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Il "caso polacco" e il garante ultimo dell'indipendenza dei giudici

a cura di Francesco Tallaro • gen 08, 2024

(Nota estratta dal commento breve (*) alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia)


Le elezioni politiche tenutesi in Polonia il 15 ottobre 2023 e la successiva nomina a primo ministro di Donald Tusk, esponente di orientamento europeista e già presidente del Consiglio europeo, promettono di smorzare le acute tensioni che negli ultimi anni si sono manifestate tra l’ordinamento europeo e quello nazionale polacco, causate dalle forti torsioni contrarie al principio di legalità sostanziale che quest’ultimo ha subito negli anni più recenti.

Se l’augurio del giurista è, evidentemente, quello del ripristino integrale della rule of law in Polonia, nondimeno le pronunzie della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul caso polacco, ed in particolare sul profilo dell’indipendenza degli organi giurisdizionali, mantengono forti implicazioni sistematiche.

In questa sede, in particolare, si prende lo spunto dalla recente sentenza della Grande Sezione del 5 giugno 2023, nella causa n. C-204/21, Commissione c. Polonia, per focalizzare l’attenzione su due punti di importanza strategica, nel processo storico – avviatosi sin dal 1951 – di interazione e integrazione tra i sistemi giuridici nazionali e l’ordinamento sovranazionale che promana dai Trattati europei. (...)

Il primo attiene all’individuazione di quei valori che sono (o, piuttosto, dovrebbero essere) comuni alle giurisdizioni dei vari Stati membri e che sono indispensabili per la creazione di uno spazio di sicurezza, libertà e giustizia (art. 67 ss. TFUE).

Invero, con l’avanzare dell’integrazione europea si sono moltiplicati i rapporti transfrontalieri, sicché, dal lato dei rapporti tra privati, è sorta la necessità di garantire ai cittadini la possibilità di adire affidabili organi giurisdizionali in tutti gli Stati membri e assicurare che le decisioni di tali organi siano rispettate in tutta l’Unione; dal lato della repressione penale, è evidente il bisogno che gli effetti delle pronunzie giurisdizionali si producano sull’intero territorio dell’Unione europea.

Presupposto di tutto ciò è la fiducia nelle istituzioni giudiziarie dei Paesi membri, che deriva dall’osservanza di quei valori comuni sulla cui essenza la Corte di Giustizia si è pronunziata nella sentenza in commento.

La Corte, sul punto, ha ripetutamente sottolineato che l’Unione europea riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Sono tenuti a rispettarli e si impegnano a promuoverli, tanto più che la fiducia reciproca, in particolare tra i giudici degli Stati membri, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono tali valori comuni.

L’art. 2 TUE (...) enuncia i valori comuni (...). Il loro rispetto da parte di uno Stato membro costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro: infatti, il rispetto di tali valori non può essere ridotto a un obbligo cui uno Stato candidato è tenuto al fine di aderire all’Unione e al quale potrebbe sottrarsi dopo la sua adesione.

Dal canto suo, l’articolo 19 TUE concretizza il valore dello Stato di diritto, principio generale di diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, per cui spetta agli Stati prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti che garantisca ai singoli il rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. 

La Corte di Giustizia ha chiarito che, al fine di garantire che gli organi giurisdizionali chiamati a statuire su questioni connesse all’applicazione o all’interpretazione del diritto dell’Unione siano in grado di garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta da tale disposizione, è di primaria importanza preservare l’indipendenza dei medesimi. Le garanzie d’accesso ad un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, e in particolare quelle che ne stabiliscono la nozione e la composizione, rappresentano la pietra angolare del diritto all’equo processo.

Quindi, nella scelta del proprio rispettivo modello costituzionale, gli Stati membri sono tenuti a osservare, in particolare, il requisito di indipendenza dei giudici.

Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole relative alla composizione dell’organo giurisdizionale, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo nei confronti di elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti. (...)


Il secondo punto focale attiene all’individuazione della Corte, o delle Corti, cui spetta il compito ultimo di garantire i valori dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria. La questione, nello specifico «caso Polonia», ha portato a un forte contrasto tra la posizione della Corte di Giustizia e quella della Corte costituzionale polacca (Trybunał Konstytucyjny).

L’occasione del contrasto è stata fornita dall’ordinanza dell’8 aprile 2020 nella causa C 791/19 R, con cui la Corte di Giustizia, basandosi sull’articolo 4, paragrafo 3, seconda frase, TUE («Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione»), in combinato disposto con l’articolo 279 TFUE, ha ingiunto alla Repubblica di Polonia di sospendere l’applicazione della legge sulla Corte Suprema, destinata ad essere dichiarata, con la successiva sentenza del 15 luglio 2019, già citata, contrastante con il diritto europeo.

