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L’insostenibile leggerezza del Legislatore e il ritorno dei “giudici ragazzini”

di Roberto Lombardi • set 01, 2022

La legge 17 giugno 2022, n. 71, che attribuisce al Governo ampie deleghe per la riforma dell'ordinamento giudiziario (nell’ambito della cosiddetta riforma Cartabia), ha previsto anche nuove regole con riferimento all'accesso alla magistratura ordinaria.

Il fine dichiarato è quello di ridurre i tempi stessi di accesso alla professione di magistrato – formula generica che sta probabilmente a significare che deve passare meno tempo possibile tra il conseguimento della laurea in legge e l’inizio della carriera di giudice -, e uno dei mezzi “pensati” per raggiungere questo fine è l’eliminazione delle obbligatorie tappe intermedie che fino ad oggi occorreva percorrere prima di provare a superare il concorso.

In particolare, l'art. 4, comma 1, lett. a) ha stabilito, tra i criteri di delega, che "i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni possono essere immediatamente ammessi a partecipare al concorso per magistrato ordinario".

Si tratta di una norma dal carattere precettivo/programmatorio che, con un ritorno al passato, consentirà anche ai neolaureati (tutti o soltanto quelli che hanno conseguito un determinato voto di laurea?) di cimentarsi immediatamente con le difficili prove scritte di uno dei più ambiti concorsi pubblici.

Si direbbe, in un Paese normale, che è l’approdo definitivo di un Legislatore consapevole e maturo, che ha ormai sperimentato la fallibilità di tutte le altre opzioni.

Non è così, purtroppo.

Dalla documentazione reperibile sui siti istituzionali, la discussione sul punto, dopo la presentazione del disegno di legge da parte del Ministro Bonafede, è stata praticamente nulla.

Facilmente comprensibile invece la ratio di partenza, che ha segnato un’inversione a U rispetto alla riforma precedente (quella dell’ormai lontano 2006): l’età media di ingresso in magistratura ordinaria è diventata troppo alta, e ha conseguentemente creato importanti ricadute organizzative in termini di difficoltà di copertura degli uffici giudiziari, oltre che una potenziale discriminazione nei confronti dei candidati meno abbienti.

D’altra parte, la storia del concorso si intreccia con la storia della magistratura stessa.

Ai tempi del primo vero maxi-processo alla mafia (quello in cui venne largamente contestato il nuovo reato di cui all'art. 416-bis c.p.), quando già il ruolo del giudice aveva assunto in Italia tutt'altro rilievo sia socialmente che a livello di gratificazione economica rispetto ai decenni precedenti, vigeva ancora il codice di procedura penale del 1930, di chiaro stampo inquisitorio.

Falcone e gli altri magistrati del pool anti-mafia misero a frutto contro la criminalità organizzata le formidabili potenzialità investigative di quel codice, acquisendo in istruttoria prove che poi divenivano quasi irrefutabili nel processo.

Prontamente, il codice fu cambiato. Si passò ad un procedimento penale dal taglio accusatorio, con alcuni residui inquisitori. Una specie di processo all'americana annacquato, dove mancavano la preventiva selezione delle notizie di reato da perseguire e l'immediatezza del dibattimento, con una prova che si formava solo in parte davanti al giudice.

Ma il danno, se così vogliamo chiamarlo, era già stato fatto. Orde di studenti universitari idealisti sposarono la causa della giustizia con la G maiuscola, sperando di ripetere le imprese dei grandi magistrati anti-mafia degli anni ’80, e ancor di più il fenomeno acquistò rilevanza con l'avvento di “mani pulite”, nei primi anni ‘90.

Il concorso divenne un punto di riferimento ai massimi livelli per giovani e brillanti laureati in giurisprudenza, in un mix di idealità e di volontà di potere (il potere giudiziario) esaltato e quasi sacralizzato dalle tragiche morti di Falcone e Borsellino, le quali furono considerate rappresentative, accanto alla strenua lotta della Procura di Milano contro la politica corrotta, del prezzo da pagare per ripulire un Paese oggettivamente alla deriva morale.

Fioccarono i bandi di concorso e la magistratura raggiunse il suo massimo credito nei confronti dell'opinione pubblica, proprio mentre una parte rilevante della classe politica - vecchia e nuova -, riprendendo gli strali del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga contro i “giudici ragazzini”, dava avvio alla sua battaglia strisciante contro il presunto strapotere dei P.M. (raggiunto peraltro proprio con l’uso di quel codice che era stato introdotto con intenti garantistici).

Erano quelle, in realtà, due questioni tra di loro differenti (l’inadeguatezza del giovane magistrato ad affrontare grandi processi e lo squilibrio tra accusa e difesa), sia cronologicamente che strutturalmente, ma si saldarono insieme, con il tempo, nella duplice direzione del depotenziamento del potere dei singoli pubblici ministeri e dell'allungamento dei tempi di accesso alla magistratura.

