Lezioni di diritto tributario

Lezioni di Diritto Tributario


La legge n. 130 del 2022 ("Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari") ha previsto la nuova figura del GIUDICE TRIBUTARIO professionale assunto per concorso pubblico. La prova scritta consiste in due elaborati teorici (diritto tributario e diritto civile o commerciale) e in una prova teorico-pratica di diritto processuale tributario.

Vengono di seguito indicati, con il relativo inquadramento, una serie di argomenti e interventi giurisprudenziali che potrebbero essere oggetto delle due prove (teorica e pratica) di tributario.

Saranno successivamente inseriti contributi specifici sulla redazione degli scritti.


Autore: Alma Chiettini 02 apr, 2024
Cass. Civile, Sezioni Unite, 12 febbraio 2024, n. 3737 La quota annuale dovuta per l’iscrizione agli albi professionali , indipendentemente dal termine utilizzato per la sua individuazione: “quota”, “contributo”, … (posto che la denominazione è irrilevante al fine di determinare, o di escludere, la natura tributaria di una prestazione) è una “tassa annuale” finalizzata alla necessità di fornire la provvista dei mezzi finanziari necessari al funzionamento dell’Ente delegato dall’ordinamento per il controllo dell’albo professionale. Il sistema normativo riconosce all’ente “Ordine professionale” la potestà impositiva rispetto a una prestazione che l’iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcuna possibilità di scegliere se versare o meno la relativa tassa (sia di iscrizione all’albo sia l’annuale), al pagamento della quale è condizionata l’appartenenza a quell’Ordine. Siffatta “tassa” si configura come una “quota associativa” rispetto a un Ente ad appartenenza necessaria, in quanto l’iscrizione all’albo è conditio sine qua non per il legittimo esercizio della professione. Sussiste in tal modo il primo degli elementi che caratterizzano il “tributo”: la doverosità della prestazione . Chi intende esercitare una delle professioni per le quali è prevista l’iscrizione a uno specifico albo deve provvedere a iscriversi sopportandone il relativo costo (la tassa di iscrizione e la tassa annuale), il cui importo non è commisurato al costo del servizio o al valore della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’Ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto. Ed ecco il secondo elemento che identifica la sua “natura tributaria”: il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante . Presupposto che è costituito dal legittimo esercizio della professione per il quale è condizione l’iscrizione in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all’Ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico, nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di quest’ultimi alle predette prestazioni. Ne consegue, ai sensi dell’ art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 - come modificato dall’art. 12 della l. n. 448 del 2001 che ha esteso la giurisdizione tributaria a tutte le cause aventi per oggetto tributi di ogni genere - che le controversie relative alla riscossione della quota annuale d’iscrizione all’albo professionale sono devolute alla giurisdizione del giudice tributario . La Corte della giurisdizione ha da tempo affermato tale principio con riferimento alla quota annuale dovuta per l’iscrizione all’albo degli Avvocati (Sez. Unite, 26.1.2011, n. 1782) e, prima ancora, per le controversie concernenti il pagamento del diritto annuale di iscrizione in albi e registri delle Camere di commercio, il c.d. diritto camerale (Sez. Unite, 24.6.2005, n. 13549). Più di recente, lo ha confermato con riferimento al contributo annuale a carico degli avvocati e a favore del Consiglio Nazionale Forense (Sez. Unite, 18.6.2019, n. 16340). Con la pronuncia qui segnalata ha ribadito il principio con riferimento alla quota annuale per l’ iscrizione all’albo delle professioni infermieristiche , “ ove sono individuabili i medesimi caratteri della prestazione già indicati [nelle precedenti pronunce], tanto più che l’evoluzione in materia della disciplina, approdata nella legge 11 gennaio 2018, n. 3, di riordino della disciplina degli Ordini professionali sanitari, tra i quali l’Ordine delle professioni infermieristiche (art. 4), nell’individuazione dei compiti dell’organo del Consiglio direttivo (art. 3, lett. f), conferma la suddetta qualificazione come ‘tassa annuale’, in relazione alla medesima finalità di copertura della spese di gestione dell’Ente ”.
Autore: Alma Chiettini 06 mar, 2024
Cass. Civile, sez. V, 5 febbraio 2024, n. 3292 In tema di accertamento delle imposte sui redditi di una società di capitali che presenta una ristretta base partecipativa, la Corte di cassazione afferma da tempo che è legittima la presunzione di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, e che rimane sempre salva la facoltà per la società e per il socio di provare che i maggiori ricavi societari non sono stati fatti oggetto di distribuzione ma sono stati, invece, accantonati oppure reinvestiti; e pure il singolo socio può dimostrare la propria estraneità alla gestione e alla conduzione societaria. Ciò vale sia nelle ipotesi di quote societarie di società familiari sia in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, e dunque la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio. Quello che rileva è solo la ristrettezza dell’assetto societario, la quale implica un vincolo di solidarietà e il reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria. Pertanto, tale peculiare forma partecipativa consente di riconoscere, ai fini della prova presuntiva, i requisiti richiesti dall’ art. 2729 c.c. (sulle presunzioni semplici), mentre non consente di ricondurne il fondamento nell’alveo dell’art. 5 (sulle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice) del d.P.R. n. 917 del 1986 , che è infatti applicabile alle sole società di persone. La Corte di legittimità ricorda che nella tassazione degli utili da partecipazione in società ed enti soggetti a IRES (art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 917 del 1986) si applicano i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci, secondo le diverse percentuali stabilite in funzione della natura del socio partecipante, così come stabilito dagli artt. 47 (per le persone fisiche) e 89 (per imprese e società) e seguenti dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986. Per esempio, per il socio persona fisica che detiene la partecipazione nell’esercizio di un’impresa è prevista l’esenzione limitata al 41,86% (con tassazione del 58,14%), fino ad arrivare all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% sugli utili deliberati per il socio che detiene la partecipazione fuori dall’esercizio di una impresa, sia che si tratti di partecipazione qualificata che non qualificata. Ma la Corte ha da tempo anche precisato che il beneficio dell’esenzione parziale dall’imposizione degli utili societari opera unicamente nel caso in cui si discuta di redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile , e non opera in caso di utili extra-bilancio che, una volta accertati per altra via, vanno imputati in misura intera e non ridotta. Tale conclusione non presenta “alcun intento para-sanzionatorio” ma è fondata sulla considerazione che i soci, come avviene in entità prive di personalità giuridica, abbiano agito ripartendosi sic et simpliciter l’utile societario presuntivamente accertato in capo alla società. Trattandosi dunque di utili ottenuti in evasione di imposta, mai pervenuti nella contabilità societaria in quanto non oggetto di registrazione nelle scritture né di indicazione in dichiarazione, trattandosi, in altre parole, di “utili ‘in nero’ (Cass. civ., sez. V, 23.12.2019, n. 34282), è chiaro che non c’è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione perché la stessa non c’è mai stata, dato che la società non aveva dichiarato quegli utili extracontabili che sono quindi sfuggiti all’imposizione a livello societario. In altri termini: “il beneficio dell’esenzione parziale nell’imposizione degli utili societari viene meno poiché la ripartizione del maggior utile sottratto a imposizione tra i soci giustifica la perdita del beneficio della più mite imposizione degli utili societari, la cui esistenza trova fondamento nel rispetto della normativa sulla loro determinazione in forza unicamente del bilancio di esercizio ” (Cass. civ., sez. VI - 5, 30.11.2022, n. 35293, e la giurisprudenza ivi citata). Tali principi oramai assodati, sono stati ri-affermanti dalla sentenza qui segnalata, la quale ha precisato che quando a una società a ristretta base partecipativa viene contestata la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extra-contabili accertati, “ non è in alcun modo applicabile (diversamente da quanto sostiene parte della dottrina) il disposto di cui all’art. 47 TUIR, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci con delibere formali dell’assemblea e, pertanto, non trova applicazione per i redditi extracontabili, che per definizione non risultano menzionati nella contabilità societaria, poiché trattandosi di utili ottenuti in evasione di imposta … è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione … non avendo la società dichiarato tali utili extracontabili ”.
