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L'accesso al "sistema giustizia" in Italia secondo gli ultimi arresti dei Giudici europei

a cura della Redazione • gen 19, 2022

La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Giustizia UE hanno recentemente dettato alcuni principi in materia di esercizio dei diritti di difesa in giudizio da parte di cittadini e imprese, cercando di stabilire un difficile punto di equilibrio con riguardo alla naturale “tensione” che si crea tra accesso non condizionato e libero al sistema giustizia e necessità per tale sistema, per restare efficiente, di non incoraggiare azioni giudiziarie inutili e defatiganti, se non addirittura emulative e strumentali.

Una prima vicenda giunta al vaglio dei Giudici europei – in questo caso, quelli della CEDU – è nata dall’iniziativa di alcuni ricorrenti italiani che si sono visti “bocciare” il ricorso in cassazione per un rilievo di inammissibilità di natura formale (1).

In particolare, un soggetto che gestiva un'impresa commerciale con sede a Catania, dopo avere ricevuto nel 2003 la notifica di un avviso di sfratto dei locali commerciali che aveva preso in affitto, era restato soccombente sia in primo che in secondo grado rispetto all’ordine di rilasciare i locali.

Il 2 marzo 2010, tuttavia, il ricorrente presentò un ricorso per cassazione, la cui esposizione dei fatti conteneva una sintesi dell'oggetto della controversia e dello svolgimento del procedimento. I motivi di ricorso e la motivazione della sentenza impugnata erano trascritti; gli atti processuali e i documenti citati erano parzialmente riportati o riassunti e recavano la numerazione del fascicolo di parte di primo grado.

La seconda parte del ricorso verteva invece sui motivi di ricorso sollevati avverso la sentenza. Ogni motivo indicava l’ipotesi invocata, conformemente all'articolo 360 del codice di procedura civile.

Per quanto riguarda i documenti trascritti o riassunti nella seconda parte, il ricorrente rinviava alla motivazione della sentenza d’appello o ai documenti del procedimento di merito (note difensive depositate in appello, verbale di un’udienza, memoria della parte convenuta). La sentenza della corte d’appello e i documenti del fascicolo d’appello erano allegati al ricorso per cassazione.

A fronte del ricorso in cassazione, però, la Corte adita aveva dichiarato il ricorso inammissibile, rammentando che il numero 4 dell’art. 366 c.p.c. prescrive, a pena d’inammissibilità, che il ricorso contenga i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, e il successivo n. 6 prescrive, sempre a pena d’inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui il ricorso si fonda, di modo che il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto.

Secondo l’arresto della Corte di Cassazione poi contestato dal ricorrente davanti ai Giudici europei, il primo onere (di produzione) avrebbe dovuto essere adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovasse il documento in questione, mentre il secondo (di indicazione) avrebbe dovuto essere adempiuto trascrivendo о riassumendo nel ricorso il contenuto del documento.

A fronte dell’esistenza di tali principi, però, a detta del giudice di legittimità, il ricorrente in cassazione non ne era stato rispettoso, in quanto i cinque motivi in cui era articolato il ricorso sarebbero stati privi della rubrica indicativa dei vizi lamentati e dei riferimenti alla documentazione su cui erano basate le argomentazioni a sostegno. 

L’imprenditore di Catania, a quel punto, ha portato lo Stato italiano in giudizio dinanzi alla CEDU, sostenendo che l'interpretazione eccessivamente formalistica adottata dalla Corte di Cassazione avrebbe impedito l'esame del suo ricorso. In particolare, ha sostenuto che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, come applicato all'epoca dei fatti, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente.

In effetti, l’applicazione di tale principio, di origine giurisprudenziale, era stato chiarito dalla stessa Corte di Cassazione con alcune sentenze delle Sezioni Unite (in particolare la sentenza n. 8077/2012), e tramite un protocollo stipulato nel 2015 con il CNF, che avrebbe cercato di arginare l'approccio eccessivamente formalistico originariamente tenuto dai Giudici di legittimità.

Nello specifico, il protocollo d’intesa tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense del 17 dicembre 2015 aveva fissato dei criteri per la redazione del ricorso per cassazione in materia civile e tributaria, sul presupposto della presa d’atto delle complicazioni ingenerate nella gestione dei procedimenti innanzi alla Corte di cassazione per il moltiplicarsi di ricorsi e per la riscontrata difficoltà di definire in modo chiaro e stabile il senso e i limiti del c.d. principio di autosufficienza del ricorso affermato dalla giurisprudenza.

Secondo il protocollo, il rispetto di tale principio non avrebbe dovuto comportare un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento, restando sufficiente che ciascun motivo risponda ai criteri di specificità imposti dal codice di procedura civile, e che:

- nel testo di ciascun motivo che lo richieda sia indicato l’atto, il documento, il contratto o l’accordo collettivo su cui si fonda il motivo stesso (art. 366, c. 1, n. 6, del CPC), con la specifica indicazione del luogo (punto) dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo al quale ci si riferisce;

- nel testo di ciascun motivo che lo richieda siano indicati il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento, del contratto o dell’accordo collettivo e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto;

- siano allegati al ricorso (in apposito fascicoletto, che va pertanto ad aggiungersi all’allegazione del fascicolo di parte relativo ai precedenti gradi del giudizio) ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4, del CPC, gli atti, i documenti, il contratto o l’accordo collettivo ai quali si sia fatto riferimento nel ricorso e nel controricorso.

In ogni caso, il chiarimento in questione sarebbe stato successivo al rigetto del ricorso, che era invece intervenuto nel 2011.

La Corte dei diritti dell’uomo ha rammentato che, in questo tipo di cause, il suo compito consiste nel verificare se il rigetto per inammissibilità di un ricorso per cassazione abbia pregiudicato la sostanza stessa del «diritto» del ricorrente «a un tribunale». Per farlo, ha esaminato innanzitutto se le condizioni imposte per la redazione del ricorso per cassazione abbiano perseguito uno scopo legittimo, e ha poi valutato la proporzionalità delle limitazioni imposte.

Sotto il primo profilo, la Corte ha osservato che lo scopo avuto di mira dall’applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sarebbe stato quello di agevolare la comprensione della causa e delle questioni sollevate nel ricorso e di permettere alla Corte di Cassazione di decidere senza doversi basare su altri documenti, affinché quest’ultima possa mantenere il suo ruolo e la sua funzione, che consistono nel garantire in ultimo grado l’applicazione uniforme e l’interpretazione corretta del diritto interno (nomofilachia).

Alla luce di questi elementi, la Corte ha ritenuto che tale principio sia legittimamente volto a semplificare l’attività della Corte di cassazione e a garantire allo stesso tempo la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

Sotto il secondo profilo (proporzionalità delle limitazioni imposte), la Corte ha osservato che il principio di autosufficienza permette ordinariamente alla Corte di Cassazione di circoscrivere il contenuto delle doglianze formulate e la portata della valutazione che le viene richiesta alla sola lettura del ricorso, e garantisce un utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili.

Tale approccio è attinente alla natura stessa del ricorso di legittimità, che protegge, da una parte, l’interesse del ricorrente a che siano accolte le sue critiche contro la decisione impugnata e, dall’altra, l’interesse generale alla cassazione di una decisione che rischi di pregiudicare la corretta interpretazione del diritto. Perciò, la Corte ammette che le condizioni di ricevibilità di un ricorso per cassazione possono essere più rigorose che per un appello, anche in considerazione dell’enorme arretrato e del notevole afflusso dei ricorsi presentati ogni anno dinanzi all’Alta giurisdizione.

Tuttavia, anche se il gravoso carico di lavoro della Corte di Cassazione può causare difficoltà al normale funzionamento della trattazione dei ricorsi, resta comunque il fatto che le restrizioni dell'accesso alle Corti di legittimità non possono limitare, attraverso un'interpretazione troppo formalistica, il diritto di accesso a un tribunale, in modo tale o a tal punto che il diritto sia leso nella sua stessa sostanza.

In particolare, la Corte EDU ha osservato che l'applicazione da parte della Corte di Cassazione del principio di autosufficienza, almeno fino al 2012, ha rivelato una tendenza dell'Alta giurisdizione a porre l'accento su aspetti formali che non rispondevano allo scopo legittimo individuato, con particolare riferimento all'obbligo di trascrivere integralmente i documenti citati nei motivi di ricorso, e in contrasto con l’esigenza di prevedibilità della restrizione.

Il motivo di tale tendenza risiedeva, tra l'altro, proprio nella natura del principio di autosufficienza, che prevede che il ricorrente debba presentare tutti gli elementi di fatto e di diritto per ciascun motivo di ricorso affinché la Corte di cassazione possa pronunciarsi unicamente sulla base del ricorso stesso.

Nel caso specificamente esaminato dai Giudici europei – ricorso sollevato dall’imprenditore di Catania - ciascuno dei motivi di ricorso del ricorrente che denuncia un error in iudicando, oppure un error in procedendo, si apriva con l’indicazione degli articoli o dei principi di diritto di cui era dedotta la violazione, e rinviava ai numeri 3 o 4 dell’articolo 360 del CPC, due delle ipotesi in cui è ammesso il ricorso per cassazione che possono essere invocate dalla parte interessata.

Analogamente, nella sua critica della sentenza della Corte di Appello sotto il profilo del vizio di motivazione, il ricorrente faceva riferimento all’ipotesi prevista nel numero 5 dell’articolo 360 c.p.c..

In queste condizioni, la Corte ha ritenuto che l’obbligo di precisare il tipo di critica formulata, con riferimento alle ipotesi legislativamente limitate di casi in cui può essere proposto ricorso per cassazione previsti dall’articolo 360 del codice del processo civile, era stato sufficientemente rispettato dal ricorrente. La Corte di Cassazione avrebbe potuto sapere, dopo aver letto ciascuno dei titoli, qual era il tipo di caso trattato nel motivo di ricorso e quali disposizioni erano eventualmente invocate.

In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha dichiarato che il ricorso per cassazione del ricorrente aveva omesso di riportare le indicazioni necessarie per individuare i documenti menzionati a sostegno delle critiche che quest’ultimo aveva esposto nei suoi motivi di ricorso.

Dalla lettura dei motivi del ricorso per cassazione risultava, invece, che il ricorrente, nel fare riferimento ai punti contestati della sentenza della Corte di Appello, aveva rinviato alla motivazione della sentenza riprodotta nell’esposizione dei fatti, in cui erano ripresi i passaggi pertinenti. Inoltre, nel citare i documenti del procedimento sul merito per esporre il suo ragionamento, il ricorrente aveva trascritto i brevi passaggi pertinenti e aveva rinviato al documento originale, permettendo così di individuarlo tra i documenti depositati con il suo ricorso per cassazione.

In queste condizioni, secondo i Giudici europei, la Corte di Cassazione aveva mostrato un formalismo eccessivo, che non poteva essere giustificato rispetto alla finalità propria al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e, pertanto, rispetto allo scopo perseguito, ossia la garanzia della certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

Secondo la Corte EDU, infatti, la lettura del ricorso per cassazione del ricorrente permetteva di comprendere l’oggetto e lo svolgimento della causa dinanzi alle giurisdizioni di merito, nonché la sostanza dei motivi di ricorso, sia per quanto riguardava la base giuridica degli stessi (il tipo di critica in riferimento ai casi previsti dall’articolo 360 del CPC), che per quanto riguardava il loro contenuto, attraverso i rinvii ai passaggi della sentenza della Corte di Appello e ai documenti pertinenti citati nel ricorso per cassazione stesso.

In conclusione, la Corte europea ha ritenuto che, nel caso di specie, il rigetto del ricorso per cassazione del ricorrente abbia pregiudicato la sostanza del suo diritto a un tribunale, e che pertanto vi sarebbe stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione EDU.

In diverso e ancora più recente arresto di diverso Giudice europeo – stavolta la Corte di Giustizia UE – è stata esaminata la seguente questione: se una limitazione della possibilità di ricorrere in cassazione avverso le sentenze dell’organo supremo della giustizia amministrativa di uno Stato membro, quale risulta nel dall’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana, sia in contrasto con i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva imposti dal diritto dell’Unione e quindi con l’unità e l’efficacia di tale diritto (2).

Invero, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE obbliga gli Stati membri a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, e il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, cui fa riferimento tale disposizione, costituisce un principio generale del diritto dell’Unione derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e che è attualmente affermato all’articolo 47 della Carta.

Le modalità processuali stabilite da ciascuno Stato membro, in forza del principio dell’autonomia procedurale, dei rimedi giurisdizionali utili, nelle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, non devono essere meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e non devono rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività)

Nel caso specifico esaminato dalla Corte di Giustizia, quanto al rispetto del principio di equivalenza, è stato accertato che l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione, come interpretato nella sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale del 18 gennaio 2018, limita, con le medesime modalità, la competenza della Corte suprema di cassazione a trattare ricorsi avverso sentenze del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati su disposizioni di diritto nazionale o su disposizioni di diritto dell’Unione.

Per quanto riguarda poi il principio di effettività, posto che il diritto dell’Unione non produce l’effetto di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno, a meno che dalla struttura dell’ordinamento giuridico nazionale in questione risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, o che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto, la Corte di Giustizia ha ritenuto l’insussistenza, a priori, di elementi che indichino che il diritto processuale italiano abbia, di per sé, l’effetto di rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, nel settore dell’aggiudicazione degli appalti pubblici, dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione.

In particolare, secondo i Giudici europei, è da considerarsi perfettamente ammissibile che lo Stato membro interessato conferisca al supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato (nel nostro caso, il Consiglio di Stato) la competenza a pronunciarsi in ultima istanza, tanto in fatto quanto in diritto, sulla controversia di cui trattasi, e di impedire, di conseguenza, che quest’ultima possa ancora essere esaminata nel merito nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi all’organo giurisdizionale supremo dello stesso Stato.

Con la conseguenza che una norma di diritto interno quale l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione, nell’interpretazione che dello stesso ha dato la sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale sopra citata, non pregiudica neppure il principio di effettività e non rivela alcun elemento da cui risulti la violazione dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.

Né l’articolo 4, paragrafo 3, TUE - che obbliga gli Stati membri ad adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione - può essere interpretato nel senso che esso obbliga gli Stati membri ad istituire nuovi rimedi giurisdizionali, obbligo che non è imposto loro dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE.

Quanto poi al settore particolare dell’aggiudicazione di appalti pubblici, neppure l’articolo 1 della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47, primo comma, della Carta, osta alla citata conclusione, in quanto la sussistenza di una norma di diritto nazionale che impedisce che le valutazioni di merito effettuate dal supremo organo della giustizia amministrativa possano ancora essere esaminate dall’organo giurisdizionale supremo non può essere considerata una limitazione, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, del diritto di ricorrere a un giudice imparziale sancito all’articolo 47 della stessa.

Dunque, il sistema processuale italiano nel caso di specie è stato ritenuto conforme al diritto europeo, e questo, sia detto per inciso, nonostante nell’ultima parte della sua pronuncia la Corte di Giustizia abbia detto a chiare lettere che il Consiglio di Stato ha violato il diritto dell’Unione.

Ma per la violazione ravvisata sono altri i rimedi che il soggetto leso può esperire, e tutti al di fuori della vicenda processuale strettamente connessa all’aggiudicazione della commessa pubblica.

Un colpo al cerchio e uno alla botte, si potrebbe dire: processi sicuramente rapidi ed effettivi, ma solo “tendenzialmente” giusti. 

D’altra parte, nel suo Piano nazionale di ripresa e resilienza adottato nel 2021, il Governo italiano vuole migliorare il sistema giustizia “anche” rendendo effettivo il principio di sinteticità degli atti e quello di leale collaborazione tra il giudice e le parti, e ciò tramite l’ampliamento della procedura in camera di consiglio e la conseguente semplificazione della fase decisoria, con un probabile restringimento qualitativo e non solo quantitativo dell’esame delle istanze di giustizia.



(1) Sentenza CEDU del 28 ottobre 2021

(2) Grande Sezione della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2021

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