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Mancata denuncia di trasferimento delle armi e confisca obbligatoria

feb 26, 2022

Tribunale ordinario di Milano - VI Sezione penale, ordinanza del 27 gennaio 2022 nel p.n. 11850/2021 reg. dib. 


IL CASO E LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE

Un soggetto viene chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 38 del R.D. 773/1931 perché, quale detentore di alcune armi, già regolarmente custodite presso la propria abitazione, come da prima denuncia tempestivamente presentata presso la Stazione Carabinieri di competenza, aveva omesso di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza il trasferimento di dette armi, in data successiva, presso la propria nuova residenza.

Alla prima udienza dibattimentale, la difesa dell’imputato ha avanzato richiesta di definizione del processo mediante oblazione, ai sensi dell’articolo 162 bis cod. pen., e il Giudice, rilevando l’insussistenza di elementi ostativi di carattere oggettivo o soggettivo, ha determinato la somma da corrispondere in euro 103 (metà della sanzione massima prevista dal combinato disposto degli articoli 38 e 17 r.d. 773/1931), oltre spese di rito.

Successivamente, è stata richiesta la declaratoria di estinzione del reato e la restituzione degli otto fucili da caccia e da tiro sportivo in sequestro, anche in virtù dell’assenza di precedenti dell’imputato, della sua titolarità di porto di fucile, e del fatto che sia stato lo stesso imputato a segnalare all’Autorità di pubblica sicurezza quanto poi contestatogli.

Il Tribunale di Milano, a fronte di una giurisprudenza granitica della Corte di Cassazione, secondo cui nel caso di specie sussisterebbe una ipotesi di confisca obbligatoria delle armi il cui trasferimento non era stato denunciato, da ritenersi necessaria anche nel caso di declaratoria di estinzione del reato per qualsiasi causa - e dunque anche nel caso di oblazione -, e restando la stessa esclusa solo nelle ipotesi di assoluzione nel merito dell’imputato o di appartenenza dell'arma a persona estranea al reato medesimo, ha dubitato della costituzionalità di siffatta interpretazione delle norme di interesse.

In particolare, l’art. 6 della legge n. 152/1975 – che recita testualmente che “il disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi” - sarebbe illegittimo, secondo il Giudice procedente, per contrasto rispetto ad una pluralità di disposizioni della Carta, sotto due distinti profili:

a) in ordine alla possibilità da parte del Giudice di disporre la confisca delle armi anche in assenza di una pronuncia di condanna (o ad essa equiparabile), e in particolare tramite una pronuncia con la quale ci si limiti a dichiarare l’estinzione del reato per oblazione;

b) in ordine alla natura obbligatoria della confisca e all’assenza di rimedi in capo all’imputato per evitarla, anche nel caso di ipotesi contravvenzionali.

L’obbligo di disporre tale confisca anche in assenza di una pronuncia di condanna (e nello specifico anche nel caso di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per oblazione), sebbene non strettamente imposto dal dato testuale - atteso che la richiamata disposizione di cui all’art. 240, comma 2 del codice penale prevede una pluralità di ipotesi di confisca, una sola delle quali da disporre “anche se non è stata pronunciata condanna”, ovvero l’ipotesi di cui al comma II n. 2) - costituirebbe “diritto vivente”, costantemente ribadito, da decenni, dalla Corte di legittimità.

Tuttavia, il Tribunale di Milano ritiene che l’art. 6 della L. n. 152 del 1975, così interpretato, sia in contrasto, innanzitutto, con l’art. 27 II co. Cost. e 11, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 par. 2 della CEDU e 48 della CDFUE (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), che sanciscono una presunzione di innocenza dell’imputato fino all’accertamento della sua colpevolezza, e con gli articoli 42 II co. Cost. e 11, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e 17 della CDFUE, che tutelano e garantiscono la proprietà privata.

L’obbligatorietà della confisca e l’assenza di qualsiasi rimedio riconosciuto all’imputato per poter evitare il pregiudizio del proprio patrimonio, inoltre, anche nel caso di contravvenzioni connotate da minima offensività come quella prevista dall’art. 38 r.d. n. 778/1931, contrasterebbero, ad avviso del Giudice di merito, con gli articoli 3, 27, 42 Cost., nonché 11, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 1 Primo protocollo addizionale CEDU, 17 e 49 CDFUE, che, nel riconoscere e tutelare la proprietà privata, impongono al legislatore di prevedere che le sanzioni, di carattere penale o anche solo amministrativo, che incidono su beni tutelati dall’ordinamento costituzionale o convenzionale, siano ragionevoli, individualizzanti e proporzionate in rapporto alla gravità del fatto e alla personalità del reo, e che le stesse siano altresì congrue e coerenti rispetto agli scopi perseguiti dal legislatore.

