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Il caso "Open Arms". Quando la politica si fa processo

di Roberto Lombardi • gen 14, 2023

È cronaca di questi giorni la celebrazione a Palermo del processo nei confronti dell'ex Ministro dell'Interno Salvini per le decisioni e gli avvenimenti che portarono nell'agosto del 2019 al blocco dello sbarco della nave piena di migranti soccorsi in mare aperto dalla ONG "Open Arms".

Sono stati escussi quali persone informate dei fatti, tra gli altri, il Presidente del Consiglio e l'altro vice-Presidente del Consiglio dell'epoca (Giuseppe Conte e Luigi Di Maio), i quali avrebbero confermato il dissidio interno esistente nel loro Governo sulle modalità operative dei blocchi navali e dei rifiuti di assegnazione di un porto sicuro, sostanzialmente "scaricando" tutta la responsabilità dei fatti oggetto del processo sul Ministro dell'Interno Salvini, il quale avrebbe operato nella materia degli "sbarchi" continue fughe in avanti a fini di propaganda politica. (1)

Ma qual è il vero oggetto giuridico del procedimento penale instaurato contro Salvini?

Facciamo un passo indietro.

Agosto 2019.

Un’imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorreva diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi.

Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2019, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la nave con a bordo i migranti veniva autorizzata ad entrare in acque territoriali italiane, ma fino al 20 agosto non le fu consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa.

Dopo quasi due anni dai fatti, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo ha disposto il rinvio a giudizio nei confronti dell'ex Ministro dell’Interno per il delitto di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti di ufficio, reati che sarebbero stati commessi nel corso dello svolgimento di funzioni ministeriali.

In particolare, all’imputato è stato contestato, con accusa che in questi giorni comincia ad affrontare il vaglio dibattimentale, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS (place of safety) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. 

Il decreto di rinvio a giudizio è giunto a seguito della articolata sequenza procedimentale prevista dal nostro ordinamento giuridico in materia di reati ministeriali, e dopo che il Tribunale competente, ai sensi della legge costituzionale n. 1 del 1989, aveva trasmesso, a mezzo della Procura della Repubblica di Palermo, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato (Camera di appartenenza dell’ex Ministro).

In tale richiesta sono affrontati in modo diffuso gli elementi giuridicamente più complessi della vicenda.

Innanzitutto, il Tribunale dei Ministri si è chiesto, dopo avere individuato, nel caso di specie, un sicuro obbligo a carico alle Autorità italiane, se l’indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico.

La conclusione dei Giudici è che si tratta di un atto amministrativo – e quindi come tale giustiziabile -, sulla base delle seguenti ragioni:

- è l’atto finale di un procedimento disciplinato da fonti internazionali e nazionali che ne individuano i presupposti giuridici e fattuali;

- è un atto vincolato nell’ “an”, ricorrendo determinate condizioni, seppure discrezionale nel “quomodo”, in quanto la concreta localizzazione del luogo di sbarco sicuro dipende da valutazioni “di tipo tecnico-amministrativo”;

- è un atto la cui forma libera non esclude la sua riconducibilità al genus degli atti amministrativi;

- è un atto suscettibile di produrre immediati e diretti effetti giuridici in capo a singoli individui.

La qualificazione dell’atto con cui viene indicato il POS come atto amministrativo – insieme all’accertamento dell’obbligatorietà di tale indicazione nel caso di specie – è necessaria al Tribunale dei Ministri per dedurre la sindacabilità dell’omissione di tale atto.

Se infatti si trattasse di atto politico, lo stesso, essendo libero nei fini, non potrebbe essere mai sindacato da un organo del potere giudiziario, in virtù del principio di separazione dei poteri.

La responsabilità sarebbe solo e soltanto di natura politica.

Ne conseguirebbe, ai fini dell’imputabilità del reato di sequestro di persona – così come contestato nel caso di specie – che tale sequestro sarebbe stato commesso tramite la mancata adozione di un atto di natura politica, di per sé non obbligato né vincolato, sulla base di una valutazione libera nei fini e non giustiziabile, in quanto esercizio diretto di un potere costituzionalmente riconosciuto.

