome dei figli: un'occasione perduta dalla riforma, in Fam. dir., 2013, 143; M. A. Iannicelli, Il cognome del figlio: brevi note de iure condendo, in Familia, 2017, 29 ss.; S. Niccolai, Il diritto delle figlie a trasmettere il cognome del padre, in Quad. cost., 2014, 453; M. La Torre, Il nome: contrassegno dell'identità̀ personale, in Giust. civ., 2013, 453 ss.; M. C. De Cicco, Cognome e princìpi costituzionali, in I rapporti civilistici nell'interpretazione della corte costituzionale, I, a cura di P. Perlingieri e M. Sesta, Napoli, 2007, 333 ss. [5] Unitamente al c.d. prenome, ai sensi dell’art. 6, comma 2, c.c.. [6] L’art. 22 Cost. prevede che nessuno può essere privato di esso per motivi politici, unitamente alla cittadinanza e alla capacità giuridica. [7] C. Cost., 22 novembre 2013, n.278, in Foro it. 2014, 1, I, 4, con nota di Casaburi. Il cognome è un autonomo segno distintivo dell’identità personale dell’individuo (C. Cost., 23 luglio 1996, n. 297, in Giur. it. 1997, I, 11), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (C. Cost., 24 giugno 2002, n. 268, in Foro it. 2003, I, 2933; nello stesso senso, C. Cost., 11 maggio 2001, n. 120, in Giust. civ., 2001, I, 2317). [8] Si tratta di un complesso eterogeno di disposizioni tra cui gli artt. 237, 262 e 299 c.c., l'art. 72, comma 1, r.d. 9 luglio 1939, n. 1238 e gli artt. 33 e 34, d.p.r. n. 396 del 2000. A sottolineare l’immanenza della regola nel sistema è stata la Corte Costituzionale: si veda C. Cost., 21 dicembre 2016, n. 286, in Corr. giur., 2017, 167 ss., con nota di V. Carbone, Per la Corte costituzionale i figli possono avere anche il cognome materno, se i genitori sono d'accordo; in Familia, 2017, 67 ss., con nota di V. Brizzolari, Il cognome materno in aggiunta a quello paterno: una realtà anche in Italia. [9] Il quale originariamente stabiliva che <<1. Il figlio legittimato ha il cognome del padre, ma egli, se maggiore di età alla data della legittimazione, può scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a sua scelta, quello del genitore che lo ha legittimato. 2. Uguale facoltà di scelta è concessa al figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché al figlio naturale di ignoti riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi. 3. Le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 sono rese all'ufficiale dello stato civile del comune di nascita dal figlio personalmente o con comunicazione scritta. Esse vengono annotate nell'atto di nascita del figlio medesimo>>. A seguito dell’adozione del d.p.r. 30 gennaio 2015, n. 26 (recante Regolamento recante attuazione dell'articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione) la norma in esame è stata modificata, con l’abrogazione del primo comma che precede e con la sostituzione dei suddetti commi secondo e terzo con le seguenti disposizioni: 2. Il figlio maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché il figlio nato fuori del matrimonio, riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi, hanno facoltà di scegliere, entro un anno dal giorno in cui ne vengono a conoscenza, di mantenere il cognome portato precedentemente, se diverso, ovvero di aggiungere o di anteporre ad esso, a loro scelta, quello del genitore. 3. Le dichiarazioni di cui al comma 2 sono rese all'ufficiale dello stato civile del comune di nascita dal figlio personalmente o con comunicazione scritta. Esse vengono annotate nell'atto di nascita del figlio medesimo>>. [10] Ai sensi del quale <<1. È vietato imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi ridicoli o vergognosi. 2. I nomi stranieri che sono imposti ai bambini aventi la cittadinanza italiana devono essere espressi in lettere dell'alfabeto italiano, con la estensione alle lettere: J, K, X, Y, W e, dove possibile, anche con i segni diacritici propri dell'alfabeto della lingua di origine del nome. 3. Ai figli di cui non sono conosciuti i genitori non possono essere imposti nomi o cognomi che facciano intendere l'origine naturale, o cognomi di importanza storica o appartenenti a famiglie particolarmente conosciute nel luogo in cui l'atto di nascita è formato. 4. Se il dichiarante intende dare al bambino un nome in violazione del divieto stabilito nel comma 1 o in violazione delle indicazioni del comma 2, l'ufficiale dello stato civile lo avverte del divieto, e, se il dichiarante persiste nella sua determinazione, riceve la dichiarazione, forma l'atto di nascita e, informandone il dichiarante, ne dà immediatamente notizia al procuratore della Repubblica ai fini del promovimento del giudizio di rettificazione>>. [11] Come già l'art. 72, r.d. n. 1238 del 1939, ai sensi del quale <<è vietato di imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi, e per i figli di cui non sono conosciuti i genitori anche cognomi, ridicoli o vergognosi o contrari all'ordine pubblico, al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono indicazioni di località o in generale denominazioni geografiche e, se si tratta di bambino avente la cittadinanza italiana, anche nomi stranieri>>. La norma è stata abrogata dall’art. 110 del d.p.r. n. 396 del 2000. [12] Prima della riforma della filiazione, con d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154. L’art. 237 c.c. vigente prevede che <<1. Il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere. 2. In ogni caso devono concorrere i seguenti fatti: 3. che il genitore abbia trattato la persona come figlio ed abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, all'educazione e al collocamento di essa. 4. che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; 5. che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia>>. [13] La norma non prevedeva, in origine, la possibilità per il figlio, non riconosciuto alla nascita da nessuno dei due genitori e al quale era stato, quindi, attribuito il cognome dall’ufficiale dello stato civile, di mantenere questo cognome nonostante il successivo riconoscimento operato da uno o entrambi i genitori, soprattutto quando ciò avvenisse in età adulta. La Corte Costituzionale, con sentenza 23 luglio 1996, n. 297, in Fam. dir., 1996, 412, con nota di Carbone, è intervenuta