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Un’estate al mare (la storia infinita delle concessioni balneari)

a cura di Roberto Lombardi • mar 17, 2023

Sul nostro pianeta sensibilità individuale, senso di appartenenza alla collettività e rispetto delle regole non sempre vanno a braccetto.

Ci sono però alcuni Paesi, tra cui senz’altro l’Italia, in cui il cattivo esempio viene dato anche dalle Istituzioni.

Un caso è l'ormai annosa querelle sul regime delle cosiddette concessioni balneari.

Pur essendo un tema sviscerato a fondo da molti fini giuristi e la cui perfetta comprensione presuppone un'adeguata preparazione su norme e principi ordinamentali, la questione di fondo è semplicissima: rispettare o meno la nostra appartenenza all''Unione europea e i vincoli che ne conseguono.

Tutto è cominciato con la direttiva UE n. 2006/123 (meglio nota come direttiva Bolkestein), anche se già in precedenza i Giudici amministrativi avevano affermato l’applicabilità alle concessioni demaniali dei principi della concorrenza e della “contendibilità” a mezzo gara.

Secondo l’art. 12 di questa direttiva, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri sono obbligati ad applicare una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.

A seguito di tale procedura, le autorizzazioni devono essere rilasciate per una durata limitata, anche se adeguata al tipo di attività, e non si può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.

Questa norma, applicata alle concessioni “balneari” – che sono le concessioni che hanno ad oggetto il demanio marittimo pubblico (in particolare, lido del mare e spiaggia) -, esclude dunque, almeno teoricamente, che tali concessioni possano essere lasciate in mano agli stessi soggetti per un tempo indeterminato, senza una reale apertura del mercato concorrenziale di riferimento.

Sembrava un approdo interpretativo acquisito nell’ordinamento interno, specie a seguito della sentenza del 14 luglio 2016 resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (c.d. Promoimpresa), secondo cui l’articolo 12 sopra citato, in quanto relativo ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una misura nazionale che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati.

Il nostro Legislatore non è stato però d’accordo con tale interpretazione, nonostante la partita avrebbe dovuto essere considerata chiusa, in virtù dell’adesione dell’Italia all’Unione europea, con ciò che ne consegue in tema di vincoli derivanti da tale adesione.

La legge nazionale (in particolare l’art. 1, commi 682 e 683 della legge n. 145 del 2018, con disposizione successivamente confermata dall’art. 182, comma 2 del d.l. n. 34 del 2020) ha infatti disposto la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali già rilasciate a seguito di una procedura amministrativa attivata anteriormente al 31 dicembre 2009.

Abbastanza paradossale la motivazione addotta per superare l’obbligo derivante dalla nostra appartenenza all’Unione europea: “Al fine di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese, e tutelare l'occupazione e il reddito delle imprese in grave crisi per i danni subiti dai cambiamenti climatici e dai conseguenti eventi calamitosi straordinari”.

Il Consiglio di Stato deve però  decidere secondo diritto e non poteva fare buon viso a cattivo gioco, dal momento che la giurisprudenza amministrativa e la Corte di Cassazione avevano disapplicato costantemente la norma sulla proroga e la Commissione europea aveva avviato l’ennesima procedura di infrazione contro lo Stato italiano.

Con le Adunanze plenarie n. 17 e 18 del 2021, così, il massimo organo di Giustizia amministrativa ha riassunto i termini della questione giuridica e stabilito un percorso temporale finito il quale avrebbe dovuto finalmente scriversi la parola “fine” al rinnovo automatico delle concessioni.

Dal punto di vista del diritto applicabile alla fattispecie esaminata, il Consiglio di Stato ha dovuto sostanzialmente replicare, rispetto all’applicazione o meno dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, a due ordini di obiezioni: il primo, volto a sostenere l’assenza della risorsa naturale scarsa (requisito la cui sussistenza la Corte di giustizia ha demandato al giudice nazionale); il secondo, che entra in contrasto frontale con la sentenza del giudice europeo, volto ad escludere a priori la possibilità di far rientrare le concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative nella nozione di autorizzazione di servizi e, quindi, nel campo di applicazione dell’art. 12 della citata direttiva.

Posto che nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative l'interesse transfrontaliero è stato ritenuto certo, perché si mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali (da valutare unitariamente e non in modo frammentato), costituente uno dei patrimoni naturalistici più rinomati e attrattivi del mondo, le due argomentazioni sono state "smontate" dal Consiglio di Stato con i seguenti argomenti.

In primis, il Giudice amministrativo ha evidenziato che l'effetto economico del provvedimento di concessione del bene pubblico, nella misura in cui si traduce nell'attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un'attività economica, si traduce di per sé in una fattispecie che procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti, come tali in grado di incidere sensibilmente sull'aspetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione di servizi.

Ne consegue che la qualificazione giuridica formale di concessione e non di autorizzazione propria del nostro diritto interno non cambia la natura sostanziale della concessione predetta, che dunque rappresenta un'autorizzazione di servizi ricompresa nell'ambito applicativo dell'art. 12 della direttiva Bolkestein.

Quanto poi alla contestata mancanza del requisito della scarsità della risorsa naturale, il Consiglio di Stato ha respinto l'obiezione sul presupposto che il demanio marittimo nazionale ha già un elevato livello di occupazione - in molte Regioni pari al massimo della percentuale concedibile - e che dunque le aree eventualmente a disposizione di nuovi operatori sono caratterizzate da una notevole scarsità, di modi che il regime di proroga previsto dal legislatore (fino al 2033) era certamente in grado di creare una barriera all'ingresso di nuovi operatori, in contrasto con gli obiettivi di liberalizzazione avuti di mira dalla direttiva. 

D’altra parte, non possono esservi dubbi sul carattere immediatamente esecutivo di tale direttiva, anche perché tale carattere è stato espressamente riconosciuto dalla Corte di giustizia nella citata sentenza Promoimpresa, oltre che da una copiosa giurisprudenza nazionale che ad essa ha fatto seguito.

Né è stata ritenuta dotata di senso logico la prospettata distinzione, nell’ambito delle norme U.E. direttamente applicabili, fra i regolamenti, da un lato, e le direttive self-executing, dall’altro – al fine di ritenere solo le prime e non le seconde in grado di produrre l’obbligo di non applicazione in capo alla P.A. –, perché tale distinzione si tradurrebbe nel parziale disconoscimento dell’effetto utile delle stesse direttive autoesecutive e nella artificiosa creazione di una categoria di norme direttamente applicabili (nei rapporti verticali) solo da parte del giudice e non da parte dell’amministrazione procedente.

Con l’ulteriore paradosso di un amministratore costretto ad adottare un provvedimento illegittimo, che sarà poi sicuramente annullato dal Giudice.

Ne consegue che, a differenza di quello che ha sostenuto (in verità, in modo del tutto isolato) il Tar Lecce, il dovere di non applicazione della legge nazionale contrastante con il diritto eurounitario fa capo non soltanto al Giudice ma anche all'amministratore pubblico, con l'effetto concreto che l'amministrazione titolare del potere di concessione avrebbe dovuto limitarsi ad effettuare un atto ricognitivo negativo sugli effetti della concessione prorogata ex lege, procedendo immediatamente a mettere a gara il bene demaniale, senza tenere cioè in alcun conto la norma statale di proroga. 

Tuttavia, il Consiglio di Stato, a fronte di un quadro di oggettiva incertezza normativa interna, ha deciso, in modo abbastanza sorprendente, rispetto ai canoni giuridici tradizionali seguiti dal Giudice amministrativo (dove non vi dovrebbe essere spazio, una volta accertata l'illegittimità di norma e atto, per la manipolazione del precetto che ne consegue, al di là dell’ordinario effetto conformativo), di "modulare gli effetti temporali della propria decisione".

In pratica, l’operatività degli effetti della sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è slittata al 31 dicembre 2023, e ciò al fine dichiarato di assicurare alle amministrazioni un ragionevole lasso di tempo per intraprendere fin da subito le operazioni funzionali all’indizione di procedure di gara, nonché nella consapevolezza degli effetti ad ampio spettro che inevitabilmente sarebbero derivati su una moltitudine di rapporti concessori.

"Scaduto tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia - o meno - un soggetto subentrante nella concessione"

Con l’ulteriore precisazione che “eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere”.

Campana a morto per la proroga delle concessioni?

Niente affatto.

Il Parlamento in carica, con un vero e proprio “atto di forza”, ha introdotto, in sede di conversione del cosiddetto decreto milleproroghe per l’anno 2023 (“Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi”), alcune norme che hanno di fatto sterilizzato il dictum del Consiglio di Stato (e di tutti gli altri Giudici che fino ad oggi si sono pronunciati), così come recepito nella legge annuale per il mercato e la concorrenza promulgata nell’agosto del 2022.

Sono due, in particolare, le norme che appaiono direttamente e frontalmente in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come faticosamente compendiato nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021.

La L. n. 14 del 24 febbraio 2023 ha infatti disposto, da un lato, con l’art. 10-quater, comma 3, la proroga di un ulteriore anno del termine di scadenza delle concessioni in essere (che la legge n. 118 del 2022 aveva stabilito al 31 dicembre 2024, ma soltanto in caso di difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura selettiva di assegnazione della concessione), e, dall’altro, con l’introduzione del comma 4-bis nell’art. 4 della L. n. 118/2022, il divieto per gli enti concedenti di procedere all'emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive fino all'adozione dei decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia di tali concessioni.

Con la particolarità che il termine per l’adozione di questi decreti legislativi – senza i quali tutto resta com’è – è già scaduto invano, ad oggi.

Ricapitolando. Il Consiglio di Stato ha detto che le concessioni demaniali in oggetto scadono senza se e senza ma al 31 dicembre 2023, e ciò a prescindere dalla conclusione entro tale data della doverosa procedura selettiva per l’individuazione di un nuovo concessionario, facendo così già un piccolo favore ai “balneari” ormai da tempo non più in regola, secondo le consolidate regole europee.