Autore: Alma Chiettini 04 feb, 2024
Cass. Civile, sez. V, 19 gennaio 2024, n. 2029 Con la pronuncia segnalata la Corte di cassazione ha avuto modo di ricordare alcune regole e di riaffermare principi in materia di contenzioso avverso gli atti che hanno per oggetto la tassa sui rifiuti - TARI , introdotta per finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento con la l. n. 147 del 2013, commi da 639 a 736 . In primo luogo, la TARI parametra il pagamento all’entità della superficie calpestabile e all’occupazione immobiliare, a prescindere dall’effettività della produzione di una quantità individuale certa di rifiuti. L’importo riscosso dall’ente pubblico deve assicurare la copertura dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio, e tra le componenti di costo devono essere considerati anche gli eventuali mancati ricavi relativi a crediti risultati inesigibili (commi 654 e 654 bis). Nondimeno, tale tassa è sì finalizzata a reperite la provvista necessaria all’esercizio di una funzione di interesse pubblico ma è priva di un rapporto di corrispondenza economica tra la prestazione dell’amministrazione e il vantaggio ricevuto dal privato. Non sussiste quindi un rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l’onere e il beneficio che il singolo riceve. Ne consegue che la TARI ha natura tributaria . Solamente ai comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico è consentito prevedere, in luogo della TAR, l’applicazione di una tariffa avente natura corrispettiva (comma 668). La TARI è dunque una “tassa di scopo” che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale ripartendone l’onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio (Cass. civ., Sez. Unite, 23.11.2018, n. 30426; id., Sez. Unite, 18.6.2019, n. 16341). Deriva da tale impostazione che gli atti con cui il gestore (società/enti) dei servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani chiede al contribuente quanto dovuto a titolo di tassa di igiene ambientale, atti che possono anche presentarsi con la forma di una fattura commerciale, non attengono al corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta ma a una entrata pubblicistica. Ne consegue che, avendo natura di atti impositivi, al relativo procedimento di quantificazione e riscossione si applicano i principi generali del procedimento tributario di accertamento e di riscossione (Cass. civ., sez. V, 8.4.2022, n. 11481). Quanto alla motivazione degli atti/fatture TARI, in applicazione dell’ art. 7, comma 1, della l. n. 212 del 2000 ( Statuto dei diritti del contribuente ) essi non possono presentarsi generici perché devono consentire al contribuente di comprendere come sia stato determinato l’importo chiesto in pagamento. Non è però “ necessaria una motivazione specifica, perché tali atti/fatture non sono assimilabili a un atto provvedimentale (ossia a un avviso di accertamento, o a un avviso di liquidazione), ma è evidente che, comportando una pretesa tributaria, devono consentire la sua comprensibilità e con essa la possibilità di valutare la legittimità della pretesa ”: per cui l’ente impositore deve specificare nell’atto impositivo tutti gli elementi posti a base della pretesa fiscale, al fine di garantire il rispetto del diritto di difesa del contribuente. Tali atti/fatture devono essere impugnati innanzi al Giudice tributario nonostante non siano espressamente ricompresi nell’elenco degli atti opponibili di cui all’ art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 . Sul punto è stato confermato che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti quando con gli stessi l’amministrazione finanziaria porta a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria , esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche. L’art. 19 è pertanto da interpretarsi estensivamente, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), e in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la l. n. 448 del 2001 . È quindi riconosciuta a ogni contribuente la facoltà di ricorrere al Giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, esplicitando concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, portano a conoscenza del contribuente una precisa pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal già citato art. 19.
Autore: Alma Chiettini 15 dic, 2023
Cass. Civile, Sez. Unite, 11 dicembre 2023, n. 34452 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, finalmente, dopo un persistente contrasto interno alla Sezione tributaria, si sono pronunciate sulla vexata quaestio della corretta distinzione tra crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti. In questa rubrica già si è dato conto della sentenza della V sezione n. 34445 del 2021 , la quale affermava che aveva “senso logico-giuridico” la distinzione - in passato però disconosciuta - tra “credito non spettante e/o non utilizzabile” e “credito inesistente”. Successivamente, tuttavia, tale nuovo orientamento era stato disatteso con la pronuncia n. 25436 del 2022 ma poi condiviso dalla pronuncia n. 5243 del 2023. E ora l’articolata sentenza qui segnalata ha argomentatamente approvato “il nuovo approccio ermeneutico”. La Corte di legittimità ha verificato l’oggetto differente e i caratteri distintivi delle due fattispecie ed è giunta ad affermare che la distinzione, “recepita positivamente”, si ricava non solo dal dato letterale delle norme ma anche dai criteri di coerenza e di razionalità del sistema nonché dalle finalità obiettive perseguite dal legislatore. A) - La nozione di credito d’imposta inesistente è contenuta nell’ art. 27, commi da 16 a 20, del d.l. n. 185 del 2008 e, a seguito della modifica operata con il d.lgs. n. 158 del 2015, nell’ art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 , il quale “ha solo confermato e precisato quanto già desumibiledall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008” puntualizzando che “il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e tale inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli c.d. automatizzati”, con la specificazione che “l’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti - quello strutturale interno correlato al singolo credito e quello strutturale esterno di portata generale - per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività”; il credito va dunque considerato inesistente, e per l’accertamento della condotta di indebita compensazione si applica il termine lungo di otto anni (di cui all’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008), quando: --- le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere; qui la sentenza enuclea alcune ipotesi, fra le quali le più radicali riguardano il caso in cui la fattispecie che fonda il credito d’imposta non sia mai venuta a esistenza e i casi di crediti generati da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti; --- sono assenti le condizioni essenziali , formali o sostanziali, previste dal legislatore; qui la sentenza presenta un utile elenco esemplificativo dei parametri strutturali, di carattere generale, che portano a ritenere inesistente un credito di imposta, ossia individua gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva (talvolta l’istanza del contribuente, oppure la previsione di obblighi di facere e/o di non facere , oppure l’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive) e, per converso, anche gli elementi con carattere meramente accessorio (quali l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore) i quali non incidono sulla “non inesistenza” del credito; --- quanto alla condizione del mancato riscontro formale , essa ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata. Da questa ricostruzione dell’istituto deriva che se sussiste il primo requisito (mancanza del presupposto costitutivo) ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda non crediti inesistenti ma crediti non spettanti . B) - La nozione di crediti d’imposta non spettanti (che assume, pertanto, “rilevanza residuale”) è considerata dall’ art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 471 del 1997 , che punisce l’utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta in misura superiore a quella spettante, o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti; inoltre, in assenza di uno dei due requisiti citati al comma 5 dello stesso art. 13 e sopra menzionati (il presupposto costitutivo «e» l’oggettivo riscontro con controlli c.d. automatizzati) il credito non può qualificarsi come inesistente. Per il suo accertamento vale l’ordinario termine stabilito dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale distinzione influisce sul regime sanzionatorio applicabile: l’indebita compensazione di crediti non spettanti è soggetta alla sanzione del 30% dei crediti stessi, a fronte della sanzione dal 100% al 200% (e del 200% per l’art. 17, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008) prevista in caso di crediti inesistenti. In conclusione le Sezioni Unite hanno formulato il seguente principio di diritto : « in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 ovvero dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 qualora ratione temporis applicabile ».
