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Obbligo di rinvio pregiudiziale: la Corte di Giustizia offre vaghezza, il Consiglio di Stato pretende chiarezza

a cura di Luca Nania, Magistrato militare e docente della Scuola Superiore della Magistratura • ago 13, 2022

La pronuncia

La sentenza non definitiva del Consiglio di Stato n. 6013/2022 si inserisce nel filone, ormai corposo, dei provvedimenti del supremo organo di giustizia amministrativa italiana con i quali la Corte di Giustizia UE è stata sollecitata a delineare, con maggiore chiarezza, i presupposti al ricorrere dei quali non sussiste l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte da parte dei giudici nazionali di ultima istanza.

 

L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte, per come previsto dal TFUE

Come noto, l’art. 267 TFUE (già art. 234 della versione consolidata del Trattato CE, a sua volta corrispondente all’art. 177 della originale versione del Trattato di Roma) dispone che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei trattati e sulla validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, organi od organismi dall’UE (art. 267, par. 1, TFUE), ivi compresi gli atti normativi (regolamenti, direttive).

Ove la questione dell’interpretazione degli atti dell’Unione si ponga dinnanzi ad un giudice nazionale di ultima istanza – nei confronti delle cui decisione, cioè, non sia ammesso ulteriore ricorso giurisdizionale interno – tale giudice è tenuto a rivolgersi alla CGUE, sottoponendole, in via pregiudiziale, la questione di interpretazione (art. 267, par. 3, TFUE).

 

La posizione della Commissione Jenkins

Già dal 1978, la Commissione europea - nel rispondere all’interrogazione di un parlamentare europeo (Krieg) che lamentava il mancato deferimento alla Corte di Giustizia, da parte della Corte di cassazione francese, di una questione di interpretazione del trattato CEE relativa alle importazioni fra Stati membri, nonostante il diritto nazionale applicato nella fattispecie avesse l’effetto di introdurre una misura di contingentamento della produzione analoga a quelle condannate dalla Corte di giustizia nelle sue sentenze Van Haaster (causa 190/73) (a) e Van den Hazel (causa 111/76) – affermò che l’articolo 177 del trattato CEE non obbligava i tribunali nazionali a differire il giudizio ed a rimettere sistematicamente alla Corte di giustizia tutte le questioni di interpretazione del diritto comunitario loro sottoposte.

Tali tribunali avrebbero dovuto passare oltre e statuire direttamente allorché le questioni fossero state perfettamente chiare e la risposta da dare a loro fosse stata evidente ad ogni giurista con un minimo di competenza.

 

La sentenza CILFIT

La questione dei limiti all’obbligo del rinvio pregiudiziale non tardò molto ad arrivare alla Corte di Giustizia, che cercò di risolverla con la celeberrima sentenza CILFIT (CGUE, 6 ottobre 1983, C-283/81).

La nostra Corte di Cassazione, con ordinanza del 27 maggio 1981, aveva rimesso alla CGUE la seguente questione: “Se il terzo comma dell’art. 177 del Trattato, statuendo che quando una questione del genere di quelle elencate nel primo comma dello stesso articolo è sollevata in un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia, sancisca un obbligo di rimessione che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo”.

La vicenda che aveva portato a tale questione pregiudiziale riguardava il contrasto tra alcune società laniere (tra cui la CILFIT s.r.l.) ed il Ministero della sanità circa il diritto fisso per visita sanitaria (all’epoca pari a Lit. 700 per ogni quintale di lana importata) ai sensi della legge n. 30 del 1968, che, secondo le società, sarebbe stata inapplicabile in seguito all’emanazione del regolamento del Consiglio 28 giugno 1968, n. 827, riguardante l’organizzazione comune dei mercati per taluni prodotti elencati nell’allegato II del Trattato.

Il Ministero della Sanità, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, aveva sostenuto al contrario che le lane, non essendo comprese nell’allegato II del Trattato CEE, non avrebbero potuto essere soggette ad alcuna organizzazione comune di mercato e, quindi, non avrebbero potuto essere interessate nel regolamento di cui trattasi. Il Ministero aveva insistito, pertanto, “perché la decisione della questione così proposta sia adottata da parte della suprema Corte, sostenendo che le circostanze di fatto sono di un’evidenza tale da escludere la possibilità stessa di ipotizzare un dubbio di interpretazione e quindi tali da escludere l’esigenza di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia”.

Le parti intervenute nel procedimento C-283/81 sostennero alcuni principi – in parte ripresi dalla Corte di Giustizia – che appare opportuno ricordare.

