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Il giudice professore. Destituzione e "teoria del contagio"

a cura di Roberto Lombardi • ago 05, 2022

TAR per il Lazio, sentenza n. 4232 dell’11 aprile 2022


IL CASO

Un ormai ex Consigliere di Stato chiede l’annullamento del provvedimento con cui è stato destituito dalla magistratura.

Con tale destituzione è stata sanzionata la condotta tenuta dal giudice nell’ambito dell’incarico extraistituzionale svolto come docente per la preparazione, tra gli altri, del concorso in magistratura.

In particolare, il Consigliere di Stato svolgeva, parallelamente all’attività di magistrato – e dietro regolare autorizzazione – le funzioni di direttore scientifico e docente dei corsi postuniversitari organizzati da una società privata, e rivestiva il ruolo di curatore e/o direttore scientifico della rivista giuridica telematica avente analoga denominazione della società.

Nel corso di tali incarichi, però, il docente-magistrato, secondo l’impostazione accusatoria consolidatasi in sede disciplinare, aveva elaborato, condiviso o comunque preteso l'applicazione di clausole contrattuali, di prescrizioni regolamentari e di norme (contenute nel codice di condotta imposto ai borsisti) implicanti comportamenti e contegni, commissivi e omissivi, chiaramente lesivi dei diritti fondamentali della persona.

Si sarebbe trattato di clausole e prescrizioni non aventi alcun rapporto di strumentalità rispetto all'obiettivo della formazione giuridica post-universitaria e della preparazione ai relativi concorsi, e che sarebbero risultate ancor più stigmatizzabili in quanto fatte proprie da un magistrato che, in ragione del suo ruolo, dovrebbe mostrare una particolare sensibilità giuridica e il rispetto dei valori fondamentali della persona.

L’ex Consigliere di Stato aveva inoltre violato, nel contesto della condotta a lui contestata, gli artt. 18 e 20 e 27 della delibera del CPGA del 18 dicembre 2001, contenente le norme generali per il conferimento e l'autorizzazione di incarichi non compresi nei doveri e nei compiti di ufficio dei magistrati amministrativi, nonché l’impegno contenuto nell'autodichiarazione del novembre 2015 presentata in occasione della richiesta di autorizzazione poi rilasciata dal CPGA in relazione allo svolgimento, nell'anno 2016, degli incarichi di docente e di direttore scientifico dei corsi organizzati dalla società privata che lo aveva assunto come docente.

In particolare, aveva rivolto, nel periodo ottobre-novembre 2016, ai Carabinieri di un piccolo comune del piacentino, reiterati solleciti affinché intervenissero ai sensi dell'art. 1, III co., del r.d. n. 773/1931 (t.u.l.p.s.) su persona ritenuta inadempiente nei confronti della società di cui sopra, mostrando di assumere, nelle suddette circostanze, le funzioni di amministratore di fatto o comunque di rappresentante della società stessa.

Nell’ambito di tale condotta, il giudice professore aveva utilizzato indebitamente la sua qualifica e il suo ruolo di magistrato, sollecitando reiteratamente l'Ufficio pubblico destinatario dei suoi interventi per scopi privati collegati alla relazione personale intercorsa tra lui e una frequentante il corso.

Aveva inoltre espresso, attraverso numerosi interventi e commenti scritti, pubblicati sulla rivista giuridica telematica sopra citata, valutazioni non appropriate e non conferenti rispetto alla sede utilizzata, con grave violazione, in un caso, del riserbo, dell'onore, della reputazione e della dignità delle persone e, segnatamente, delle donne; tali valutazioni erano in ogni caso risultate lesive, secondo l’organo di autogoverno, della funzione, del prestigio e dell'immagine della magistratura.


LA DECISIONE 

Il Tribunale adito ha respinto il ricorso dell’ex Consigliere di Stato contro il decreto di destituzione, previo esame, seppure sintetico, di tutte le questioni procedurali e di merito afferenti al procedimento disciplinare intentato nei confronti dell’interessato.

