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L’erosione dell’autorità del giudicato

di Francesco Tallaro • giu 01, 2022

Un istituto di credito richiede al tribunale e ottiene un decreto ingiuntivo, in forza di un contratto stipulato con il debitore, un consumatore.

Il decreto ingiuntivo non viene opposto e, pertanto, diviene definitivamente esecutivo, ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

L’istituto creditore avvia, dunque, la procedura esecutiva, ma il giudice dell’esecuzione rileva d’ufficio che l’entità del credito dipende da una clausola penale che deve essere considerata abusiva ai sensi dell’art. 33 ss. d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, recante il codice del consumo.

Come noto, secondo il diritto processuale civile ogni questione relativa alla validità del contratto da cui deriva il credito è coperta dalla preclusione pro iudicato, che attribuisce al decreto ingiuntivo non opposto forza di giudicato.

Il giudice dell’esecuzione, tuttavia, si interroga se tale assetto processuale sia in linea con la direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, che obbliga gli Stati membri ad assicurare ai consumatori una tutela effettiva nei confronti delle clausole abusive contenute nei contratti da loro stipulati.

Propone, quindi, questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Con la sentenza della Grande Sezione del 17 maggio 2022, pronunciata nelle cause riunite C‑693/19 e C‑831/19, la Corte ha quindi dato risposta alla questione pregiudiziale illustrata, che frattanto era stata sollevata anche da un diverso giudice.

La Corte, pur riconosciuta l’importanza che l’autorità del giudicato ha per l’ordinamento europeo e per gli ordinamenti nazionali, ha tuttavia precisato che l’obbligo per gli Stati membri di garantire l’effettività dei diritti riconosciuti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione implica un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva. In assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto stipulato con il consumatore, il rispetto dei diritti conferiti al consumatore dalla direttiva 93/13, non può essere garantito [1].

Quindi, una normativa nazionale, come quella che in Italia disciplina il decreto ingiuntivo, secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta nel decreto monitorio, può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela del consumatore, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali.

Ne consegue che, in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione.

In sostanza, quindi, l’autorità della cosa giudicata cede alle esigenze di tutela piena dei diritti dei consumatori, in ragione dell’importanza dell’interesse pubblico ad essi riconnesso.

La presa di posizione della Corte di Giustizia non può sorprendere, perché è evidente che l’autorità del giudicato sta da tempo subendo una lenta, ma continua ed inesorabile erosione, derivante dal confronto tra le regole processuali nazionali e i principi europei, così come incarnati, nei due diversi ma osmotici ordinamenti continentali cui la Repubblica italiana aderisce, dal case law della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Lo smottamento del principio di intangibilità del giudicato, quindi, si verifica su due diversi versanti.

Da un lato si staglia la necessità di rivedere il contenuto del giudicato nel caso in cui la Corte europea dei Diritti dell’Uomo abbia accertato che, nello svolgimento del processo che ha portato alla formazione della cosa giudicata, ci sia stata la violazione di un diritto fondamentale della parte che al giudicato è soggetta.

In ambito penale, il bisogno è stato soddisfatto dalla Corte costituzionale [2], che ha interpolato l’art. 630 c.p.p. per inserire, quale nuova ipotesi di revisione del processo, quella in cui occorra conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1 della Convenzione. Ciò avviene quando la sentenza della Corte sia stata resa sulla medesima vicenda oggetto del processo definito con sentenza passata in giudicato; oppure quando essa abbia natura di “sentenza pilota”, riguardante situazione analoga a quella oggetto del giudicato, verificatasi per disfunzioni strutturali o sistematiche all'interno del medesimo ordinamento giuridico; o, ancora, quando la Sentenza della Corte abbia accertato una violazione di carattere generale e ricorra una situazione corrispondente che implichi la riapertura del dibattimento [3].

Analogo intervento manipolativo è stato sollecitato con riferimento al giudicato amministrativo [4], ma il giudice delle leggi, con un iter argomentativo che si applica tout court anche al giudicato civile, è, in questo caso, giunto a un esito diverso [5]

La Corte costituzionale, infatti, ha evidenziato che nei vari ordinamenti nazionali non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una sentenza della Corte che abbia accertato violazioni convenzionali e che, secondo la giurisprudenza di Strasburgo [6], pur essendo opportuno che gli Stati contraenti adottino delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, è comunque rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguardi terzi con i propri legittimi interessi da tutelare.

Ciò posto, nel processo amministrativo, così come nel processo civile, non si pone, come nel contesto penalistico, un problema di compressione della libertà personale che giustifichi il sacrificio della stabilità della res iudicata. Inoltre, nel processo amministrativo (e nel processo civile) è fisiologica la compresenza di una pluralità di soggetti portatori di diversi interessi, che non necessariamente sono coinvolti nel giudizio davanti alla Corte di Strasburgo. Di conseguenza, l’automatica caducazione del giudicato amministrativo contrastante con i diritti assicurati dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe comportare il sacrificio degli interessi di tali soggetti in assenza di un previo contraddittorio.

Su questo versante, quindi, l’autorità del giudicato civile e amministrativo resiste, ma rimane – in dottrina [7] – il dubbio che non la si debba, con un intervento legislativo, allentare o superare per meglio conformare l’ordinamento italiano all’ordinamento derivato dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Sul versante dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, i fronti su cui l’autorità del giudicato vede degli smottamenti sono molteplici.

Formalmente, la Corte di Lussemburgo presta ossequio all’intangibilità del giudicato, ricordando puntualmente l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali, posto che, al fine di garantire tanto la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici tanto una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili, o dopo la scadenza dei termini previsti per tali ricorsi, non possano più essere rimesse in discussione [8].

E tuttavia, l’ordinamento dell’Unione europea prevede la responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, anche quando tale violazione sia stata consacrata da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado [9], persino se il contrasto sia emerso in forza di una pronuncia della Corte di Giustizia posteriore alla formazione del giudicato, e ciò perché il giudice di ultimo grado aveva l’obbligo di interrogare la Corte di Lussemburgo prima di decidere [10].

In tali ipotesi, è richiesto al giudice dell’azione risarcitoria di valutare la conformità del dictum, ormai divenuto cosa giudicata, al diritto europeo, con evidente dequotazione dell’autorità del giudicato, un tempo in grado di fare de albo nigro, ma ormai oggetto di nuova valutazione da parte di un giudice del merito.

Come già anticipato, le deroghe all’autorità del giudicato che, via via, la Corte di Giustizia ha imposto sono però molteplici.

In primo luogo, la Corte si è spinta ad affermare l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di rivedere una decisione confermata in sede giurisdizionale, quando l’interpretazione adottata dalla decisione divenuta cosa giudicata è risultata, in forza della giurisprudenza della medesima Corte europea, in contrasto con il diritto europeo, e purché il diritto interno consenta alle amministrazioni stesse di rivedere la loro decisione e l’interessato si sia rivolto ad esse tempestivamente [11]. Peraltro, la richiesta di riesame dell’atto da parte dell’interessato non è preclusa dal fatto di non aver sollevato, nella causa principale, la questione dell’incompatibilità dell’atto amministrativo col diritto europeo, essendo sufficiente che detta questione di diritto comunitario, la cui interpretazione si è rivelata erronea alla luce di una sentenza successiva della Corte, sia stata esaminata dal giudice nazionale che ha statuito in ultima istanza, oppure che avesse potuto essere sollevata d’ufficio da quest’ultimo [12].

Con riferimento all’obbligo, per gli Stati membri, di recuperare gli aiuti di Stato illegittimi, si ha, poi, un sostanziale superamento dell’autorità del giudicato, affermandosi che il diritto comunitario osta all'applicazione di una norma nazionale, come l'art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell'autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l'applicazione di tale norma impedisca il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto dell'Unione europea e la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva [13].

Peraltro, il giudicato non potrà essere opposto nemmeno se la decisione della Commissione europea, che accerta l’incompatibilità dell’aiuto di Stato con il mercato comune, sia posteriore alla formazione della res iudicata: l'esecuzione della decisione della Commissione europea, osserva la Corte, sarebbe destinata a fallire se fosse possibile opporle una decisione giurisdizionale nazionale che dichiara dovuto l’aiuto [14].

Più in generale, la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo è nel senso che, qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, e sempre che dette condizioni siano soddisfatte [15].

Estendendo tale principio, è stato affermato che, in occasione del controllo giurisdizionale della legittimità della decisione di rimpatrio dello straniero, adottata successivamente al rigetto di una domanda di protezione internazionale confermato da una decisione giurisdizionale munita dell’autorità di cosa giudicata, il giudice nazionale investito di un ricorso avverso la decisione di rimpatrio può, ai sensi del diritto dell’Unione e senza che a ciò osti l’autorità di cui è dunque munita la decisione giurisdizionale che conferma tale rigetto, esaminare, in via incidentale, la validità di un siffatto rigetto allorché sia fondato su un motivo contrario al diritto dell’Unione [16].

Ancora, in materia fiscale, la Corte ha ritenuto incompatibile con l’ordinamento comunitario l’interpretazione data dalla giurisprudenza italiana all’art. 2909 c.c., secondo cui il giudicato derivante dalla pronuncia definitiva relativa a uno specifico anno di imposta si estende, quanto agli elementi fattuali invariati, anche alle controversie relative ad altri periodi d’imposta, allorché siffatta estensione finisca per perpetrare una violazione del diritto europeo [17].

La recente sentenza della Corte di Giustizia della Grande Sezione del 17 maggio 2022 sembra fare ancora un passo in avanti, consentendo il superamento dell’autorità della cosa giudicata non già nei rapporti tra privati ed amministrazione pubblica, laddove quest’ultima è investita di una pubblica potestà nell’esercizio della quale essa deve garantire il rispetto del diritto europeo; ma in una controversia tra privati, nella quale il consumatore non ha utilizzato gli strumenti processuali accordatigli dall’ordinamento per far valere i diritti assegnatigli dal diritto europeo. 

Di fronte alla progressiva dissoluzione dell’autorità del giudicato, in caso di contrasto con il diritto di derivazione europea, l’interprete non può che interrogarsi su quale possa essere il destino di tale fondamentale istituto, anche sul piano del diritto meramente interno.

Per esempio, è noto che i vincoli europei impongono agli ordinamenti degli Stati nazionali l’obbligo di assicurare alle posizioni di vantaggio attribuite dal diritto europeo una tutela efficace e non inferiore a quella riconosciuta alle situazioni giuridiche soggettive positive di rilievo interno.

Ma, in forza del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., deve valere anche il contrario, e cioè che i diritti e le altre posizioni di interesse riconosciute dal diritto nazionale non possono ricevere tutela inferiore a quella accordata alle posizioni di vantaggio di derivazione europea.

Quindi, una volta giustificata la cedevolezza del giudicato in nome del perseguimento di interessi essenziali per l’ordinamento europeo, anche a fronte di interessi essenziali per l’ordinamento nazionale, quali – ad esempio – la protezione della finanza pubblica, la forza del giudicato dovrà essere recessiva.

Ed in effetti, già in qualche piega dell’ordinamento emerge una siffatta tendenza.

In una vicenda recentemente esaminata dal Consiglio di Stato [18] si contendeva sull’esecuzione di una sentenza di una Corte d’Appello passata in cosa giudicata in ragione del rigetto del ricorso per cassazione proposto dalla parte, un’amministrazione pubblica, soccombente.

La Corte territoriale aveva condannato l’amministrazione al pagamento di una somma di danaro a titolo di indennizzo per l’intervenuta espropriazione di un’area, rifiutando di esaminare la documentazione, tardivamente proposta, che dimostrava l’accettazione e la riscossione, ad opera della parte privata, dell’indennità di espropriazione. La Suprema Corte aveva ritenuto corretta la decisione del giudice del merito, in ragione delle preclusioni processuali che non consentivano la produzione di documentazione.

Proposta azione di ottemperanza, l’amministrazione debitrice aveva sottoposto la questione dell’intervenuto parziale pagamento al tribunale amministrativo regionale, che però l’aveva rigettata.

Il Consiglio di Stato, dal canto suo, ha accolto l’appello sul punto. La sentenza è motivata, tra l’altro, mediante l’affermazione del principio per il quale, qualora il creditore abbia ottenuto una sentenza di condanna e in sede di ottemperanza ne chieda l’esecuzione, senza tenere conto dell’adempimento parziale effettuato in precedenza, si sia in presenza di un suo comportamento non corretto, che abilita il debitore a chiedere al giudice di esecuzione – sostanzialmente con una exceptio doli - di rilevare il precedente pagamento parziale: una tale difesa, del resto, configura una eccezione in senso lato, dal momento che l’avvenuto pagamento, anche parziale, può essere rilevato anche d’ufficio, quando emerga dagli atti: l’aver agito in sede giurisdizionale per ottenere dall’amministrazione la totalità della somma dovuta, nonostante parte di essa sia stata in precedenza incassata, connota la condotta dei privati per mala fede e scorrettezza. 

Nel caso segnalato, benché il giudice dell’appello non affronti expressis verbis la questione, è evidente che la sua decisione ha ritenuto superabile il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Infatti, l’avvenuto parziale pagamento del credito era questione sicuramente deducibile, ed anzi dedotta – sia pure tardivamente – nel giudizio di merito e, perciò, tradizionalmente coperta dal giudicato.

Nondimeno, l’approccio sostanzialistico del giudice amministrativo d’appello ha consentito di superare l’efficacia del giudicato in ragione di un valore – il divieto di comportamenti processuali malevoli – ritenuto evidentemente superiore.

Una visione del sistema processuale, dunque, non dissimile da quella propria della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che pone l’ordinamento alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra esigenza di certezza e bisogno di giustizia, raggiungibile solo con il tempo.



[1] CGUE 4 giugno 2020, nella causa C‑495/19.

[2] Corte cost. 7 aprile 2011, n. 113.

[3] Cass. Pen., Sez. VI, 2 marzo - 4 maggio 2017, n. 21635.

[4] Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 4 marzo 2015, n. 2.

[5] Corte cost. 26 maggio 2017, n. 123.

[6] CEDU, Grande Camera, sentenza 5 febbraio 2015, Bocham c. Ucraina.

[7] Si veda l’ampia e completa disamina di R. Conti, La giurisprudenza civile sull’esecuzione delle decisioni della Corte Edu, in La Corte di Strasburgo, speciale di Questione giustizia, aprile 2019, pp. 278 ss.

[8] In proposito, vengono citale le sentenze del 6 ottobre 2009, nella causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, e del 26 gennaio 2017, nella causa C‑421/14, Banco Primus.

[9] CGUE 30 settembre 2003, nella causa C-224/01, Köbler; CGUE 13 giugno 2006, nella causa C.173/03, Traghetti del Mediterraneo.

[10] CGCE 6 ottobre 1982, nella causa 283/81, Cilfit; CGUE 15 marzo 2017, in C‑3/16, Aquino.

[11] CGUE 13 gennaio 2004, nella causa C-453/00, Künhe & Heitz.

[12] CGUE 12 febbraio 2008, nella causa C-2/06, Kempter.

[13] CGUE 18 luglio 2007, nella causa C-119/05, Lucchini.

[14] CGUE 11 novembre 2015, nella causa C-505/14, Klausner Holz.

[15] CGUE 10 luglio 2014, nella causa C-213/13, Pizzarotti, in cui ha sottolineato la necessità di ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori.

[16] CGUE 14 maggio 2020, nelle cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU, FMS e altri.

[17] CGUE 3 settembre 2009, nella causa C-2/08, Olimpiclub; il principio è stato affermato anche con riferimento ad altri ordinamenti nazionali, come quello rumeno: cfr. CGUE 16 luglio 2020 nella causa C‑424/19, Cabinet de avocat.

[18] Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 2021, n. 3058.


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