Ebbene, la Corte costituzionale polacca, con sentenza resa il 14 luglio 2021 (procedimento P 7/20), ha dal canto suo dichiarato il portato precettivo di ordinanza a sua volta incompatibile con diverse disposizioni della Costituzione Polacca. 

Quindi, invocando le disposizioni dell’articolo 4, paragrafi 1 e 2, e dell’articolo 5, paragrafo 1, TUE che, in particolare, affermano il principio di attribuzione delle competenze dell’Unione e l’obbligo di quest’ultima di rispettare l’identità nazionale degli Stati membri, il giudice costituzionale polacco ha qualificato la statuizione della Corte di Giustizia ultra vires

Di conseguenza, rispetto all’ordinanza della Corte di Giustizia dell’8 aprile 2020 non sarebbero pertinenti i principi del primato e dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione, pur enunciati all’articolo 91, paragrafi da 1 a 3, della Costituzione polacca. 

D’altra parte, secondo la Corte costituzionale polacca, in caso di conflitto tra le sue decisioni e quelle della Corte, ad essa spetta l’«ultima parola» nelle controversie di principio relative all’ordinamento costituzionale polacco.

La Corte di Giustizia, dal canto suo, ha rivendicato la competenza esclusiva a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione, e dunque anche a precisare la portata del principio del primato del diritto dell’Unione alla luce delle disposizioni pertinenti di tale diritto. Tale portata non può dunque dipendere dall’interpretazione di disposizioni del diritto nazionale, né dall’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione seguita da un giudice nazionale che non corrisponda a quella della Corte. 

Piuttosto, spetta, al giudice nazionale modificare la propria giurisprudenza che sia incompatibile con il diritto dell’Unione.

Ora, l’aspro conflitto sull’individuazione dell’organo, la Corte di Giustizia o la corte costituzionale nazionale, cui spetta l’ultima parola sull’assetto ordinamentale si presta, nel «caso polacco», ad essere inquadrato nel contesto degli effetti delle forze centrifughe che l’orientamento politico sovranista-autoritario - sino a poco tempo fa dominante in Polonia - ha impresso alla giurisdizione. Tuttavia, esso si inserisce, in realtà, anche in un sommerso, ma potente e diffuso movimento tettonico, causato dal forte contrasto tra corti sovranazionali e corti supreme nazionali sul ruolo primaziale nella tutela dei diritti fondamentali e, più in generale, nella definizione dell’assetto dei valori fondamentali, nonché nell’individuazione delle regole di integrazione degli ordinamenti.

Il pensiero non può che correre immediatamente alla pozione del Bundesverfassunghericht, la Corte costituzionale della Repubblica Federale di Germania, sul programma PSPP di quantitative easing adottato dalla Banca centrale europea (BCE). Tralasciando i dettagli, connotati di elevata tecnicalità, è stato deciso il ricorso con cui alcuni cittadini tedeschi aveva sostenuto che le istituzioni nazionali, non opponendosi all’approvazione ed alle successive proroghe del piano di acquisti di titoli di debito pubblico degli Stati membri sul mercato secondario, avessero violato le disposizioni costituzionali che impediscono di assoggettare i cittadini tedeschi ad un potere privo di legittimazione democratica. 

La Corte costituzionale tedesca aveva richiesto alla Corte di Giustizia di pronunziarsi in via pregiudiziale, chiarendo se la BCE avesse leso la sfera di sovranità di cui gli Stati membri dispongono con riguardo alle scelte di politica economica e di bilanci.

Tuttavia, pur avendo ricevuto una risposta negativa (sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss), con la sentenza del 5 maggio 2020 il Bundesverfassunghericht ha statuito che, limitando il proprio sindacato al controllo sull’errore manifesto, la Corte europea non avesse esercitato in maniera piena i poteri ad essa spettanti, finendo così per esentare gli atti della BCE da un effettivo controllo giurisdizionale. In sostanza, non vi era stata un’adeguata verifica volta a stabilire, alla luce del principio di proporzionalità, se, nel caso di specie, la BCE avesse travalicato i confini della politica monetaria e invaso la sfera di competenza riservata agli Stati nazionali. 

Per tali ragioni, la pronuncia pregiudiziale è stata ritenuta emessa ultra vires¸ in quanto tale non vincolante per l’ordinamento tedesco e i suoi giudici.

Indipendentemente dalla condivisibilità delle argomentazioni che hanno portato il giudice tedesco a decidere nel senso sintetizzato, è evidente come esso abbia inteso sottrarsi alla vincolatività delle decisioni del giudice europeo su un aspetto ritenuto decisivo nell’assetto ordinamentale.