In premessa, i giudici di primo grado hanno evidenziato che l’art. 32 della legge n. 186 del 1982 – relativa all’ordinamento della giurisdizione amministrativa – stabilisce che, per quanto non diversamente disposto dalla stessa legge, si applicano ai magistrati amministrativi le norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento. Tuttavia, l’attuale disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, che adesso è contenuta nel d.lgs. n. 109/2006, all’art. 30 di tale decreto esplicitamente ne esclude l’applicazione nei confronti dei magistrati amministrativi, oltre che di quelli contabili. Ne consegue, secondo il TAR Lazio, e in conformità all’orientamento consolidato in materia, che il rinvio contenuto nell’art. 32 della L. n. 186 del 1982, originariamente da qualificarsi come rinvio mobile alle norme dettate per i magistrati ordinari, deve, per effetto dell’art. 30 d.lgs. n. 109 del 2006, considerarsi ora come un rinvio fisso alle norme di cui al r. d.lgs. n. 511 del 1946.

A sua volta, il regio decreto suddetto, all’art. 18, dispone che “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari, secondo le disposizioni degli articoli seguenti”.

Rispetto all’applicazione nel caso concreto di tale disposizione, il Tribunale ha espresso le seguenti, fondamentali considerazioni, tutte convergenti nel determinare il rigetto del ricorso:

- le garanzie previste in materia di equo processo dall’art. 6, par. 2 e 3 della CEDU si applicano soltanto a salvaguardia dei soggetti nei confronti dei quali è formulata un’accusa penale, mentre per i procedimenti disciplinari, ivi compresi quelli che comportano l’irrogazione delle sanzioni più gravi trattandosi di controversie che riguardano comunque diritti di carattere civile, trovano applicazione unicamente le garanzie di cui all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione, che riconoscono il diritto dell’interessato all’esame equo e pubblico della causa, in un termine ragionevole, da un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge;

- le previsioni normative riguardanti le violazioni di regole deontologiche (come nel caso di specie possono considerarsi i concetti di “fiducia” e “prestigio”) “non possono non avere portata generale perché una indicazione tassativa renderebbe legittimi comportamenti non previsti ma egualmente riprovati dalla coscienza sociale, con giustificazione intrinseca della latitudine della previsione e dell’ampio margine della valutazione affidata ad un organo, che, operando con le garanzie proprie di un procedimento giurisdizionale, è, per la sua strutturazione particolarmente qualificato per apprezzare se i comportamenti di volta in volta considerati siano o meno lesivi dei valori tutelati”;

- la sanzione espulsiva può essere irrogata ogni qual volta l’illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria e al prestigio personale del magistrato; l’adeguatezza della sanzione della rimozione rientra nell’apprezzamento di merito dell’organo disciplinare competente, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua, immune da vizi logico-giuridici;

- la Corte di Strasburgo, nel pronunciarsi sulla compatibilità con le previsioni della Carta dell’art. 18 del r. d.lgs. n. 511 del 1946, ha ritenuto che la norma presente nell’ordinamento italiano rappresenti un sufficiente aggancio normativo per l’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei magistrati italiani e ha considerato in linea di massima sussistente il requisito della “accessibilità”, alla luce della particolare professionalità dell’interessato, quale magistrato, e, quindi, tecnico del diritto, mentre, per ciò che concerne il requisito della “prevedibilità”, posto che occorre che la normativa chiarisca con sufficiente precisione le condizioni di obbligo nel caso di condotta astrattamente lecita, tale necessità non ricorrerebbe allorché le condotte contestate, come nel caso esaminato dai giudici romani, non abbiano una base lecita, riguardando il compimento di atti lesivi della dignità umana, la violazione di norme regolamentari del CPGA, l’uso indebito della qualifica e del ruolo di magistrato, e la diffusione di valutazioni che, trasmodando i limiti connaturati alla libertà di esercizio dell’attività di insegnamento e di ricerca, hanno determinato una lesione di diritti costituzionalmente garantiti quali quelli al riserbo e alla reputazione delle persone.

