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Divieto di fumo in aree pubbliche. Il potere regolamentare dei Comuni tra Federico Barbarossa, Kelsen e Santi Romano

a cura di Francesco Tallaro • mar 02, 2022

«Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano», si legge nella quarta strofa del Canto degli Italiani, scritto da Goffredo Mameli.

Legnano è, quindi, l’unico comune italiano, esclusa – ovviamente – Roma, ad avere l’onore di essere citato nell’inno nazionale italiano. Ed in effetti la portata – nella storia patria, ma anche nella storia del diritto pubblico – della battaglia di Legnano, cui il canto si riferisce, è di primo piano.

Il contesto è la contrapposizione tra l’imperatore Federico I Hohenstaufen, meglio noto come Barbarossa, e i Comuni italiani, che nella crisi del feudalesimo avevano trovato spazio politico e avevano via via acquisito autonoma potestà normativa, fiscale e giurisdizionale.

Nel tentativo di restaurare il potere imperiale sull’Italia del nord, il Barbarossa valicò per cinque volte le Alpi con i suoi eserciti, ma l’ultima avventura bellica nella Penisola si concluse il 29 maggio 1176, allorché le milizie della Societas Lombardiae, la Lega Lombarda, sconfisse le truppe imperiali.

L’imperatore fu quindi costretto, con la Pace di Costanza sottoscritta il 25 giugno del 1183, a concedere «le regalie e le vostre consuetudini, tanto in città che fuori della città (…) in modo che nella stessa città abbiate tutto come finora lo avete avuto o lo avete; mentre fuori possiate praticare senza contrasto tutte le consuetudini che per tradizione avete praticato o praticate, per quanto riguarda il fodro e i boschi, i pascoli e i ponti, le acque e i mulini (…), l'esercito, le fortificazioni della città, la giurisdizione tanto nelle cause penali che nelle civili, all'interno e all'esterno, e le altre cose che si riferiscono al buono stato delle città».

In sostanza i Comuni acquisirono un’ampia autonomia quanto alla propria organizzazione, anche militare, rispetto alla gestione delle risorse del territorio, e finanche nell’esercizio dello ius dicere in materia civile e penale.

La rievocazione di una battaglia di cui le nebbie del tempo non hanno cancellato il ricordo testimonia come la natura e le caratteristiche delle autonomie comunali italiane rappresentino una questione complessa nella teoria generale dello Stato.

I comuni preesistono a qualsiasi forma di Stato moderno. E tuttavia, una concezione monolitica, kelseniana dello Stato non può che inquadrarli come articolazione dell’unica, originaria struttura amministrativa statale; articolazione la cui autonomia si sviluppa esclusivamente nell’ambito delle attribuzioni di competenza operate dalla legge.

Invece, una ricostruzione pluralistica degli ordinamenti, secondo la teorizzazione di Santi Romano, restituisce ai Comuni, anche sul piano teorico, quello spazio di autonomia conquistato sul campo della Storia.

Al primo modello sembra riconducibile la struttura delineata dallo Statuto albertino, che dei Comuni si occupa solo all’art. 74 per attribuire alla legge (statale) il compito di regolare «le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei comuni e delle provincie».

Al secondo modello si rifà apertamente la Costituzione repubblicana, che fin dall’art. 4, «riconosce» (verbo dall’evidente peso specifico) e promuove le autonomie locali e impegna l’ordinamento ad adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento [1]; e che, con la riforma, nel 2001, del Titolo V della Costituzione, vede le Autonomie locali riconosciute come componente costitutiva, insieme allo Stato, della Repubblica.

Cartina al tornasole della concezione degli Enti locali è l’ampiezza del potere regolamentare ad essi riconosciuto [2].

Va premesso, in proposito, che già sotto l’ordinamento statutario si ritenevano ammissibili sia i regolamenti comunali che si riferissero all’organizzazione e ai mezzi di attività dei propri uffici, sia i regolamenti che stabilissero limitazioni alla libertà e alla proprietà dei singoli (i c.d. regolamenti di polizia), soprattutto in materia di edilizia, polizia urbana, igiene e sanità [3].

Nel regime costituzionale, come risultante dalle riforme del 2001, è dato acquisito che  i Comuni siano enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (art. 114, comma 2); e che abbiano potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117), con la particolarità che funzioni amministrative debbono essere di regola attribuite ai Comuni, salvo che non emerga la necessità di attribuirle a un livello di governo più esteso (art. 118).

La posizione dei Comuni nell’ordinamento, peraltro, non è argomento che riguardi solo i teorici del diritto; dalla ricostruzione adottata possono dipendere anche rilevanti effetti pratici, come risulta evidente dallo studio della sentenza dello scorso 29 novembre 2021 pronunciata dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, sede di Milano [4] .

Il giudice amministrativo, nel caso di specie, è stato chiamato a decidere del ricorso proposto da un fumatore e dal titolare di una rivendita di tabacchi contro il Regolamento per la qualità dell’aria, adottato dal Consiglio comunale di Milano.

Con esso, l’assemblea elettiva meneghina ha previsto, con decorrenza dal mese di gennaio 2021, il divieto di fumo nei parchi e nei giardini comunali, presso le fermate dei mezzi pubblici, nelle aree cimiteriali e nelle strutture sportive della città; divieto che, dal 1° gennaio 2025 è esteso a tutte le aree pubbliche o ad uso pubblico, ivi incluse le aree stradali.

Per quel che rileva ai fini del presente commento, i ricorrenti, rivolgendosi al Tribunale Amministrativo Regionale, hanno contestato in radice il potere dell’Ente comunale di regolare una materia afferente alla tutela della salute, attribuita dalla Costituzione alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni.

A dire di parte ricorrente, infatti, il legislatore, con l’art. 50 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante il Testo Unico degli Enti Locali, avrebbe sì attribuito ai Comuni limitati poteri di regolamentazione in tema di salute pubblica, ma nei soli casi di sussistenza di un’emergenza sanitaria.

Inoltre, le disposizioni contestate sarebbero illegittimamente lesive della libertà personale, tutelata dall’art. 13 Cost., e della libertà di iniziativa economica privata, presidiata invece dall’art. 41 Cost.

La sentenza in commento ha affrontato le questioni proposte riconducendo correttamente la vicenda contenziosa ai principi di autonomia degli Enti locali, di cui la potestà normativa rappresenta riflesso, e ricollegando il potere di regolazione alla rappresentatività di cui i Consigli comunali, cui spetta di adottare i regolamenti, sono dotati.

In sostanza, ribadita la necessaria osservanza del principio di legalità da parte dell’amministrazione in quanto titolare di poteri autoritativi che, imponendosi ai destinatari, devono necessariamente rinvenire il presupposto legittimante nella volontà popolare espressa attraverso le leggi, viene sottolineato il diverso modo di atteggiarsi del principio di legalità, allorché vengano in rilievo le Autonomie locali.

In tali casi, il principio subisce un temperamento che è strettamente correlato al riconoscimento costituzionale dell’autonomia e, quindi, alla loro rappresentatività, insita nel fatto che l’organo di base negli enti in questione è anch’esso eletto.

Tali argomentazioni sarebbero forse bastate per ritenere che il Comune di Milano sia competente a imporre il divieto di fumo, adottando una regolamentazione più restrittiva di quella vigente sul restante territorio nazionale.

Nondimeno, il Tribunale ha ancorato l’esercizio di potere regolamentare anche all’espressa previsione legislativa di cui all’art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000.

Il comma 5 di tale articolo disciplina il potere sindacale di ordinanza contingibile e urgente, autorizzando l’adozione di tali atti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, nonché al fine di superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o, ancora, di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti.

Il successivo comma 7-ter, invece, prevede che nelle materie appena specificate «i Comuni possono adottare regolamenti».

Sulla base di tali previsioni, è opinione del TAR Lombardia che il potere regolamentare del Comune non possa essere riduttivamente interpretato nel senso di limitare l’esercizio del predetto potere ai casi di «urgente necessità»; piuttosto, il potere d’intervento si estrinseca con lo strumento regolamentare per disciplinare le funzioni volte a fronteggiare le «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana»; rimanendo lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente riservato alle situazioni che richiedono una «urgente necessità d’interventi».

Il potere regolamentare comunale, quindi, ben radicato nel tessuto costituzionale, trova nella materia specifica anche fondamento in una legge dello Stato, cosicché perdono di consistenza anche le censure volte a far emergere una – insussistente – illegittima compressione della libertà personale e della libertà di iniziativa economica.


[1] Per un approfondimento, si rinvia a E. Giardino, voce Regolamenti comunali, in Digesto discipline pubblicistiche, agg. Tomo II, 2008

[2] Su cui si rinvia a M.Alì, voce regolamenti degli Enti territoriali, in Enciclopedia del diritto, agg. VI, 2002; si v. anche M. C. Romano, Regolamenti dei Comuni (I agg.), in Digesto delle Discipline pubblicistiche, 2015

[3] G. Zanobini. Voce Regolamento, in Nuovo Digesto Italiano, 1939, p. 320

[4] Sentenza n. 2631 del 2021


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