Autore: Alma Chiettini 25 nov, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 10 novembre 2023, n. 31345 I poteri dell’Amministrazione fiscale e i doveri del contribuente in sede di verifiche sono disciplinati dall’ art. 32, commi quarto e quinto, del d.P.R. n. 600 del 1973 , ove è previsto che: “ le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’Ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. Le cause di inutilizzabilità previste dal quarto comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile ”. Sullo stesso tema ulteriore specifiche previsioni sono contenute per le imposte sui redditi nell’ art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 , e per l’IVA negli artt. 51 e 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 , dove è codificato che “ i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto d’esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione ”. Questa disciplina sulla “ inutilizzabilità della documentazione non esibita tempestivamente dal contribuente ” presuppone, dunque: - ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, che i documenti siano richiesti con l’invio di apposita comunicazione o questionario; - ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, che vi sia stata un’ispezione, attività di esame e di controllo svolta dai verificatori in sede di accesso presso il contribuente o in luoghi a questi collegati. Con la sentenza qui segnalata la Corte di legittimità ha bene riassunto i limiti entro i quali può essere applicata la sanzione della inutilizzabilità in giudizio della documentazione prodotta dal contribuente. Anzitutto, viene ricordato che da tempo la Corte precisa: - per il primo caso - richiesta di documenti dall’Amministrazione finanziaria al contribuente mediante questionario - che il mancato invio dei documenti richiesti nei termini assegnati “equivale a rifiuto, con conseguente inutilizzabilità degli stessi in sede amministrativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all’atto della sua produzione con il ricorso, che l’inadempimento era avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova è, comunque, onerato”; - per il secondo caso - accessi, ispezioni o verifiche - “che la mancata esibizione di quanto richiesto ne preclude la valutazione a favore del contribuente solo ove si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile la documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull’Amministrazione finanziaria”, chiamata dunque a dimostrare l’elemento essenziale della condotta che origina la preclusione, ossia l’intenzionalità di non consentire l’esame di quella specifica documentazione. Resta ferma, in entrambe le ipotesi, la necessità che “l’Amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale indicazione di quanto richiesto , accompagnata dall’ espresso avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza”; occorre, in diverse parole, una richiesta circostanziata sul cosa si chiede (con elenchi precisi di documenti) e sulle conseguenze della mancata produzione (Cass. civ., sez. V, 14.6.2021, n. 16757). Pertanto, la preclusione alla possibilità di utilizzare successivamente, in sede sia procedurale che processuale, documentazione non esibita tempestivamente durante l’istruttoria fiscale, opera solamente: - in presenza di un invito specifico e puntuale all’esibizione; - in presenza dell’avvertimento sulle conseguenze della mancata ottemperanza. Solo in questi termini è sanzionabile la violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il Fisco che giustifica la deroga al diritto di difesa sancito dall’art. 24 e al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione (Cass. civ., sez. V, 26.5.2023, n. 14707; id., sez. V, 8.9.2023, n. 26201). E l’inutilizzabilità di documenti espressamente richiesti dall’Ufficio opera anche in assenza di eccezione dell’Amministrazione finanziaria, trattandosi di preclusione processuale rilevabile d’ufficio (Cass. civ., sez. V, 8.9.2023, n. 26201) Ne consegue che, se l’Amministrazione ha adempiuto correttamente ai suoi obblighi informativi, specificando esattamente i documenti di cui chiede l’esibizione e le conseguenze nel caso di omessa osservanza alla richiesta, la sanzione della inutilizzabilità opera “ laddove vi sia stata da parte del contribuente una dichiarazione mendace e dolosa e, cioè, diretta a impedire l’ispezione documentale in violazione dei principi di lealtà e correttezza ”, mentre il contribuente può sempre contrastare efficacemente i risultati dell’accertamento con la produzione in giudizio dei documenti che non era stato in grado di esibire in precedenza per causa a lui non imputabile (forza maggiore, caso fortuito, fatto del terzo). In particolare, in quest’ultima fattispecie, ovvero quando i documenti provengono da un soggetto terzo, la cui condotta non è pretendibile nei tempi fissati dall’amministrazione finanziaria, non è imputabile al contribuente la relativa preclusione e, quindi, la successiva inutilizzabilità dei documenti, tranne l’ipotesi in cui il terzo sia un ausiliare del contribuente, ex art. 1228 c.c. (Cass. civ., sez. V, 10.2.2021, n. 3254). Dall’applicazione di detti principi è conseguita la dichiarazione di erroneità della pronuncia del giudice di merito che aveva dichiarato tardiva la documentazione presentata da un contribuente in data successiva alla presentazione del ricorso introduttivo del giudizio: il giudice non aveva verificato né le modalità con le quali la documentazione fiscale gli era stata richiesta (se vi era stato l’invio di apposita comunicazione o questionario oppure un accesso presso la società) né se il contribuente era stato messo a conoscenza in termini puntuali sia della documentazione da esibire sia delle conseguenze di un eventuale rifiuto. Ciò, perché le “modalità” con le quale la documentazione fiscale viene richiesta rilevano, sussistendo “una diversa ripartizione dell’onere della prova ”: - dopo l’invio di una comunicazione o di un questionario, è il contribuente a essere onerato della prova che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile; - in sede di accesso presso la sede del contribuente, è l’Amministrazione finanziaria a essere onerata della prova della sussistenza dei presupposti sostanziali che rendono illegittimo il rifiuto.

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Autore: Alma Chiettini 02 apr, 2024
Cass. Civile, Sezioni Unite, 12 febbraio 2024, n. 3737 La quota annuale dovuta per l’iscrizione agli albi professionali , indipendentemente dal termine utilizzato per la sua individuazione: “quota”, “contributo”, … (posto che la denominazione è irrilevante al fine di determinare, o di escludere, la natura tributaria di una prestazione) è una “tassa annuale” finalizzata alla necessità di fornire la provvista dei mezzi finanziari necessari al funzionamento dell’Ente delegato dall’ordinamento per il controllo dell’albo professionale. Il sistema normativo riconosce all’ente “Ordine professionale” la potestà impositiva rispetto a una prestazione che l’iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcuna possibilità di scegliere se versare o meno la relativa tassa (sia di iscrizione all’albo sia l’annuale), al pagamento della quale è condizionata l’appartenenza a quell’Ordine. Siffatta “tassa” si configura come una “quota associativa” rispetto a un Ente ad appartenenza necessaria, in quanto l’iscrizione all’albo è conditio sine qua non per il legittimo esercizio della professione. Sussiste in tal modo il primo degli elementi che caratterizzano il “tributo”: la doverosità della prestazione . Chi intende esercitare una delle professioni per le quali è prevista l’iscrizione a uno specifico albo deve provvedere a iscriversi sopportandone il relativo costo (la tassa di iscrizione e la tassa annuale), il cui importo non è commisurato al costo del servizio o al valore della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’Ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto. Ed ecco il secondo elemento che identifica la sua “natura tributaria”: il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante . Presupposto che è costituito dal legittimo esercizio della professione per il quale è condizione l’iscrizione in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all’Ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico, nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di quest’ultimi alle predette prestazioni. Ne consegue, ai sensi dell’ art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 - come modificato dall’art. 12 della l. n. 448 del 2001 che ha esteso la giurisdizione tributaria a tutte le cause aventi per oggetto tributi di ogni genere - che le controversie relative alla riscossione della quota annuale d’iscrizione all’albo professionale sono devolute alla giurisdizione del giudice tributario . La Corte della giurisdizione ha da tempo affermato tale principio con riferimento alla quota annuale dovuta per l’iscrizione all’albo degli Avvocati (Sez. Unite, 26.1.2011, n. 1782) e, prima ancora, per le controversie concernenti il pagamento del diritto annuale di iscrizione in albi e registri delle Camere di commercio, il c.d. diritto camerale (Sez. Unite, 24.6.2005, n. 13549). Più di recente, lo ha confermato con riferimento al contributo annuale a carico degli avvocati e a favore del Consiglio Nazionale Forense (Sez. Unite, 18.6.2019, n. 16340). Con la pronuncia qui segnalata ha ribadito il principio con riferimento alla quota annuale per l’ iscrizione all’albo delle professioni infermieristiche , “ ove sono individuabili i medesimi caratteri della prestazione già indicati [nelle precedenti pronunce], tanto più che l’evoluzione in materia della disciplina, approdata nella legge 11 gennaio 2018, n. 3, di riordino della disciplina degli Ordini professionali sanitari, tra i quali l’Ordine delle professioni infermieristiche (art. 4), nell’individuazione dei compiti dell’organo del Consiglio direttivo (art. 3, lett. f), conferma la suddetta qualificazione come ‘tassa annuale’, in relazione alla medesima finalità di copertura della spese di gestione dell’Ente ”.
