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Minaccia a un corpo politico e "trattativa Stato-mafia"

ott 13, 2021

Corte di Assise del Tribunale di Palermo, sentenza n. 2 del 20 aprile 2018 – Corte di assise di appello di Palermo, n. 22 del 23 settembre 2021 


IL DISPOSITIVO DI SECONDO GRADO

Con dispositivo pronunciato in data 23 settembre 2021, nell’ambito del cosiddetto processo sulla "trattativa Stato-mafia", la Corte di Assise di Appello di Palermo ha assolto tre funzionari dello Stato dal reato di minaccia aggravata a un corpo politico dello Stato, perché il fatto non costituisce reato. Ha assolto altresì colui che era imputato di avere fatto l’intermediario tra Stato e mafia, per non avere commesso il fatto.

Contestualmente, ha rideterminato la pena di un pregiudicato per mafia da minaccia a corpo politico dello Stato a tentata minaccia, dichiarando estinto per intervenuta prescrizione il reato così riqualificato (e limitatamente alla condotta di minaccia verso uno dei Governi considerati nell’ambito del capo d’imputazione). 

In primo grado, i tre Funzionari dello Stato e l’intermediario tra Stato e mafia erano stati condannati per il reato di cui all’art. 338 c.p., seguendo la tesi secondo cui in un arco temporale decorrente dal lontano 1992, in Palermo, Roma e altrove, taluni esponenti dell'associazione mafiosa avrebbero rivolto una condotta minacciosa nei confronti del Governo della Repubblica con la finalità di ottenere benefici nei confronti di un numero indeterminato di appartenenti a quella organizzazione criminale e, quindi, in sostanza, di quest'ultima nel suo complesso.

A tale condotta si sarebbe aggiunta quella di taluni esponenti delle Istituzioni, i quali, prima di fatto istigandola e, poi, agevolandola, nel farsi tramite di tale minaccia verso il potere esecutivo (quale che fosse la modalità attraverso la quale essi l'abbiano recepita, “trattativa” inclusa), avrebbero, secondo l'accusa, concorso nella commissione del medesimo reato.


LE CONCLUSIONI DEL PRIMO GRADO DI GIUDIZIO

La Corte di Assise, in primo grado, è partita dalla piana considerazione secondo cui sugli incontri e sui contatti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, fatta salva l'esatta collocazione temporale del loro inizio, non v'è stata sostanziale contestazione.

Il contrasto però vi è stato sulle ragioni di tali contatti. Si è sostenuto, invero, soprattutto da parte delle difese degli appartenenti alle Istituzioni, che la “trattativa”, in quanto finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, non avrebbe potuto essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell'ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l'ulteriore commissione di così gravi crimini.

Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti, al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali.

Secondo i Giudici di primo grado, peraltro, tale affermazione non può connotare di liceità una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali con soggetti che si pongano in rappresentanza dell'intera associazione mafiosa e che richiedano, nell'interesse di questa, benefici che esulino dai perimetri normativi, ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva, comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento.

In realtà, secondo i Giudici - al di fuori del perimetro normativo costituito dalla disciplina che a partire dal 1991 ha riconosciuto a singoli appartenenti alle associazioni mafiose, che, dissociandosi da queste, inizino un percorso di collaborazione con la giustizia, ben determinati e specifici benefici sia in tema di trattamento sanzionatorio sia in tema di protezione -, in uno Stato democratico non vi possono essere “lecite” concessioni o riconoscimenti di sorta che, proprio perché non diretti a favore di singoli soggetti che si dissociano dall'organizzazione mafiosa, ma a favorire l'associazione mafiosa stessa nel suo complesso, sia pure con finalità di prevenzione, inevitabilmente e oggettivamente la rafforzano come potere alternativo e contrapposto a quello dello Stato.

Un potere talmente potente e forte da costringere lo Stato stesso a “trattare” e a concedere benefici utilizzando la propria discrezionalità amministrativa in modo distorto e al di fuori dei parametri che dovrebbero governarla, tanto che ciò avviene, non già in modo trasparente e palese, ma, al contrario, in modo occulto e non dichiarato.

È stato dunque considerato giuridicamente errato guardare ad una “trattativa” con una organizzazione criminale come al normale esplicarsi di una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e, quindi, sempre lecita, anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni.

