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Uso prolungato e obbligatorio della mascherina a scuola e salute psico-fisica dei minori

ago 17, 2021

TAR per il Lazio, sentenza n. 9343 del 9 agosto 2021


IL CASO E LA DECISIONE 

Alcuni studenti di scuole primarie e secondarie, rappresentati dai relativi genitori, hanno impugnato i DPCM che dal 14 gennaio in poi (l’ultimo reca la data del 2 marzo 2021) li avevano obbligati ad indossare le mascherine a scuola anche in situazione di staticità al banco, e nonostante il rispetto delle distanze previste dalla normativa emergenziale.

Nelle more del giudizio, gli atti impugnati avevano da un lato cessato di avere efficacia, ed erano stati oggetto, per altro verso, di rinvio recettizio da parte del d.l. n. 44 del 1/4/2021, con effetto di formale legificazione delle misure in contestazione e novazione sostanziale della fonte di regolazione del rapporto.

In ogni caso, il Tribunale adito, essendo stata allegata espressa “riserva” di richiesta di risarcimento del danno, si è spinto ad accertare la legittimità o meno dell’atto amministrativo fonte dell’obbligo, a fronte della contestazione di illogicità e di potenziale contrasto di tale atto con la salute psico-fisica dei bambini.

Il Tar per il Lazio ha dunque accertato l’illegittimità del DPCM del 14 gennaio 2021 – ovvero dell’atto amministrativo non recepito in una disposizione di legge - per sostanziale difetto di istruttoria, irragionevolezza e contrasto con le indicazioni del CTS, evidenziando che l’amministrazione si sarebbe discostata da tali indicazioni senza tuttavia motivare alcunché sulle ragioni del diverso intendimento, e senza addurre o richiamare evidenze istruttorie di diverso avviso, eventualmente ritenute prevalenti rispetto al parere tecnico-scientifico del CTS.


IL NUCLEO CENTRALE DELL’ILLEGITTIMITA’ DELL’OBBLIGO

La norma contestata prevede l’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei luoghi al chiuso, per bambini di età superiore ai 6 anni, anche durante l’attività didattica ed educativa tenuta nella scuola primaria e secondaria, di cui al primo ciclo di istruzione.

In pratica, nel corso di tale attività, se svolta in presenza, è prescritto l’uso obbligatorio di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, salvo che per i bambini di età inferiore ai 6 anni e per soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina.

Tuttavia, secondo i ricorrenti, l’obbligo in questione, per gli scolari di età superiore ai 6 anni, sarebbe stato imposto in modo indiscriminato, ricomprendendo anche il tempo in cui gli scolari sono seduti al banco, e per l’intera durata dell’attività didattica in presenza.

Tra l’altro, alla stregua delle indicazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico (CTS), il DPCM avrebbe dovuto calibrare il suddetto obbligo previa valutazione della situazione epidemiologica locale, nonché, per i bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni, prestando attenzione al contesto socio-culturale e a fattori come la compliance del bambino nell'utilizzo della mascherina e il suo impatto sulle capacità di apprendimento.

Avrebbe dovuto dunque essere prevista, nella prospettiva dei ricorrenti, la possibilità di esonero dall’utilizzo della mascherina a scuola, per i minori interessati, non solo in caso di patologie o disabilità incompatibili con tale uso, ma anche qualora l’uso della mascherina stessa provochi un “fastidio” o un “disturbo” di qualsivoglia natura e, comunque, quando sia garantita la distanza di un metro fra i banchi.

D’altra parte, la misura obbligatoria non era stata introdotta in conformità alla previsione di rango legislativo di cui all’art. 1, comma 2, D.L. 19/2020, convertito in L. 35/2020, in quanto tale norma, per quanto di interesse, aveva previsto alla lett. hh-bis), l’“obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, con possibilità di prevederne l'obbligatorietà dell'utilizzo nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande, restando esclusi da detti obblighi: 1) i soggetti che stanno svolgendo attività sportiva; 2) i bambini di età inferiore ai sei anni; 3) i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l'uso della mascherina, nonché coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità”.

Ne deriva che era stata prevista solo la “possibilità” e non la “necessità” dell'uso obbligatorio della mascherina nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto, e che la prescrizione generalizzata dell’uso delle mascherine, essendo connessa all’impossibilità di garantire il distanziamento, avrebbe dovuto risultare in linea con il principio di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente, ad esempio, nel caso di bambini fra i 6 e gli 11 anni in ambito scolastico, per i quali fosse stato possibile, in condizioni di staticità, garantire la distanza interpersonale di un metro.

Il Tar per il Lazio ha dunque ritenuto irragionevole l’imposizione indiscriminata della mascherina anche negli istituti scolastici che avevano già adottato misure per garantire il distanziamento fra i banchi, e ingiustificato il mancato rispetto dei criteri di “modularità e scalabilità delle azioni di prevenzione”.

Invero, con tale ultima espressione, il CTS ha inteso escludere una imposizione indiscriminata dell’uso delle mascherine avendo, al contrario, suggerito di “modularle” e “scalarle” in pejus o in melius in considerazione dell'evoluzione sia dell'andamento epidemiologico sia dell’oggettivo “rispetto della distanza di almeno un metro” fra i banchi.

Il distanziamento fisico (inteso come distanza minima di 1 metro tra le rime buccali degli alunni e, a maggior tutela degli insegnanti, di due metri nella zona interattiva della cattedra tra l'insegnante stesso e i banchi) viene così confermato come uno dei punti di primaria importanza nelle azioni di prevenzione del contenimento epidemico, da intendersi nel contesto scolastico, in linea generale, sia in condizione statica che in movimento, a cui può essere aggiunto l'uso della mascherina, preferibilmente di tipo chirurgico, soltanto laddove necessario.

In altri termini, secondo il CTS – e secondo criteri di logica e di ragionevolezza dell’azione di prevenzione del contagio - l’imposizione della mascherina avrebbe dovuto essere l’extrema ratio, da imporre soltanto nel caso non fosse stato possibile garantire nello svolgimento delle attività scolastiche il distanziamento fisico prescritto, e comunque fino all’adozione di misure strutturali volta a garantire il distanziamento prescritto.

Il Giudice adito, tramite il richiamo ad altro precedente speculare, ha altresì evidenziato che l’aver imposto in modo indiscriminato su tutto il territorio nazionale l’uso della mascherina ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni a scuola, anche al banco in condizione di staticità, non era misura da ritenersi coerente con la scelta dell’amministrazione di differenziare le misure restrittive da applicare nelle diverse regioni, sulla base del contesto epidemiologico di ciascuna di esse, come determinato da apposita ordinanza del Ministro della Salute (la cosiddetta divisione in “zone”).

A fronte di tali indici di eccesso di potere – che è lo strumento attraverso il quale possono essere sindacate scelte di opportunità anche tecnica dell’amministrazione, senza sovrapporsi a tali scelte –, il Ministero della Salute non ha mai indicato quali determinate evidenze scientifiche sarebbero state assunte a fondamento tecnico-scientifico dell’imposizione della misura impugnata, limitandosi a riferire di varia letteratura scientifica, ove si affronta la tematica delle possibili ricadute sulla salute psico-fisica dei bambini derivanti dall’uso prolungato della mascherina.

Né risulta convincente, al riguardo, distinguere tra compromissione della salute e disagio psicologico provocato dall’uso della mascherina, ritenendo che i disagi percepiti e gli atteggiamenti negativi associati all'uso delle mascherine durante la pandemia COVID-19 possano essere almeno parzialmente spiegati dai tentativi di soddisfare tre bisogni psicologici di base (autonomia, relazione e comprensione), piuttosto che con un disagio fisiologico reale.


PRINCIPIO DI PREVENZIONE E PRINCIPIO DI PRECAUZIONE

Il Giudice amministrativo di primo grado, in ogni caso, aveva già precisato, in altro arresto, che la misura censurata non rispetta neanche i parametri del principio di precauzione, qualora la si voglia ancorare a tale principio e non al principio di prevenzione. Posta la differenza concettuale che intercorre tra precauzione (limitazione di rischi ipotetici o basati su indizi) e prevenzione (limitazione di rischi oggettivi e provati), il principio di precauzione, dettato in primis dall'art. 191 del TFUE e a seguire recepito da ulteriori fonti comunitarie e dai singoli ordinamenti nazionali, obbliga le Autorità competenti ad adottare provvedimenti appropriati al fine di scongiurare i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi, e prima che subentrino più avanzate e risolutive tecniche di contrasto.

L'attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche.

Ma poiché anche le misure basate sul principio di precauzione devono essere proporzionali rispetto al livello prescelto di protezione, e non discriminatorie nella loro applicazione, non sempre un divieto totale può essere una risposta adeguata al rischio potenziale.

In siffatte ipotesi, per coniugare in modo bilanciato esigenze di precauzione e di proporzionalità, la Commissione europea ha suggerito, ad esempio, di modulare l'azione cautelativa in relazione alla evoluzione dei suoi risultati, sottoponendo le misure adottate ad un'opera di controllo e di revisione, alla luce dei nuovi dati scientifici nele frattempo acquisiti.

Ne deriva che il principio di precauzione presuppone sempre l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura, giudizio che nel caso di specie non sembra essere stato compiuto dall'amministrazione competente.


TEMPISTICA DEI DPCM E LESIONE DEL DIRITTO DI DIFESA

Un’interessante precisazione del Giudice capitolino, in un precedente speculare a quello esaminato, deve essere infine riportato, con riferimento alla difficoltà dei ricorrenti, in casi come quello esaminato, di estendere il thema decidendum del giudizio instaurato a ogni successiva modifica normativa regolante le misure contestate, senza esperire un’ulteriore impugnazione (motivi aggiunti), dal momento che il potere esecutivo ha rincorso l’evolversi della diffusione del contagio con una incessante e spesso caotica produzione di norme giuridiche di contrasto.

Sul punto, i Giudici amministrativi hanno osservato che l’osservazione secondo cui la “tempistica” dei DPCM non consentirebbe una piena ed adeguata tutela giurisdizionale in quanto i ricorrenti si erano ritrovati a dover “rincorrere” i DPCM che si succedevano nel tempo senza poter mai trattare la questione oggetto di causa avrebbe meritato de jure condendo una riflessione sui rimedi giurisdizionali che l’ordinamento dovrebbe apprestare, a fronte di situazioni del tutto extra ordinem, in cui si è in presenza di atti amministrativi che reiterano più volte le stesse misure, ma che sono dotati di efficacia temporale talmente limitata da compromettere, nella sostanza, il diritto di difesa costituzionalmente garantito.

Si riporta integralmente il passaggio in questione, per l’innegabile interesse che rappresenta dal punto di vista ordinamentale, e la chiara prospettazione della questione ivi contenuta: “Invero i rimedi che attualmente l’ordinamento appresta, quali la richiesta di decreto cautelare e la richiesta di abbreviazione dei termini, non appaiono idonei a rendere effettivo il diritto di difesa: ciò in quanto l’adozione del decreto cautelare non è compatibile con la complessità delle numerose questioni, spesso anche di illegittimità costituzionale, che le parti ricorrenti prospettano; l’abbreviazione dei termini, anche quando concessa, non sempre è idonea a garantire il conseguimento di una pronuncia cautelare in tempo utile, ove l’impugnazione riguardi un DPCM che abbia durata estremamente limitata: si pensi alle disposizioni del DPCM del 24 ottobre 2020 che si sarebbero dovute applicare fino al 24 novembre 2020 ma che hanno, invece, perso efficacia anticipatamente in forza del DPCM del 3 novembre 2020, così restando in vigore per soli 16 giorni; del pari il DPCM del 13 ottobre 2020, la cui efficacia è stata inizialmente prevista fino al 13 novembre 2020, è stata successivamente anticipata al 25 ottobre in forza del DPCM del 24 ottobre 2020, così restando in vigore per soli 12 giorni.

Fermi restando i rilievi che precedono, deve tuttavia affermarsi, de jure condito, che la mancata impugnazione espressa dei successivi DPCM con il rimedio dei motivi aggiunti, ne preclude l’esame da parte del Giudice; invero, quantunque, in astratto, le argomentazioni spese in giudizio dall’amministrazione per sostenere la legittimità del DPCM impugnato, ben potrebbero attagliarsi ad analoga difesa dei successivi DPCM, i quali hanno reiterato testualmente la medesima misura in questa sede censurata, dal punto di vista formale deve essere garantito all’amministrazione il diritto di difesa in giudizio, che è presidiato dall’art. 24 cost.” (Tar per il Lazio, Sezione Prima, sent. n. 2102 del 2021).


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