Nel merito, il TAR ha conclusivamente evidenziato che dall’ampio quadro probatorio raccolto fosse emersa una situazione abnorme, in cui le vicende strettamente personali di alcune allieve erano state adoperate dal ricorrente con finalità pseudo-scientifiche e asseritamente formative, attraverso condotte incompatibili con il rispetto dell’obbligo, ritenuto sussistente automaticamente in capo a un magistrato, di non compromettere la propria credibilità e, con essa, il prestigio dell’istituzione giudiziaria che rappresenta.

Inoltre, sempre secondo il Giudice di primo grado, che il ricorrente avesse una posizione di amministratore di fatto o di rappresentante della società in cui avrebbe dovuto svolgere un mero incarico di insegnamento e di coordinamento scientifico, l'unico formalmente autorizzato dal CPGA, è stato desunto dalla circostanza – da ritenersi provata - che l’ex Consigliere di Stato era sempre stato l’unico interlocutore della società stessa nei rapporti con tutti i corsisti e borsisti, così violando i limiti dell'autorizzazione sulla cui base poteva insegnare.


SPUNTI DI RIFLESSIONE

La sentenza lascia spazio ad alcune osservazioni, non tanto sulla vicenda in sé - rispetto alla quale emerge chiaramente, ed è stata provata, una condotta umana del protagonista poco ortodossa e senz'altro discutibile per un magistrato -, quanto sul percorso giuridico seguito dai Giudici per rendere conforme al contesto ordinamentale vigente in materia di sanzioni l'applicazione di una “misura” lavorativa espulsiva conseguente alla contestazione di un illecito chiaramente atipico.

I concetti di lesione del prestigio e della fiducia che sono al centro della condotta messa a fuoco dall'art. 18 del r. d.lgs. n. 511 del 1946, già di per sé difficilmente inquadrabili nell'ambito dell'attività tipica del magistrato, diventano ancora più sfuggenti quando ad essere coinvolto è il giudizio sul comportamento del giudice fuori dal contesto lavorativo.

Con riferimento alla magistratura ordinaria, il d.lgs. n. 109 del 2006 (lett. a) e d) dell'art. 3) contempla i due seguenti illeciti disciplinari tipici, in un qualche modo assimilabili a una parte rilevante della condotta tenuta dal Consigliere di Stato destituito:

- l'uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri;

- lo svolgimento di attività tali da recare concreto pregiudizio all'assolvimento dei doveri disciplinati dall'articolo 1 dello stesso decreto (imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, oltre che rispetto della dignità della persona nell'esercizio delle funzioni).

Si tratta di condotte che, nella loro essenza paradigmatica – come tale riproducibile quale clausola generale di comportamento da tenersi fuori dall’ufficio, anche ai sensi dell’art. 18 sopra citato -, richiamano la necessità per il magistrato di mantenere nella vita di tutti i giorni, anche fuori dal contesto lavorativo, una maggiore prudenza rispetto al consociato “medio”, sia nell’ostentare e utilizzare abusivamente la propria qualifica che nel manifestare apertamente le proprie propensioni caratteriali "peggiori".

Se però il concetto di “abuso” della qualifica è facilmente decifrabile, sulla base delle nozioni sparse qua e là nell’ordinamento giuridico (e spesso e volentieri assurge a condotta penalisticamente rilevante), il tema diventa molto più delicato e spinoso quando si va a giudicare la connessione tra attività extralavorative e pregiudizio concreto alla credibilità della funzione giudiziaria rivestita.

Il problema nasce dalla prevedibilità ex ante della sanzione applicata, rispetto alla condotta tenuta e poi accertata. L'ex Consigliere di Stato ha contestato con il suo ricorso una sorta di incursione dell'organo di autogoverno nella sua vita privata e nella sua libertà costituzionalmente tutelata di espressione e di insegnamento, al di fuori di qualsiasi norma che imponga canoni predeterminati di condotta fuori dall’ufficio per il magistrato.