A distanza temporale di meno di un anno, un altro giudice supremo di un Paese fondatore delle Comunità europee, il Conseil d’État francese, con la sentenza del 21 aprile 2021, ha palesemente disatteso, seppure attraverso un’operazione interpretativa, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che anche qui si era espressa in via pregiudiziale su richiesta dal medesimo giudice supremo amministrativo.

La questione, rinveniente dal ricorso di alcune associazioni attive nel campo della protezione dei dati personali, riguardava la conformità del regime francese di accesso, trattamento e conservazione dei dati di connessione da parte dei servizi di informazione alla normativa europea in materia, ed aveva visto la pronuncia della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 6 ottobre 2020, nelle cause riunite C-511/18, C-512/18 e C-520/18, La Quadrature du Net.

La Corte europea aveva ritenuto incompatibile con l’ordinamento europeo, che protegge i dati personali, la disciplina francese che impone la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati di connessione e consente ai sevizi di sicurezza l’accesso in tempo reale agli stessi.

Nondimeno, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’obiettivo di salvaguardia della sicurezza nazionale, ben più importante di quelli di lotta alla criminalità in generale e di tutela della sicurezza pubblica, può portare una deroga alla disciplina europea. D’altra parte, come chiarito dalla stessa Corte di Giustizia, la presenza di una minaccia “grave”, “reale e attuale o prevedibile” può giustificare misure di conservazione preventiva dei dati. 

L’applicazione del diritto europeo, pertanto, osta unicamente alla previsione di un obbligo di conservazione generalizzata dei dati sensibili per esigenze diverse (e minori) quali, ad esempio, il perseguimento di illeciti penali.

Non meno determinata è stata la Corte costituzionale italiana, allorché la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, dell’8 settembre 2015, nella causa C-105/14, Taricco, ha affermato l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina in materia di prescrizione, ove ritenga che tali disposizioni, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impediscano allo Stato italiano di adempiere all'obbligo di effettiva tutela degli interessi finanziari dell'Unione nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti impunite in un numero considerevole di casi.

La tecnica adoperata dal giudice costituzionale italiano, però, è stata diversa e di tipo collaborativo. 

Infatti, con l'ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24, la Corte costituzionale ha a sua volta sollevato nuova questione pregiudiziale, chiarendo, però, che nell’ordinamento costituzionale italiano la prescrizione ha natura non processuale, ma sostanziale, sicché essa è pienamente assoggettata al principio di legalità, non solo con riferimento al divieto di retroattività ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità, dovendo la relativa disciplina essere analiticamente descritta, al pari del reato e della pena, da norme vigenti al tempo di commissione del fatto. Il giudice delle leggi ha quindi affermato che la legalità in materia penale rappresenta, ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost., «principio supremo dell'ordinamento», posto a presidio «dei diritti inviolabili dell'individuo», sicché l’attuazione del dictum della sentenza Taricco si sarebbe risolto in un vulnus che la Corte costituzionale non avrebbe potuto accettare e che avrebbe, pertanto, comportato l’applicazione della c.d. teoria dei controlimiti, con conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge di ratifica del TFUE nella parte in cui consente l’introduzione nell’ordinamento nazionale dell’obbligo prefigurato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Anche la Corte di Giustizia, dal canto suo, ha adottato un approccio dialogante, pronunciandosi con la sentenza della Grande Sezione del 5 dicembre 2017, nella causa C-42/17, M.A.S., con cui, pur ribadendo la propria precedente ricostruzione, ha specificato che la disapplicazione delle norme sulla prescrizione non deve aver luogo se «comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato».

La breve rassegna testé riportata non è intesa a giustificare, evidentemente, l’assai criticabile posizione della Corte costituzionale polacca.

Tuttavia, lo sforzo del giurista non può che essere anche quello di cogliere, nel mondo in cui è immerso, le linee di sviluppo giuridico. Ora, se è innegabile che negli ultimi decenni vi sia stata un’integrazione sempre maggiore tra ordinamenti nazionali e diritto europeo, ebbene, altrettanto innegabile è che tale integrazione comporti la rottura di consolidati equilibri storici, che vedono in ogni tradizione ordinamentale delle Corti poste a vertice e a chiusura del sistema e a presidio dei valori dell’ordinamento. Ora, il ruolo di tali Corti viene messo in gioco, o forse addirittura in crisi, dalla nuova articolazione multilivello degli ordinamenti, che comporta, altresì, una diversificazione delle forme di tutela dei valori fondamentali.

Ciò reca inevitabilmente con sé tentativi di dialogo e momenti di contrasto, alla ricerca di un equilibrio che, per quanto provvisorio come tutte le costruzioni umani, possa essere soddisfacente.

Dove possa collocarsi il punto di equilibrio è domanda a cui non è data, al momento, risposta, ma le nuove tappe del percorso non tarderanno ad aggiungersi.


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