dichiarando incostituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo «nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale». L'art. 27, comma 1, lett. d), d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto un terzo comma alla disposizione che precede prevedendo che se la filiazione nei confronti del genitore è stata accertata o riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte dell'ufficiale dello stato civile, si applica il primo e il secondo comma del presente articolo; il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi. [14] Già con le ordinanze C. Cost., 19 maggio 1988, n. 586, in Giur. cost., 1988, I, 4, e 11 febbraio 1988, n. 176, in Foro it. 1988, I, 1811, infatti, la Corte aveva evidenziato la possibilità di introdurre sistemi diversi di determinazione del nome, egualmente idonei a salvaguardare l’unità della famiglia, senza comprimere l’eguaglianza e l’autonomia dei genitori. [15] C. Cost., 6 febbraio 2006, n. 61, in N.g.c.c., 2007, I, 30 ss.; analogamente, C. Cost., 27 aprile 2007, n. 145, in Giur. it., 2008, 585. [16] Cass., ord., 17 luglio 2004 n. 13298, in Fam. dir., 2004, 457, con nota di V. Carbone, Quale futuro per il cognome?; v. altresì, G. Grisi, L'aporia della norma che impone il patronimico, in Eur. dir. priv., 2010, 666 ss. [17] In quanto < >. [18] Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’art. 2, l. 10 dicembre 2012, n. 219, con il quale si è proceduto ad una equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio. [19] Con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88, d.p.r. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.p.r. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127). [20] Corte Edu, 7 gennaio 2014, ric. 77/07, in N.g.c.c., 2014, I, 510, con nota di S. Winkler, Sull'attribuzione del cognome paterno nella recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo; in Dir. fam. pers., 2014, 537, con nota di M. Alcuri, L'attribuzione del cognome paterno al vaglio della Corte di Strasburgo. Si vedano anche V. Carbone, La disciplina italiana del cognome dei figli nati dal matrimonio, in Fam. dir., 2014, 212 s.; V. Corzani, L'attribuzione del cognome materno di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo, in Giur. it., 2014, 2670 s.; G. Dolso, La questione del cognome familiare tra Corte costituzionale e Corte europea, in Giur. cost., 2014, 738 s.; L. Mura, Il ritardo italiano nell'adattamento alla sentenza della Corte EDU n. 77/07 sulla trasmissione del cognome materno, in Ordine int. e dir. umani, 2015, 650 s.; S. Niccolai, Il diritto delle figlie a trasmettere il cognome del padre: il caso Cusan e Fazzo c. Italia, in Quad. cost., 2014, n. 2, 453 s.; C. Pitea, Trasmissione del cognome e parità di genere: sulla sentenza “Cusan e Fazzo c. Italia” e sulle prospettive della sua esecuzione nell'ordinamento italiano, in Dir. umani e dir. int., 2014, 225 s.; S. Stefanelli, Illegittimità dell'obbligo del cognome paterno e prospettive di riforma, in Fam. dir., 2014, 221 s. [21] C. Cost. 21 dicembre 2016 n. 286, cit.. La questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262 e 299 c.c. , nonché dell' art. 72, r.d. n. 1238 del 1939 e degli artt. 33 e 34, d.p.r. n. 396 del 2000 , nella parte in cui prevede «l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori», era stata sollevata dalla Corte d'appello di Genova, con ordinanza emessa il 28 novembre 2013, in relazione agli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117 Cost. , con riferimento all'art. 16, comma 1, lett. g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, poi ratificata e resa esecutiva con la l. n. 132 del 14 marzo 1985 . [22] Si vedano, in tema, P. Schlesinger, L'unità della famiglia, in Studi in onore di Santoro Passarelli, IV, Napoli, 1972, 439 ss.; O.A. Cozzi, I d.d.l. sul cognome del coniuge e dei figli tra eguaglianza e unità familiaree, in N.g.c.c., 2010, 455; M. Dossetti, La disciplina del nome nella famiglia legittima ed il suo rapporto con il principio di eguaglianza tra i coniugi: la giurisprudenza italiana, in Diritto al nome e all'identità̀ personale nell'ordinamento europeo, a cura di C. Honorati, ,Milano, 2010, 34. [23] O per i suoi genitori anche fin dall’inizio.
Autore: Nicola Fenicia 22 feb, 2021
T.A.R. Lazio, sez. I, 16 febbraio 2021, n. 1866 IL CASO Con la sentenza in commento il T.A.R. del Lazio ha annullato la deliberazione del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura del 4 marzo 2020, con la quale, in esito al giudizio comparativo effettuato con un altro candidato, è stato nominato il nuovo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Tale sentenza, oggetto d’interesse anche da parte della cronaca giornalistica, porta alla ribalta il tema del sindacato sulla discrezionalità che caratterizza gli atti inerenti al conferimento di incarichi direttivi da parte degli organi di autogoverno delle magistrature, e di quella ordinaria in particolare. Si tratta di questione non nuova, se si pensa che già agli inizi degli anni “60 si dibatteva in dottrina e in giurisprudenza in ordine alla stessa assoggettabilità degli atti del CSM al sindacato giurisdizionale amministrativo. Il dubbio nasceva dalla considerazione della natura peculiare del CSM: organo di rilevanza costituzionale, presieduto dal Capo dello Stato in qualità di potere "neutro" e di garante della Costituzione; organo estraneo all’apparato amministrativo, cioè non organicamente inquadrato nel potere esecutivo, ed avente la funzione di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, funzione così delicata da esigere la sua sottrazione ad ogni interferenza, non solo del potere esecutivo, ma anche del potere giurisdizionale. Tuttavia, ha poi prevalso la considerazione della qualità di organo della pubblica amministrazione rivestita dal CSM, e della funzione sostanzialmente amministrativa dallo stesso svolta, con atti incidenti sulla carriera del magistrati (trasferimenti, stato giuridico-economico, conferimenti di incarichi…). E, d’altro canto, non poteva essere disconosciuto l’aspetto dell’indipendenza interna dei magistrati, cioè