Orbene, quale nesso di prevedibilità hanno la “persecuzione” di natura amorosa e il “processino” in pubblico delle debolezze altrui con la destituzione dalla funzione di magistrato, laddove non sfocino in veri e propri reati?

Su questo, è opportuno fare chiarezza. La fonte primaria del discredito per la magistratura nel caso di specie sembra stare non tanto nella condotta umana più o meno scriteriata (condotta che è diventata di pubblico dominio a causa dell'incredibile furia mediatica ingeneratasi), quanto nel fatto che a un soggetto così “disinvolto” è stato concesso il potere di insegnare e di costruirsi una vera e propria “scuola di magistratura” a sua immagine e somiglianza, accanto e in parallelo rispetto al dovere istituzionale di "giudicare".

Se per ipotesi l’ex Consigliere di Stato fosse stato soltanto un docente privato, non avrebbero avuto alcun rilievo sulla sua carriera lavorativa le sue intemperanze e indebite ingerenze nella vita privata altrui, se non in conseguenza di accertamenti di natura penale sulle singole condotte tenute sfruttando abusivamente la propria posizione di supremazia.

Ma siccome l’ex Consigliere di Stato faceva di lavoro il magistrato, ecco che il contestuale lavoro di insegnante – che nel tempo aveva assunto grande rilevanza e notorietà nell’ambito della preparazione ai concorsi pubblici di alto livello – è andato ad incidere, nei suoi riflessi di negatività, sulla carriera principale di giudice.

Sotto questo profilo, per ritenere sussistente il profilo della prevedibilità degli effetti della disposizione sanzionatoria applicata, il TAR ha dovuto compiere un doppio passaggio nel ragionamento giuridico, dapprima individuando la non liceità in astratto delle condotte contestate (tramite il riferimento alla lesione della dignità umana e alla violazione di norme regolamentari del CPGA), e successivamente misurando l’idoneità di tali condotte a ledere l’immagine del singolo Consigliere di Stato e, in tal modo, dell’intera magistratura amministrativa, anche in considerazione della piena conoscibilità di una parte di tali condotte all’interno della “scuola”, frequentata da numerosi allievi, di cui era docente e direttore scientifico il magistrato.

D'altra parte - e in ciò si va a lambire il decisivo tema della proporzionalità della misura adottata - il Consiglio di Presidenza si è trovato di fronte a un dubbio amletico: limitarsi a revocare l'autorizzazione concessa e punire il Giudice senza destituirlo o espellere dal proprio consesso un corpo ormai estraneo e foriero di discredito per la categoria?

Non a caso, la proposta iniziale del relatore era stata nel senso di infliggere all’incolpato una sanzione pari alla perdita di due anni di anzianità, e, ad esito della vicenda, l'organo di autogoverno si è determinato a inserire limiti più ristrettivi per l'autorizzazione all'insegnamento nei corsi di preparazione ai concorsi per magistratura [1].  

Alla fine, probabilmente, ha prevalso una particolarissima applicazione della "teoria del contagio", secondo cui la perdurante presenza del trasgressore all’interno del Consiglio di Stato avrebbe trasmesso de facto a tale organo una caratteristica di non affidabilità e non integrità [2].

Tale impostazione di carattere generale, pur non avendo molto a che vedere con l'essenza delle singole condotte contestate, ha probabilmente indirizzato verso la massima severità una decisione che, a torto o a ragione – lo deciderà in appello lo stesso Consiglio di Stato –, è stata imperniata anche su una valutazione di autotutela pro futuro del prestigio dell'intero plesso.




[1] Vedi la Delibera dell’8 febbraio 2018 del CPGA, modificativa della "Norme generali per il conferimento o l’autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi"

[2] Tale teoria è normalmente utilizzata in materia di esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara ex art. 80, comma 5, lett. c) d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per un grave illecito professionale commesso da un suo esponente (cfr. da ultimo, Cons. di Stato, sent. n. 3107 del 2022)


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