Autore: Alma Chiettini 06 mar, 2024
Cass. Civile, sez. V, 5 febbraio 2024, n. 3292 In tema di accertamento delle imposte sui redditi di una società di capitali che presenta una ristretta base partecipativa, la Corte di cassazione afferma da tempo che è legittima la presunzione di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, e che rimane sempre salva la facoltà per la società e per il socio di provare che i maggiori ricavi societari non sono stati fatti oggetto di distribuzione ma sono stati, invece, accantonati oppure reinvestiti; e pure il singolo socio può dimostrare la propria estraneità alla gestione e alla conduzione societaria. Ciò vale sia nelle ipotesi di quote societarie di società familiari sia in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, e dunque la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio. Quello che rileva è solo la ristrettezza dell’assetto societario, la quale implica un vincolo di solidarietà e il reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria. Pertanto, tale peculiare forma partecipativa consente di riconoscere, ai fini della prova presuntiva, i requisiti richiesti dall’ art. 2729 c.c. (sulle presunzioni semplici), mentre non consente di ricondurne il fondamento nell’alveo dell’art. 5 (sulle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice) del d.P.R. n. 917 del 1986 , che è infatti applicabile alle sole società di persone. La Corte di legittimità ricorda che nella tassazione degli utili da partecipazione in società ed enti soggetti a IRES (art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 917 del 1986) si applicano i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci, secondo le diverse percentuali stabilite in funzione della natura del socio partecipante, così come stabilito dagli artt. 47 (per le persone fisiche) e 89 (per imprese e società) e seguenti dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986. Per esempio, per il socio persona fisica che detiene la partecipazione nell’esercizio di un’impresa è prevista l’esenzione limitata al 41,86% (con tassazione del 58,14%), fino ad arrivare all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% sugli utili deliberati per il socio che detiene la partecipazione fuori dall’esercizio di una impresa, sia che si tratti di partecipazione qualificata che non qualificata. Ma la Corte ha da tempo anche precisato che il beneficio dell’esenzione parziale dall’imposizione degli utili societari opera unicamente nel caso in cui si discuta di redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile , e non opera in caso di utili extra-bilancio che, una volta accertati per altra via, vanno imputati in misura intera e non ridotta. Tale conclusione non presenta “alcun intento para-sanzionatorio” ma è fondata sulla considerazione che i soci, come avviene in entità prive di personalità giuridica, abbiano agito ripartendosi sic et simpliciter l’utile societario presuntivamente accertato in capo alla società. Trattandosi dunque di utili ottenuti in evasione di imposta, mai pervenuti nella contabilità societaria in quanto non oggetto di registrazione nelle scritture né di indicazione in dichiarazione, trattandosi, in altre parole, di “utili ‘in nero’ (Cass. civ., sez. V, 23.12.2019, n. 34282), è chiaro che non c’è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione perché la stessa non c’è mai stata, dato che la società non aveva dichiarato quegli utili extracontabili che sono quindi sfuggiti all’imposizione a livello societario. In altri termini: “il beneficio dell’esenzione parziale nell’imposizione degli utili societari viene meno poiché la ripartizione del maggior utile sottratto a imposizione tra i soci giustifica la perdita del beneficio della più mite imposizione degli utili societari, la cui esistenza trova fondamento nel rispetto della normativa sulla loro determinazione in forza unicamente del bilancio di esercizio ” (Cass. civ., sez. VI - 5, 30.11.2022, n. 35293, e la giurisprudenza ivi citata). Tali principi oramai assodati, sono stati ri-affermanti dalla sentenza qui segnalata, la quale ha precisato che quando a una società a ristretta base partecipativa viene contestata la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extra-contabili accertati, “ non è in alcun modo applicabile (diversamente da quanto sostiene parte della dottrina) il disposto di cui all’art. 47 TUIR, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci con delibere formali dell’assemblea e, pertanto, non trova applicazione per i redditi extracontabili, che per definizione non risultano menzionati nella contabilità societaria, poiché trattandosi di utili ottenuti in evasione di imposta … è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione … non avendo la società dichiarato tali utili extracontabili ”.
Autore: Alma Chiettini 04 feb, 2024
Cass. Civile, sez. V, 19 gennaio 2024, n. 2029 Con la pronuncia segnalata la Corte di cassazione ha avuto modo di ricordare alcune regole e di riaffermare principi in materia di contenzioso avverso gli atti che hanno per oggetto la tassa sui rifiuti - TARI , introdotta per finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento con la l. n. 147 del 2013, commi da 639 a 736 . In primo luogo, la TARI parametra il pagamento all’entità della superficie calpestabile e all’occupazione immobiliare, a prescindere dall’effettività della produzione di una quantità individuale certa di rifiuti. L’importo riscosso dall’ente pubblico deve assicurare la copertura dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio, e tra le componenti di costo devono essere considerati anche gli eventuali mancati ricavi relativi a crediti risultati inesigibili (commi 654 e 654 bis). Nondimeno, tale tassa è sì finalizzata a reperite la provvista necessaria all’esercizio di una funzione di interesse pubblico ma è priva di un rapporto di corrispondenza economica tra la prestazione dell’amministrazione e il vantaggio ricevuto dal privato. Non sussiste quindi un rapporto sinallagmatico tra la prestazione da cui scaturisce l’onere e il beneficio che il singolo riceve. Ne consegue che la TARI ha natura tributaria . Solamente ai comuni che hanno realizzato sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico è consentito prevedere, in luogo della TAR, l’applicazione di una tariffa avente natura corrispettiva (comma 668). La TARI è dunque una “tassa di scopo” che mira a fronteggiare una spesa di carattere generale ripartendone l’onere sulle categorie sociali che da questa traggono vantaggio (Cass. civ., Sez. Unite, 23.11.2018, n. 30426; id., Sez. Unite, 18.6.2019, n. 16341). Deriva da tale impostazione che gli atti con cui il gestore (società/enti) dei servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani chiede al contribuente quanto dovuto a titolo di tassa di igiene ambientale, atti che possono anche presentarsi con la forma di una fattura commerciale, non attengono al corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta ma a una entrata pubblicistica. Ne consegue che, avendo natura di atti impositivi, al relativo procedimento di quantificazione e riscossione si applicano i principi generali del procedimento tributario di accertamento e di riscossione (Cass. civ., sez. V, 8.4.2022, n. 11481). Quanto alla motivazione degli atti/fatture TARI, in applicazione dell’ art. 7, comma 1, della l. n. 212 del 2000 ( Statuto dei diritti del contribuente ) essi non possono presentarsi generici perché devono consentire al contribuente di comprendere come sia stato determinato l’importo chiesto in pagamento. Non è però “ necessaria una motivazione specifica, perché tali atti/fatture non sono assimilabili a un atto provvedimentale (ossia a un avviso di accertamento, o a un avviso di liquidazione), ma è evidente che, comportando una pretesa tributaria, devono consentire la sua comprensibilità e con essa la possibilità di valutare la legittimità della pretesa ”: per cui l’ente impositore deve specificare nell’atto impositivo tutti gli elementi posti a base della pretesa fiscale, al fine di garantire il rispetto del diritto di difesa del contribuente. Tali atti/fatture devono essere impugnati innanzi al Giudice tributario nonostante non siano espressamente ricompresi nell’elenco degli atti opponibili di cui all’ art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 . Sul punto è stato confermato che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti quando con gli stessi l’amministrazione finanziaria porta a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria , esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche. L’art. 19 è pertanto da interpretarsi estensivamente, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), e in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la l. n. 448 del 2001 . È quindi riconosciuta a ogni contribuente la facoltà di ricorrere al Giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, esplicitando concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, portano a conoscenza del contribuente una precisa pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal già citato art. 19.
Autore: Alma Chiettini 15 dic, 2023
Cass. Civile, Sez. Unite, 11 dicembre 2023, n. 34452 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, finalmente, dopo un persistente contrasto interno alla Sezione tributaria, si sono pronunciate sulla vexata quaestio della corretta distinzione tra crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti. In questa rubrica già si è dato conto della sentenza della V sezione n. 34445 del 2021 , la quale affermava che aveva “senso logico-giuridico” la distinzione - in passato però disconosciuta - tra “credito non spettante e/o non utilizzabile” e “credito inesistente”. Successivamente, tuttavia, tale nuovo orientamento era stato disatteso con la pronuncia n. 25436 del 2022 ma poi condiviso dalla pronuncia n. 5243 del 2023. E ora l’articolata sentenza qui segnalata ha argomentatamente approvato “il nuovo approccio ermeneutico”. La Corte di legittimità ha verificato l’oggetto differente e i caratteri distintivi delle due fattispecie ed è giunta ad affermare che la distinzione, “recepita positivamente”, si ricava non solo dal dato letterale delle norme ma anche dai criteri di coerenza e di razionalità del sistema nonché dalle finalità obiettive perseguite dal legislatore. A) - La nozione di credito d’imposta inesistente è contenuta nell’ art. 27, commi da 16 a 20, del d.l. n. 185 del 2008 e, a seguito della modifica operata con il d.lgs. n. 158 del 2015, nell’ art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 , il quale “ha solo confermato e precisato quanto già desumibiledall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008” puntualizzando che “il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e tale inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli c.d. automatizzati”, con la specificazione che “l’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti - quello strutturale interno correlato al singolo credito e quello strutturale esterno di portata generale - per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività”; il credito va dunque considerato inesistente, e per l’accertamento della condotta di indebita compensazione si applica il termine lungo di otto anni (di cui all’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008), quando: --- le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere; qui la sentenza enuclea alcune ipotesi, fra le quali le più radicali riguardano il caso in cui la fattispecie che fonda il credito d’imposta non sia mai venuta a esistenza e i casi di crediti generati da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti; --- sono assenti le condizioni essenziali , formali o sostanziali, previste dal legislatore; qui la sentenza presenta un utile elenco esemplificativo dei parametri strutturali, di carattere generale, che portano a ritenere inesistente un credito di imposta, ossia individua gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva (talvolta l’istanza del contribuente, oppure la previsione di obblighi di facere e/o di non facere , oppure l’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive) e, per converso, anche gli elementi con carattere meramente accessorio (quali l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore) i quali non incidono sulla “non inesistenza” del credito; --- quanto alla condizione del mancato riscontro formale , essa ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata. Da questa ricostruzione dell’istituto deriva che se sussiste il primo requisito (mancanza del presupposto costitutivo) ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda non crediti inesistenti ma crediti non spettanti . B) - La nozione di crediti d’imposta non spettanti (che assume, pertanto, “rilevanza residuale”) è considerata dall’ art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 471 del 1997 , che punisce l’utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta in misura superiore a quella spettante, o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti; inoltre, in assenza di uno dei due requisiti citati al comma 5 dello stesso art. 13 e sopra menzionati (il presupposto costitutivo «e» l’oggettivo riscontro con controlli c.d. automatizzati) il credito non può qualificarsi come inesistente. Per il suo accertamento vale l’ordinario termine stabilito dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale distinzione influisce sul regime sanzionatorio applicabile: l’indebita compensazione di crediti non spettanti è soggetta alla sanzione del 30% dei crediti stessi, a fronte della sanzione dal 100% al 200% (e del 200% per l’art. 17, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008) prevista in caso di crediti inesistenti. In conclusione le Sezioni Unite hanno formulato il seguente principio di diritto : « in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 ovvero dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 qualora ratione temporis applicabile ».