IL REATO E L’IPOTESI DI CONFISCA

L’art. 17 del r.d. n. 773 del 1931 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede che, salvo quanto previsto dall'art. 17-bis, le violazioni alle disposizioni del testo unico, per le quali non è stabilita una pena od una sanzione amministrativa, ovvero non provvede il codice penale, sono punite con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a lire quattrocentomila.

Tra le ipotesi che rientrano in tale tipologia “aperta” di reato contravvenzionale, vi è anche quella desumibile dal combinato disposto del primo e ultimo comma dell’art. 38 del r.d. n. 773 del 1931, secondo cui chiunque detiene armi da fuoco, parti di esse, munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve farne denuncia entro le 72 ore successive alla acquisizione della loro materiale disponibilità, all'ufficio locale di pubblica sicurezza, o comunque nelle 72 ore successive al trasferimento dell’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia.

Si tratta di un reato di mera condotta (di inazione consapevole, si direbbe), consistente nell’omesso rispetto di una regola di comportamento stabilita dall’ordinamento, con condotta che si traduce in una inerzia che rileva in senso assoluto, a fronte di un obbligo stabilito dalla legge a tutela del sensibile interesse alla difesa dell’incolumità pubblica e privata.

In questo caso, in realtà, la violazione penalmente rilevante può prescindere addirittura dalla detenzione illecita, in quanto il possesso di armi da fuoco potrebbe essere già stato nel frattempo autorizzato (ad esempio, tramite licenza di porto di fucile per uso di caccia), e in ogni caso la denuncia deve essere effettuata entro il termine stabilito dalla legge.

D’altra parte, in termini più generali, non esclude il dolo del delitto di detenzione illegale di arma l'erroneo convincimento dell'agente circa l'obbligo di denunciare il possesso dell'arma all'autorità competente, trattandosi di errore su norme che integrano il precetto penale e che dunque non possono essere ricondotte alla disciplina di cui all'art. 47, comma 3, c.p., così come, in caso di morte del soggetto che ha denunciato il possesso di un'arma alla competente autorità, grava sull'erede l'obbligo di ripetere tale denuncia, perfino quando l'accettazione dell'eredità sia avvenuta con beneficio di inventario, che ha il solo effetto di tenere separati, ai fini civilistici, il patrimonio del de cuius e quello dell'erede.

A maggior ragione, nell’ipotesi in cui sussista il mero trasferimento dell’arma denunciata, la denuncia va immediatamente ripetuta, pur in presenza di una regolare licenza.

La ratio di tutela è dunque, in modo ancora più radicale e preventivo di quanto ordinariamente giustificato dal principio di offensività – in termini di protezione del bene-interesse di rilievo –, quella connessa a ineludibili motivi di ordine pubblico, secondo cui è necessario conoscere, con l’immediatezza imposta dall’importanza della notizia, sia chi è il detentore dell'arma sia il luogo nel quale l'arma è detenuta, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza, e ciò in funzione della necessità di intervenire tempestivamente, laddove le circostanze lo richiedano.

D’altra parte, la "buona fede" potenzialmente e implicitamente ravvisabile nell'omissione consistente nel non denunciare una seconda volta la medesima detenzione già denunciata sottintende anche quell'inescusabile ignoranza della legge penale, che rende altrettanto indifferente ai fini dell'eventuale condanna un'analoga buona fede nell'omissione della prima denuncia.

Sussiste peraltro un profilo di dubbio di ragionevolezza della sanzione penale in rapporto al rilievo secondo cui il luogo di trasferimento dell'arma, in caso di trasferimento della residenza di chi già ne abbia inizialmente denunciata la detenzione, può essere di regola accertato attraverso gli uffici anagrafici, ma il suddetto rilievo, oltre a scontrarsi con una realtà fattuale che non sempre corrisponde ad un funzionamento ottimale dell’amministrazione pubblica nel suo insieme, si contrappone anche alla esigenza irrinunciabile - in vista dell'esercizio di altri poteri, come quelli previsti negli artt. 39 e 40 regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 -, che l'autorità locale di polizia sia posta in grado di conoscere tempestivamente quali e quante armi si trovano nel territorio di propria competenza, i luoghi della connessa detenzione ed i nominativi dei rispettivi detentori. Del resto, solo un controllo locale, periferico e capillare, può rivelarsi in grado, almeno in via di principio, di soddisfare la necessità di avere strumenti effettivi di controllo in tema di armi, munizioni e materie esplodenti, e la razionalità di tale esigenza sembra far rientrare la normativa de qua negli ambiti di quella discrezionalità legislativa nella determinazione delle pene che non è sindacabile in sede di legittimità costituzionale.

Diversa questione afferisce alla congruità della norma contestata dal Giudice a quo in materia di confisca, ovvero l’art. 6 della legge n. 152/1975, che prevede, come visto, che “Il disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi”.

Detta norma, come pacificamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, impone, nel caso di contestazione di un qualsiasi delitto o contravvenzione “concernente le armi”, la confisca obbligatoria delle stesse, pur nel caso di dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta oblazione.

E’ un’ipotesi di confisca che ha natura sanzionatoria, in quanto strettamente legata alla commissione astratta di un fatto costituente reato, disposta da un Giudice penale all’esito di un procedimento penale e avente funzione ablatoria di beni acquisiti in modo legittimo dall’imputato, da questi legittimamente detenuti e, in ipotesi, ulteriormente detenibili regolarmente, con una mera comunicazione all’Autorità di P.S..

D’altra parte, il rispetto di uno statuto minimo di garanzie di carattere sostanziale e processuale si estende a qualsiasi misura che comprima diritti costituzionalmente tutelati (come il diritto di proprietà), anche se tale misura sia di carattere amministrativo, e l’effetto ablativo di beni di proprietà del singolo avviene, nel caso di specie, in conseguenza di una pronuncia (quella dichiarativa dell’estinzione del reato per oblazione) che non presuppone un accertamento pieno in ordine alla sussistenza del reato e alla responsabilità dell’imputato.

Al riguardo, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che gli articoli 7 e 6 par. 2 della Convenzione Edu impongono che una pronuncia ablatoria venga adottata con una sentenza di “condanna” o comunque a seguito di un accertamento garantito, non essendo sufficiente, ad esempio, una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato, a meno che la stessa non sia stata preceduta da un accertamento equivalente ad una pronuncia di condanna, per la sua latitudine e modalità di formazione. Ma ciò presupporrebbe un vero e proprio giudizio caratterizzato dalla partecipazione in contraddittorio delle parti, non ravvisabile nel rito nostrano di oblazione.

E’ vero invece che la contravvenzione prevista dall’art. 38 del r.d. n. 773 del 1931, nella sua versione meno offensiva (ritardata nuova denuncia dopo il trasferimento di arma legittimamente detenuta e già in precedenza denunciata), pur essendo un reato “concernente le armi” - secondo il disposto della norma di cui il Tribunale ha posto in discussione la legittimità costituzionale -, non sorregge, in termini di proporzionalità e ragionevolezza, una ulteriore automatica sanzione (confisca punitiva), senza consentire al Giudice di valutare concretamente le diverse circostanze del caso prima di applicare la misura afflittiva aggiuntiva, sul piano sostanziale e processuale della condotta accertata, della personalità del reo, della concreta previsione sul suo futuro comportamento.

D’altra parte, nel caso esaminato dal Tribunale rimettente, dovrebbe applicarsi un’ipotesi di confisca obbligatoria nei confronti di un soggetto che non solo potrebbe legittimamente acquistare altre armi, ma che continua anche ad essere titolare di licenza e che dunque deve ritenersi offra sufficienti garanzie di affidabilità sul piano della sicurezza pubblica, fatte salve le ulteriori valutazioni sulla permanenza dei requisiti di “fiducia”, a seguito della mancata comunicazione, da parte dell’autorità amministrativa competente.

Resta in ogni caso forse aperto uno spiraglio interpretativo – ma questo è un punto che solo la Corte costituzionale potrà chiarire –, in base al quale il richiamo al disposto del primo capoverso dell'articolo 240 del codice penale fatto dall’art. 6 della L. n. 152 del 1975 debba essere inteso, nel caso in cui manchi una vera e propria condanna, soltanto alla confisca di cose la cui mera detenzione costituisca reato, con esclusione, dunque, di tutte quelle cose già detenute lecitamente e a cui si riconnettono soltanto obblighi di comunicazione penalmente sanzionati.


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