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Diffamazione, pena detentiva e chilling effect

ago 30, 2021

Sentenza del Gup del Tribunale di Patti del 28 marzo 2018/ sentenza della Corte di Appello di Messina del 24 giugno 2019/ Cassazione penale sez. V, 17/02/2021 (dep. 14/04/2021), n. 13993 


L’ITER GIUDIZIARIO E LA SOLUZIONE DELLA CASSAZIONE

Un soggetto imputato di diffamazione per avere pubblicato post denigratori su Facebook ai danni del vice Sindaco di un Comune siciliano, viene in primo grado assolto, da un lato per insussistenza del fatto, in relazione ad alcuni capi di accusa (per la continenza delle espressioni utilizzate) e dall’altro per non avere commesso il fatto, sul rilievo della mancata prova della riferibilità dell'indirizzo IP all'imputato.

La Corte di Appello di Messina riforma la sentenza del Gup, condannando l’imputato a quattro mesi di detenzione.

I giudici di legittimità, investiti dall’interessato sulla correttezza di quest’ultima pronuncia, annullano la sentenza di appello, limitatamente al trattamento sanzionatorio.

In particolare, la Corte di Cassazione ha argomentato che l'irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se questo non è stato commesso nell'ambito dell'attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Invero, ponendosi nell’ottica di un’interpretazione convenzionalmente conforme, la Cassazione ha evidenziato che l'effetto dissuasivo (chilling effect) è stato ravvisato dalla Corte EDU anche al di fuori dell'ambito dell'attività giornalistica, con riferimento, ad esempio, all'esercizio del diritto di critica degli avvocati nei confronti dell'attività di un magistrato.

Sotto il profilo costituzionale, inoltre, è stato rilevato che escludere la pena detentiva – fatta eccezione per i c.d. discorsi d'odio - alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell'esercizio dell'attività giornalistica, rischierebbe, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3 Cost., comma 1) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, nei confronti di coloro che commettano il fatto non nell'esercizio dell'attività giornalistica), e, dall'altro, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 2), con la previsione di un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva minore offensività, rispetto a quelli commessi nell'esercizio dell'attività giornalistica.

Ne deriva che i Giudici di legittimità hanno ritenuto sproporzionata la pena irrogata, in quanto pena detentiva e non pena pecuniaria. 


DIFFAMAZIONE, PUBBLICITA’ E STAMPA

La decisione finale della Corte di Cassazione di cui in commento estende di fatto alla diffamazione con “qualsiasi mezzo di pubblicità” il meccanismo di “depotenziamento” della pena oggi operante nel caso di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica.

Con un successivo importante e recente arresto, la Corte costituzionale (sentenza n. 150 del 12 luglio 2021), esaminando le questioni sollevate dal Tribunale di Salerno sull'art. 13 della legge n. 47 del 1948 (Disposizioni sulla stampa), in riferimento agli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 10 CEDU, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo.

La disposizione censurata prevedeva una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione, integrata nel caso in cui la condotta fosse commessa col mezzo della stampa e consistesse nell'attribuzione di un fatto determinato. Essa costituiva lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall'art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma, che prevedono cornici sanzionatorie autonome e più gravi rispetto a quelle stabilite dal primo comma, rispettivamente nel caso in cui l'offesa all'altrui reputazione consista nell'attribuzione di un fatto determinato e in quello in cui l'offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.

La pena prevista dall'art. 13 della legge n. 47 del 1948 era quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258. Le due pene - detentiva e pecuniaria - erano dunque previste in via cumulativa, di modo che l'indefettibilità dell'applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistessero - o non potessero essere considerate almeno equivalenti - circostanze attenuanti, ha reso la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall'art. 21 Cost., quanto dall'art. 10 CEDU.

Una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva, secondo la Corte, era divenuta ormai incompatibile con l'esigenza di “non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall'esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull'operato dei pubblici poteri” (cfr. ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020).

Rispetto a tale esigenza ha molto insistito anche la Corte EDU nella propria copiosa giurisprudenza, in quanto la necessaria inflizione della sanzione detentiva, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste - che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non -, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita «pietra angolare dell'ordine democratico».

Ad ogni modo, la pronuncia della Corte costituzionale non ha creato alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, in quanto lo stesso continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si è dunque riespanso. Invero, tale fattispecie incriminatrice prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa non inferiore a 516 euro, e dunque in questo caso la pena detentiva è prevista soltanto in via alternativa.

