Blog Layout

La riforma della (in)giustizia penale e l'eredità di Mr. B.

a cura di Roberto Lombardi • ago 15, 2023

Nel disegno di legge riguardante "Modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e all’Ordinamento giudiziario" presentato alle Camere dopo l'approvazione dello scorso 15 giugno da parte del Governo - su iniziativa del Ministro Nordio - c'è una sintesi del pensiero dell'attuale esecutivo (rappresentativo peraltro di una larga fetta del ceto politico italiano) sulla nostra magistratura penale.

Inadeguata a tratti. Dotata di strumenti appena sufficienti quando si tratta di colpire violenti e disgraziati senza peso, con troppi proiettili nel cilindro della pistola quando l’obiettivo è fermare la corsa di presunti corrotti e corruttori ben inseriti nel sistema.

Il diritto (e processo) penale a doppia velocità, che era già nei fatti, diventa adesso istituzionalizzato, nella prospettiva della riforma Nordio.

Quattro sono i fondamentali tasselli del disegno di legge, in questo senso: l'abrogazione del reato di abuso di ufficio, l'interrogatorio preventivo dell'arrestando, la competenza collegiale del Giudice che deve disporre la custodia cautelare in carcere, e la limitazione del potere di appello dei p.m..

Quanto al primo aspetto, è evidente che ormai la crociata contro l’abuso di ufficio conserva un mero profilo ideologico; nella stessa relazione preparatoria al disegno di legge si legge infatti testualmente che le iscrizioni della notizia di reato finiscono in gran parte archiviate, e questo, va ricordato, specie a seguito della riformulazione della fattispecie operata con la riforma del 2020 (*), ma ci si dimentica, quanto meno, che è ancora avvertita come necessaria una copertura normativa di natura repressiva contro la volontaria violazione del dovere di astensione, quando si ha un interesse confliggente con la parte privata, e che è abbastanza puerile indurre da una grossa sproporzione tra iscrizioni nel registro delle notizie di reato e condanne l’irrilevanza penale di fattispecie dai chiari risvolti illeciti.

Al massimo, se ne dovrebbe dedurre che si tratta di un reato molto difficile da provare.

Per contro, l’abrogazione del reato di abuso di ufficio ci mette nei guai con l’Unione europea, perché si tratta di determinazione in disarmonia con le costanti raccomandazioni europee, volte a contrastare senza quartiere la corruzione interna negli Stati membri, anche tramite l’individuazione di fattispecie penali di “confine”. 

L’interrogatorio preventivo del soggetto per il quale è stata richiesta una misura cautelare personale può segnare invece la fine della segretezza delle indagini in un periodo di tempo in teoria troppo anticipato rispetto all’inizio del dibattimento, specie in procedimenti complessi e con molti indagati aventi diverso spessore criminale.

Non si capisce poi perché tale interrogatorio è stato previsto solo per alcune categorie di reato, tra cui, neanche a dirlo, ci sono i temutissimi (da chi?) reati contro la pubblica amministrazione; la norma parte poi da un equivoco di fondo: le esigenze cautelari volte a evitare la reiterazione del delitto o sono sempre indifferibili, e per qualsivoglia illecito penale "grave", o non lo sono mai.

Si apre infine la prospettiva tragicomica di un garbato invito a rendere interrogatorio che finisce con le manette al polso.

La competenza collegiale del Giudice che dispone la custodia cautelare in carcere è invece qualcosa di semplicemente paradossale, in rapporto agli attuali organici di fatto – ridotti all’osso - della magistratura ordinaria, circostanza non certo emendabile con un piccolo aumento soltanto teorico (la provvista reale è tutta un’altra storia) della platea dei giudici di primo grado.

Significa inoltre creare una catena di disagi collettivi e individuali – anche a seguito del fioccare di incompatibilità successive – per i poveri Tribunali con pochi giudici, tanto è vero che la relazione descrittiva del disegno di legge, con disposizione poi riprodotta nel testo, parla della possibilità di “attingere (…) anche ad altri uffici giudiziari inclusi nella medesima tabella infradistrettuale”.

Vi è infine l’eterno ritorno dell’identico, ovvero l’impossibilità per il p.m. di impugnare le sentenze di primo grado emesse a seguito di citazione diretta in giudizio.

Già bocciata una volta dalla Corte costituzionale per violazione della parità delle armi (*), la misura torna in formato ridotto ma sempre probabilmente illegittimo, specie considerando che la riforma Cartabia ha nel frattempo allargato la platea dei reati perseguibili con citazione diretta a giudizio.

