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Il diritto al tatuaggio

dalla Redazione • mag 27, 2023

Tra le aule della giustizia amministrativa “scorre” un curioso contenzioso che sta generando una sostanziale disparità di vedute tra Giudice di primo grado e Giudice di secondo grado.

All’interno di questo dibattito giuridico, si pone un più ampio conflitto tra orientamenti più progressisti e orientamenti più conservatori, in ordine all’accesso nelle forze armate e nelle forze di polizia.

Un risalente principio – che si aggancia all’obbligo ordinamentale di maggior decoro che deve serbare il personale in divisa – vuole che i tatuaggi su parti visibili del corpo del militare siano tendenzialmente causa di esclusione nei relativi concorsi.

In particolare, non sono normalmente ammessi, secondo i rispettivi bandi di assunzione nei contesti militari, i candidati che abbiano tatuaggi sulla parte inferiore delle gambe (dalla rotula al collo del piede, per intendersi); in altri casi assimilabili (Polizia di Stato), costituiscono causa di inidoneità i tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dalle uniformi utilizzabili nell’ambito del servizio, o comunque i tatuaggi che siano deturpanti, per la loro sede e natura, o indice di personalità abnorme, per il loro contenuto [1].

La rigidità dell’assunto – che oggi va ad incidere sulle possibilità di lavoro di una generazione che spesso e volentieri ha fatto del tatuaggio una imprescindibile forma di espressione della personalità - è stata progressivamente “scardinata” dalla giurisprudenza di primo grado.

In particolare, il TAR per il Lazio – che quasi sempre, per motivi di competenza territoriale, si occupa dei ricorsi contro l’esclusione dai concorsi in parola – ha espresso nel tempo un orientamento basato sui seguenti principi:

- il tatuaggio non può costituire causa automatica di esclusione dal concorso per non idoneità, essendo necessario che tale alterazione acquisita della cute rivesta carattere “rilevante” e che sia idonea a compromettere il decoro della persona e dell’uniforme, con conseguente onere per l’Amministrazione di specificare, con adeguata motivazione, le ragioni in base alle quali la presenza di un tatuaggio possa assurgere a causa di non idoneità all’arruolamento, avuto riguardo ai precisi parametri di valutazione indicati nella normativa di riferimento;

- in tema di concorso a posti di pubblico impiego, il principio generale del favor partecipationis comporta l’obbligo per l’Amministrazione di favorire il massimo accesso, senza introdurre discriminazioni limitative che non trovino riscontro in specifiche cause di esclusione espressamente previste, che comunque non siano conformi ad una seria ratio giustificativa;

- conseguentemente, le cause di esclusione da un concorso a posti di pubblico impiego (a cui possono essere parificate quelle di omessa valutazione dei titoli) devono essere interpretate restrittivamente, con divieto di interpretazione analogica;

- nell’ottica dell’interpretazione sostanzialista sopra esposta, laddove il tatuaggio non assuma alcuna attitudine deturpante né alcuna idoneità a costituire indice di personalità abnorme, la visibilità del tatuaggio deve presentare una certa evidenza, non potendo lo stesso in alcun modo essere coperto indossando la divisa o in altro modo.

Il Consiglio di Stato, però, non la pensa esattamente così.

Da un lato, ha affermato che il divieto di accesso ai “tatuati” deve essere ancorato alla possibilità che il tatuaggio stesso sia astrattamente visibile nel corpo del militare che indossi una qualsiasi delle divise di servizio, così facendo derivare l'esclusione dal tipo di divisa indossabile (la donna infatti ha in dotazione anche una divisa con gonna).

Dall’altro, ha lasciato intendere che l’incompleta rimozione del tatuaggio, nel momento in cui resti la sagoma dello stesso, non basta a rimuovere l’ostacolo all’accesso.

Dall’altro ancora, ha valorizzato, a discapito del principio del favor partecipationis, il principio della par condicio tra candidati e l’inderogabilità delle previsioni del bando in ordine all’ubicazione del tatuaggio "escludente".

Quid iuris allora?

Intervenute di recente su una questione di carattere ordinamentale – ovvero se l’abnormità di una tesi giuridica sposata dal Giudice amministrativo di ultima istanza costituisca rifiuto di giurisdizione sindacabile in sede di legittimità – le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno lanciato anche un monito sostanziale di cui non si può non tenere conto [2].

Secondo gli Ermellini, occorre fare molta attenzione quando siano in campo valori costituzionalmente e comunitariamente tutelati come il diritto al lavoro e il principio di non discriminazione.

Invero, le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema dei diritti fondamentali connessi alla libertà di espressione, di modo che risulta necessaria un’interpretazione delle norme applicabili alle singole fattispecie che non avalli letture restrittive.

L’esito discriminatorio è dietro l’angolo, ed è particolarmente evidente nel momento in cui si fa discendere l’ammissione o meno al concorso per entrare nelle forze dell’ordine dal sesso del candidato, in relazione alla diversa divisa da indossare (gonna nel caso delle donne, pantaloni nel caso degli uomini).

Con il paradosso che se proprio si vuole rispettare il principio di par condicio e farlo prevalere sulla ragionevolezza e il buon senso delle norme concorsuali, tanto varrebbe allora, provocatoriamente, far indossare anche agli uomini la divisa femminile in sede di valutazione dell’idoneità “fisica”, allo scopo di verificare se l’alterazione della cute autoinflitta (ovvero, il tatuaggio) pregiudichi o meno in assoluto il decoro della futura specifica categoria professionale di appartenenza.




[1] Si veda ad esempio quanto dispone il decreto del Ministero dell'Interno 30 giugno 2003, n. 198

[2] Cassazione, Sezioni unite civili, ordinanza n. 8676 del 2023 (commentata sul sito: https://www.primogrado.com/eccesso-di-potere-giurisdizionale-interpretazione-delle-norme-e-rispetto-dei-diritti-fondamentali )


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