Al riguardo, secondo la Corte costituzionale, se è vero che la libertà di espressione - in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti - costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è meno vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, di modo che aggressioni illegittime a tale diritto compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l'art. 595, terzo comma, cod. pen. - la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via -, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall'ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare.

Tra questi strumenti non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva, sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica.

Si deve infatti ritenere che l'inflizione di una pena detentiva in caso di diffamazione compiuta a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità non sia di per sé incompatibile con le ragioni di tutela della libertà di manifestazione del pensiero nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità.

La Corte di Strasburgo, come visto, ritiene integrate simili ipotesi eccezionali in particolare con riferimento ai discorsi d'odio e all'istigazione alla violenza, che possono nel caso concreto connotare anche contenuti di carattere diffamatorio; ma casi egualmente eccezionali, tali da giustificare l'inflizione di sanzioni detentive, potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della - oggettiva e dimostrabile - falsità degli addebiti stessi.

Chi ponga in essere simili condotte - eserciti o meno la professione giornalistica - certo non svolge la funzione di "cane da guardia" della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità "scomode"; ma, all'opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l'avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione.

Se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, dunque, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell'esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica (1).

Dovendo in conclusione la disposizione di cui all'art. 595, terzo comma, cod. pen. essere interpretata in maniera conforme all’interpretazione evolutiva offerta dalla Corte costituzionale, il potere discrezionale attribuito al giudice nella scelta tra reclusione (da sei mesi a tre anni) e multa (non inferiore a 516 euro) deve essere esercitato sia tenendo conto dei criteri di commisurazione della pena indicati nell'art. 133 cod. pen., sia del principio secondo cui la diffamazione può essere punita con pena detentiva soltanto qualora la stessa si caratterizzi per la sua eccezionale gravità.

D'altra parte, e sul piano processuale, l'esercizio dell'attività di giornalista continua a costituire una barriera importante anche nei confronti delle indagini volte all'acquisizione di prove di reità da parte della magistratura requirente.

La tutela rafforzata della libertà di stampa implica infatti il rispetto della segretezza delle fonti non ufficiali o anonime utilizzate dal  giornalista. Se informatori e fonti non ufficiali che si rivolgono al cronista, fornendo notizie e documenti, non fossero protetti dalla segretezza e dall’obbligo, anche deontologico, del giornalista di non svelare l’identità delle stesse fonti, gli stessi non comunicherebbero notizie di interesse generale, con la conseguenza che l’intera collettività sarebbe privata di informazioni necessarie all’esercizio, non solo del diritto di ricevere informazioni, ma anche di altri diritti essenziali per la democrazia.

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha di conseguenza sottolineato che la protezione delle fonti è la chiave di volta della libertà di stampa perché, senza un’adeguata ed effettiva tutela, sarebbe compromesso il ruolo di “cane da guardia” della società che è proprio dei giornalisti liberi.

In altri termini, i giornalisti hanno il diritto di ricercare informazioni e di non svelare le fonti, e a questo diritto corrisponde un obbligo internazionale degli Stati volto a garantire la tutela della segretezza delle fonti. Tale protezione ad ampio raggio riguarda anche le informazioni indirette e il materiale in possesso dei giornalisti, con la conseguenza che le autorità inquirenti non solo non possono chiedere al giornalista il nome della fonte, ma non possono neanche cercare di assumere indirettamente, con sequestro di materiale o intercettazioni, notizie per identificare le fonti.

Se è pur vero che talune limitazioni possono essere ammesse per prevenire reati, ciò non può avvenire sacrificando la libertà di stampa. Il bilanciamento dei valori in gioco, infatti, non può portare a compromettere una libertà fondamentale per la democrazia.

D’altra parte, per la Corte EDU, la protezione delle fonti non è un privilegio da concedere o rimuovere a seconda che si tratti di fonti lecite o illecite, ma è un diritto da trattare con “la massima cautela”. Poco importa, poi, se le autorità nazionali che eseguono i provvedimenti giudiziari per la ricerca delle fonti non giungano poi a individuare la fonte, in quanto la sola adozione di un provvedimento che mina la segretezza delle fonti, costituisce di per sé una violazione della libertà di stampa.



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