In altri termini, la condotta materiale del reato, pur astrattamente sussistente, sarebbe in partenza scriminata dall’esercizio del diritto.

Ma davvero siamo di fronte a un atto amministrativo e non ad un atto politico, nel caso della decisione di non indicare il POS sul territorio nazionale, nel momento in cui si erano realizzate tutte le condizioni che obbligherebbero secondo il diritto internazionale tale indicazione?

Seguendo l’orientamento secondo cui occorrerebbe definire come politico l’atto che, a prescindere dal contenuto, è funzionalizzato alla realizzazione di uno scopo politico, il fine di ridurre drasticamente l’immigrazione clandestina e di imporre all’Unione europea un preventivo accordo sulla ripartizione dei migranti dovrebbe, nella tesi della difesa, bastare a ricondurre l’omissione de qua nell’ambito delle scelte politiche non sindacabili.

L’orientamento preferibile in materia appare però quello che prescinde dal fine o dai motivi dell’atto e che qualifica un atto come politico in presenza non solo del requisito soggettivo (atto emanato dal Governo o comunque dai supremi organi dello Stato individuati dalla Costituzione), ma anche di un particolare requisito oggettivo, traducibile nel fatto che l’atto stesso deve essere espressione di un potere politico che assolve, in conformità al dettato costituzionale, alla funzione di cura di interessi statali supremi e unitari, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri.

Nel caso di specie, dunque, non si tratterebbe di un atto politico, ma di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, avendo la Costituzione stessa conferito pari dignità costituzionale alle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, con il corollario di assicurare ai soggetti soccorsi in mare un luogo sicuro in cui avere riparo e di potersi avvalere delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo).

L’indicazione del POS non è dunque un atto libero nei fini ma un atto amministrativo di natura mista (vincolata nell’an e discrezionale nel quomodo), che si rende necessario al ricorrere di determinati presupposti.

Il Tribunale dei Ministri si è chiesto, a questo punto, se la competenza a indicare il POS nel nostro ordinamento sia del Ministro dell’Interno.

E’ sostenibile, in realtà, secondo una tesi avallata su un caso analogo anche dalla Procura della Repubblica di Roma, che la competenza sia del Comando generale del Corpo delle Capitanerie dei Porti, nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare.

Anche a non volere accogliere tale tesi, è evidente che il potere di assegnazione del POS è stato scisso nel nostro ordinamento in due segmenti tra di loro distinti ma indissolubilmente interconnessi, il primo (di natura vincolata) volto ad esprimere il nulla-osta all’assegnazione in astratto del POS – che sarebbe di competenza del Centro di coordinamento -, il secondo, finalizzato alla concreta individuazione sul territorio nazionale del luogo di assegnazione.

Quest’ultima fase è connotata da un ampio margine di discrezionalità nella scelta del luogo e sarebbe in astratto di competenza del Dipartimento per le libertà civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno.

Tuttavia, nella prassi recente, anche tramite lo strumento operativo del “divieto di ingresso” nei confronti di navi private battenti bandiera straniera in acque territoriali italiane – in quanto possibili strumenti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina -, l’Ufficio di Gabinetto del Ministero dell’Interno e il Ministro stesso hanno sostanzialmente avocato a sé il potere di indicazione del POS, trasformando impropriamente quello che avrebbe dovuto essere un atto amministrativo vincolato nell’an in un atto politico libero nei fini.

D’altra parte, le norme sovranazionali, come sostenuto dal Tribunale di Roma su caso analogo, sembrerebbero offrire indicazioni univoche – da cui scaturiscono i connessi obblighi – soltanto nell’ipotesi in cui uno Stato effettui direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assuma il coordinamento di tali operazioni, ma non nel caso in cui le operazioni di ricerca e salvataggio vengano effettuate in autonomia da navi appartenenti ad organizzazioni umanitarie che battono bandiera di Stati europei molto distanti dai luoghi in cui è avvenuto il salvataggio.