In altri termini, una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand'anche avallata dal potere esecutivo, non può essere ritenuta “lecita” nell'ordinamento se priva di copertura legislativa, e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l'ipotesi accusatoria accolta, ad omettere atti dovuti, quali la ricerca e l'arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l'esclusione del trattamento penitenziario previsto dall'art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l'assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti.

Secondo la Corte di Assise, nessuna attività che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, dal momento che costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio.

In ogni caso, la questione della trattativa – e della sua liceità/illiceità – non ha costituito l’aspetto centrale del processo, in quanto non è mai stata oggetto di contestazione la sussistenza della condotta in sé degli esponenti delle Istituzioni che ebbero, appunto, a “trattare” con alcuni esponenti dell'associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, né la legittimità di eventuali provvedimenti conseguentemente adottati dal potere esecutivo, quanto, piuttosto, la condotta che costituisce l'antecedente fattuale di tale “trattativa” o che ha eventualmente trovato origine in un approccio da parte di esponenti delle Istituzioni tale da far ritenere che vi potesse essere una “apertura” dello Stato verso talune richieste provenienti dalla organizzazione criminale che aveva scatenato la guerra contro lo Stato medesimo.

Tale antecedente fattuale è costituito dalla condotta di cui all’art. 338 del codice penale (aggravato ai sensi del successivo art. 339), secondo cui gli imputati (alcuni in veste di esponenti di “cosa nostra” e altri in veste di esponenti politici e delle Istituzioni) avrebbero usato minaccia nei confronti dei vertici dello Stato – minaccia consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti contro rappresentanti istituzionali – per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano, e in particolare per impedirne o comunque per turbarne l’attività istituzionale.

Sotto questo profilo, la conclusione della Corte di Assise del Tribunale di Palermo è stata nel senso che non necessariamente la cosiddetta trattativa deve fungere da presupposto fattuale e logico della formulazione accusatoria di minaccia, potendo porsi, con quest'ultima, invece, anche in un rapporto di mera occasionalità.


LA RESPONSABILITA’ PENALE DEGLI ESPONENTI DELLE ISTITUZIONI

Ai tre funzionari del ROS dei Carabinieri coinvolti nella vicenda penale esaminata dalla Corte di Assise del Tribunale di Palermo (condannati in primo grado e assolti in secondo) è stato contestato di avere concorso nel reato di minaccia finalizzato a turbare l'attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell'associazione mafiosa “cosa nostra”, mediante la seguente triplice condotta:

1) inizialmente contattando, su incarico di esponenti politici e di governo, uomini collegati a “cosa nostra”, e così agevolando l'instaurazione di un canale di comunicazione con i capi del predetto sodalizio criminale, finalizzato a sollecitare eventuali richieste di “cosa nostra” per far cessare la strategia omicidiaria e stragista;

2) in seguito, favorendo lo sviluppo di una “trattativa” fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall'altra, all'esercizio dei poteri repressivi dello Stato;

3) successivamente, assicurando altresì il protrarsi dello stato di latitanza di Bernardo Provenzano, principale referente mafioso di tale “trattativa”.

E’ stata dunque imputata ai tre funzionari dello Stato una condotta concorsuale consistente nell'avere sollecitato, agevolato sotto diversi profili e rafforzato il proposito criminoso della minaccia al Governo della Repubblica attribuito, invece, direttamente ai vertici di “cosa nostra”.

In altre parole, i tre Ufficiali del ROS sarebbero stati istigatori, determinatori e facilitatori del ricatto di “cosa nostra”.

I Giudici di primo grado – in parziale difformità dalla valutazione successivamente operata dalla Corte di assise di appello –, dopo avere premesso che il ruolo di autore in senso stretto della minaccia al Governo è ben diverso da quello prima indicato di istigatore o determinatore o ancora di agevolatore della minaccia posta in essere dai vertici mafiosi, hanno ritenuto provato che non solo gli imputati “istituzionali” abbiano istigato, sollecitato e agevolato la condotta di minaccia posta in essere dai vertici mafiosi, facendosene tramite nel percorso di tale minaccia diretto a raggiungere il destinatario individuato nel Governo della Repubblica, ma anche di avere avuto piena consapevolezza del proprio contributo e del suo esito, e, quindi, dell’evento.

Le tre condotte si sarebbero delineate, a seconda dei ruoli ricoperti dagli imputati nel Reparto di appartenenza, come ideative, attuative e di copertura dell’iniziativa intrapresa, denotando così la consapevole condivisione complessiva dell'azione materiale.

Ai fini della compartecipazione nel reato, infatti, rileva anche la sola azione, che, pur non realizzando di per sé l'intera condotta criminosa penalmente punibile e, pertanto, essendo da sola insufficiente per integrare la figura del reato contestato, rende comunque possibile, in qualche modo, la sua realizzazione.

Secondo la disciplina della responsabilità penale a titolo concorsuale stabilita con la regola generale dell'art. 110 c.p., invero, sono punibili, quali compartecipi del reato, tra gli altri, anche coloro che si limitino a suscitare e a fare sorgere in altri un proposito criminoso che precedentemente essi non avevano o anche soltanto coloro che si limitino a rafforzare tale proposito eventualmente in altri già esistente, oltre che coloro che pongano in essere una compartecipazione materiale, che può assumere le più diverse forme, tale da consentire consapevolmente il verificarsi dell'evento punito dalla norma penale.

In fatto, la Corte di assise del Tribunale di Palermo ha ritenuto accertato che gli imputati ufficiali del ROS, se pure all’inizio potevano dubitare che il proprio intendimento di giungere sino ai vertici mafiosi attraverso un affiliato potesse avere esito positivo, di certo si erano rappresentati che l’obiettivo di tale intermediazione erano i vertici mafiosi medesimi, e che questi, ove avessero accolto l’esortazione al dialogo, avrebbero potuto avanzare alcune richieste quale contropartita per porre termine al “muro contro muro” con lo Stato.

Secondo i Giudici di primo grado è dunque emersa con chiarezza l'oggettiva convergenza ed integrazione, sia sotto il profilo psicologico che materiale, delle condotte dei singoli concorrenti nel reato: da un lato gli autori in senso stretto della minaccia (i mafiosi) e dall'altro i compartecipi (i Carabinieri) consapevoli che la propria azione, in caso di esito positivo, avrebbe inevitabilmente fatto sorgere o, quanto meno, consolidato il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del Governo della Repubblica sotto forma di richieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi.

In concreto, si è accertato in dibattimento che è stata proprio l'iniziativa dei Carabinieri a far sorgere o, comunque, a rafforzare o, quanto meno, a rendere in quella fase attuale e, quindi, concreto, il proposito criminoso di Salvatore Riina di ricattare lo Stato,

In effetti, l'iniziale intento di quest’ultimo e, quindi, di “cosa nostra”, maturato e comunicato ai sodali già in vista della ormai prevista conferma in Cassazione della sentenza del “maxi processo”, era quello di vendicarsi sia di coloro che non avevano mantenuto gli impegni assunti negli anni per “aggiustare” l'esito di tale processo, considerato fondamentale per la stessa sopravvivenza dell'associazione mafiosa, sia di coloro che, sul fronte opposto, erano stati individuati quali artefici di quello che si era rivelato come il più grave smacco subito da “cosa nostra” e che, per tale ragione, erano stati “condannati a morte”. 

Quel generico ed ancora inattuale proposito di richiedere benefìci quale condizione per riprendere la “coabitazione” imbelle tra Stato e mafia (e, quindi, la “pace” alle condizioni imposte da “cosa nostra”, cui mirava, come si è visto, l'azione di “guerra” scatenata da quest'ultima) non avrebbe peraltro mai potuto attuarsi – e non sarebbe mai stato in concreto attuato con la formulazione esplicita della minaccia e del ricatto – se lo Stato non avesse abbandonato la linea della fermezza e non avesse sollecitato quel dialogo, il cui ontologico presupposto è l'ascolto delle reciproche richieste e che, dunque, conteneva già in sé l'apertura di una “trattativa”, così come, d'altra parte, ben compreso (tanto da non avere esitato a definirla tale sino ad un certo momento) da tutti i suoi protagonisti.

I tre imputati del ROS si sono dunque fatti avanti in rappresentanza dello Stato e, al di là delle le ragioni che li avevano animati – tra le quali, secondo la Corte di assise del Tribunale di Palermo, non vi erano in via principale quelle di scoprire gli autori della strage di Capaci e di individuare ed arrestare i latitanti che guidavano “cosa nostra” -, hanno consapevolmente reso attuale il proposito criminoso generico di Salvatore Riina, esortando i vertici mafiosi a formulare le condizioni per la cessazione delle uccisioni e delle stragi e, dunque, in concreto, a formulare la minaccia ed il ricatto mafiosi, che, senza la decisiva sollecitazione dei predetti Carabinieri e senza quel canale di comunicazione, non sarebbero stati rivolti al Governo della Repubblica, quale soggetto che avrebbe potuto soddisfare le richieste dei mafiosi.

Secondo i Giudici di primo grado, dunque, l'iniziativa dei Carabinieri è stata determinante per l'attuazione del proposito criminoso minaccioso e ricattatorio dei mafiosi, perché costoro, in quel momento, avevano deciso di non servirsi più degli interlocutori politici che fino ad allora avevano fatto da intermediari per giungere sino al Governo (Salvo Lima era stato già ucciso e per altri era già in preparazione o era stata programmata l'uccisione) e attendevano, per porre le condizioni della cessazione della “guerra” ed ottenere così i voluti benefìci, l'apertura di un nuovo canale con le Istituzioni.

La ricostruzione della posizione dei tre imputati del ROS viene dunque ancorata ad un profilo di concorso nel reato di minaccia di cui all’art. 338 c.p., come condotta atipica di istigazione, determinazione e agevolazione rispetto alla condotta principale e tipica degli esponenti dei vertici mafiosi.

Punctum dolens della ricostruzione giuridica dei Giudici di primo grado - come emerge anche dalla successiva assoluzione in appello con la formula "perché il fatto non costituisce reato" - è l'identificazione della seconda componente dell'elemento soggettivo del concorso di persone.

Accanto alla consapevolezza di cooperare con altri nella realizzazione del fatto tipico dovrebbe infatti aggiungersi la rappresentazione e la volizione del fatto, necessarie, secondo i principi generali, per la configurazione di un reato doloso.

Il dolo della fattispecie mono-soggettiva è necessario per l’integrazione del reato in cui si concorre. Tuttavia, dalla possibilità di esecuzione frazionata del reato discende che è sufficiente tale dolo da parte di uno qualunque dei compartecipi, di modo che l'istigatore o il facilitatore devono rappresentarsi il fatto di reato nei suoi elementi costitutivi ma non necessariamente in tutte le sue concrete modalità. 

Peraltro, mentre un filone interpretativo ritiene sufficiente, affinché si possa parlare di concorso di persone nel reato, la consapevolezza di concorrere all’azione altrui, ossia la coscienza di cooperare con altri, secondo altro orientamento questa opinione trascurerebbe il fattore volitivo, dal quale non pare possibile prescindere.

In altri termini, il requisito psichico del concorso nel reato implicherebbe, non solo la conoscenza o la rappresentazione delle azioni che altre persone hanno esplicato, esplicano o esplicheranno per la realizzazione del fatto che si ha di mira, ma anche la volontà di contribuire col proprio operato al verificarsi del fatto medesimo.

Nel caso di specie, la pronuncia di primo grado sembra non avere adeguatamente valutato che il farsi tramite di una minaccia altrui non necessariamente comporta la volontà di minacciare a propria volta un male ingiusto, specialmente se sussista una ferma "controvolontà" rispetto al risultato perseguito dai soggetti che compiono l'azione tipica - deducibile anche soltanto in conseguenza della netta contrapposizione astratta esistente tra mafiosi e forze dell'ordine fino all'inizio del "dialogo" -, e la condotta dei presunti concorrenti si sia caratterizzata per assoluta superficialità, sprezzo delle regole e disinvoltura.

Non bisogna infine dimenticare che il reato di cui all'art. 338 c.p. è un reato a dolo specifico, di modo che il concorrente nel reato deve necessariamente condividere il fine di impedire o turbare l'attività del corpo politico attinto dalla minaccia, e non inseguire altri obiettivi comunque illeciti ma magari di natura meramente egoistica.


IL REATO CONTESTATO

Tra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione l’art. 338 c.p. è un reato di non frequente contestazione e di problematica applicabilità.

Il primo dubbio che ha dovuto risolvere la Corte di assise del Tribunale di Palermo è la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica.

Si sostiene, infatti, da autorevole dottrina che la nozione di “corpo politico” di cui all'art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte costituzionale) per i quali, in effetti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all'art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali).

La nozione di “corpo politico” è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penalistica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di “corpo amministrativo” e “corpo giudiziario”, pure richiamate nel medesimo art. 338 c.p..

In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di “corpo politico”, bensì in quella più ristretta di “corpo”, laddove non v'è diretta corrispondenza con l'esplicitazione normativa terminologica degli organi dello Stato.

Tuttavia, col termine “corpo” può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi genericamente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. alla «rappresentanza di esso» e, comunque, a «qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio».

In altre parole, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto prevedere una specifica e più grave fattispecie di reato allorché il soggetto passivo non sia un singolo pubblico ufficiale (o più pubblici ufficiali), bensì un organo pubblico costituito in collegio e ciò, evidentemente, per la maggiore offensività di una condotta delittuosa diretta verso una autorità che, per essere cosi costituita, si identifica maggiormente, quanto meno nell'immaginario e secondo la comune accezione, con lo Stato.

Resta peraltro la problematicità della definizione di “corpo politico”, superabile soltanto se si associa la funzione politica a quell'insieme di determinazioni per mezzo delle quali si amministra lo Stato nei suoi vari settori di intervento in vista del raggiungimento delle finalità pubbliche.

Così definito, può essere incluso tra i “corpi politici” proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubbiamente “politica”.

La tesi che contrasta l’inserimento del Governo tra i corpi politici di cui all’art. 338 c.p. evidenzia allora che per la tutela degli organi costituzionali il legislatore ha dettato una specifica norma, l'art. 289 c.p. che, appunto, punisce l'«attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali» e, in particolare, gli atti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al Governo l'esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge. Sennonché tale argomentazione non appare in concreto dirimente, in quanto la condotta punita dall'art. 338 c.p. è del tutto diversa da quella punita dall'art. 289 c.p. e ciò sia se si consideri il testo di quest'ultima norma vigente all'epoca dei fatti dai quali sono scaturite le imputazione nel processo in esame, sia se si consideri il testo della stessa norma successivamente modificato, dal momento che il nuovo testo non ha fatto altro che rendere più esplicito il perimetro del delitto, non a caso intitolato «Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali». D’altra parte, l'attuale formulazione dell'art. 289 c.p. non prevede né punisce la minaccia dell'organo costituzionale ed il conseguente turbamento dell'attività di questi.

Quanto invece agli “atti violenti diretti a impedire” a cui si riferisce l'art. 289 c.p., gli stessi sono cosa diversa – ed in astratto meno grave – dell'«usare violenza» al Corpo politico punita dall'art. 338 c.p..

Usare violenza al Corpo politico richiede, invero, che questo (o una sua rappresentanza) sia diretto destinatario della violenza medesima, subendone, quindi, le conseguenze nelle persone fisiche che lo costituiscono.

Gli «atti violenti» cui si riferisce l'art. 289 c.p., invece, ricomprendono tutti quegli atti oggettivamente violenti che, comunque, pur senza colpire direttamente l'organo costituzionale, hanno l'effetto di impedirne l'esercizio delle attribuzioni, quali possono essere, ad esempio, alcune manifestazioni violente di piazza. 

Si tratta di condotta che in effetti esula dalla previsione dell'art. 338 c.p., in assenza di violenza usata nei confronti del Governo, ma che integrerebbe la previsione dell'art. 289 c.p., per l'effetto in ogni caso impeditivo dell'esercizio delle attribuzioni governative.

Secondo i Giudici di primo grado, dunque, l'ambito di operatività dell'art. 289 c.p. è diverso da quello dell'art. 338 c.p., con la conseguenza che non può in alcun modo utilizzarsi la previsione specifica dell'art. 289 c.p. per dedurre da questa che gli organi costituzionali (tra cui, per quel che qui interessa, il Governo) non possano ricomprendersi nella nozione di “corpo politico” richiamata dall'art. 338 c.p..

D'altra parte, ove si volesse seguire la tesi contraria, si dovrebbe concludere che alcune gravi condotte, punite persino se commesse nei confronti di qualsiasi semplice cittadino, quale ad esempio, quelle di minaccia, sarebbero, invece, prive di rilevanza penale se commesse in danno di un organo costituzionale (politico) riunito in collegio, ovvero, al più, dovrebbero parificarsi ad una somma di singole condotte criminose come commesse nei confronti di singoli individui privi di quella autorità che promana dall'agire in rappresentanza dello Stato, per di più nell'esercizio di funzioni costituzionali.

La seconda questione affrontata dalla Corte di assise del Tribunale di Palermo è stata quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell'art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell'intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte.

Se peraltro è vero che soggetto passivo del reato è l'organo pubblico dello Stato nell'integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni, è altresì corretto dire che il reato in esame è configurabile anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell'organo collegiale (e non in presenza dello stesso organo collegiale riunito), sia, però, diretta a minacciare l'intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l'attività.

L’importante, sotto questo secondo profilo, che l’agente, nel rivolgere la minaccia al singolo, miri al corpo politico, al fine di impedirne o turbarne l'attività.

Tale conclusione non pare inficiata dalla modifica apportata dalla l. 3 luglio 2017, n. 105, che ha inserito le parole «ai singoli componenti» dopo le parole «Corpo politico, amministrativo, giudiziario» e nella rubrica le parole «o ai suoi singoli componenti».

Ed invero, come si ricava dai lavori preparatori, si tratta di una modifica diretta a rafforzare gli strumenti penali per fronteggiare il fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali.

La finalità, dunque, di tale intervento normativo è stata quella di rafforzare la tutela penale anche a fronte di atti che, volti a intimidire per lo più gli amministratori locali prevalentemente in relazione all'integrità delle loro persone e dei loro beni, minacciano, nel contempo, il buon andamento della pubblica amministrazione.

A tale scopo, infatti, anche il ricorso all'art. 338 c.p. era stato ritenuto inadeguato quando il soggetto leso non è il corpo nella sua interezza o qualora il singolo destinatario non ha poteri di rappresentanza (come avviene, ad esempio, nel caso del sindaco).

La modifica legislativa in esame non ha dunque inciso in alcun modo sulla pregressa conclusione interpretativa sopra ricordata, per la quale anche la minaccia rivolta ad un componente «eventualmente non in presenza dell'organo collegiale riunito» è comunque punibile (già in forza della originaria formulazione dell'art. 338 c.p.), se diretta al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l'attività, ma ha soltanto aggiunto la punibilità della minaccia (o della violenza) rivolta al singolo componente dell'organo collegiale, quand'anche non diretta a impedire o turbare l'attività del “corpo politico, amministrativo o giudiziario”, ma diretta a impedire o turbare l'attività di quel singolo componente nel suo operare individuale.

La Corte di assise del Tribunale di Palermo ha dunque ritenuto rientrante nella fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 338 c.p. la contestazione della pubblica accusa, e ha considerato oggettivamente realizzata ed accertata la fattispecie di minaccia diretta a turbare la regolare attività del Governo della Repubblica nel suo complesso, al fine di impedirne o turbarne l’attività, ancorché tale minaccia sia stata veicolata attraverso singoli rappresentanti di detto corpo politico.

Non ha invece ritenuto rilevante rispetto alla fattispecie concreta il secondo comma dell'art. 338 c.p., secondo cui «alla stessa pena soggiace chi commette il fatto per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio o l'adozione di un qualsiasi provvedimento, anche legislativo, ovvero a causa dell'avvenuto rilascio o adozione dello stesso», trattandosi, secondo i Giudici, di un ampliamento dell'area della punibilità penale già coperta dalla previsione del primo comma, previsione che sola è stata ritenuta di possibile applicazione al caso di specie, nei suoi limiti originari più ristretti, in forza dei principi che regolano la successione di leggi penali nel tempo.

Al limite, ha evidenziato la Corte, il riferimento esplicito anche all'atto «legislativo» confermerebbe ulteriormente e definitivamente che nell'area dell'art. 338 c.p. sono ricompresi anche “corpi politici” dotati del corrispondente potere, con parziale sovrapposizione rispetto alla concorrente previsione dell'art. 289 c.p..


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