Autore: Alma Chiettini 25 nov, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 10 novembre 2023, n. 31345 I poteri dell’Amministrazione fiscale e i doveri del contribuente in sede di verifiche sono disciplinati dall’ art. 32, commi quarto e quinto, del d.P.R. n. 600 del 1973 , ove è previsto che: “ le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’Ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta. Le cause di inutilizzabilità previste dal quarto comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile ”. Sullo stesso tema ulteriore specifiche previsioni sono contenute per le imposte sui redditi nell’ art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 , e per l’IVA negli artt. 51 e 52, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 , dove è codificato che “ i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto d’esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione ”. Questa disciplina sulla “ inutilizzabilità della documentazione non esibita tempestivamente dal contribuente ” presuppone, dunque: - ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, che i documenti siano richiesti con l’invio di apposita comunicazione o questionario; - ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, che vi sia stata un’ispezione, attività di esame e di controllo svolta dai verificatori in sede di accesso presso il contribuente o in luoghi a questi collegati. Con la sentenza qui segnalata la Corte di legittimità ha bene riassunto i limiti entro i quali può essere applicata la sanzione della inutilizzabilità in giudizio della documentazione prodotta dal contribuente. Anzitutto, viene ricordato che da tempo la Corte precisa: - per il primo caso - richiesta di documenti dall’Amministrazione finanziaria al contribuente mediante questionario - che il mancato invio dei documenti richiesti nei termini assegnati “equivale a rifiuto, con conseguente inutilizzabilità degli stessi in sede amministrativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all’atto della sua produzione con il ricorso, che l’inadempimento era avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova è, comunque, onerato”; - per il secondo caso - accessi, ispezioni o verifiche - “che la mancata esibizione di quanto richiesto ne preclude la valutazione a favore del contribuente solo ove si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile la documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull’Amministrazione finanziaria”, chiamata dunque a dimostrare l’elemento essenziale della condotta che origina la preclusione, ossia l’intenzionalità di non consentire l’esame di quella specifica documentazione. Resta ferma, in entrambe le ipotesi, la necessità che “l’Amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale indicazione di quanto richiesto , accompagnata dall’ espresso avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza”; occorre, in diverse parole, una richiesta circostanziata sul cosa si chiede (con elenchi precisi di documenti) e sulle conseguenze della mancata produzione (Cass. civ., sez. V, 14.6.2021, n. 16757). Pertanto, la preclusione alla possibilità di utilizzare successivamente, in sede sia procedurale che processuale, documentazione non esibita tempestivamente durante l’istruttoria fiscale, opera solamente: - in presenza di un invito specifico e puntuale all’esibizione; - in presenza dell’avvertimento sulle conseguenze della mancata ottemperanza. Solo in questi termini è sanzionabile la violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il Fisco che giustifica la deroga al diritto di difesa sancito dall’art. 24 e al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione (Cass. civ., sez. V, 26.5.2023, n. 14707; id., sez. V, 8.9.2023, n. 26201). E l’inutilizzabilità di documenti espressamente richiesti dall’Ufficio opera anche in assenza di eccezione dell’Amministrazione finanziaria, trattandosi di preclusione processuale rilevabile d’ufficio (Cass. civ., sez. V, 8.9.2023, n. 26201) Ne consegue che, se l’Amministrazione ha adempiuto correttamente ai suoi obblighi informativi, specificando esattamente i documenti di cui chiede l’esibizione e le conseguenze nel caso di omessa osservanza alla richiesta, la sanzione della inutilizzabilità opera “ laddove vi sia stata da parte del contribuente una dichiarazione mendace e dolosa e, cioè, diretta a impedire l’ispezione documentale in violazione dei principi di lealtà e correttezza ”, mentre il contribuente può sempre contrastare efficacemente i risultati dell’accertamento con la produzione in giudizio dei documenti che non era stato in grado di esibire in precedenza per causa a lui non imputabile (forza maggiore, caso fortuito, fatto del terzo). In particolare, in quest’ultima fattispecie, ovvero quando i documenti provengono da un soggetto terzo, la cui condotta non è pretendibile nei tempi fissati dall’amministrazione finanziaria, non è imputabile al contribuente la relativa preclusione e, quindi, la successiva inutilizzabilità dei documenti, tranne l’ipotesi in cui il terzo sia un ausiliare del contribuente, ex art. 1228 c.c. (Cass. civ., sez. V, 10.2.2021, n. 3254). Dall’applicazione di detti principi è conseguita la dichiarazione di erroneità della pronuncia del giudice di merito che aveva dichiarato tardiva la documentazione presentata da un contribuente in data successiva alla presentazione del ricorso introduttivo del giudizio: il giudice non aveva verificato né le modalità con le quali la documentazione fiscale gli era stata richiesta (se vi era stato l’invio di apposita comunicazione o questionario oppure un accesso presso la società) né se il contribuente era stato messo a conoscenza in termini puntuali sia della documentazione da esibire sia delle conseguenze di un eventuale rifiuto. Ciò, perché le “modalità” con le quale la documentazione fiscale viene richiesta rilevano, sussistendo “una diversa ripartizione dell’onere della prova ”: - dopo l’invio di una comunicazione o di un questionario, è il contribuente a essere onerato della prova che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile; - in sede di accesso presso la sede del contribuente, è l’Amministrazione finanziaria a essere onerata della prova della sussistenza dei presupposti sostanziali che rendono illegittimo il rifiuto.