Quanto al reato più grave in concreto contestato (sequestro di persona), posto che lo stesso è integrato da qualsiasi condotta che privi la vittima della libertà fisica e di locomozione, anche se in modo non assoluto, ma comunque per un tempo apprezzabile, nel caso affrontato dal GUP del Tribunale di Palermo, ai fini della decisione sul rinvio a giudizio, è stata considerata libertà fisica sottratta ai migranti quella di non godere per un tempo apprezzabile (sei giorni) dello sbarco in un porto sicuro a cui avevano diritto, non potendosi considerare place of safety, sulla base degli obblighi convenzionali gravanti sullo Stato interessato, la nave sulla quale erano stati soccorsi. (2)

Più difficile è però individuare il soggetto attivo (e cioè la persona fisica rappresentante l’organo statale competente, nel caso di specie) di tale condotta.

L’indicazione del POS avrebbe dovuto essere effettuata senza ritardo dallo Stato competente secondo le convenzioni internazionali e sulla base della procedura prevista all’interno del singolo Stato.

Si è visto però che si trattava di nave privata battente bandiera straniera, e che lo Stato italiano non aveva effettuato direttamente un intervento di soccorso nella zona SAR di propria competenza, o comunque assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di modo che la normativa sovranazionale applicabile al caso di specie risulterebbe non prevedere obblighi precisi a carico di uno Stato che versi in una condizione come quella in cui versava lo Stato italiano, all’atto del soccorso in mare.

In seguito, la nave straniera – inizialmente assoggettata ad un formale divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane – era stata autorizzata a ripararsi a ridosso della costa di Lampedusa dalla Guardia costiera italiana, una volta sospeso il divieto di ingresso da parte del Tribunale amministrativo regionale competente, e in relazione al potenziale pericolo per le vite umane che il permanere in mare aperto, in vista del peggiorare delle condizioni atmosferiche, avrebbe potuto comportare.

Tale circostanza sembra incidere in modo rilevante sull’elemento oggettivo del reato contestato, sia sotto il profilo dell’individuazione del soggetto attivo che sotto il profilo delle modalità di commissione del reato.

Invero, l’ascrivibilità della condotta di sequestro di persona al Ministro dell’Interno dovrebbe trovare fondamento, in base alla ricostruzione dell’accusa, nella reiterata negazione di un POS sul territorio nazionale, che di per sé e di fatto avrebbe impedito alla Guardia costiera di far sbarcare i migranti, pur con i dubbi esposti sul soggetto a cui spetti realmente la competenza ad esercitare un potere che dovrebbe essere di natura quanto meno concertata.

In quest’ottica, peraltro, non ci si trova più al cospetto di una condotta omissiva – essendo ormai la nave straniera entrata nelle acque territoriali e dunque entro i confini nazionali – ma eventualmente di una condotta attiva, prescindente dalla legittimità o illegittimità del precedente divieto di ingresso nel frattempo sospeso dal TAR.

Ma tale condotta dovrebbe allora considerarsi come istigatrice di un reato commesso da altri o come abusivamente impeditiva di una condotta legittima che sarebbe stata di competenza di differenti soggetti istituzionali.

Nella relazione posta alla base della richiesta di autorizzazione a procedere inoltrata al Senato dalla Procura della Repubblica di Palermo, si legge che il Comando generale delle Capitanerie di Porto (nella qualità di Centro di coordinamento di soccorso in mare) aveva autorizzato la nave privata con a bordo i migranti ad ottenere “un punto di fonda nei pressi dell’isola di Lampedusa”, contestualmente vietandone, “all’attualità, l’ingresso in porto”.

In altri termini, il Centro di coordinamento di soccorso in mare ha assolto al proprio compito di mettere in sicurezza la nave con a bordo i migranti, ma è non stato altrimenti esercitato il potere-dovere, che in questi casi grava sulla polizia di frontiera, di condurre lo straniero presso la struttura a ciò deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza, in assenza di mancata comunicazione da parte del Ministro dell’Interno del place of safety (quando ormai tale comunicazione non poggiava più direttamente sull’obbligo internazionale connesso al salvataggio in mare).

E’ stato anzi espressamente vietato dal Centro di coordinamento stesso lo sbarco nel porto di Lampedusa, nonostante ormai l’imbarcazione in precarie condizioni di navigazione fosse già all’interno delle acque territoriali e ben vicina alla costa.