Il Governo italiano, per il tramite dei suoi agenti, sostenne che, nonostante la diversa formulazione letterale rispetto al par. 2, il par. 3 dell’art. 177 (oggi art. 267 per. 3 TFUE) non avesse “portata precettiva diversa e che, quindi, tale norma non abbia inteso sottrarre al giudice nazionale di ultima istanza il potere di valutare la necessità o meno di una pronunzia pregiudiziale”, proponendo di risolvere la questione pregiudiziale nel senso che “il Trattato obbliga le giurisdizioni nazionali di ultima istanza a richiedere una pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia nei casi in cui, ad esito di conveniente delibazione, riconoscano non manifestamente infondata la questione di interpretazione innanzi ad esse sollevata”, in definitiva richiamando lo stesso criterio che deve guidare i giudici italiani nel momento in cui sollevano la questione di costituzionalità di una legge nazionale dinnanzi alla Consulta.

Governo danese e Commissione europea fecero invece riferimento, rispettivamente, ad un “dubbio interpretativo reale” ed alla presenza o meno di un “ragionevole dubbio interpretativo” quale presupposto per l’attivazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale.

Interessante ricordare il passaggio in cui la Commissione, ritenendo indispensabili dei limiti all’obbligo di rinvio, invocò la necessità di garantire “la buona amministrazione della giustizia”, impossibile da realizzare se la Corte fosse stata sommersa da questioni pregiudiziali sollevate a prescindere da un preventivo esame della loro rilevanza e fondatezza da parte dei giudici nazionali.

 

I CILFIT criteria

La Corte di Giustizia, sulla questione sottopostale dalla Corte di Cassazione, ricordò, preliminarmente, lo scopo dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, ovvero garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto comunitario, nell’insieme degli Stati membri, evitando divergenze giurisprudenziali all’interno della Comunità (CGUE, C-283/81, punto 9).

Al fine di attivare tale obbligo, evidenziò ancora la Corte, “non è sufficiente che una delle parti in causa sostenga che la controversia pone una questione di interpretazione del diritto comunitario”, disponendo i giudici nazionali, anche di ultima istanza, del potere di valutare se fosse necessario interpretare il diritto comunitario per decidere la controversia (punti 10-11)

La Corte affermò altresì, richiamando la sentenza Da Costa (CGUE, 27 marzo 1963, C-28/1962), che nessun obbligo di rinvio avrebbe potuto ritenersi sussistente qualora la questione sollevata fosse stata materialmente identica ad altra questione già chiarita in via pregiudiziale dalla Corte (punti 13 e 14), ferma restando, in tal caso, la facoltà del giudice nazionale di adire comunque il supremo organo di giustizia comunitario (punto 15).

Infine, la Corte dichiarò che “la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata. Prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia” (punto 16).

Volendo riassumere le conclusioni della Corte di Giustizia, può affermarsi che l’obbligo di rimessione della questione di interpretazione del diritto comunitario da parte del giudice nazionale di ultima istanza non sussisterebbe:

a)   quando la questione non sia rilevante, ovvero quando la decisione della controversia sottoposta al giudice nazionale non dipende dall’interpretazione di una norma comunitaria;

b)  quando il punto di diritto controverso sia già stato deciso dalla Corte di Giustizia, ferma restando comunque la facoltà, per il giudice nazionale, di promuovere al riguardo nuova questione pregiudiziale (c.d. acte éclairé, ovvero - con libera traduzione dal francese - “norma (già) chiarita”, essendoci al riguardo un precedente della Corte);

c)   quanto la soluzione alla questione giuridica si imponga con tale evidenza da non lasciare spazio a dubbi (c.d. acte clair, ovvero la norma “chiara” di suo).

Inutile evidenziare che l’ipotesi dell’acte clair risultò alla Corte di Giustizia (e non solo alla Corte, vista la dottrina, spesso e volentieri vivacemente critica, maturata al riguardo [1]) quella più problematica, avvertendosi il rischio concreto di trasformare tale criterio in una mera tautologia.

La Corte di Giustizia, pertanto, suggerì immediatamente alcuni sub-criteri, da valutarsi da parte del giudice nazionale per dare concretezza alla teoria dell’acte clair:

a)   la maturazione del convincimento, da parte del giudice nazionale, che la soluzione interpretativa della norma comunitaria apparirebbe con la stessa evidenza anche agli altri giudici degli Stati membri ed alla Corte di Giustizia (punto 16, criterio che potremmo definire dell’evidenza soggettiva comune);

b)  le caratteristiche proprie del diritto comunitario (punto 17, criterio strutturale del diritto comunitario);

c)   il raffronto tra le varie versioni linguistiche della norma, tutte fidefacenti secondo il diritto comunitario (punto 18, criterio testual-linguistico);

d)  la terminologia e le nozioni giuridiche proprie del diritto comunitario, non sempre coincidenti con quelle di diritti nazionali (punto 19, criterio della terminologia comunitaria);

e)   il collocamento di ogni norma comunitaria nel proprio contesto e le sue finalità, nonché il suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi (punto 20, criterio dell’interpretazione teleologicamente orientata).

Orbene, se i criteri del raffronto tra le diverse versioni linguistiche dell’atto normativo, della sua interpretazione teleologica, della necessaria valutazione della terminologia propria del diritto comunitario non pongono particolari problemi, costituendo in definita gli ordinari strumenti della scienza ermeneutica [2], risulta assai vago il richiamo alla evidenza di una certa interpretazione che si imporrebbe come tale non solo alla Corte di Giustizia, ma a tutti i giudici nazionali degli Stati membri.

La successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia (tra le più recenti, CGUE, 15 settembre 2005, C-495/03, Intermodal Transport; 18 luglio 2013, C-136/12, Consiglio Nazionale dei Geologi; 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira da Silva e Brito; 28 luglio 2016, C-379/15, Association Nature France Environnement; 15 marzo 2017, C-3/16, Aquino; 4 ottobre 2018, C-416/17, Commissione/Repubblica Francese) ha sostanzialmente ribadito i c.d. criteri CILFIT, limitandosi a qualche puntualizzazione non decisiva, come, ad esempio, la necessità che l’insussistenza di un ragionevole dubbio sull’interpretazione della norma comunitaria (ovvero dell’evidenza che una certa interpretazione della norma si imporrebbe anche ai giudici nazionali ed a quelli della Corte di Giustizia) sia sorretta da “prova circostanziata” (cfr. C-379/15, punto 52).

 

Le preoccupazioni del Consiglio di Stato

Dinnanzi a tale incertezza, il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario (sez. IV, sent. n. 6290/2021; sez. IV, sent. n. 490/2022; sez. IV, sent. n. 4741/2022, oltre a sez. IV, sent. n. 6013/2022 qui riportata) sollevare questione pregiudiziale dinnanzi alla Corte di Giustizia, invitandola a chiarire meglio i criteri CILFIT.

Ciò, anche in considerazione del fatto che, ove un giudice nazionale di ultima istanza non dovesse rinviare pregiudizialmente una questione di interpretazione di norma unionale, sull’asserita convinzione dell’evidenza di una sua certa interpretazione poi sconfessata dalla Corte di Giustizia, potrebbe darsi luogo a responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto dell’UE e, tenuto conto della novella della Legge n. 117/88, anche a responsabilità civile e disciplinare del magistrato italiano.

Significativa, riguardo a tale ultima preoccupazione, appare essere la sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2018, nella causa C-416/17, ove essa, su ricorso della Commissione, ha ritenuto la Francia responsabile della violazione dell’art. 267 par. 3 TFUE in quanto il suo Conseil d’Etat aveva omesso il rinvio pregiudiziale per l’interpretazione degli artt. 49 e 63 TFUE.

In particolare, il Conseil d’Etat aveva già investito la Corte di Giustizia della questione di interpretazione delle suddette disposizioni, omettendo però di effettuare nuovo rinvio pregiudiziale su un altro particolare aspetto della normativa, poi interpretata dal giudice francese in termini da esso ritenuti univoci e pertanto non necessitanti di un nuovo rinvio pregiudiziale. La Corte di Giustizia, per parte sua, ha ritenuto non univoca detta interpretazione sull’assunto per cui, avendo essa scelto (ex post) una interpretazione diversa da quella del consesso di giustizia amministrativa francese, l’esistenza di un ragionevole dubbio sull’interpretazione della norma unionale non poteva che essere di per sé evidente.

Il Consiglio di Stato italiano ha quindi chiesto una nuova pronuncia alla Corte di Giustizia, rilevando che:

a)   i criteri CILFIT, così come delineati, appaiono di difficile accertamento, specialmente nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto unionale rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte;

b)  l’eventuale loro erronea applicazione sarebbe foriera di responsabilità civile e disciplinare per il giudice supremo nazionale italiano, in base alla norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, della Legge n. 117 del 1988 [3], con la conseguenza che il giudice nazionale, per evitare di incorrere in responsabilità, sarebbe costretto a disporre rinvio pregiudiziale “pur che sia, allungando di molto i tempi della controversia”;

c)   in particolare, la prova circostanziata dell’evidenza dell’interpretazione del diritto comunitario si risolverebbe in una vera e propria probatio diabolica.

Il sistema delineato dai CILFIT criteria, secondo il Consiglio di Stato, condurrebbe dunque ad una evidente incongruità: pur in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale, quest’ultimo potrebbe essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) dell’interpretazione, con una evidente lesione del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law.

Il Consiglio di Stato ha dunque proposto alla Corte di Giustizia di interpretare il criterio della “evidenza che si impone anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte” non già quale indagine soggettiva, bensì quale esame oggettivo circa l’esistenza o meno di plurime e/o alternative interpretazioni della norma unionale.

Tale esame dovrebbe essere condotto (esclusivamente) sulla base della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la disposizione europea, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale.

È stato chiesto alla Corte di Giustizia anche se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare.

 

L’insoddisfacente risposta della Corte di Giustizia

Con la sentenza del 6 ottobre 2021, nella causa C-561/19 [4], Consorzio Italiano Managment e Catania Multiservizi, la Corte di Giustizia è nuovamente tornata sui presupposti dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Peraltro, la Corte ha ritenuto, con tale sentenza, di aver risposto anche alle richieste del Consiglio di Stato italiano, sopra ricordate, tant’è che, come da prassi, la sua cancelleria (nota del 13 dicembre 2021) ha chiesto al Consiglio di Stato se intendesse rinunciare alle questioni pregiudiziali sollevate riguardo all’art. 267 TFUE: la risposta del supremo consesso di giustizia amministrativa italiano è stata negativa (sez. IV, ord. n. 2545/2022).

E tale risposta negativa, a parere di scrive, non può certo biasimarsi.

La Corte, nella sentenza in parola (punti 29-46), ha ribadito quanto già affermato in passato – in particolare circa la “corretta interpretazione del diritto dell’Unione che si impone con tale evidenza da non lasciar adito a dubbi” - così lasciando immutata l’insoddisfazione dell’operatore del diritto per i CILFIT criteria.  

In particolare, la Corte di Giustizia, oltre a ribadire i criteri CILFIT:

a)   ha affermato che “la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di queste altre letture appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, (…) non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione”; tale affermazione, all’evidenza, si risolve in una tautologia, non venendo in alcun modo chiarito in cosa debba consistere il “dubbio ragionevole” (punto 48);

b)  ha dichiarato che, “quando l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti – in seno agli organi giurisdizionali di un medesimo Stato membro o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi – relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale è portata a conoscenza del giudice nazionale di ultima istanza, esso deve prestare particolare attenzione nella sua valutazione riguardo a un’eventuale assenza di ragionevole dubbio quanto all’interpretazione corretta della disposizione dell’Unione di cui trattasi” che, nuovamente, appare a chi scrive un ragionamento meramente “circolare”, in quando non chiarisce come dovrebbe concretamente estrinsecarsi tale “particolare attenzione” (punto 49);

c)   ha ricordato (cfr. CGUE 14 dicembre 1995, C-430-431/93, van Schijndel e Van Veen; 15 marzo 2017, C-3/16, Aquino) che un organo giurisdizionale di ultima istanza può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di pregiudizialità allorquando tale questione non sia proponibile nel giudizio a quo a causa delle preclusioni processuali previste dal diritto nazionale, fatti comunque salvi i principi di equivalenza [5] e di effettività [6] (punto 61) [7].

Maggiormente sensibile alle istanze di revisione dei CILFIT criteria è stato l’Avvocato Generale Michal Bobek, che nelle sue conclusioni [8] alla causa C-561/19 ha osservato:

a)   la necessità di chiarire, con precisione, quali siano, attualmente, la natura e la portata dell’obbligo di cui all’art. 267 par. 3 TFUE;

b)  la necessità di superare il concetto di “acte clair”, vale a dire la mancanza di ogni ragionevole dubbio riguardo alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nel caso di specie, per limitare l’obbligo di sottoposizione di questione pregiudiziale solo alle divergenze oggettive nella giurisprudenza a livello nazionale, che minacciano l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea;

c)   l’opportunità, conseguentemente, che l’obbligo di rinvio pregiudiziale sia subordinato al ricorrere, cumulativo, di tre condizioni:

1. la causa solleva una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (e non già di applicazione del diritto unionale, ove l’attività di applicazione consisterebbe nella sussunzione del caso di specie nelle norme così come interpretate);

2. il diritto dell’Unione può essere ragionevolmente interpretato in più modi possibili;

3. l’interpretazione del diritto dell’Unione non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte né da una singola sentenza della Corte, formulata in modo sufficientemente chiaro;

Secondo l’avvocato generale, invero, l’uniformità cui deve tendersi ex art. 267 TFUE non è, e non è mai stata, riferita al risultato di ciascun caso specifico, bensì alle norme giuridiche da applicare: ciò significa che, in linea di principio, accanto a un ragionevole grado di uniformità delle norme giuridiche (interpretazione), può esistere una diversità di risultati specifici (applicazione).

La limitazione del rinvio pregiudiziale, in accordo con l’avvocato generale, sarebbe anche funzionale alla salvaguardia del buon andamento della giustizia, tenuto conto dell’aumento vertiginoso del numero di domande di pronuncia pregiudiziale e delle limitate risorse giudiziarie della Corte.

Seppur non scevre da punti critici – in particolare il richiamo alla distinzione tra interpretazione ed applicazione, assai sdrucciolevole per stessa ammissione del Bobek, nonché potenzialmente foriera di concreti trattamenti giurisdizionali diversi tra Stati membri, senza tralasciare la “ragionevolezza” delle molteplici interpretazioni delle norme unionali, che nuovamente rischia di cadere nella tautologia – le conclusioni dell’avvocato generale appaiono comunque apprezzabili nella parte in cui invocano e cercano di individuare criteri oggettivi cui subordinare l’obbligo di rinvio pregiudiziale.

Conclusivamente, non resta che aspettare una nuova pronuncia della Corte di Giustizia, da ultimo sollecitata dalla sentenza del Consiglio di Stato qui riportata, nella certezza dell’insostenibilità del criterio del “ragionevole dubbio”, soggettivamente orientato, che continua ad essere proposto dalla Corte nonostante sia, in concreto, inapplicabile.




[1] TIZZANO in Foro it. 1983, vol. 106, n. 3, p. 63 ss.; LAGRANGE, in RTDEur 1983, p. 159 ss.; CATALANO, La pericolosa teoria dell’”atto chiaro”, in Giustizia civile, I, 1983, p. 12 ss.; LENAERTS, La modulation de l’obligation de renvoi préjudiciel, in Cahiers de droit européen, 1983, p. 471 ss.; BEBR, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Comm. Market Law Rev., 1983, p. 439 ss.

[2] Solo il criterio del raffronto testuale potrebbe porre diversi problemi pratici, tenuto conto che dall’epoca della sentenza Cilfit, quando le lingue ufficiali della Comunità erano appena sette, la babele linguistica europea è cresciuta sino alle attuali ventiquattro.

[3] Art. 2, comma 3-bis, della Legge n. 117 del 1988: “Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.

[4] Per un approfondita disamina della sentenza in parola, si veda LIPARI, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, C-561/2019; i criteri CILFIT e le preclusioni processuali, in https://www.giustamm.it/dottrina/lobbligo-di-rinvio-pregiudiziale-alla-cgue-dopo-la-sentenza-6-ottobre-2021-c-561-2019-i-criteri-cilfit-e-le-preclusioni-processuali/.

[5] Per principio di equivalenza richiede la disciplina processuale nazionale si applichi, in egual modo, ai ricorsi per violazione del diritto nazionale ed ai ricorsi per violazione del diritto dell’Unione.

[6] Il principio di effettività richiede che la disciplina processuale nazionale non sia tale da rendere, nella pratica, impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento unionale.

[7] È interessante osservare che mentre nella sentenza in oggetto la Corte ha ritenuto ben possibile, per il giudice di ultima istanza, omettere di sollevare questione pregiudiziale se le preclusioni processuali nazionali non consentono più alle parti nuove eccezioni al riguardo – e conseguentemente escludendo, seppur implicitamente, qualsiasi responsabilità dello Stato membro per violazione dell’art. 267 TFUE – la stessa Corte, con la recente sentenza del 17 maggio 2022, cause riunite C-693/19 e C-831/19, ha ritenuto superabile - con sconcertante nonchalance - il giudicato formatosi su un decreto ingiuntivo, ritualmente notificato e non opposto, ove esso sia stato emesso sulla base di un contratto contenente clausole abusive. E ciò nonostante – all’evidenza – il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo fosse in definitiva dipeso non già da violazioni del principio di equivalenza ed effettività, bensì dal colpevole comportamento processuale del debitore, che aveva omesso di coltivare le impugnazioni avverso il decreto ingiuntivo puntualmente offerte dal processo civile italiano. Per una attenta disamina della sentenza nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19, si veda TALLARO, L’erosione dell’autorità del giudicato, in https://www.primogrado.com/lerosione-dellautorita-del-giudicato.

[8] Per una penetrante critica di tali conclusioni, si veda DE PASQUALE, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in http://www.dirittounioneeuropea.eu/Tool/Evidenza/Single/view_html?id_evidenza=1197.




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