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Ragionevole durata delle indagini preliminari e diritto di accesso a un Tribunale

ago 28, 2021

Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza del 18 marzo 2021 (ricorso n. 24340/07)


IL CASO E LA SOLUZIONE

Un soggetto che aveva denunciato dinanzi alla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere l'autore di articoli ritenuti diffamatori nei suoi confronti, ricorre alla Corte europea dei diritti dell'uomo per ottenere la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno che gli sarebbe stato procurato dall'eccessiva durata delle indagini preliminari svolte nell'ambito del procedimento penale interno avviato per diffamazione.

In sostanza, il ricorrente ha dedotto che erano trascorsi circa sei anni tra la sua denuncia e la successiva archiviazione della notizia di reato per intervenuta prescrizione.

La Corte ha premesso che secondo la legge Pinto la durata del processo penale nazionale dovrebbe essere calcolata a partire dal momento in cui la persona offesa è ammessa al processo in qualità di parte civile, ma che, secondo una corretta interpretazione della Convenzione, l'art. 6 paragrafo 1 della stessa si applica anche alla parte lesa che non si è costituita parte civile, qualora, anche anteriormente al momento in cui tale costituzione può avvenire (udienza preliminare, nel caso di specie), la vittima del reato possa esercitare diritti e facoltà espressamente riconosciutile dalla legge, così come avviene nel nostro procedimento penale.

Nel caso di specie, il ricorrente era titolare del diritto alla protezione della sua reputazione, e in denuncia aveva dichiarato di volersi costituire parte civile e richiesto di essere avvisato nel caso di eventuale archiviazione della notizia di reato: l'esercizio delle facoltà a lui concesse dal codice di procedura penale rendeva dunque applicabile anche al suo caso l'art. 6 sopra citato.

La Corte ha affrontato poi l'altra questione preliminare del mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, concludendo anche in questo caso per la ricevibilità del ricorso.

In particolare, ha escluso che configuri, nel suo insieme, una vera e propria via di ricorso interna il fatto che gli articoli 405 e 406 c.p.p. prevedano dei termini per l’esecuzione degli atti di indagine, e che il ricorrente avrebbe potuto, una volta scaduti tali termini, e vista l’inerzia della Procura, sollecitare la Procura stessa e poi chiedere, sulla base degli articoli 412 e 413 c.p.p., al Procuratore generale presso la Corte d’appello di procedere all’avocazione delle indagini.

I Giudici europei hanno infatti qualificato tale percorso giuridico alla stregua di un “ricorso gerarchico”, che, in quanto tale, non conferisce al suo autore un diritto personale di ottenere che lo Stato eserciti i suoi poteri di sorveglianza.

D’altra parte, i Giudici europei hanno rilevato come lo stesso CSM riconosca apertamente che è impossibile per le Procure generali riuscire ad avocare tutte le indagini preliminari per le quali i termini sono già scaduti.

Nel merito, la Corte ha dichiarato:

- l’irragionevolezza del tempo occorso per definire il procedimento penale (circa cinque anni e sei mesi per la sola fase delle indagini preliminari), in quanto, tenendo conto dei criteri della complessità della causa, del comportamento del ricorrente e di quello delle autorità competenti, nonché della posta in gioco della controversia per l’interessato, era emerso che nel caso di specie non fosse stata svolta alcuna attività di indagine, e che la causa non era particolarmente complessa;

- la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione anche a causa del mancato accesso a un tribunale, dal momento che la decisione di archiviare la causa per intervenuta prescrizione dell’azione penale era stata dovuta all’inerzia della Procura, e avrebbe impedito al ricorrente di costituirsi parte civile e di ottenere la protezione dei suoi diritti di carattere civile, tramite l’esame della sua domanda di risarcimento.


POSSIBILITA’ DI ACCESSO A UN TRIBUNALE CIVILE DOPO LA PRESCRIZIONE DELL’AZIONE PENALE

Secondo la CEDU, ogni persona ha diritto a che un tribunale esamini le controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile. In tal modo l’articolo 6 § 1 sancisce il «diritto a un tribunale», del quale il diritto di accesso, vale a dire il diritto di adire un tribunale in materia civile, costituisce soltanto un aspetto.

Tuttavia, questo diritto non è assoluto, e si presta a limitazioni implicitamente ammesse, in quanto richiede, per sua stessa natura, una regolamentazione da parte dello Stato contraente, il quale gode in materia di un certo margine di apprezzamento.

I Giudici europei devono a quel punto verificare che le limitazioni attuate non restringano l’accesso offerto all’individuo in un modo o a un punto tale da compromettere il diritto in questione nella sua stessa sostanza, e che le stesse tendano a uno scopo legittimo, all’interno di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

Si può così dire che il diritto di accesso a un tribunale è violato quando la sua regolamentazione smette di perseguire gli scopi della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia e costituisce una sorta di barriera che impedisce alla persona sottoposta alla giustizia di ottenere che la sua causa sia esaminata nel merito dalla giurisdizione competente, come nel caso, ad esempio, di un errore procedurale che impedisce al ricorrente il suo diritto di azione (facendolo incorrere in una sanzione di inammissibilità), e di cui quest’ultimo non è oggettivamente responsabile.

Parimenti, nel caso di assenza di un esame sul merito di costituzioni di parte civile, a causa dell’irricevibilità delle denunce penali alle quali tali costituzioni sono allegate, è molto importante che sussista, ai fini del rispetto dell’art. 6 CEDU, l’accessibilità e l’effettività delle altre vie giudiziarie offerte dall'ordinamento agli interessati per far valere le loro pretese, soprattutto con riguardo alle azioni disponibili dinanzi alle giurisdizioni civili.

In particolare, la Corte ha ritenuto la violazione dell’articolo 6 della Convenzione quando la chiusura del procedimento penale e il mancato esame dell’azione civile erano stati dovuti a circostanze attribuibili principalmente alle autorità giudiziarie procedenti, e in special modo nell’ipotesi di ritardi procedurali eccessivi comportanti la prescrizione del reato.

Ed è proprio questo il caso della sentenza di cui in commento, in quanto, da un lato, il ricorrente si era avvalso dei diritti e delle facoltà che erano nella sua disponibilità in base al diritto interno, e che gli avrebbero permesso, al momento dell’udienza preliminare, di chiedere la riparazione del pregiudizio civile di cui sosteneva di essere stato vittima, e, dall’altro, è soltanto a causa del ritardo con il quale le autorità procedenti hanno trattato il fascicolo, e della prescrizione del reato denunciata, che il ricorrente non ha potuto presentare la propria domanda di risarcimento dei danni e che, di conseguenza, non ha potuto ottenere una decisione sulla sua domanda nell’ambito del procedimento penale.

Questo comportamento negligente delle autorità ha prodotto, secondo la Corte, la conseguenza di privare il ricorrente dell’esame delle sue richieste di carattere civile nell’ambito del procedimento che aveva scelto di esperire e che era a sua disposizione nell’ordinamento giuridico interno.

Secondo i Giudici europei, d’altra parte, non si può esigere che una persona che ricorra a rimedi di giustizia intenti un’analoga azione di responsabilità civile dinanzi al giudice civile, dopo la constatazione della prescrizione dell’azione penale dovuta ad errore del giudice penale stesso.

Intentare una tale azione implicherebbe probabilmente, sempre secondo la Corte, la necessità di raccogliere nuovamente delle prove, che il ricorrente avrebbe a questo punto l’onere di produrre, così che l’accertamento dell’eventuale responsabilità civile potrebbe risultare estremamente difficile, dopo così tanto tempo.

In chiave critica rispetto alla decisione commentata, si può osservare che l’articolo 6§ 1 della Convenzione non garantisce esplicitamente il diritto di accesso a un tribunale, e che l’enunciazione di tale diritto di promuovere un procedimento dinanzi ai tribunali in materia civile (e soltanto in materia civile) deriva dall’interpretazione di tale norma così come offerta dalla Corte.

La pronuncia oggetto di analisi sembra anche dare per scontato - come se si trattasse di una giurisprudenza consolidata – che l’accesso a un tribunale è una questione distinta da quella afferente alla durata del procedimento, e che dunque siano possibili simultanee constatazioni di violazione.

Ma questa interpretazione, alla luce di un esame complessivo della giurisprudenza formatasi in materia, non è totalmente convincente.

In egual modo, qualora sussistano due vie procedurali entrambe esperibili ed effettive (come nel caso dell’azione penale e dell’azione civile per lo stesso fatto), la Corte, nel determinare se sussista una questione ai sensi dell’articolo 6, dovrebbe tenere conto di tutti procedimenti azionabili dal ricorrente, e non valutare, in ordine al diritto di accesso, se i provvedimenti adottati nel corso del procedimento scelto abbiano complessivamente indebolito la posizione del ricorrente, anche in ordine al distinto procedimento che non è stato prescelto, ma soltanto valutare, ex ante, se, al momento della scelta di una certa linea di azione, l’altra fosse accessibile ed effettiva.

In altre parole, è operazione di dubbia correttezza introdurre nel criterio delle “due vie”, elaborato dalla Corte al fine di valutare la disponibilità ex ante di una alternativa via di accesso a un tribunale, alcuni criteri di valutazione ex post che possono essere adatti all’ambito dell’equità procedurale (in cui è necessario un approccio globale) ma che non paiono applicabili all’accesso a un tribunale.

Ulteriore perplessità suscita equiparare, al fine di valutare se vi sia stata violazione del diritto alla ragionevole durata dei procedimenti, la presentazione di una denuncia ai pubblici ministeri (o alla polizia) a una domanda di costituzione di parte civile.

Nel caso esaminato dalla Corte non esisteva, in effetti, una reale domanda civile, poiché l’ordinamento nazionale permette di presentare una simile azione soltanto in una fase che nella fattispecie non era stata raggiunta, a causa dell’intervenuta archiviazione del procedimento.

L’assenza di un’autentica domanda civile rende problematica l’equiparazione tra tale domanda e la denuncia penale innanzitutto perché, come visto, il diritto di accesso a un tribunale concerne soltanto i diritti di carattere civile, che non si può ragionevolmente ritenere che siano stati esercitati dinanzi al pubblico ministero e/o alla polizia, a cui è presentata una denuncia; in secondo luogo, poi, il diritto di accesso a un tribunale non può essere dissociato dalla possibilità per la vittima di un reato di instaurare un procedimento civile anche dopo la prescrizione del reato, così come riconosciuto dal nostro diritto nazionale, con la conseguenza che l’archiviazione non dovrebbe di per sé comportare, neanche ai sensi della CEDU, un diniego di accesso a un tribunale (civile).

D'altra parte, affermare che la presentazione di una denuncia di un asserito reato alla polizia o ai pubblici ministeri equivalga all’instaurazione di un’azione civile ai fini del diritto di accesso a un tribunale di cui all’articolo 6 § 1 della Convenzione avrebbe conseguenze particolarmente paradossali per i Paesi in cui la legislazione nazionale lascia l’esercizio dell’azione penale alla discrezionalità del pubblico ministero e nessun tribunale è coinvolto in tale valutazione, neanche potenzialmente.


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