Ma da dove nasce l'ideologia supergarantista a metà sottostante alla riforma?

È forse semplicistico ma non lontano dalla verità evidenziare l'impatto sull'evoluzione del sentiment collettivo in materia di giustizia penale che ha avuto la travagliata epopea giudiziaria di Silvio Berlusconi.

Le sue vicende penali hanno infatti segnato non solo parte della cronaca giornalistica degli ultimi trent’anni ma anche una fetta non irrilevante di pronunce, che non si sono limitate a scendere nel merito delle singole incriminazioni (anche quando l'esito è stato di prescrizione), ma che hanno anche sviscerato importanti aspetti processuali e sostanziali del diritto penale contemporaneo, mettendone a nudo falle e contraddizioni.

Nell’ultima sentenza in ordine di tempo che si è occupata dell’imputato Berlusconi (nell’ambito del cosiddetto processo Ruby-ter) è stato proprio il Tribunale di Milano – che tanto era stato strumentalmente “attaccato” come nemico del popolo – a mettere la pietra più garantista nella complessiva costruzione giuridica che ha salvato da condanna certa l’ex Presidente del Consiglio (*).

Con la particolarità che la pronuncia in questione ha citato, nell’incipit delle sue motivazioni, la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni unite resa sul caso dell’avvocato inglese David Mills, e cioè di quell’imputato per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza che avrebbe favorito a pagamento, in altri tempi e in altri processi, un certo Mr. B. (identificato anche in quel caso con Silvio Berlusconi).

Si è chiuso così, idealmente, un percorso giudiziario che è cominciato negli anni ’90, che è finito nel secondo decennio del nuovo millennio, e che ha visto sempre lo stesso protagonista nelle vesti di asserito corruttore non condannato; i Giudici che se ne sono occupati, nel frattempo, si sono affannati per decenni a sviscerare giuridicamente le fattispecie di reato da accertare (con importanti arresti giurisprudenziali), senza però mai arrivare ad una sentenza di merito.

Bisognerebbe forse partire proprio da qui per capire cosa non va nella nostra giustizia penale.

Ma andiamo con ordine, anche se a ritroso. 

Nel suo ultimo arresto (sentenza sul caso Ruby-ter, le cui motivazioni sono state depositate il 15 maggio 2023), il Tribunale di Milano ha assolto Berlusconi perché il fatto di corruzione in atti giudiziari, da lui commesso, nell'ipotesi accusatoria, in qualità di parte attiva, tramite generose elargizioni alle testimoni che lo avrebbero potuto “inguaiare”, non era giuridicamente configurabile, per una ragione squisitamente tecnica: prima ancora che fosse fornita in dibattimento la prova dell’accusa sulla falsa testimonianza e corruzione passiva tenute dalle donne che avevano reso dichiarazioni nei precedenti processi (Ruby-1 e Ruby-bis), le autorità giudiziarie che si erano occupate di quei casi avevano a disposizione già negli atti dei loro processi indizi su tali fatti di reato, e quindi avrebbero dovuto offrire le opportune garanzie difensive alle dichiaranti, prima di farle parlare.

E poiché costoro non avrebbero potuto essere sentite come testimoni “pure”, le elargizioni in loro favore non avrebbero potuto essere considerate frutto di corruzione in atti giudiziari, in assenza della qualificazione giuridica corretta richiesta dalla fattispecie incriminatrice.

E’ una motivazione tutta tecnica che segna una vera e propria sconfitta per la macchina della giustizia.

Il fatto sostanziale contestato dall’accusa (dazione di denaro per ottenere una condotta faziosa in un giudizio) è stato provato, addirittura prima ancora del relativo processo, ma l’imputazione era tecnicamente sbagliata. E a dirlo sono gli stessi Giudici che avrebbero dovuto decidere sulla base di tale imputazione.

Altro che separazione delle carriere. Qui, a carriera unica, ci sono magistrati di primo grado che bacchettano senza mezzi termini altri magistrati.

Prima ancora, però, nel 2012, lo stesso Tribunale di Milano aveva illustrato con ancora maggiore evidenza cosa non funzioni in generale nell’odierno processo penale, e, nello specifico, cosa non abbia funzionato nel perseguire un imputato del calibro di Silvio Berlusconi (1).

Il Collegio penale si era ritrovato in mano la patata bollente di dovere emettere sentenza contro l’ex Presidente del Consiglio a prescrizione di reato ormai consumata.

Originariamente, e come è normale che sia, Berlusconi era co-imputato con l’avv. David Mills per corruzione in atti giudiziari, in quanto, nella prospettazione dell’accusa, il primo prometteva al secondo una ricompensa, e faceva poi entrare nella disponibilità di Mills unità di fondi di investimento per un valore complessivo di 600.000 dollari, affinché lo stesso Mills lo favorisse, con testimonianze false o reticenti, nei procedimenti penali Arces + altri (corruzione nei confronti di militari della Guardia di Finanza) e All Iberian (falso in bilancio e finanziamento illegale di partiti politici), mentendo in ordine al ruolo di Silvio Berlusconi nella struttura di trust, società offshore e fondi extra bilancio creata dallo stesso Mills alla fine degli anni ’80 e convenzionalmente denominata Fininvest B Group, utilizzata nel corso del tempo per attività illegali e operazioni riservate del Gruppo Fininvest.

Ma poi il procedimento a carico di Silvio Berlusconi è stato stralciato e deciso dopo che la Cassazione aveva dichiarato estinto il reato a carico di Mills per prescrizione (Cassazione penale sez. un. - 25/02/2010, n. 15208), e dopo che ben due leggi approvate dal Parlamento, il cosiddetto lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento (2), avevano provato a fermarlo o, quanto meno, a rallentarlo.

I Giudici del Tribunale di Milano ci danno a questo proposito una spiegazione dei motivi per cui si è prescritto anche il reato a carico di Berlusconi, che è bene riportare per esteso, senza ulteriori commenti.

Premesso che è dovere istituzionale di ogni giudice evitare il decorso della prescrizione pur essendo esso un possibile esito del processo, ancorché patologico, ritiene il Tribunale che il tempo a disposizione di questo collegio per giungere ad una decisione di merito si sia compiuto nel concorso di cause ad esso estranee.

Deve, infatti, in primo luogo sottolinearsi la data della notitia criminis - il 2004 - a fronte di fatti accaduti, nell’iniziale prospettazione accusatoria, “fino al 2 febbraio 1998”; la lunghezza delle indagini; il tempo intercorso tra il rinvio a giudizio (decreto del 30 ottobre 2006) e la data della prima udienza (13.3.2007), vale a dire quattro mesi e mezzo dopo; la separazione degli atti a seguito della questione di costituzionalità sollevata dal collegio (...) sul c.d. “Lodo Alfano”.

A tale ultimo proposito deve evidenziarsi come la prescrizione fosse problema già presente (…).

Problema che la decisione di separare gli atti intervenuta con ordinanza 4.10.2008 – su difforme parere dei difensori di entrambi gli imputati - sembra poi non aver più considerato.

Tale scelta, infatti - le cui ragioni, al di là della motivazione formale, restano sinceramente oscure - ha posto una pesantissima ipoteca sul corso del presente processo.

Quel dibattimento era infatti al suo volgere quando il 14.10.2008 è stato disposto lo stralcio degli atti nei confronti di Mills. (…) In data 17.2.2009 il Tribunale ha pronunciato la sentenza a carico di Mills, decorsi quasi due anni dall’inizio del processo, lasciando ai giudici che dovevano definire il processo a carico del concorrente necessario il residuo tempo per la definizione di tre gradi di giudizio di, salvo errori, anni 1 mesi 2 e giorni 24 al netto della sospensione della prescrizione per la decisione di costituzionalità del “Lodo Alfano” e considerata quale data di consumazione del reato il 20.2.2000. Ove si consideri che la Suprema Corte a SS.UU. ha ritenuto il reato consumato l’11.11.1999, il tempo a disposizione si è ridotto a meno di 1 anno (salvo errori 351 giorni)”.

Per inciso, la Corte di Cassazione a Sezioni unite, nel processo Mills, pur avendo accertato la prescrizione del reato di corruzione in atti giudiziari nella sua forma passiva, in conseguenza della riduzione dei tempi di prescrizione dei fatti di corruzione dovuta alla riforma approvata nel 2005 dal Parlamento, ha statuito “che alla stregua delle valutazioni dianzi effettuate, risulta verificata la sussistenza degli estremi del reato di corruzione in atti giudiziari”.