della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza del singolo magistrato anche rispetto agli atti dell’organo di autogoverno, profilo evincibile dall’art. 107, 1° comma, della Costituzione, secondo cui: ” I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso ”. Oggi, quantomeno a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 44 del 1968, è indubbio che gli atti del CSM che incidono sullo stato dei magistrati siano provvedimenti amministrativi sottoposti al sindacato del giudice amministrativo, quale giudice deputato alla tutela degli interessi legittimi, e che anche nei confronti di tali atti sia necessario assicurare la garanzia generale di tutela giurisdizionale posta dall'art. 24 della Costituzione. Il problema attuale è invece quello dell’estensione del sindacato giurisdizionale. Le delibere del CSM in tema di conferimento di funzioni direttive - al di là di elementi specifici, quali ad esempio, esperienza nel settore di riferimento (civile o penale, etc.) precedente esperienza direttiva o organizzativa, anzianità di servizio, sono espressione dell’esercizio di un’ampia discrezionalità, dovendosi scegliere il magistrato più adatto “per attitudini e merito”, a ricoprire un determinato incarico. Si tratta quindi di atti, quanto a grado di discrezionalità, quantomeno al confine con quelli di “alta amministrazione”. Si veda, per il riconoscimento di tale qualifica, Consiglio di Stato, Sezione IV, 10 luglio 2007, n. 3893: “ La natura giuridica di atto di alta amministrazione da riconoscere alla delibera per il conferimento dell'ufficio di primo presidente della corte di cassazione, attraverso la quale il consiglio superiore della magistratura esercita un elevatissimo potere discrezionale che non si esaurisce nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge, limita e attenua, ma non esclude, il sindacato giurisdizionale sull'esercizio di detto potere discrezionale, circoscrivendolo all'accertamento estrinseco della sua legittimità, cioè al riscontro dell'esistenza dei presupposti e alla congruità della motivazione nonché all'esistenza del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusioni ” Il giudizio effettuato dal CSM è un giudizio sintetico e unitario, cioè non analiticamente rivolto a giustificare la prevalenza di ogni singolo parametro, ed è di tipo comparativo. Le ragioni alla base della scelta di un candidato piuttosto che dell’altro, devono essere comprensibili e devono fondarsi su elementi di fatto certi e frutto di adeguata istruttoria. La motivazione della delibera deve dunque essere congrua rispetto agli elementi utilizzati e completa, dovendo essere presi in considerazione tutti gli elementi valutativi richiesti dalla disciplina normativa. Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale confermato dalla sentenza in commento “nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, il CSM gode di un apprezzamento che è sindacabile in sede di legittimità solo se inficiato da irragionevolezza, omissione o traviamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 7.1.20, n. 71; 27.6.18, n. 3944; 11.12.17, n. 5828; 16.10.17, n. 4786); resta dunque preclusa al sindacato giurisdizionale solo la valutazione dell’”opportunità o convenienza” dell’atto dell’organo di governo autonomo, assegnando la legge, infatti, al CSM un margine di apprezzamento particolarmente ampio ed il sindacato deve restare parametrico della valutazione degli elementi di fatto compiuta dall’amministrazione. Ma, al contempo, si deve assicurare la puntuale ed effettiva verifica del corretto e completo apprezzamento dei presupposti di fatto costituenti il quadro conoscitivo posto a base della valutazione, la coerenza tra gli elementi valutati e le conclusioni a cui è pervenuta la deliberazione, la logicità della valutazione, l’effettività della comparazione tra i candidati, e dunque, in definitiva, la sufficienza della motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 18.6.18, n. 3716 e 11.2.16, n. 607). Se i provvedimenti del CSM non richiedono una motivazione particolarmente diffusa, il loro percorso formativo deve tuttavia esternare l’essenziale apprezzamento tecnico e questo va reso quanto più possibile manifesto, sì che le ragioni della scelta risultino sufficientemente conoscibili e valutabili da chiunque, anzitutto dai magistrati coinvolti. In questa prospettiva, risulta essenziale la motivazione sulle attitudini, con i relativi indicatori dei vari candidati, perché si deve dar conto delle ragioni che giustificano una valutazione di maggiore capacità professionale e che conducono a preferire un candidato rispetto agli altri (Cons. Stato, Sez. V, 19.5.20, n. 3171). ASPETTI PROBLEMATICI E RIFLESSIONI Nel caso esaminato dal T.A.R. del Lazio con la sentenza in commento, e come spesso accade, il confronto è avvenuto fra magistrati praticamente di pari valore e di pari esperienza, dunque dal profilo professionale quasi equivalente. Cionondimeno, anche in questi casi la scelta finale non può sfuggire all’obbligo di motivazione, che non può ritenersi per tali ragioni attenuato, rinvenendosi, anzi, proprio in tali evenienze, l’esigenza che il profilo decisivo della prevalenza dell’uno rispetto all’altro candidato venga positivamente evidenziato e sia adeguatamente percepibile. D’altro canto, non può sottacersi che, almeno nel caso della nomina di una così alta carica come quella del capo della Procura di Roma, il Consiglio Superiore della Magistratura eserciti un potere discrezionale di eccezionale ampiezza, che non può realisticamente esaurirsi nel mero riscontro da parte dei singoli candidati dei requisiti prescritti dalla legge, ma che importa articolate, delicate e talvolta addirittura sfumate valutazioni sulla stessa personalità dei candidati, sulle loro capacità organizzative, sul loro prestigio (e sul prestigio che eventualmente hanno già conferito agli uffici precedentemente ricoperti e che astrattamente sono in grado di assicurare a quello da ricoprire), ed ancora sulla opportunità o meno di nominare un magistrato che possa assicurare “continuità politico-giudiziaria” nella gestione della Procura rispetto al suo predecessore. E’ indiscutibile che, in disparte dalle ragioni di politica associativa interna alla magistratura, che ovviamente non dovrebbero in alcun modo orientare tali valutazioni, si tratta di elementi che difficilmente possono essere esplicitati in una motivazione e che però, legittimamente e fisiologicamente, contribuiscono a determinare la scelta finale e che potrebbero e forse dovrebbero limitare il sindacato giurisdizionale, pena un travalicamento della sfera del merito amministrativo costituzionalmente attribuita al CSM. Ebbene, nel caso affrontato dal T.A.R. del Lazio, il profilo fondamentale che, in maniera esplicita, ha determinato la decisione finale del CSM, è stato quello della conoscenza specifica, da parte del candidato prescelto, della criminalità del territorio di riferimento, ovvero della specificità del territorio e della malavita romana, definita come un “unicum” in Italia perché facente capo a situazioni spesso ambigue in uno sfondo caratterizzato da sedi istituzionali di vario tipo, da ambasciate, dalla Città del Vaticano e dalla presenza delle mafie tradizionali e da “nuove mafie”. A tal proposito, si legge nella motivazione della sentenza che “ se è stata la raffinata conoscenza delle mafie tradizionali che ha consentito al controinteressato di cogliere e sviluppare processualmente l’originalità della situazione peculiare di Roma, non si comprende come tale capacità non poteva essere riconosciuta anche al ricorrente, che certamente – per quanto affermato nella stessa motivazione – poteva vantare una robustissima conoscenza delle mafie tradizionali (tra tutte “Cosa Nostra” )”. In particolare, secondo il Giudice amministrativo di primo grado, “ non è dato comprendere perché, se per il controinteressato la raffinata conoscenza delle mafie tradizionali (in specie “Cosa Nostra” e “'ndrangheta”) gli ha consentito di cogliere e sviluppare sul piano processuale gli elementi di continuità e di originalità della situazione laziale e di quella peculiare della città di Roma ” la riconosciuta conoscenza “eccezionale” dell’attività di Cosa Nostra da parte dell’altro concorrente alla carica non avrebbe potuto consentire anche a lui di “cogliere e sviluppare” , come Procuratore, e presumibilmente in poco tempo, “ l’originalità della realtà criminale laziale. Se fosse il criterio – non del radicamento territoriale – ma della “originalità territoriale”, soprattutto per quando riguarda grandi realtà metropolitane, a guidare quindi la scelta del CSM, ne conseguirebbe vantaggio soltanto chi, anche solo per pochi anni, abbia avuto modo di sviluppare “in loco” le sue esperienze investigative, e tale vantaggio sarebbe quasi incolmabile a parità di “curriculum” attitudinale e “di merito”; ciò però non è previsto né nel d.lgs. n. 160/06 né nel richiamato T.U. E’ chiaro, infatti, che ogni realtà metropolitana può “vantare” una peculiare struttura criminale in relazione allo sfondo di riferimento (ad esempio, a Milano può invocarsi a tali fini la presenza di grandi gruppi industriali, a Genova quella di una realtà portuale e così via) sicché ogni magistrato già con incarichi semidirettivi in tale realtà potrebbe avvantaggiarsi nell’attribuzione di un incarico direttivo nel medesimo contesto, violando così il riconosciuto carattere “nazionale” della procedura di affidamento di incarichi direttivi e semidirettivi. In sostanza, l’apprezzamento in concreto del “merito” e delle “attitudini organizzative e dirigenziali” deve essere fatta, per gli uffici di grandi dimensioni, alla stregua dei risultati organizzativi e gestionali già conseguiti e non sulla base della conoscenza della realtà criminale specifica che caratterizza lo sfondo geografico di riferimento ”. Prescindendo dall’analisi del variegato quadro normativo di riferimento, costituito soprattutto da circolari, criteri, norme interne, quel che sembra emergere ad una prima lettura è che la sentenza si muove proprio sulla sottile linea di demarcazione con l'ambito del merito valutativo istituzionalmente riservato al CSM. Pare infatti non agevole far transitare sul piano della legittimità l’aver valutato il profilo attitudinale dei candidati anche sulla base della conoscenza della realtà criminale specifica che caratterizza il territorio della Procura oggetto di incarico, che può essere un criterio, magari atipico e opinabile, ma non del tutto irragionevole di valorizzazione delle capacità attitudinali a rivestire quel particolare tipo di incarico. Il caso esaminato rende comunque lampante quanto sia complesso e delicato giudicare sugli atti degli organi di autogoverno, e come al Giudice amministrativo, al quale sono assegnati poteri incisivi, spetti fare esercizio, con equilibrio e saggezza, di self-restraint , nella valutazione, con riferimento al caso concreto, della discrezionalità riconosciuta al CSM. Non si può fare a meno di considerare, poi, di come si tratti di una vicenda tutta tra magistrati, a partire dai componenti del CSM, che valutano altri magistrati, per finire ai giudici del T.A.R. e del Consiglio di Stato, che successivamente giudicano degli atti del CSM. Il cortocircuito è ancora più evidente e la situazione è ancora più delicata quando si tratta di sindacare, attraverso quella che viene denominata “giurisdizione domestica”, gli atti dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa; ma finché non venga istituito un Tribunale ad hoc , ammesso che la soluzione sia percorribile, deve avere prevalenza l’esigenza di garantire al singolo magistrato il proprio diritto di difesa e la propria indipendenza interna.
Autore: relazione tratta dal seminario "Vaccinazione e Pandemia" 18 feb, 2021
L'emergenza epidemiologica ha operato una tensione sulle strutture e sulle competenze pubbliche che ha messo a dura prova il nostro ordinamento giuridico. Stato, Regioni e Comuni avrebbero dovuto necessariamente agire in sintonia per rispondere alle esigenze del cittadino sul territorio, perché le strutture della pubblica amministrazione più vicine e responsabili nell'immediato, nell'urgenza, rispetto a quella che possiamo definire una "guerra invisibile e di quartiere", risultano il frutto di una stratificazione di poteri e competenze. La parte esecutiva, amministrativa della macchina pubblica si è dovuta necessariamente confrontare con due esigenze fondamentali, connesse con altrettanti obiettivi decisivi: a) il contenimento della diffusione del virus; b) la protezione attiva della popolazione dalla malattia. Il contenimento afferisce all'attività di tracciamento e isolamento dei focolai, e da noi è sostanzialmente fallito, sia nella prima che nella seconda fase, seppure per motivi diversi. Nella prima fase c’è stata impreparazione, confusione decisionale e scarsità di mezzi (in particolare, dei dispositivi di protezione e di terapie intensive), nella seconda è mancata la capacità di preparare la collettività, tramite interventi strutturali mirati, alla fase di convivenza con il virus. La protezione dalla malattia è più strettamente collegata all'efficienza delle strutture sanitarie nell'operare diagnosi, cura e prevenzione della malattia stessa. Ma le strutture sanitarie lavorano con gli strumenti di cura a loro affidati dalla scienza medica e nell'organizzazione complessiva che si dà la macchina pubblica. L'organizzazione dell'amministrazione/i competente/i, ivi compreso l'eventuale potere coercitivo ad essa connesso, si basa su regole di principio e di dettaglio che scandiscono tempi e modi di funzionamento della macchina pubblica. Ma quali sono gli strumenti normativi - cioè le fonti da cui derivano queste regole volte a disciplinare l'emergenza epidemiologica - nel nostro ordinamento giuridico? Dobbiamo ovviamente partire dalle fonti che si pongono al più alto livello gerarchico, e cioè le norme costituzionali. Alla base di ogni tipo di intervento del potere amministrativo c’è innanzitutto il principio di legalità, previsto, seppure con formula involuta, dall’art. 97, comma 2 della Costituzione (“ I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione ”). Ma la norma fondamentale che pare regolare il riparto di competenze e fondare il potere di organizzazione in caso di pandemia è l’art. 117, comma 2, lett. q) della Costituzione, secondo cui lo Stato ha legislazione esclusiva anche nella materia delle “dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale”. La profilassi internazionale, nello specifico, è una materia che di per sé attrae, in astratto, la competenza sull’intera disciplina emergenziale, riservandola allo Stato centrale, come ha di recente affermato anche la Corte costituzionale nell’ordinanza n. 4 del 2021 con cui ha sospeso la legge della Regione Valle d’Aosta n. 11 del 2020, “rea” di avere adottato delle disposizioni più “aperturiste” rispetto alla normativa nazionale. D’altra parte, anche scendendo al livello della competenza legislativa concorrente (quale è quella in materia di tutela della salute), dove pure la potestà regolamentare spetterebbe alle Regioni, è innegabile che lo Stato, quando esercita una competenza, può realizzare a cascata il completamento della disciplina anche con atti amministrativi necessari ad assicurare l’esecuzione sul territorio nazionale, in condizioni di omogeneità, della disciplina stessa. Secondo la Corte costituzionale, ad esempio, nell’ambito della vaccinazione di massa, “ragioni logiche, prima che giuridiche, rendono necessario un intervento del legislatore statale e le Regioni sono vincolate a rispettare ogni previsione contenuta nella normativa statale, incluse quelle che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, per la finalità perseguita si pongono in rapporto di coessenzialità e necessaria integrazione con i principi di settore” (così la sentenza n. 5 del 2018 sul decreto legge n. 73 del 2017). Quanto infine all’esercizio delle funzioni amministrative, è lo stesso principio di sussidiarietà verticale stabilito dall’art. 118 della Costituzione a depotenziare la generale competenza “locale”, più prossima al cittadino, quando sia necessario e “adeguato” assicurarne l’esercizio unitario. Passando alle fonti sub-costituzionali, occorre innanzitutto distinguere tra legislazione ordinaria studiata per fronteggiare situazioni straordinarie di necessità e urgenza e legislazione emergenziale. Tutti e due questi tipi di legislazione presuppongono che, a fronte di circostanze imprevedibili e anomale, le risposte ordinamentali tipiche o già tipizzate possono non essere adeguate, e dunque occorre lasciare un maggiore spazio di discrezionalità amministrativa e tecnica al potere esecutivo. Quanto alla normativa ordinaria, l’art. 32 della L. n. 833 del 1978 stabilisce che il Ministro della Salute può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più Regioni. Nelle medesime materie (igiene e sanità pubblica) sono emesse dal Presidente della Giunta regionale o dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla Regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni e al territorio comunale. Sono in ogni caso fatti salvi i poteri degli organi dello Stato (quali ad esempio le Prefetture) preposti alla tutela dell'ordine pubblico. Quanto alla normativa “emergenziale”, la risposta del nostro ordinamento giuridico dinanzi a un evento straordinario quale quello pandemico è stata scandita secondo 'fasi' diverse. In un primissimo momento, l'epidemia è stata affrontata quale emergenza di protezione civile, secondo la strumentazione giuridica offerta dal Codice di protezione civile (decreto legislativo n. 1 del 2018). Quest'ultimo definisce una concatenazione di atti giuridici - deliberazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei ministri, per un lasso temporale determinato (non superiore a dodici mesi, prorogabile per non più di ulteriori dodici mesi); ordinanze del Presidente del Consiglio; ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile - commisurata a fenomeni (come terremoti e disastri naturali) tali da poter sì recare limitazioni di diritti individuali (come il divieto di ingresso e dimora in zone o edifici pericolanti), ma non così estese quali le restrizioni imposte dall'emergenza da Covid-19. Al contempo, vi è stata l'emissione di ordinanze di carattere contingibile e urgente da parte del Ministero della salute ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 833 del 1978. A causa della pervasività e della persistenza dell'epidemia, e dell'incidenza sui diritti di libertà che essa importa per preservare la salute individuale e collettiva, si è aggiunto poi il ricorso allo strumento legislativo straordinario e ai famigerati DPCM. Si è così avviata una complessa successione di decreti-legge e decreti tout court . Se alcuni decreti-legge risultano prevalentemente rivolti all'adozione di puntuali disposizioni per fronteggiare l'emergenza sanitaria e socio-economica, altri sono stati volti altresì, o soprattutto, a definire una cornice di regolamentazione giuridica per l'adozione delle misure. Tali sono da considerare il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e, in maggior misura, il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020. Quest’ultimo decreto ha segnato un cambio di passo, rispetto ad un sistema 'duale' nella gestione delle emergenze (sistema di protezione civile, da un lato, e ordinanze ex legge n. 833 del 1978, dall'altro) che il decreto-legge n. 6 ancor manteneva, dal momento che esso elencava misure (tendenzialmente quelle già contemplate nell'ordinanza del Ministero della salute del 21 febbraio 2021) a mero titolo esemplificativo, demandando alle autorità competenti l’adozione di ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica, e lasciando ampia discrezionalità ai d.P.C.M. Il decreto-legge n. 19 ha proceduto di contro ad una tipizzazione delle misure per fronteggiare l'emergenza, maggiormente definendo inoltre il rapporto tra Stato e Regioni, con un coordinamento in capo al Presidente del Consiglio. In questo impianto, il ruolo delle Regioni risultava circoscritto alla introduzione di misure ulteriormente restrittive, per far fronte all'emergenza epidemiologica innanzi a situazioni territoriali tali da implicare un aggravamento del rischio sanitario. Alle misure delle Regioni era preclusa ogni incisione sulle attività produttive (cfr. articolo 3, comma 1 del decreto-legge n. 19 del 2020). Ed il perimetro dell’intervento regionale in materia risultava circoscritto dalla avocazione in sussidiarietà allo Stato di funzioni amministrative, nonché legislative, per fronteggiare un'emergenza sanitaria involgente profilassi internazionale (cfr. la sentenza n. 841 del 2020 resa dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sul ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio avverso l'ordinanza 29 aprile 2020, n. 37 del Presidente di quella regione). Rispetto a tale organizzazione ordinamentale della risposta all'epidemia, ha segnato un'evoluzione il decreto-legge n. 33 del 16 maggio 2020. Esso ha da un lato stabilito un progressivo allentamento di divieti e vincoli calibrati sulla fase più acuta dell'emergenza, dall'altro ha ammesso un'incidenza regolatoria regionale sulle "attività economiche, produttive e sociali" (come recita il suo articolo 1, comma 14). La risposta all'emergenza epidemiologica si è aperta così ad una maggiore articolazione, nel concorso tra Stato e Regioni, circa l'adozione delle misure per fronteggiare l'emergenza epidemiologica. Il decreto-legge n. 33 ha inteso avviare quella che nel lessico corrente era definita come la 'fase due' della vicenda e gestione dell'epidemia. A seguire, il decreto-legge 30 luglio 2020, n. 83 ha inciso quasi esclusivamente sulla modulazione temporale dell'efficacia delle misure fin lì adottate. In seguito è giunto il decreto-legge n. 125 del 7 ottobre 2020, in una congiuntura in cui l'andamento epidemiologico mostrava i segni di una significativa ripresa della fase critica. Il decreto-legge n. 125 ha introdotto la previsione di un 'obbligo di mascherina', nonché una declinazione restrittiva (o ampliativa, ma solo a determinate condizioni, indicate con decreto del Ministero della salute) delle misure derogatorie che le Regioni possano introdurre onde garantire lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali. E’ nato così il sistema delle “zone” o “colori” che dir si voglia. Successivamente, è intervenuta l'adozione di misure intese come contenitive di momenti relazionali e possibili occasioni di trasmissione del contagio, nel ricorrere delle festività natalizie e di fine anno, fino al 6 gennaio (decreti-legge n. 158 e n. 172 del 2020, il secondo dei quali ha altresì disposto in ordine a contributi a fondo perduto da destinare all'attività dei servizi di ristorazione). A seguire, il decreto-legge n. 1 del 2021 ha prorogato misure restrittive della circolazione per il periodo 7-15 gennaio 2021, nonché relative alla classificazione degli scenari di rischio. Inoltre, ha posto previsioni circa la progressiva ripresa dell'attività scolastica in presenza, la manifestazione del consenso al trattamento sanitario del vaccino anti Covid-19 per i soggetti incapaci ricoverati presso strutture sanitarie assistite, ed ancora la concessione di un contributo a fondo perduto ai soggetti titolari di partita IVA che svolgano attività prevalente nei settori dei servizi di ristorazione. Infine, è intervenuto il decreto-legge n. 2 del 14 gennaio 2021, che ha disposto la proroga dei termini di efficacia delle restrizioni già vigenti e ha introdotto, all’art. 3, disposizioni sull'istituzione di una piattaforma informativa nazionale, predisposta e gestita da parte del Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica COVID-19. Tale piattaforma è destinata, in primo luogo, ad agevolare le attività di distribuzione sul territorio nazionale delle dosi vaccinali, dei dispositivi e degli altri materiali di supporto alla somministrazione, e il relativo tracciamento; in secondo luogo, svolge, in regime di sussidiarietà, qualora il sistema informativo vaccinale di una regione o di una provincia autonoma non risulti adeguato e su istanza del medesimo ente, le operazioni di prenotazione delle vaccinazioni, di registrazione delle somministrazioni dei vaccini e di certificazione delle stesse, nonché le operazioni di trasmissione dei dati al Ministero della salute. Si tratta di una disposizione complementare alla disciplina della somministrazione dei vaccini, che si è nel frattempo “irrobustita” dopo avere trovato, inizialmente, risposte molto deboli da parte dell’ordinamento, probabilmente anche in conseguenza delle incertezze relative ai tempi di approvazione e messa in commercio dei primi vaccini oggetto di trattativa di acquisto da parte dell’Unione europea. In particolare, la disciplina dei sistemi informativi funzionali all'implementazione del piano strategico dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 (adottato con D.M. del 2 gennaio 2021, sulla base di quanto disposto dalla legge di bilancio per il 2021) è oggi collegata ad uno schema di indirizzo finalmente operativo e che è stato aggiornato recentemente dalla nota con cui il Ministero della Salute, in data 8 febbraio 2021, ha stabilito le “priorità” per la seconda fase. L’obiettivo della campagna di vaccinazione di massa è quello del raggiungimento dell’immunità di gregge. Gli strumenti per il raggiungimento di tale obiettivo sono due, l’efficacia dei singoli vaccini e la velocità della campagna vaccinale. Quanto al primo (efficacia della copertura vaccinale), esso non dipende dalle strutture pubbliche, ma dal livello di conoscenze scientifiche, anche in relazione alle possibili mutazioni del virus, che possono in prospettiva rendere inefficace o meno efficace il vaccino. Quanto al secondo (velocità della campagna vaccinale), si tratta di una variabile che dipende invece dalla capacità di acquisto e disponibilità dei vaccini, dall’efficienza delle strutture pubbliche che li devono somministrare e dalla scelte politico-amministrative che delineano le linee di indirizzo e di azione. Sotto il primo profilo (capacità di acquisto e disponibilità dei vaccini), secondo la Commissione europea Stati e Regioni membri non possono procedere con acquisti che vadano a ridurre gli stock già promessi dai produttori di vaccini tramite “accordi di acquisto preliminare”. Nell’ambito dell’Unione è stato statuito, infatti, che la Commissione contratta unitariamente (cioè per tutti), con relativa impossibilità di contrattazione parallela da parte dei singoli Paesi, fatto salvo l’esercizio del diritto di “opt out” (una sorta di rinuncia all’accordo, con riespansione del potere statale “solitario” di contrattazione). Sembra dunque paralizzato, al momento – con riferimento a questa specifica problematica – l’esercizio del potere-dovere che pure l’art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con L. n. 27 del 2020, ha conferito al Commissario all’Emergenza, ovvero di adottare ogni misura idonea a fronteggiare la pandemia, ivi compresa l’individuazione di risorse umane e, per quel che più interessa in questo momento storico, “l’acquisizione di farmaci”. Quanto al secondo profilo (efficienza delle strutture pubbliche nella somministrazione dei vaccini), l’art. 1 della L. n. 178 del 2020, entrata in vigore il primo gennaio 2021, dal comma 457 in poi, ha stabilito che il predetto Commissario individui le strutture in cui effettuare le somministrazioni di vaccini e le agenzie del lavoro a cui affidare il reperimento di ulteriore personale sanitario, oltre a quello dalla legge stessa cooptato in via eccezionale. Il piano nazionale è invece attuato dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano “adottando le misure e le azioni previste, nei tempi stabiliti dal medesimo piano”, con possibilità di intervento sostitutivo del Commissario straordinario, in caso di inerzia. Ma resta poco chiaro il rapporto tra decisioni/strutture nazionali e decisioni/strutture periferiche regionali, specie in relazione alle effettive modalità di sviluppo, attuazione e articolazione sul territorio del piano vaccinale, e all’individuazione concreta degli appartenenti alle singole categorie prioritarie a cui somministrare di volta per volta il vaccino. In linea teorica, e sul piano organizzativo, a livello nazionale sono definite le procedure, gli standard operativi e la disposizione degli spazi per l’accettazione e la somministrazione, mentre a livello territoriale sono decisi la localizzazione fisica dei siti, il coordinamento operativo degli addetti e il controllo sull’esecuzione delle attività. Sotto il profilo della catena di comando, a livello regionale sono identificati referenti che rispondono direttamente alla struttura di coordinamento nazionale e che si interfacciano con i Dipartimenti di Prevenzione, per garantire l’implementazione dei piani regionali di vaccinazione e il loro raccordo con il Piano nazionale di vaccinazione. Posto che il legislatore ha ritenuto di non rendere obbligatoria la vaccinazione di massa, né di attuare un sistema di incentivi per favorire la vaccinazione stessa (quali, a mero titolo di esempio, priorità o esclusività di accesso, in favore dei vaccinati, nei luoghi aperti al pubblico), e preso atto che i vaccini forniti sono allo stato insufficienti per garantire la velocità di vaccinazione necessaria a scongiurare il rischio connesso a mutazioni del virus che sfuggano alle difese immunitarie “rinforzate” dai singoli vaccini esistenti, vi è adesso la necessità di smaltire rapidamente le dosi fornite da AstraZeneca (che ha prodotto un vaccino pacificamente meno efficace degli altri due attualmente in commercio nell’UE). Ma cosa accade sulla già ridotta velocità di somministrazione – come visto coessenziale per non rischiare un fallimento dell’operazione vaccinale di massa – se i soggetti a cui deve essere somministrato il medicinale di AstraZeneca rifiutino la vaccinazione per aspettare di essere immunizzati con un prodotto pacificamente più efficace? Il quesito si incrocia con l’individuazione delle categorie prioritarie individuate dall’aggiornamento del piano vaccinale effettuato l’8 febbraio 2021, con riferimento alla sesta fascia. Solo tale fascia, tra cui rientrano i soggetti in buone condizioni tra i 18 e i 54 anni, allo stato (ma il criterio va sicuramente rivisto, alla luce dell’autorizzazione AIFA nel frattempo intervenuta, che ha spostato l’età massima consigliata per la somministrazione del vaccino di AstraZeneca dai 55 ai 65 anni), concorre alla vaccinazione insieme agli ultraottantenni, proprio perché la limitazione di età stabilita per l’iniezione del medicinale prodotto da AstraZeneca ha riservato di fatto la disponibilità immediata del suddetto medicinale alla fascia di popolazione considerata meno a rischio dal Ministero della Salute. Ecco allora che diviene fondamentale stabilire, all'interno della sesta fascia individuata dall'aggiornamento del piano vaccinale, quali siano i soggetti appartenenti al “personale di altri servizi essenziali”, che devono essere immunizzati subito dopo il “personale scolastico e universitario docente e non docente, le forze armate e di polizia”, e i “setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità”. Si tratta di un insieme generico e non facilmente individuabile, se non attraverso il confronto con il personale specificamente individuato dalla definizione contenuta nel piano vaccinale e dal raffronto con altre definizioni normative simili rinvenibili nell'ordinamento giuridico. In particolare, sotto il secondo profilo, il primo riferimento normativo coerente è quello alla legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. La definizione di servizi pubblici essenziali, che peraltro la stessa legge n. 146 del 1990 limita "agli effetti" della legge stessa, potrebbe però non essere appagante, in considerazione del fatto che il piano vaccinale parla di "servizi essenziali" e non di "servizi pubblici essenziali", e quindi sembra riferirsi ad una categoria più vasta. D’altra parte, le limitazioni contenute nell’individuazione dei servizi oggetto di particolare tutela è connessa al fatto che l’esercizio del diritto di sciopero deve subire il minore sacrificio possibile. Non tutti i servizi essenziali sono poi servizi pubblici nel nostro ordinamento, posto che lo stesso non contempla una definizione legislativa della nozione di pubblico servizio, o quanto meno dei suoi contenuti tipici, nonostante dalla qualificazione di un’attività come servizio pubblico derivino una serie non irrilevante di conseguenze giuridiche. Soltanto il codice penale, nel delineare la qualifica che deve possedere l’ intraneus in alcuni specifici reati contro la pubblica amministrazione, formula una definizione di servizio pubblico, avente peraltro contenuto negativo e applicabilità limitata al solo ordinamento penale. Un altro contributo definitorio alla ricostruzione del concetto di servizio pubblico è poi contenuto, oltre che nella citata L. n. 146 del 1990, nel codice del processo amministrativo, il quale, nel delineare le materie di giurisdizione esclusiva, include tra queste la materia dei pubblici servizi, con particolare riferimento a concessioni e affidamenti di essi, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità, oltre che alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare. Resta però sfuggente l’inquadramento legislativo del contenuto tipico del servizio pubblico, che si è andato invece definendo in via pretoria in correlazione con il passaggio dalla concezione soggettiva a quella oggettiva di esso e all’analisi degli elementi organizzativi e del rapporto con i destinatari del servizio. La conseguenza più rilevante della concezione oggettiva è che il soddisfacimento dell’interesse pubblico può essere assicurato anche solamente da privati, senza che l’Ente pubblico assuma ruoli di prestazione diretta, conservando semplicemente poteri di regolazione delle attività private svolte ed esercitate in concorrenza tra loro. L’intervento statale e degli altri enti territoriali, in questo caso, si limita ad un’attività di regolazione delle attività private, attraverso vari strumenti correttivi delle energie del mercato (come, ad es., obblighi di servizio pubblico, contratti di servizio, poteri di approvazione tariffaria o di determinazione di tariffe più basse di quelle derivanti dal confronto concorrenziale, carte di servizio). D’altra parte, in ambito comunitario non viene utilizzata l’espressione servizio pubblico, ma è presente, invece, la nozione di servizio di interesse generale, che può essere fornito dallo Stato o dai privati. Secondo l’UE, vi sono, in particolare, tre categorie di servizi di interesse generale: economici, non economici e sociali. I servizi di interesse economico generale sono servizi di base forniti dietro pagamento, come i servizi postali; i servizi non economici si identificano con la polizia, la giustizia e i regimi previdenziali previsti dalla legge; i servizi sociali di interesse generale sono quelli che rispondono alle esigenze dei cittadini vulnerabili, e si basano sui principi di solidarietà e accesso paritario, potendo essere sia di natura economica che non economica (ad esempio, i sistemi previdenziali, i servizi per l’occupazione e l'edilizia sociale). L'unico riferimento alla locuzione "servizi essenziali" nell’ordinamento interno è così contenuto nell'art. 26, comma 5 del d.lgs. n. 81 del 2008 ( Obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ) dove si precisa che “ Nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione, anche qualora in essere al momento della data di entrata in vigore del presente decreto, di cui agli articoli 1559, ad esclusione dei contratti di somministrazione di beni e servizi essenziali, 1655, 1656 e 1677 del codice civile, devono essere specificamente indicati a pena di nullità ai sensi dell'articolo 1418 del codice civile i costi relativi alla sicurezza del lavoro con particolare riferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto" . Ma anche questa norma non ci aiuta a capire cosa siano i servizi essenziali, per cui o si ritiene che la legge di bilancio per il 2021 abbia implicitamente autorizzato le Regioni, in sede di attuazione del piano vaccinale, a individuare di volta in volta, e tramite meri atti amministrativi, tutti i soggetti che fanno parte delle singole categorie “prioritarie”, oppure resta necessaria un’ulteriore integrazione del piano vaccinale nazionale che meglio delinei, in coerenza con i principi di equità, reciprocità, legittimità e protezione professati dal piano medesimo, chi debba avere prioritariamente l’accesso alla protezione da una malattia i cui effetti sono così devastanti per il sistema sociale ed economico del Paese.
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