Nel frattempo, cercando di risolvere il problema - già rilevante per il legislatore dell'epoca – dell’eccessiva affluenza e partecipazione di candidati alle singole selezioni di concorso, il Legislatore cercò di tagliare il numero dei concorrenti agli scritti introducendo le famigerate prove preselettive.

Dapprima, dopo il 1997, fu introdotta una preselettiva formata soltanto da 5.000 quiz, tutti di diritto civile (con prove scritte tenutesi soltanto nel gennaio del 2000).

Ne venne fuori un mezzo disastro. Per gli affamati laureati che si affacciavano al concorso fu un gioco da ragazzi mandare a memoria tutti i quiz e totalizzare con disinvoltura zero errori.

I Tribunali amministrativi regionali ebbero così gioco facile nel dire che una preselettiva siffatta non era inspirata a un criterio razionale di valutazione della preparazione del candidato, e ammisero con riserva agli scritti anche chi aveva fatto uno o più errori, così di fatto vanificando lo scopo della preselettiva.

Fu allora la volta dei 15.000 quiz - civile, penale e amministrativo -, anch'essi soltanto mnemonici ma almeno rappresentativi di tutte e tre le materie degli scritti.

Durò poco anche questo esperimento.

Con la riforma Castelli (dal nome dell'ingegnere designato all'epoca come Ministro della giustizia), così come affinata e attuata con ulteriori decreti legislativi dal successore Mastella, arrivarono nuove regole per l'accesso alla magistratura.

Requisito per potere sostenere le prove concorsuali, in base all'art. 2 del d.lgs. n. 160 del 2006, non era più la sola laurea in giurisprudenza a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, ma anche, in aggiunta, il conseguimento di diploma presso le scuole di specializzazioni nelle professioni legali, oppure di dottorato di ricerca in materie giuridiche, o di abilitazione all'esercizio della professione forense, o ancora lo svolgimento di funzioni direttive nelle pubbliche amministrazioni per almeno tre anni o di funzioni di magistrato onorario per almeno quattro anni, ovvero il conseguimento del diploma di specializzazione in una disciplina giuridica, al termine di un corso di studi della durata non inferiore a due anni, presso le scuole di specializzazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162.

La norma originaria, tanto per cambiare, era scritta male e conteneva parecchie falle, che fu necessario tamponare subito.

La mini-riforma del 2007 previde allora di includere, tra le altre, anche le categorie dei magistrati amministrativi e contabili, dei procuratori dello Stato e dei docenti universitari in materie giuridiche.

Ma il sacro furore che contraddistingueva in quel periodo il Legislatore – convinto evidentemente che la strada del concorso di secondo grado avrebbe migliorato il sistema giustizia e forse anche allentato la “pressione” della magistratura sulla politica -, gli accecò talmente la vista da ricomprendere tra le categorie anche gli avvocati iscritti all'albo, e non solo i laureati abilitati all’esercizio della professione forense.

Una differenza non da poco (all’epoca, chi studiava seriamente per il concorso in magistratura ordinaria difficilmente esercitava la professione forense, ma si limitava a conseguire sulla carta il titolo di avvocato, anche in relazione ai rilevanti costi derivanti dall’iscrizione all’albo), che è stata cancellata soltanto qualche anno dopo e soltanto a mezzo di una pronuncia della Corte costituzionale, che approfittò peraltro di una distrazione nella redazione della norma, la quale aveva irragionevolmente previsto lo sbarramento dell’iscrizione senza ancorarlo anche ad un periodo minimo di esercizio della professione stessa [1]

Successivamente, il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, e poi modificato ancora nel 2014, ha disposto (con l'art. 73, comma 11-bis) che anche l’esito positivo del tirocinio svolto presso Tribunali e Avvocatura dello Stato costituisce titolo per l'accesso al concorso per magistrato ordinario.

E’ stato l’ultimo tassello inserito nel mosaico costituito dall’ingresso nell’ordinamento di una lunga serie di requisiti supplementari, alternativi tra loro, per potere accedere al concorso in magistratura ordinaria.

Questa sorta di concorso di secondo grado (in quanto non accessibile ai semplici laureati), introdotto per ridurre il numero dei partecipanti - il cui esponenziale aumento aveva messo definitivamente in crisi una macchina concorsuale già provata -, oltre che al fine di inaugurare anche in Italia una formazione comune e di auspicata alta qualità per i laureati in giurisprudenza intenzionati a divenire avvocati, notai o magistrati, ha fallito tutti i suoi obiettivi.

Il progetto iniziale prevedeva una severa restrizione dell’accesso al concorso, da riservarsi tendenzialmente ai soli diplomati delle scuole di specializzazione, ma la successiva, graduale apertura alle numerose categorie prima elencate, ha ridato fiato a una partecipazione di massa, con l’unico risultato di rilievo di un ingiustificato prolungamento, anche di anni, dei tempi necessari ai neolaureati per potere partecipare al concorso, senza alcuna garanzia di retribuzione, o anche solo di rimborso delle spese affrontate, e con scarse prospettive che tale periodo supplementare di disoccupazione o di precariato venga quanto meno parzialmente compensato da un’offerta formativa di riconosciuto valore. 