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, la condotta del Centro di coordinamento sembra interrompere il nesso causale tra condotta omissiva contestata all’imputato ed evento giuridico lesivo della privazione di libertà, andandosi a innestare, come fatto nuovo e parzialmente indipendente dalle circostanze pregresse, nello “status” dei soggetti passivi.

In pratica, il Centro di coordinamento interviene assumendo la responsabilità dell’obbligo di protezione dei migranti soccorsi a mare, ma contemporaneamente vieta lo sbarco a Lampedusa, dove vi è tra l’altro uno degli hotspot presenti sul territorio nazionale, nonostante l’art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisca l’obbligo di condurre lo straniero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare presso la struttura deputata per le esigenze di soccorso e di prima assistenza.

Chi è dunque a privare della libertà personale i migranti, una volta che questi sono entrati nella acque domestiche?

Il raggiungimento del territorio nazionale sembra definitivamente recidere il legame tra gli obblighi statali connessi alle zone di ricerca e salvataggio, il soccorso in mare e l’assegnazione di un POS.

E ciò non può che incidere anche sulle modalità di commissione della condotta di reato contestata, che parrebbe a questo punto fuori fuoco rispetto alla fattispecie ipotizzata dal Tribunale dei Ministri, perché commessa attraverso un’omissione (mancato trasporto del migrante nell’hotspot) diversa dalla mancata individuazione di un place of safety, individuazione che non aveva più ragione di essere, allo stadio in cui era giunta la vicenda.

In altri termini, il sequestro di persona ci sarebbe stato e sarebbe certamente “imputabile” anche allo Stato italiano, ma non chiaramente sovrapponibile, sotto un profilo squisitamente giuridico, con la responsabilità penale – che, vale la pena ricordarlo, è di natura personale – del Ministro dell’Interno.

Dal punto di vista soggettivo, infine, è un fatto che, all’epoca di contestazione del reato (14/15 agosto 2019), era in vigore il decreto-legge n. 43 del 2019, che autorizzava il Ministero dell’Interno a vietare l’ingresso di navi nel mare territoriale – anche per ragioni di ordine e sicurezza pubblici, oltre che di violazione delle leggi sulla immigrazione -, e che tale divieto fosse stato nella fattispecie adottato fin da subito nei confronti della nave su cui erano stati tratti in salvo i migranti.

A questo riguardo, Il Tar per il Lazio, con decreto monocratico emesso in data 14 agosto 2021, aveva sospeso il divieto de quo, ma soltanto “al fine di consentire l’ingresso della nave (…) in acque territoriali italiane” - per “prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli” -, di modo che la consapevolezza e volontà di “sequestrare” i migranti potrebbe essere messa in discussione dalla contrapposta certezza di adempiere a un dovere imposto da una legge dello Stato e sotto lo scudo giuridico di un divieto ancora in parte vigente, restando sullo sfondo del diritto penale (e nella possibile irrilevanza dei “motivi” della condotta) ogni altra considerazione sull’opportunità e sulle responsabilità del complessivo disegno politico architettato.

In definitiva, ci si trova dinanzi a un guazzabuglio quasi inestricabile di competenze, responsabilità, norme e giustificazioni, in cui la politica con la P minuscola - quella cioè che guarda prevalentemente al consenso e non soltanto ai reali bisogni delle persone - è finita miseramente all'interno di un "contenitore processuale" dove ciascuno dei protagonisti continua a recitare una parte poco credibile, a di là di quello che sarà l'esito giuridico dell'accertamento di responsabilità, e dove mai dovrebbero comporsi e scontrarsi gli interessi e i desiderata delle forze che si pongono l'ambizioso obiettivo di governare il Paese. 




(1) https://www.open.online/2023/01/13/palermo-processo-open-arms-salvini-conte-di-maio-lamorgese/

(2) Per un'analisi tecnica del reato principale contestato si veda l'articolo pubblicato su questo sito, con riferimento alla medesima vicenda, in data 1 maggio 2021, al link https://www.primogrado.com/atto-amministrativo-atto-politico-e-sequestro-di-persona


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