La legge sulla concorrenza annuale promulgata nel 2022 ha prolungato al 31 dicembre 2024 il termine stabilito dal Consiglio di Stato, in caso di “difficoltà oggettiva” a completare la suddetta procedura selettiva.

Il novello Legislatore ha ulteriormente prorogato il termine al 31 dicembre 2025, ma soprattutto ha “congelato” ogni procedura di rinnovo delle concessioni in questione fino a data da destinarsi.

Una nuova procedura di infrazione contro l’Italia è certa, e perfino il sempre sobrio Presidente Mattarella ha minacciato di esercitare la facoltà di rinvio alle Camere di cui all’art. 74 della Costituzione [1], ma il particolare curioso è che stavolta, insieme alla politica, anche un Giudice territoriale continua a condurre una battaglia solitaria ma tenace contro l’applicazione sui lidi di competenza delle regole europee.

Invero, il TAR per la Puglia, sezione staccata di Lecce, dopo avere provato a negare agli amministratori comunali la possibilità di disapplicare le norme interne che prorogavano al 2033 le concessioni balneari in essere (con tesi drasticamente respinta dal Consiglio di Stato proprio nell’Adunanza plenaria n. 18 del 2021), ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea varie questioni pregiudiziali, concernenti la direttiva Bolkestein, con l’ordinanza 11/5/2022, n. 743, scrivendo esplicitamente di non condividere ”i presupposti logici, l’argomentare e le conclusioni espressi dalle citate sentenze gemelle” (ovvero il cuore pulsante delle Adunanze plenarie n. 17 e 18 più volte citate).

Tuttavia, nel frattempo, sempre il Consiglio di Stato – che, vale la pena ricordarlo, è il Giudice di appello anche del Tar Lecce ed esprime, con le sue Adunanze plenarie, una tendenziale funzione di garanzia “interna” dell’uniforme interpretazione della legge – ha riformato un’altra sentenza dei Giudici amministrativi salentini in contrasto con i principi espressi dallo stesso Consiglio di Stato in materia di proroga delle concessioni balneari. [2]

Si tratta di una pronuncia che ha un particolare valore “simbolico”, perché conferma l’ineluttabilità - almeno secondo il massimo plesso di Giustizia amministrativa - della scadenza delle concessioni in essere una volta decorsa la data del 31 dicembre 2023, nonostante il recentissimo (e contrario) intervento legislativo del Parlamento.

Vale la pena riportare in estrema sintesi la vicenda sottostante a quest’ultima pronuncia.

E’ una vicenda tipicamente italiana, che sarebbe in sé grottesca, se non fosse drammaticamente impattante sulla nostra credibilità come Paese e sulla nostra lealtà alle Istituzioni europee.

Il Comune di Manduria, nel novembre del 2020, dispone di apporre una stampigliatura indicante “”proroga ex lege” in calce ai titoli a suo tempo rilasciati in favore dei concessionari “balneari”.

Il riferimento normativo è quello alla Legge 30 dicembre 2018 n. 45, art. 1, commi 682, 683, 684, in combinato disposto con la legge 17 luglio 2020, n. 77 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, utilizzando una facoltà concessale dall’art. 21 bis, comma 2 della L. 287/90, chiede l’annullamento del citato atto (di indirizzo) della Giunta comunale di Manduria.

Il Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, dopo avere premesso che l’atto impugnato non ha contenuto negoziale e non costituisce provvedimento in senso proprio, essendosi limitato il Comune alla presa d’atto di una volontà e di effetti proposti direttamente dal legislatore nella norma di legge, respinge il ricorso.

Il Consiglio di Stato, al contrario, ribalta la decisione del Giudice di primo grado, in quanto, attraverso la contestata delibera, il Comune di Manduria aveva dato concreta attuazione a una disciplina normativa interna contraria all’art. 12 della citata direttiva n. 2006/123/CE (disponendo la proroga delle concessioni “balneari” in essere), il che aveva indubbiamente dato luogo a una lesione concreta e attuale dell'interesse alla libertà di concorrenza e al corretto funzionamento del mercato, di cui l'Autorità Garante è "istituzionalmente portatrice".

In particolare, secondo il Consiglio di Stato, il Comune procedente, anziché orientarsi per l'applicazione del diritto UE, attivando, di conseguenza, le procedure a evidenza pubblica per la riassegnazione delle concessioni scadute, aveva scelto di adeguarsi alla normativa interna, disponendo l’estensione automatica del termine di scadenza delle concessioni in essere.

Il Consiglio di Stato accoglie dunque il ricorso di primo grado, annulla l’atto di indirizzo del Comune di Manduria e soggiunge infine “che, sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

E via al punto di partenza, fino al prossimo escamotage legislativo.

Risuonano più che mai attuali, a commento del tragicomico corto-circuito istituzionale nato dalla querelle infinita sulle concessioni marittime italiane, le parole di un verso della celeberrima canzone di Giuni Russo:

Un'estate al mare/Stile balneare/Con il salvagente/Per paura di affogare”.




[1] https://www.quirinale.it/elementi/80323

[2] Consiglio di Stato, sentenza n. 1192 del 1 marzo 2023



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