Si sono dunque conclusi dopo anni due processi molto importanti in cui è stata accertata nel merito la commissione del reato di corruzione in atti giudiziari per lo stesso fatto, con gli stessi protagonisti e con lo stesso esito processuale: prescrizione.

Dopo altri dieci anni, e un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale sollevato dal Parlamento (Presidente del Consiglio in carica: Silvio Berlusconi) - basato, tra l'altro, sul presupposto che  Karima El Mahroug in arte Ruby sarebbe potuta essere la figlia del Presidente egiziano Mubarak, di modo che avrebbe errato il GIP a non tenere nella giusta considerazione la questione della «tutela delle relazioni diplomatiche» (3) -, anche la vicenda della corruzione delle testimoni presenti alle “cene eleganti” si è definitivamente chiusa, ancora una volta con una decisione soltanto processuale.

Un fallimento su tutta la linea della giustizia vera, quella sostanziale, l’unica attraverso cui possiamo stabilire se un consociato si è posto o meno contro le norme più elementari della corretta convivenza civile.

Un fallimento che prescinde dalle sue motivazioni. 

E adesso che Mr. B. non è più tra di noi? Per quanto tempo ancora la giustizia penale deve pagare il prezzo di una così pesante eredità? Forse i politici che stanno oggi interpretando il ruolo di intransigenti seguaci del supergarantismo a singhiozzo, magari anche per ripagare un debito di riconoscenza politica nei confronti del loro ex capo, dovrebbero sforzarsi di ricordare chi era davvero Silvio Berlusconi e farsi ispirare, ai fini di una maggiore moderazione e ponderazione degli effetti sul sistema delle loro riforme, dalla effettiva filosofia di vita dell'ex Presidente del Consiglio.

Ed è probabile che dall'aldilà Silvio, che prima di ogni altra cosa è stato un uomo pragmatico, ironico e francamente individualista, oltre che un dottore in giurisprudenza, direbbe loro di non affannarsi oltre, e di concentrarsi sui  problemi reali del Paese, anche perché ormai tutti i suoi reati - veri o inventati che fossero - si sono definitivamente estinti per morte del reo. 







(1) Tribunale di Milano, Sez. X penale, ud. 25 febbraio 2012 (dep. 14 maggio 2012)

(2) L'art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (c.d. lodo Alfano), che aveva previsto la sospensione dei processi penali (anche quelli in corso) nei confronti delle più alte cariche dello Stato - e che aveva inciso direttamente nei dibattimenti in cui era coinvolto il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi -, è stato dichiarato illegittimo con la sentenza n. 262/2009 della Corte costituzionale, la quale ha concluso nel senso che "la sospensione processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e, contemporaneamente, crea un'evidente disparità di trattamento di fronte alla giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale".

I commi 3 e 4 dell'art. 1 della legge 7 aprile 2010, n. 51 (legge sul legittimo impedimento), che aveva a sua volta esteso la disciplina del legittimo impedimento di cui al codice di procedura penale enucleando una serie di ipotesi tipiche in favore del Presidente del Consiglio e dei Ministri - andando nuovamente ad incidere direttamente nei dibattimenti in cui era coinvolto il Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi -,  sono stati dichiarati  illegittimi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 23 del 2011, nella misura in cui avevano eliminato per il giudice procedente la possibilità di valutare in concreto l'impedimento attestato dagli interessati; successivamente, la legge è stata abrogata a seguito di referendum tenutosi il 12 e il 13 giugno 2011.

Prima ancora, con la sentenza n. 24 del 2004, la Corte costituzionale aveva ritenuto illegittimo per violazione artt. 3 e 24 della Costituzione anche il c.d. lodo Schifani, che aveva del pari sospeso i procedimenti penali in corso che riguardavano le alte cariche dello Stato, in quanto si trattava di "sospensione (...) generale, automatica e di durata non determinata", che concerneva "i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica, come risulta chiaro dalla espressa salvezza degli artt. 90 e 96 della Costituzione".

(3) Con sentenza n. 87 del 2012 la Corte costituzionale ha risolto il conflitto stabilendo che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano (e, in sede di prosecuzione del procedimento, al GIP presso lo stesso Tribunale) "avviare, esperire indagini e procedere alla richiesta di giudizio immediato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica per un’ipotesi di reato ritenuto non commesso nell’esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti ai sensi dell’art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione), perché ne fosse investito il Collegio previsto dall’art. 7 di detta legge".



Share by: