Blog Layout

Aspettative private e verità assolute nel processo penale

di Corrado Pascucci, già Presidente di Tribunale e di Commissione tributaria • mar 21, 2023

E’ capitato di sentire in televisione qualche tempo fa una persona, parente della vittima del reato, che, protestando vivacemente contro la richiesta del PM di assoluzione dell’imputato, così si esprimeva: “avrebbe dovuto guardarmi negli occhi mentre avanzava questa richiesta”, con ciò offrendo all’opinione pubblica la sua critica radicale e la sua delusione immedicabile alle conclusioni della parte pubblica del processo. 

Recentemente vi sono stati molteplici episodi, sempre con forte esposizione mediatica, in cui i giudici sono stati sanguinosamente offesi per una sentenza non in linea con le private aspettative di una esemplare sentenza di condanna.

Si è fatto strada, insomma, un vero e proprio costume delle persone offese dal reato, talora costituiti in veri e propri comitati di lotta, di accusare tramite i media di denegata giustizia pubblici ministeri che non abbiano coltivato una richiesta di condanna e giudici che abbiano pronunciato sentenza assolutoria nei confronti di non riconosciuti colpevoli, non mancando neppure l’ipotesi di severe censure nel caso in cui, affermata la colpevolezza, sia stata comminata ai condannati una pena non in linea con le personali aspettative di una maggiore severità.

Si è venuta, cioè, realizzando, in questi tempi incerti, quello che non pare eccessivo definire “inquinamento processuale da parte offesa”.

Per dare conto di questa affermazione, che può sembrare eccentrica sul piano squisitamente giuridico e in certo qual modo suggestiva, corre l’obbligo di chiarire, sia pure in estrema sintesi, cosa è e come funziona il processo penale e il ruolo che in esso svolge la parte offesa.

Allorché sia stato commesso un reato, compito dello Stato è individuarne l’autore perché gli venga comminata, ove riconosciuto colpevole, la pena adeguata.

Ciò avviene attraverso il processo, che è appunto l’insieme delle regole predeterminate che presiedono al suo funzionamento.

Il processo serve, quindi, ad accertare, dapprima, se un reato si sia effettivamente consumato e, poi, se sia stato commesso dall’imputato, che si difende in esso o, se si vuole, tramite esso, dal pericolo di essere condannato ingiustamente.

Ma serve anche ad impedire che il riconosciuto colpevole sia raggiunto da una sanzione sproporzionata, oggettivamente o soggettivamente, rispetto al fatto accertato.

All’interno del procedimento penale il soggetto titolare dell’interesse ad ottenere la condanna del colpevole alla sanzione penale prevista dall’ordinamento giuridico, pur quando si tratti di reati procedibili a querela di parte, è il PM, che rappresenta per l’appunto l’interesse generale dello Stato all’attuazione del diritto penale sostanziale o, a voler essere più semplici, alla repressione del commesso reato.

La persona offesa dal reato, la vittima del reato, è sì anch’egli “soggetto” del “procedimento”, in quanto titolare in fase investigativa di poteri sollecitatori e di controllo dell’attività dell’autorità inquirente, nonché di taluni diritti informativi e partecipativi.

Ma la qualità di “parte del processo” vero e proprio le è riconosciuta solamente se in esso si sia costituita parte civile.

Una parte solamente “eventuale”, dunque, finalizzata ad ottenere, in caso di riconosciuta colpevolezza dell’imputato, la sua condanna al risarcimento dei danni materiali e non. 

“Eventuale”, giacché potrebbe percorrere la strada alternativa di non costituirsi nel processo penale e di dare inizio invece in altra sede ad una causa civile.

Tutto ciò per dire che, invece, la materia riguardante la “colpevolezza” o meno dell’imputato, così come la “quantità” della pena da irrogargli, è estranea del tutto ai poteri e ai diritti della parte offesa.

Tale materia, ripetesi, è demandata esclusivamente al Giudice, il quale, all’esito del processo, decide dapprima se l’imputato sia effettivamente colpevole del reato contestatogli e, successivamente, in caso affermativo, quantifica la pena alla luce di circostanze oggettive e soggettive, non mancando, nel caso in cui vi sia stata costituzione di parte civile e richiesta di risarcimento dei danni, di decidere anche su tale domanda.

Alla luce di quanto detto emerge con piena evidenza, nei casi portati sopra all’attenzione, un’incursione per così dire sgrammaticata delle parti offese dentro (ma in realtà fuori dal) processo.

E ciò perché, ove la sentenza assolutoria fosse segnata effettivamente da errori conoscitivi e/o valutativi, la vittima del reato o la persona danneggiata dallo stesso avrebbe il rimedio di impugnarla ai soli effetti della responsabilità civile, per ottenere cioè, nel superiore grado di giudizio, in riforma di quanto deciso dal primo giudice, la condanna dell’imputato alle restituzioni e al risarcimento dei danni.

L’impugnazione della sentenza di proscioglimento ai fini penali, al fine cioè di ottenere la condanna dell’imputato alla giusta sanzione prevista dall’ordinamento giuridico pertiene, invece, alla esclusiva competenza del PM, e cioè della parte pubblica del processo, che peraltro deve preventivamente valutare, prima di attivare il gravame, se i giudici siano a suo avviso effettivamente incorsi in errori di qualche tipo.

Quest’ultimi, ove riconosciuti in sede di controllo operato da un giudice differente da quello che ha emesso il provvedimento, saranno conseguentemente emendati. 

E dunque, come emerge da quanto finora detto, le parole sempre più spesso utilizzate nell’immediatezza della lettura di un dispositivo dalla parte offesa per stigmatizzare la presunta scorrettezza di una sentenza assolutoria oppure, in caso di condanna, l’inadeguatezza della pena irrogata, si pongono, se non contro, di sicuro al di fuori del corretto circuito processuale disegnato dal codice. 

Al di fuori, giacché, sia pure non direttamente influenti su quel processo specifico, esse danno vita ad una sorta di rumore di fondo che fornisce alimento a una sfiducia collettiva nei confronti, non del singolo giudicante, ma, ciò che è più grave, del giudizio stesso, come se esso fosse di per sé stesso inadeguato a ristabilire il diritto violato, come se fosse inesorabilmente attraversato da mali di natura varia che gli impediscono di pervenire a quella che si ritiene essere lo scopo del processo penale e del processo in genere, e cioè la ”Giustizia”.

Sul concetto di giustizia bisogna intanto intendersi.

Il processo, qualunque processo, non tende alla “Giustizia”, e indicarla come un obiettivo è solamente un dire di carattere retorico.

Il processo, che per definizione si celebra dopo, tende a ricostruire fatti per l’appunto accaduti prima, e peraltro non con lo scopo di perseguire astrattamente una verità da spendere sul piano storico-generale, ma con l’obiettivo, più modesto ma non per questo meno essenziale, di verificare se quanto sia occorso in un dato tempo e spazio costituisca reato, cosicché, in caso di risposta positiva, colui che si è accertato che l’abbia commesso oltre ogni ragionevole dubbio sia sottoposto alla giusta sanzione.

Non sempre si è in grado di ricostruire compiutamente un fatto commesso in passato, non sempre la complessità dell’accaduto può essere ricondotta ai confini rigorosi della fattispecie penale contestata, non sempre la condotta antigiuridica è riferibile ad un soggetto oltre ogni ragionevole dubbio, non sempre vi è il dolo o la colpa richieste dalla norma per la punibilità di un fatto.

Bisogna rendersi conto che il processo non serve a validare acriticamente il postulato accusatorio ma, al contrario, a valutarne, attraverso un rigoroso e disciplinato percorso, la consistenza e l’attendibilità, consapevoli che tra gli esiti possibili vi è (naturalmente) anche quello che l’imputato venga mandato assolto perché non si sono raggiunte prove sufficienti per ritenerlo colpevole.

Anche sulla quantità della pena irrogata non è utile che vi siano critiche diverse da quelle che possano essere apprezzate solo sul piano strettamente giuridico, giacché la, per certi versi inevitabile, distanza tra il diritto del condannato alla giusta sanzione e l’aspettativa della parte offesa di non vedere il colpevole condannato a pena che non gli appaia adeguata alla sua personale percezione della gravità del fatto commesso, non può che essere colmata dal prudente e ragionato e motivato porsi in ascolto del giudicante delle ragioni dell’uno e dell’altro.

Si diceva sopra del rumore di fondo provocato da non meditate contestazioni delle parti offese di taluni esiti giudiziari assolutori.

Tale rumore diviene vero e proprio frastuono quando, fosse anche per umana solidarietà con la o le vittime del reato, viene a crearsi e ad alimentarsi un clima pubblico di attesa se non di vera pressione verso un esito colpevolista del giudizio, il cui eventuale venir meno per ragioni intrinseche al processo viene letto come la solita deludente, se non addirittura connivente, risposta di uno Stato incapace di offrire adeguate ed efficaci soluzioni riparatorie ai crimini perpetrati.

Si tratta, come è evidente, di una lettura deformata della realtà, interna a una visione pessimisticamente ed inutilmente complottista di essa.

I reati vanno senza dubbio perseguiti, l’offesa al bene giuridico deve essere riparata e il danno risarcito.

Ma non c’è altro modo civile di ottenere questi risultati che tramite un giusto processo nel contraddittorio delle parti, l’unico strumento, per imperfetto che sia, che la società, qualsiasi società, abbia a disposizione per colmare le ferite di una grave infrazione alla legge.

E se di giusto processo non può che trattarsi, allora bisogna noi tutti essere disposti ad accettare, sopportandone il peso, che la verità processuale, esito rigoroso di assunzione di prove regolamentate non superabili, possa talora essere o solamente sembrare diversa da quella che venga coltivata dalla vittima del reato o anche collettivamente, per ragioni che si possono umanamente condividere, come verità assoluta indebitamente negata.



Share by: