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Il diritto a morire

nov 24, 2021

Tribunale ordinario di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021, in sede di reclamo avverso ordinanza ex art. 700 c.p.c.


IL CASO

Un soggetto affetto da una patologia irreversibile (tetraplegia), ritenendo ormai intollerabili le sofferenze psichiche e fisiche derivanti da tale stato, e documentando di essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ha chiesto l’accertamento in giudizio di essere capace, libero e informato, al fine di porre fine alla sua esistenza.

L’accertamento in questione dovrebbe essere preliminare, nell’intenzione dell’istante, rispetto al successivo ordine del Giudice, da impartire alla ASL competente, di disporre la prescrizione del farmaco letale scelto dall’interessato e ritenuto idoneo a garantirgli una morte rapida, efficace e non dolorosa.

Secondo l'istante, la Consulta, con la sentenza n. 242 del 2019 sul caso Cappato avrebbe aperto a quelle forme di eutanasia attiva consistenti in pratiche volte a cagionare il decesso di un individuo attraverso un "farmaco letale" suscettibile di essere assunto direttamente dal paziente (cd. eutanasia diretta), ovvero somministrato dal medico o da un soggetto terzo (cd. eutanasia indiretta).

Questa impostazione sarebbe in linea con la tesi secondo cui la Corte costituzionale avrebbe fornito all'interprete una regolamentazione innovativa e autosufficiente sul delicato tema del fine vita e del suicidio assistito.

Nel caso di specie, il richiedente ha riferito di necessitare quotidianamente dell'assistenza di un soggetto terzo per il compimento di ogni attività quotidiana (anche le più banali), nel contesto di un quadro clinico ormai irreversibile, ragion per cui ha deciso ponderatamente e liberamente di porre fine alla sua esistenza, dal momento che non intende più costringere sé stesso, i suoi familiari e amici a gravi e inutili sofferenze fisiche e psicologiche.

La sua condizione di tetraplegico non gli consente, però, di farla finita da solo.

In prima battuta, il Tribunale di Ancona ha respinto in sede cautelare la domanda avente ad oggetto la prescrizione del farmaco letale, ricordando che i principi stabiliti dalle recenti pronunce della Corte costituzionale devono ritenersi confinati ad ipotesi di esclusione della responsabilità penale, che la questione del “fine vita” attende ancora un’adeguata regolamentazione da parte del legislatore e che non sussiste il diritto del paziente di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza.

In sede di reclamo avverso l'ordinanza cautelare, peraltro, lo stesso Tribunale adito, stavolta in composizione collegiale, pur condividendo il ragionamento del primo Giudice, secondo cui non è accoglibile la richiesta di ordinare all’azienda sanitaria di provvedere alla somministrazione/prescrizione del farmaco letale prescelto – in quanto non è stata ancora accertata la sussistenza dei presupposti indicati dalla Corte costituzionale ai fini della non punibilità penale di un aiuto al suicidio e non può ritenersi sussistente un obbligo di provvedere in tal senso a carico della struttura sanitaria pubblica -, ha precisato che, pur non trovando spazio nel nostro ordinamento un “diritto al suicidio”, è senz’altro tutelabile il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti necessari e sufficienti, secondo la Corte delle leggi, a permettere al malato di accedere al suicidio assistito in piena legalità e senza che nessuno sia accusato di aiuto illecito al suicidio.

Il Giudice adito ha pertanto concluso riconoscendo all'istante sia il diritto di pretendere dall'Azienda sanitaria competente l'accertamento dell'esistenza, nel caso di specie, dei presupposti richiamati nella sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un "aiuto al suicidio" praticato in suo favore da un soggetto terzo, sia il diritto di pretendere - dalla stessa struttura pubblica - la verifica sull'effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco prescelti dall'istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente.

Ha invece escluso l'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, azionabile in giudizio, ad essere assistiti nel suicidio, cui corrisponda, dal lato passivo, un obbligo del personale sanitario. 


UN DIRITTO ANCORA “SOSPESO”

La Corte costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 580 c.p., ha enucleato una nuova causa di non punibilità per tale reato, qualora sussistano le seguenti condizioni:

- il paziente sia affetto da una patologia irreversibile;

- tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche ritenute assolutamente intollerabili dal malato;

- la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale;

- l’individuo interessato resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

La Corte ha altresì evidenziato che il medico non ha alcun obbligo di procedere ad "aiutare" il suicidio assistito, anche nel caso in cui ricorra in suo favore la nuova causa di non punibilità in sede penale.

D’altra parte, le pratiche mediche tese a dare la morte sono qualcosa di profondamente diverso dalle pratiche mediche rivolte all’aiuto nel morire, ossia all’accompagnamento nel morire attraverso cure palliative e terapie del dolore.

Né la legge n. 219 del 2017 consente al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti atti a determinarne la morte, limitandosi, tale normativa, a disporre che il paziente in condizioni patologiche irreversibili possa lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua - che lo pone in stato di incoscienza fino alla morte -, senza che il medico possa rifiutare tale richiesta.

Sembra dunque non sussistere nel nostro ordinamento – ed è questo allo stato l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente, come avallato anche dalla decisione in commento –, in quanto non riconosciuto, né esplicitamente né implicitamente, il diritto di poter scegliere quando e come morire, anche in considerazione del fatto che dall’art. 2 della Costituzione, non diversamente che dall’art. 2 della CEDU, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello opposto di riconoscere al singolo di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.

Questa conclusione, però, non soddisfa l’esigenza di evitare che il paziente sia costretto, per congedarsi dalla vita, a subire un processo più lento e più carico di sofferenze (quello legato alla interruzione del trattamento e alla sedazione profonda), rispetto ad uno più rispettoso di una morte rapida e dignitosa.

L’impossibilità giuridica di potere scegliere come finire il proprio percorso esistenziale limita irragionevolmente, secondo la stessa Corte costituzionale, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze: tale libertà è invero garantita dagli articoli 2, 13 e 32 della nostra Carta fondamentale.

Vi è dunque un vuoto normativo che viola apertamente i diritti costituzionali del malato ma che non risulta apparentemente colmabile desumendo il diritto ad essere lato sensu "aiutati a morire", magari tramite il ricorso al Servizio sanitario nazionale, dal "diritto a morire rifiutando i trattamenti", così come già riconosciuto dal legislatore.

Secondo alcuni, il diritto di morire, implicitamente riconosciuto in quanto strettamente connesso al diritto di rifiutare le terapie, è qualcosa di diverso dal diritto a ricevere un aiuto nel morire; secondo altri, il diritto a morire si ricava dallo stesso diritto alla vita, inteso come consacrazione dell'autodeterminazione dell'individuo  rispetto alla sua stessa vita, sia quando la voglia vivere, sia quando non la voglia vivere.

Ad ogni modo, pur in presenza di un diritto sicuramente sussistente - una volta verificatesi le condizioni attestanti l'irreversibilità della condizione patologica, lo stato di dolorosa non autosufficienza e la consapevolezza della scelta -  il problema sembra essere quello di una regolamentazione di tale diritto, al fine di evitare una situazione densa di pericoli di abusi nei confronti delle persone vulnerabili.

Ma se è sicuramente costituzionalmente protetta la possibilità di scelta, da parte del malato, delle modalità di congedo dalla vita, non si può dire lo stesso per l'atto del soggetto su cui pesa, in ultima analisi, il terribile ruolo di farsi carico della scelta finale altrui.

Tale soggetto, in un ordinamento giuridico moderno, forse dovrebbe essere lo Stato.


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