D’altra parte, le scuole di specializzazione per le professioni legali non si sono neanche avvicinate a divenire concorrenti credibili delle scuole notarili e dei corsi privati per la preparazione al concorso in magistratura, tanto che, nel momento in cui si tornerà all’accesso diretto al concorso dei laureati in giurisprudenza, sarà difficile giustificarne l’ulteriore esistenza.

Gli unici traguardi che possono dirsi raggiunti dal Legislatore negli ultimi venticinque anni sono stati dunque quelli di precludere la partecipazione al concorso ai neolaureati in situazione di difficoltà economica e di alzare e di molto l'età di accesso alla magistratura ordinaria, con tutte le ripercussioni negative già viste, mentre le singole selezioni concorsuali hanno continuato ad essere oltremodo affollate e lente. 

Al riguardo, i dati sono impietosi, se solo si pensa che i candidati dell'ultimo concorso che hanno consegnato gli elaborati sono stati 3606, e quelli del concorso precedente 3797.

Ancora una volta, però, il Legislatore non riesce a fare due cose in una volta sola. Il concorso viene lasciato così com’è, salvo una risibile diminuzione delle materie oggetto di prova orale, e la platea degli aspiranti magistrati viene di nuovo ampliata a dismisura per evitare gli effetti distorsivi del concorso di secondo grado.

D’altra parte, secondo le sensibilità più vicine a chi ha cuore una figura di magistrato veramente indipendente e un po'più "a margine" dalla politica e delle dinamiche sociali più vischiose, la riduzione dell'età di accesso potrebbe tornare sinonimo di maggiore idealità e dedizione alla causa della giustizia. Un giudice meno disincantato, si direbbe. Di certo un giudice più "ragazzino", con buona pace delle tesi del Presidente Cossiga e dei suoi seguaci.

Nel frattempo, il vicepresidente del CSM Ermini ha pubblicamente denunciato che la giustizia ordinaria è "a corto di giudici" [2], e che lo sarà fino al 2024, in quanto il concorso del 2020, gravemente deficitario nei suoi requisiti strutturali di selezione [3], ha visto un forte ridimensionamento dei posti da assegnare, dopo l'esito degli scritti, e il concorso del 2021 da 500 posti è entrato da poco nella fase delle correzioni.

Ancora una volta, la politica non ha saputo trovare il bandolo della matassa, e nessun progresso è derivato, su questo fronte, dall'avere nominato una ministra "tecnica" in teoria altamente qualificata, in quanto ex Presidente della Corte costituzionale.

L'attuale e futura scopertura di organico non solo non consentirà il raggiungimento degli obiettivi del PNRR in tema di giustizia "veloce", ma sta probabilmente preannunciando, a detta dello stesso Ermini, "un'emergenza grave" del settore.

Con le inevitabili conseguenze in termini di blocco dei processi - già divenuta realtà in Tribunali complessi come quello di Roma -, e nefaste future ripercussioni sul sistema della giustizia penale nel suo insieme, in connessione con l’introduzione della più che discutibile norma sulla "improcedibilità" dell’azione penale dopo il primo grado di giudizio.

La soluzione? Per un beffardo scherzo del destino qualcuno comincia a proporre di far saltare o comunque di ridurre la durata del tirocinio dei prossimi vincitori di concorso.

E alla fine tutto torna al punto di partenza: per governare la nave e non affondare serviranno più giudici ragazzini, magari anche privi di ogni minima cultura della giurisdizione, la quale soltanto si apprende (o comunque si apprendeva, un tempo) dopo un adeguato periodo di formazione accanto ad una pluralità di giudici più esperti.

Oppure soltanto servirebbe - ma nel nostro Paese questo sembra un film di fantascienza - un Legislatore più accorto, più preparato, più vicino alla realtà degli uffici giudiziari, e meno esposto all'insostenibile leggerezza delle iniziative di chi non ha alcun reale interesse a far funzionare la giustizia.




[1] Corte Costituzionale, sentenza 06 - 15 ottobre 2010 n. 296 (in G.U. 1a s.s. 20/10/2010 n. 42)

[2] I dati ufficiali dicono che allo stato vi è una scopertura nei Tribunali di circa il 15% dei magistrati ordinari previsti in organico

[3] Con una scelta poco lungimirante, non solo le prove scritte da svolgere sono state ridotte da tre a due, ma è stato altresì stabilito che gli elaborati avrebbero dovuto essere presentati nel termine di quattro ore dalla dettatura. La conseguenza è stata un inevitabile scadimento della qualità degli elaborati consegnati, che ha a sua volta comportato una forte riduzione rispetto al preventivato (solo 220 su 310 posti messi a concorso) dei candidati ammessi alla prova orale.


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