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Obbligo all'italiana. Green pass e libero esercizio dei diritti

a cura di Roberto Lombardi • set 23, 2021

Con il decreto-legge n. 127 del 21 settembre 2021 il Governo italiano ha provato a raffinare e implementare il fin qui disorganico regime di obblighi volti a prevenire la diffusione del virus pandemico.

Antecedentemente, si erano occupati della fattispecie tre norme adottate in altrettanti diversi momenti temporali.

Con la prima (art. 4 del d.l. n. 44 del 2021), è stato stabilito che "In considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2.". La vaccinazione stabilita per questi soggetti "costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative", e il mancato adempimento dell'obbligo imposto, una volta decorsi i termini per l'attestazione di tale adempimento, comporta "la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2".

Da ultimo, il decreto-legge n. 122 del 10 settembre 2021 ha esteso il predetto obbligo vaccinale a chiunque svolga, a qualsiasi titolo, la propria attività lavorativa nelle strutture di ospitalità e di lungodegenza, residenze sanitarie assistite (RSA), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani.

Con la seconda disciplina normativa (decreto-legge 23 luglio 2021, n. 105, convertito in legge il 16 settembre scorso), l’accesso a tutta una serie di servizi e attività (tra cui il servizio al tavolo nella ristorazione al chiuso, gli spettacoli aperti al pubblico, i musei, le piscine, le sagre e le fiere, i concorsi pubblici) è stato consentito in zona bianca esclusivamente ai soggetti muniti di una delle certificazioni verdi COVID-19, di cui all'articolo 9, comma 2 del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87.

Con la terza norma (disposizioni urgenti per l’anno scolastico 2021/2022, stabilite dal d.l. 6 agosto 2021, n. 111), “per consentire lo svolgimento in presenza” dei servizi e delle attività scolastiche, e “per prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2”, è stato previsto per tutto il personale scolastico e universitario l’obbligo di possesso e di esibizione della certificazione verde COVID-19 di cui all'articolo 9, comma 2 del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52: il mancato rispetto di tale obbligo è considerato assenza ingiustificata, a cui consegue la sospensione del rapporto di lavoro a decorrere dal quinto giorno di assenza.

Dall’11 settembre 2021, il green pass lo deve possedere ed esibire anche chiunque accede alle strutture scolastiche e universitarie. 

E’ stato inoltre interdetto l’accesso ai principali mezzi di trasporto nei confronti dei soggetti che non siano muniti di una delle certificazioni verdi COVID-19.

Nella scia di quest’ultimo decreto-legge, “considerato che l’attuale contesto di rischio impone la prosecuzione delle iniziative di carattere straordinario e urgente intraprese al fine di fronteggiare adeguatamente possibili situazioni di pregiudizio per la collettività”, e “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di estendere l’obbligo di certificazione verde COVID-19 nei luoghi di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire la maggiore efficacia delle misure di contenimento del virus SARS-CoV-2”, l’obbligo di possesso del green pass a determinati fini è stata esteso a tutti i lavoratori, sia del comparto pubblico che di quello privato.

In particolare, dal 15 ottobre 2021 e fino al 31 dicembre 2021, termine di (presunta) cessazione dello stato di emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'infezione da SARS-CoV-2, al personale di tutte le amministrazioni pubbliche, ivi compreso il personale delle Autorità amministrative indipendenti, nonché degli enti pubblici economici e degli organi di rilievo costituzionale, e a chiunque svolge una attività lavorativa nel settore privato, è fatto obbligo di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19, ai fini dell’accesso nei luoghi in cui il predetto personale svolge l’attività lavorativa. 

La disposizione si applica altresì a tutti i soggetti che svolgono, a qualsiasi titolo, anche sulla base di “contratti esterni”, la propria attività lavorativa o di formazione o di volontariato nei luoghi di lavoro presi in considerazione dall’obbligo introdotto, e non può comportare, in caso di mancata volontà di adeguamento all’obbligo stesso, conseguenze disciplinari o comunque incidenti sul diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, ma soltanto la mancata corresponsione di emolumenti connessi a qualsiasi titolo all’occupazione svolta.

Una specifica previsione è peraltro prevista per l’impiego delle certificazioni verdi negli uffici giudiziari, da parte di magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, avvocati e procuratori dello Stato e componenti delle commissioni tributarie.

In questi casi, infatti, la prima bozza circolata prevedeva che la comunicazione di non essere in possesso del necessario green pass – in difformità da quanto previsto a partire dal 15 ottobre 2021 per tutti gli altri dipendenti pubblici - non avrebbe comportato soltanto la mancata retribuzione ma anche un’assenza ingiustificata rilevante ai fini di cui all’articolo 127, primo comma, lettera c), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (ipotesi di decadenza prevista quando, senza giustificato motivo, il dipendente pubblico non assuma o non riassuma servizio  entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni, ove gli ordinamenti particolari delle singole  amministrazioni non stabiliscano un termine più breve).

La previsione è venuta meno in sede di stesura finale del provvedimento – con ciò forse spiegando anche, in parte, il ritardo nella pubblicazione del decreto-legge in gazzetta ufficiale -, ed è stata sostituita da una più blanda previsione di integrazione di illecito disciplinare nel caso di accesso agli uffici giudiziari da parte dei magistrati in mancanza di green pass.

Si tratta di una sanzione che è tipizzata, tramite rinvio, dal d.lgs. n. 109 del 2006, nell’ordinamento della magistratura ordinaria (sanzione non inferiore alla censura), e che invece è rimessa ai “rispettivi ordinamenti di appartenenza” per i magistrati diversi dagli ordinari.

Il nuovo illecito disciplinare – bizzarramente costruito su una fattispecie che in linea teorica ha efficacia soltanto dal 15 ottobre al 31 dicembre 2021 – è speculare a quello eventualmente derivante dal rilievo dell’accesso "non autorizzato" per i dipendenti pubblici e per i lavoratori nel settore privato (“ferme le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore”).

Resta in ogni caso una disparità di fondo tra la disciplina concepita per i magistrati e quella prevista per gli altri dipendenti pubblici, se si considera che mentre per i secondi la mancata comunicazione di essere in possesso del green pass è “senza conseguenze disciplinari e con diritto  alla conservazione del rapporto di lavoro” (art. 1), per i primi vi è solo la “conservazione del rapporto di lavoro” (art. 2).

Fatte salve queste eccezioni, l’unica sanzione “vera” prevista per tutti i lavoratori consiste nella “multa” da 600 a 1.500 euro, nel caso di accesso nei luoghi di lavoro senza green pass.

Tale sanzione è irrogata dal Prefetto, su impulso dei soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni (che poi sono i datori di lavoro, i loro delegati o i responsabili della sicurezza delle strutture in cui si svolge l’attività giudiziaria, i quali sono a loro volta soggetti a sanzione amministrativa nel caso di mancata verifica del rispetto delle prescrizioni e o di mancata adozione delle opportune misure organizzative).

Come per il personale docente – e diversamente da quanto deciso per il personale sanitario - non è stato dunque introdotto l’obbligo di vaccinazione, ma l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass ai fini dell’accesso al “posto” di lavoro.

Con l’applicazione di un’unica “misura” blanda e ad efficacia temporale limitata nel tempo (dal 15 ottobre al 31 dicembre) nel caso di mancata ottemperanza a tale obbligo, per tutti i lavoratori che non siano magistrati e che non accedano clandestinamente al posto di lavoro: la mancata retribuzione.

Una misura si direbbe superflua, per certi versi, in quanto se non si può adempiere la prestazione lavorativa per mancanza di un requisito considerato essenziale dal legislatore viene meno in automatico anche l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la relativa retribuzione.

E con un’esclusione implicita – ma che potrebbe risultare rilevante – per tutti quei lavoratori che possono svolgere la loro attività anche senza dovere accedere in uno specifico luogo di lavoro.

L’utilizzo dello smart working – per quella che ne sarà la residua modalità applicativa dopo la scure annunciata dai ministri competenti - e la possibilità di fare tamponi a prezzo calmierato potrà inoltre limitare ancora di più il raggiungimento di quello che è il malcelato obiettivo finale dell’esecutivo, ovvero spingere alla vaccinazione i soggetti ancora riottosi, evitando nel contempo di introdurre un obbligo generalizzato.

Obiettivo che dunque non tiene conto, allo stato, di tutti i soggetti che lavorano in proprio e dei “non” lavoratori – inoccupati o disoccupati –, che, non essendo vaccinati, nella quotidianità possono comunque continuare a contagiarsi con conseguenze gravi o fatali sulla propria salute.

D’altra parte, come già evidenziato, la limitatezza di efficacia temporale di queste norme – nel caso in cui il Governo non abbia già maliziosamente immaginato una proroga ad libitum – pone più di un dubbio sull’idoneità strutturale delle stesse a raggiungere lo scopo (aumento esponenziale dei soggetti vaccinati).

Ma magari la speranza è che il virus tolga il disturbo da solo entro il 31 dicembre 2021. 

Nel frattempo, l'attivazione delle procedure di cui al d.l. n. 44 del 2021 ha generato un ampio contenzioso in giro per l'Italia, su impulso dei soggetti che non intendono ottemperare all'obbligo vaccinale loro imposto. I ricorsi si fondano, tra l'altro, sull'asserita illegittimità costituzionale, sotto plurimi profili, di diritto interno e diritto europeo, di un obbligo riferito ad un vaccino di cui non sarebbe garantita né la sicurezza né l’efficacia, a cui si assocerebbe la pretesa di condizionare la somministrazione del vaccino obbligatorio al rilascio di una totale esenzione da responsabilità per danni che dovessero derivare da tale vaccino non adeguatamente sperimentato e la conseguente mancata previsione di un indennizzo, che la giurisprudenza costituzionale sembra ritenere condizione essenziale ed imprescindibile per l’imposizione di un obbligo vaccinale e, in generale, di un trattamento sanitario obbligatorio.

Recentemente, il TAR per il Friuli Venezia Giulia si è pronunciato sul ricorso presentato da un medico, operante in regime di libera professione, che ha impugnato il provvedimento con il quale l’Azienda sanitaria procedente, in applicazione della normativa vigente, ha accertato l’inosservanza dell’obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 (vedi articolo su questo sito).

Nel caso di specie, la ricorrente ha provato a contrastare frontalmente la necessità di imporre l'obbligo - peraltro solo nei confronti di una determinata categoria di soggetti - sulla base di un'asserita assenza di presupposti di sicurezza della cura preventiva imposta.

In contrario avviso, i Giudici amministrativi hanno affermato che vi sono evidenze scientifiche che dimostrano una rilevante efficacia preventiva della profilassi vaccinale, sia sotto il profilo dei sintomi della malattia, che della trasmissione dell’infezione, atteso che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78% rispetto ai non vaccinati; hanno evidenziato altresì che l’efficacia preventiva della copertura vaccinale, lungi dal giovare solo al singolo, in una dimensione strettamente individuale e personale, assume un rilievo generale sia in quanto garantisce la continuità delle prestazioni professionali degli operatori sanitari, sia in quanto, comunque, contribuisce a mitigare il rischio di una incontrollata diffusione della malattia da Covid-19 a danno di soggetti naturalmente esposti al rischio di contagio in misura maggiore rispetto alla media.

Con la conclusione che i quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale devono ritenersi sicuri perché regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata, che non solo si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco - senza dunque alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca, - ma che ha potuto altresì giovarsi dell’impiego di risorse umane ed economiche, di procedure valutative rapide e ottimizzate (c.d. rolling review), che hanno dato luogo ad un rigoroso processo di valutazione scientifica.

D'altra parte, la forma condizionata dell’autorizzazione non può, per sua stessa natura, giustificare l’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”.

Allo stesso modo, la non obbligatorietà del vaccino sta generando situazioni di conflitto allorché la decisione sulla vaccinazione volontaria debba essere presa nell’interesse del minore, specie se sussistono situazioni di conflittualità tra coniugi o ex coniugi.

Ad esempio, nel caso di cui si è occupato a luglio il Tribunale di Monza, la controversia è originata dal ricorso presentato da uno dei due ex coniugi - genitore di un figlio dell’età di 15 anni e 6 mesi - il quale aveva fissato un appuntamento presso il Centro Vaccinale di riferimento per la somministrazione del vaccino al figlio, sulla base della sua espressa volontà di essere vaccinato per poter partecipare liberamente alle attività scolastiche e sportive, ma l’altro genitore, alla ricezione del modulo per il rilascio dell'autorizzazione, aveva rifiutato il proprio consenso, adducendo motivazioni generiche in ordine alla possibilità remota per i minori di contrarre forme gravi della malattia (vedi articolo su questo sito)

Il Tribunale ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale in materia di vaccinazioni – obbligatorie e non -, secondo il quale, laddove vi sia un concreto pericolo per la salute del minore, in relazione alla gravità e diffusione del virus, e vi siano dati scientifici univoci sul fatto che quel determinato trattamento sanitario risulta efficace, il giudice può "sospendere" momentaneamente la capacità del genitore contrario al vaccino.

Lasciando da parte questi due casi - obbligo vaccinale per il personale sanitario e "obbligo" imposto dal giudice, più che altro nei confronti del genitore dissenziente - resta in piedi il paradosso di uno Stato che vuole “spingere” tutti a fare il vaccino senza stabilire l’obbligo diretto in una legge.

Con tutti i limiti di una normativa a singhiozzo - o a strati o a tenaglia che dir si voglia - che comprime sempre più incisivamente i diritti (anche quelli fondamentali) di chi non si munisce di green pass. E l'ulteriore paradosso - tipicamente all'italiana - che chi non si vuole vaccinare ma è disposto a fare tamponi quotidiani - se ha la capacità economica e il tempo per farlo - può continuare di fatto ad avere una vita normale assumendo su di sé, e sulla collettività, il rischio del contagio.

Si può dire dunque che la linea è quella di rendere molto difficile la vita ai no vax senza fare loro una “guerra” diretta. Ma questo modo di procedere rischia di dare l’idea di uno Stato che non ha il coraggio di fare scelte di effettivo e rapido ritorno alla normalità, o, peggio ancora, che non crede fino in fondo allo strumento (vaccino) che viene sbandierato all’opinione pubblica come soluzione del problema.

Con l'esito finale dell’incongruenza normativa costituita dalla parificazione dell'avvenuta vaccinazione al risultato negativo del tampone - seppure in questo caso con efficacia temporale grandemente limitata (48 o 72 ore, a seconda del tipo di tampone) -, ai fini del possesso del green pass. Il che porta con sé tutta una serie di problemi anche in ordine al controllo dell’accesso ai luoghi “sensibili” da parte di soggetti che dispongono di due diverse tipologie di certificazione.

Sullo sfondo, infine, la dubbia compatibilità con la Costituzione di un sistema di divieti di esercizio dei diritti di libertà basato su evidenze scientifiche ancora non completamente sedimentate, e che si salva da fondate censure di illegittimità soltanto in virtù dell’eccezionalità e della temporaneità delle previsioni normative ad hoc.

Ma come affrontare la questione di fondo nel caso in cui tale “eccezionalità“ e “temporaneità” dovesse diventare strutturale, magari proprio in conseguenza del mancato obiettivo della vaccinazione di massa? Inserendo il green pass in Costituzione? 

Una cosa è certa. Per adesso, il Governo ha scommesso sul fatto che mettere le mani nel portafogli degli italiani (si pensi alla mancata retribuzione per il lavoratore che non ha il green pass), dovrebbe bastare a dissolvere rapidamente anche i principi e gli ideali ritenuti pericolosi per un’efficace tutela della salute individuale e pubblica. 



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