Autore: Alma chiettini 06 ott, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 13 settembre 2023, n. 26412 L’ art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 prescrive che, “ nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza ”. Sulle modalità di conteggio di detto termine dilatorio la giurisprudenza si è espressa più volte, ma la vicenda esaminata dalla sentenza qui segnalata – che vedeva un atto impositivo emanato, con l’affidamento dell’atto dall’Ufficio al servizio postale, il 59° giorno dal rilascio del processo verbale – ha dato l’occasione alla Corte di legittimità per riepilogare i principi in materia. La Corte ha anzitutto ricordato che presupposto per l’applicazione dei diritti e della garanzie contemplate dall’art. 12 della l. n. 212 del 2000, compresa l’applicazione del termine dilatorio di sessanta giorni , è un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali (ai sensi del comma 1 dello stesso art. 12), in quanto “il complesso di diritti e garanzie fa da contrappeso all’invasione della sfera del contribuente, nei luoghi di sua pertinenza, al fine di conformare e adeguare l’interesse dell’Amministrazione alla situazione, come delineata dagli elementi raccolti dall’Ufficio giustappunto grazie alle attività di verifiche, accessi ed ispezioni ”. Da ciò consegue che le garanzie in esame sono assicurate esclusivamente al soggetto sottoposto ad accesso, ispezione o verifica nei locali di sua pertinenza . Per l’IVA, anche l’ art. 52, comma 6, del d.P.R. n. 633 del 1972 prescrive la necessità di un apposito verbale qualora l’accesso vi sia stato, pena la violazione del diritto del contribuente di presentare memorie difensive entro sessanta giorni dalla consegna di quel processo verbale di constatazione. Per i tributi armonizzati quale è l’IVA, da tempo le Sezioni Unite della Corte (9.12.2015, n. 24823) hanno stabilito che “ la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto ”. Per i tributi non armonizzati l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale è stato escluso solamente per gli accertamenti c.d. “a tavolino”, cioè per quelli derivanti da verifiche effettuate presso la sede dell’Ufficio in base alle notizie acquisite da altre Pubbliche amministrazioni, o presso terzi, ma anche dallo stesso contribuente in conseguenza della compilazione di questionari o in sede di colloqui. Devono quindi essere riaffermati i seguenti principi di diritto : 1) la l. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante, in merito al rispetto del contraddittorio, operata direttamente dal legislatore, attraverso la previsione di nullità dell’atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio, che già, a monte, assorbe la prova di resistenza e, volutamente, la norma dello Statuto del contribuente non distingue tra tributi armonizzati e non; 2) il principio di strumentalità delle forme ai fini del rispetto del contraddittorio, principio generale desumibile dall’ordinamento civile, amministrativo e tributario, viene meno in presenza di una sanzione di nullità comminata per la violazione, e questo vale anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario; 3) per i tributi armonizzati la necessità della prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità (Cass. civ., sez. V, 15.1.2019, n. 701 e n. 702). Quanto all’interpretazione del riferimento al termine dilatorio di sessanta giorni disposto dal citato comma 7, in caso di emanazione dell’avviso di accertamento ante tempus, è stato ribadito il principio di diritto secondo il quale “ l’atto impositivo sottoscritto dal funzionario dell’ufficio in data anteriore alla scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni, ancorché notificato successivamente alla sua scadenza, è illegittimo, atteso che la norma tende a garantire il contraddittorio procedimentale consentendo al contribuente di far valere le sue ragioni quando l’atto impositivo è ancora in fieri, integrando, viceversa, la notificazione una mera condizione di efficacia dell’atto amministrativo ormai perfetto e, quindi, già emanato. Ne consegue che l’atto impositivo non può essere emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni dal rilascio o dalla notifica del processo verbale di constatazione, non assumendo rilievo la notifica dell’atto medesimo dopo il decorso del predetto termine ” (in termini, sez. V, 11.11.2021, n. 33285). Vale anche ricordare che il comma 7 in esame fa salvi “i casi di particolare e motivata urgenza”. E su questo punto la Corte ha affermato che “il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio”. Consegue a tale impostazione che l’effettività delle ragioni giustificatrici dell’urgenza, a prescindere dall’assenza della loro enunciazione nella motivazione dell’avviso di accertamento, possono essere apprezzate dal giudice sulla base delle risultanze degli atti e senza essere vincolato da quanto indicato nel provvedimento (Cass. civ., sez. V, 30.12.2022, n. 38120).
Autore: Alma Chiettini 14 set, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 31 agosto 2023, n. 25549 Con un significativo revirement la Corte di cassazione in commento ha dichiarato “ingiustificatamente restrittivo” l’orientamento espresso in precedenza, secondo cui “ nel processo tributario non è ammissibile la proposizione di un ricorso collettivo (proposto da più parti) e cumulativo (proposto nei confronti di più atti impugnabili) da parte di una pluralità di contribuenti titolari di distinti rapporti giuridici d’imposta, ancorché gli stessi muovano identiche contestazioni, in quanto in tale giudizio, a natura precipuamente impugnatoria, la necessità di uno specifico e concreto nesso tra l’atto impositivo che forma oggetto del ricorso e la contestazione del ricorrente, così come richiesto dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, impone, indefettibilmente, che tra le cause intercorrano questioni comuni non solo in diritto ma anche in fatto e che esse non siano soltanto uguali in astratto ma attengano altresì ad un identico fatto storico da cui siano determinate le impugnazioni dei contribuenti con la conseguente virtuale possibilità di un contrasto di giudicati in caso di decisione non unitaria ” ( sentenza 30 aprile 2010, n. 10578 ). In quell’occasione era stata pertanto dichiarata legittima la pronuncia di inammissibilità di un ricorso cumulativo proposto da una pluralità di liberi professionisti con attività e organizzazione lavorativa differente, avverso il silenzio rifiuto formatosi sulle singole domande di rimborso dell’IRAP fondate sull’assenza di un’attività autonomamente organizzata, con conseguente assunto di “ inammissibilità nel processo tributario di un ricorso cumulativo da parte di più contribuenti, non fondato su fatti storici identici ”. In applicazione di quella giurisprudenza, e in altro contenzioso, la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado ha confermato la sentenza di primo grado impugnata che aveva dichiarato inammissibile un ricorso cumulativo proposto da una pluralità di contribuenti avverso il silenzio-rifiuto formatosi sulle rispettive istanze di rimborso delle imposte versate per il triennio 1990/92, in applicazione dell’art. 9, comma 17, della l. n. 289 del 2002 (definizione per soggetti residenti in alcune province siciliane colpite dal sisma del 1990). Col ricorso per cassazione gli interessati hanno quindi dedotto la violazione dell’art. 103 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, dal momento che le domande veicolate con l’unico ricorso avrebbero implicato la soluzione di identiche questioni di diritto . La Corte ha principiato l’esame della questione osservando che già nel 2016 (in una causa che vedeva diversi contribuenti contestare alcune cartelle di pagamento emesse per il pagamento del canone televisivo) aveva rilevato che il d.lgs. n. 546 del 1992 non contiene alcuna disposizione sul cumulo dei ricorsi ma che all’art. 1, comma 2, rinvia al codice di procedura civile per quanto non disposto e nei limiti della compatibilità, di modo che è da ritenersi applicabile l’ art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo. In quell'occasione, i Giudici di ultimo grado avevano dichiarato “ ammissibile la proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della caus a” (sentenza 20 aprile 2016, n. 7940). La Corte di cassazione ha quindi puntualizzato che l’art. 103 c.p.c. contempla, quali presupposti del litisconsorzio facoltativo , la “connessione per l’oggetto o per il titolo”, ovvero la circostanza che “la decisione dipend[a], totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni”. E ha quindi evidenziato che già sulla base del mero rilievo letterale della disposizione - che, oltre alla “connessione”, fa riferimento alla “identità di questioni giuridiche” - l’orientamento espresso in passato era da ritenersi “ingiustificatamente restrittivo” e finiva per “circoscrivere arbitrariamente il campo d’applicazione della norma processuale” senza trovare alcuna giustificazione nelle peculiarità del processo tributario. Ha conseguentemente osservato che: - la diversità del fatto storico è compatibile con il rapporto di connessione presupposto dall’art. 103 c.p.c. se il rapporto si integra sia sotto il profilo del petitum sia per quello della causa petendi ; - depone, infine, per “ l’opportunità di discostarsi da un’interpretazione eccessivamente formalistica, da un lato, il principio (di economia processuale e) di ragionevole durata del processo (affermato dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU) ed il favor per l’interpretazione delle norme processuali che consenta quanto più possibile al giudizio di attingere il merito della lite; dall’altro, la previsione della possibilità, per il giudice, di separare comunque successivamente le cause originariamente cumulate, nel caso in cui il simultaneus processus finisca per tradursi, in concreto, in un aggravio di tempi e costi (art. 103, comma 2, c.p.c.) ”.
Autore: Alma Chiettini 16 lug, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 21 giugno 2023, n. 17750 La scadenza dei termini per l’accertamento di cui all’ art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 (di regola, il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione), ma anche l’espletamento senza rilievi della procedura di controllo automatizzato sulla base dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni presentate e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria, ai sensi dell’art. 36 bis dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973 (entro l’inizio del periodo di presentazione delle dichiarazioni relative all’anno successivo), non comportano per l’Agenzia delle Entrate il riconoscimento implicito del credito d’imposta esposto nella dichiarazione dei redditi dal contribuente. Fino al 2016 tale assunto non era pacifico, in quanto sussistevano due opposti indirizzi giurisprudenziali: - il primo sosteneva che il credito di imposta si consolidasse a seguito di un riconoscimento implicito derivante dal mancato esercizio nei termini del potere di rettifica, per cui l’Amministrazione era tenuta a disporre, a favore del contribuente, il rimborso del credito, e quest’ultimo era soggetto all’ordinaria prescrizione decennale; - altro orientamento riteneva, invece, che il termine di cui al citato art. 36 bis, entro il quale l’Amministrazione deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, avesse natura ordinatoria e che pertanto il credito esposto in dichiarazione non poteva consolidarsi con lo spirare di detto termine, neppure nell’ipotesi in cui l’Amministrazione avesse omesso di procedere a un accertamento o a una rettifica nel termine stabilito dal citato art. 43. Il contrasto è stato dunque risolto nel 2016 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno osservato che i termini di legge decadenziali sono apposti solo per le attività di accertamento di crediti dell’Amministrazione e non per le attività con cui la stessa Amministrazione contesta la sussistenza di un suo debito. È stato così affermato il principio di diritto secondo il quale “ in tema di rimborso di imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum ”, desumibile dall’art. 1442, ultimo comma, c.c. (Cass. civ., Sezioni Unite, 15.3.2016, n. 5069). E tale soluzione, ha aggiunto la Corte, non lascia senza difesa il contribuente che può impugnare il silenzio della Amministrazione che non corrisponde alla sua istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale. La portata di tale principio è stata chiarita con un altro intervento delle Sezioni Unite – che ha esteso il principio anche all ’IVA – col quale è stato affermato che l’omesso esercizio dell’attività di controllo si riverbera solo sul debito del contribuente, di modo che l’Amministrazione, decaduta dai propri poteri di accertamento e rettifica, non può pretendere un’imposta maggiore di quella liquidata in dichiarazione. E che, coerentemente, l’Amministrazione non può neppure contestare il credito che scaturisce dalla sottostima dell’imposta dovuta che in realtà era maggiore e che è stata evasa: e ciò per il rapporto di proporzionalità inversa tra debito e credito. All’opposto, oggetto del principio di diritto affermato è il credito del contribuente che nasce a seguito di poste detraibili che prevalgano sul debito e che quindi eccedono l’imposta liquidata. Tale credito, però, esiste se sussistono i relativi fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione né è necessario che sia accertato dall’Amministrazione, la cui inerzia non equivale al riconoscimento implicito di quel credito. Inerzia considerata dal legislatore perché le ha assegnato il significato di rifiuto tacito , impugnabile in forza dell’a rt. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 , che ammette il ricorso contro il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione a qualsiasi richiesta di rimborso, comprese quelle rappresentate da un’indicazione in dichiarazione di un credito d’imposta idonea a manifestare la volontà di richiedere il rimborso. Pertanto, tale “ silenzio rifiuto funge da anello di congiunzione tra la procedimentalizzazione del diritto al rimborso e la sua tutela in sede giudiziale ” (Cass. civ., Sezioni Unite, 29.7.2021, n. 21766). In definitiva, l’omesso esercizio del potere di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria non determina alcun effetto accertativo del credito vantato dal contribuente. Accertamento che “può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato” (Cass. civ., Sezioni Unite, 25.3.2021, n. 8500). La sentenza qui segnalata ha fatto applicazione di tali principi in una vicenda che vedeva la parte contribuente impugnare il diniego a un’istanza di rimborso di un credito presentando a supporto del gravame sia documentazione che provava la sussistenza di quel credito (sebbene in misura inferiore rispetto a quanto esposto in dichiarazione) sia la risposta a un’istanza di accesso agli atti del procedimento, eseguita ai sensi dell’art. 25 della l. n. 241 del 1990, con la quale l’Agenzia delle Entrate aveva attestato l’esito favorevole della liquidazione della dichiarazione per un importo del credito pari a quello in essa esposto, comunicazione che, ad avviso della ricorrente, costituiva un riconoscimento di debito. Ebbene, dopo aver affermato, in forza di principi qui riassunti, che la comunicazione resa dall’Agenzia in sede di accesso agli atti , attestante solamente la regolarità formale della dichiarazione a suo tempo presentata, non presentava il carattere di un documento ricognitivo di debito, la pronuncia ha ribadito la regola che “ quando la controversia ha per oggetto l’impugnazione del rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo avanzata dal contribuente, è quest’ultimo a rivestire la qualità di attore in senso non solo formale - come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo - ma anche sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e di provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda e che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno o - dove in concreto ne ricorrono i presupposti - l’applicazione del principio di non contestazione ”. Inoltre, ai fini della prova della sussistenza del credito vantato, il contribuente deve esibire tutti i documenti probatori necessari, indipendentemente dal fatto che gli stessi non fossero richiesti al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, e anche indipendentemente dalla scadenza dei termini obbligatori per la loro conservazione. Su questo punto è stato precisato che “ il contribuente non può sottrarsi all’assolvimento dell’onere sulla prova invocando la insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito ” (Cass. civ., Sez. V, 18.5.2018, n. 12291). In altri termini, l’obbligo di conservare le scritture contabili per un periodo di dieci anni, previsto dall’art. 2220 c.c., è distinto dall’onere della prova in giudizio che segue le regole generali di cui all’art. 2697 c.c. Da ultimo, su questo tema vale ricordare una pronuncia del 2018 (Cass. civ., Sez. V, 12.10.2018, n. 25464), che nel fare applicazione di tali principi ha anche rilevato che essi non contrastano con l’art. 1 del I Protocollo addizionale, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, in quanto è ivi garantita la tutela sul piano convenzionale ai soli crediti già accertati, nonché liquidi ed esigibili, ossia a quelli che possono ritenersi parte del patrimonio dell’individuo. Difatti, la Convenzione tutela il “bene” e un “credito” costituisce un “bene” solo quando si presenta sufficientemente accertato per essere esigibile. Di conseguenza, non può rientrare nel campo di applicazione della disposizione convenzionale anche il rimborso di crediti di imposta non ancora accertati.
Autore: Alma Chiettini 23 giu, 2023
Cass. Civile, Sezioni Unite, 24 maggio 2023, n. 14432 “ In tema di imposta di registro, qualora in un atto notarile, anche registrato telematicamente, vengano enunciate disposizioni di altri atti, scritti o verbali, posti in essere dalle medesime parti, ma non già registrati, la cui configurazione giuridica non richiede accertamenti di fatto ovvero extratestuali né valutazioni interpretative particolarmente complesse, purché, trattandosi di contratti verbali non soggetti a registrazione in termine fisso, gli effetti dei medesimi non siano già cessati o cessino con l’atto che li enuncia, l’imposta dovuta per tali atti in virtù della previsione di cui al d.P.R. n. 131 del 1986, art. 22, deve qualificarsi come imposta principale e, per richiederla in rettifica dell’autoliquidazione, l’Ente impositore può legittimamente emettere un avviso di liquidazione ai sensi del d.P.R. n. 131 del 1986, artt. 42, comma 1, primo periodo, e d.lgs. n. 463 del 1997, 3 ter, comma 1; in tal caso, ai sensi del d.P.R. n. 131 del 1986, art. 57, comma 1, il notaio che ha ricevuto l’atto enunciante, pur in via dipendente, è responsabile per il pagamento dell’imposta solidalmente con le parti dell’atto stesso ”. Questo è il principio di diritto affermato dalla pronuncia qui segnalata. L’ art. 22 del testo unico sull’imposta di registro recita: “ se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene la enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate. Se l’atto enunciato era soggetto a registrazione in termine fisso è dovuta anche la pena pecuniaria … L’enunciazione di contratti verbali non soggetti a registrazione in termine fisso non dà luogo all’applicazione dell’imposta quando gli effetti delle disposizioni enunciate sono già cessati o cessano in virtù dell’atto che contiene l’enunciazione ”. Per l’applicazione di tali disposizioni sono dunque richiesti tre presupposti : l’autonomia giuridica oggettuale dell’enunciazione, l’identità delle parti dell’atto enunciante e dell’atto enunciato, la permanenza degli effetti di quest’ultimo. Gli “ atti enunciati ” sono atti non scritti (perché tale forma non è imposta dalla legge ad substantiam ) ma atti verbali. Quanto al primo presupposto, sono, per esempio, gli atti ulteriori che, in sede di redazione di un verbale di un’assemblea societaria straordinaria per aumento di capitale, il notaio rogante si limita a formalizzare, a ricevere, quali un finanziamento soci e la parziale rinuncia di un credito. Sono dunque atti che emergono con una forma e con un contenuto chiari, con un’enunciazione giuridicamente autonoma e autosufficiente. Sono atti che devono risultare apprezzabili ab intrinseco , senza ulteriori accertamenti di fatto o comunque extra-testuali né con valutazioni di particolare complessità giuridica. Sono atti che per tali caratteristiche oggettive sono ascritti alla categoria dell’ imposta di registro “principale” (ai sensi dell’art. 42, comma 1, del relativo testo unico, ove è stabilito che “è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica”). Quanto al secondo presupposto, le parti dell’atto enunciante e dell’atto enunciato sono le medesime, ossia la società e i suoi soci (poiché la presenza dei soci in assemblea giuridicamente contiene la loro, anche individuale, qualità di parte degli atti enunciati); e, quanto al terzo presupposto, gli effetti degli atti enunciati sono permanenti poiché il finanziamento del socio è valido ed efficace e nell’assemblea si sono realizzati gli effetti definitivi della rinuncia parziale a un credito restitutorio. Il verbale notarile in esame è, pertanto, un “atto fiscalmente cumulativo”, autonomamente imponibile in relazione al suo oggetto principale (l’aumento di capitale), ma contenente (“enunciante”) altri atti la cui imponibilità “per attrazione” è sancita dal sopra citato art. 22. Di conseguenza, “ ogni singolo atto (enunciante/enunciato) è separatamente e individualmente soggetto a imposta, appunto secondo la logica, anche costituzionale, della tipologia fiscale che titola le pretese fiscali azionate, ossia di ‘imposta d’atto ’”. E, trattandosi di un atto “redatto e ricevuto” dal notaio - sia nella parte enunciativa del verbale di assemblea straordinaria societaria per aumento del capitale sociale che nella parte enunciata del finanziamento soci e della rinuncia parziale al correlato credito restitutorio -, compete allo stesso notaio richiedere alle parti il versamento dell’imposta di registro principale per l’atto enunciante e anche per gli atti enunciato, “ potendo il notaio medesimo in caso di mancato riscontro positivo di tale richiesta rifiutare il proprio ministero in virtù della l. 89 del 1913, art. 28, comma 4, secondo cui ‘il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell’atto, salvo che si tratti di persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, oppure di testamenti ’”. Tanto, perché al notaio è attribuita la qualifica di “ responsabile di imposta ”, posizione di “chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi” ( art. 64, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973 ). Tale situazione giuridica soggettiva passiva, che genera un’obbligazione solidale dipendente, trova fondamento nel profilo di garanzia ordinamentale della funzione pubblica notarile che, tra l’altro, si concretizza nel presidio diretto dell’esazione dei crediti fiscali originati nell’esercizio della medesima. E a tale specifico fine, l’art. 57 del testo unico prevede per l’imposta principale una responsabilità solidale tra le parti e il notaio, in quanto pubblico ufficiale costituito fideiussore ex lege per gli atti che redige, riceve o autentica.
Autore: Alma Chiettini 15 giu, 2023
Cass. Civile, Sezioni Unite, 16 marzo 2023, n. 7682 “ Il deposito di un documento - scrittura privata non autenticata - a fini probatori in un procedimento contenzioso non costituisce un «caso d’uso» in relazione all’applicazione dell’imposta di registro di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986 (testo unico sull’imposta di registro) ”. Questo il principio di diritto affermato dalla pronuncia qui segnalata. E' stato in particolare rilevato che: - l’ art. 5 del testo unico sull’imposta di registro prevede che “sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti indicati nella parte prima della tariffa e in caso d’uso quelli indicati nella parte seconda. Le scritture private non autenticate sono soggette a registrazione in caso d’uso se tutte le disposizioni in esse contemplate sono relative a operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”; - il successivo art. 6 stabilisce che “ si ha caso d’uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell’adempimento di un’obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organi ovvero sia obbligatorio per legge o regolamento ”. Di conseguenza, la Corte ha osservato che si concretizza il “caso d’uso” quando il deposito dell’atto avviene “presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative”, e quando non è oggetto di un obbligo. L’attività di deposito “deve dunque costituire frutto di una valutazione discrezionale della parte che la compie”. Infatti, il termine “deposita” non è impiegato quale modalità di consegna dell’atto bensì per indicare un effetto sostanziale e cioè l’acquisizione dell’atto medesimo a fini giuridici e operativi (cfr., Cass. civ., sez. V, 12.11.2014, n. 24107). Ne deriva che una scrittura privata che documenta l’esistenza di un prestito , depositata quale supporto probatorio in un’azione civile, non è soggetta a registrazione perché non rientra nel “caso d’uso” disciplinato dal citato art. 6. Tale interpretazione non solo è conforme al tenore letterale della norma ma è anche “ in linea con la necessità di assicurare che la tutela del diritto di difesa, garantita dall’art. 24 della Costituzione, possa dispiegarsi pienamente senza che possa risultare ostacolata dall’imposizione fiscale derivante dall’applicazione dell’imposta di registro sul deposito dell’atto funzionale al conseguimento per l’interessato di fini giuridici ed operativi ”. Con la stessa sentenza, la Corte ha enucleato un altro principio di diritto: “ la scrittura privata non autenticata di «ricognizione di debito» che, come tale, abbia carattere meramente ricognitivo di situazione debitoria certa, non avendo per oggetto prestazione a contenuto patrimoniale, è soggetta a imposta di registro in misura fissa solo in caso d’uso ”. La Corte ha così colto l’occasione per precisare che la ricognizione di debito non costituisce un’autonoma fonte di obbligazione ma determina “un’astrazione meramente processuale della causa debendi , comportante una semplice relevatio ab onere probandi , per la quale il destinatario della ricognizione di debito è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale”. La ricognizione di debito ha dunque natura meramente dichiarativa e, come tale, non apportando alcuna modificazione né rispetto alla sfera patrimoniale del debitore che la sottoscrive né a quella del creditore che la riceve, limitandosi a confermare un’obbligazione già esistente (l’obbligazione riferita al rapporto fondamentale sta a monte), deve attribuirsi a essa “natura di mera dichiarazione di scienza” agevolativa per il creditore sul piano dell’onere della prova. Ne discende che ai fini dell’imposta di registro si deve applicare “l’art. 4, Parte II della Tariffa, che assoggetta, in caso d’uso, le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale a imposta fissa (attualmente nell’importo di euro 200,00)”.
Autore: Alma Chiettini 17 mag, 2023
Cass. Civile, Sezioni Unite, 28 aprile 2023, n. 11287 Il soggetto fallito è, in linea generale, privo della capacità di stare in giudizio. In tal senso l’ art. 43 , rubricato “rapporti processuali” della legge fallimentare (r.d. 16.3.1942, n. 267) stabilisce che “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore” e che, di conseguenza, “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”. Le eccezioni codificate nello stesso articolo prevedono che “il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, o se l’intervento è previsto dalla legge”. E nello stesso senso dispone l’art. 143 (ugualmente rubricato “rapporti processuali”) del d.lgs. 12.1.2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza . Tali regole non sono altro che l’applicazione in ambito concorsuale della regola generale di cui all’ art. 75 c.p.c. , in forza della quale sono capaci di stare in giudizio solo “le persone che hanno il libero esercizio dei diritti” che si fanno valere, mentre le persone che tale libero esercizio non hanno non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate “secondo le norme che regolano la loro capacità”. È pertanto pacifico che il fallito mantiene la capacità processuale con riguardo alle posizioni estranee agli interessi e alle funzioni del concorso , come quelle di natura strettamente personale o comunque non incidenti sulla sorte dei creditori. Ma anche per le questioni che incidono o che possono incidere sulla sorte dei creditori, da tempo la giurisprudenza di legittimità afferma che “ il fallito mantiene legittimazione ad agire, e a impugnare provvedimenti incidenti sui rapporti patrimoniali appresi al fallimento, nel caso di «inerzia» degli organi della procedura fallimentare, e ciò anche con specifico riguardo all’impugnazione di atti impositivi basati su presupposti antecedenti all’apertura della procedura concorsuale ” (cfr. da ultimo, Cass. civ., sez. V, 30.9.2021, n. 26506). Il fondamento del riconoscimento di questa legittimazione straordinaria è stato individuato: - nella persistenza in capo al fallito della qualità di contribuente e nella rilevanza, anche costituzionale, del rapporto tributario (Cost., artt. 23 e 53); - nell’esistenza di un interesse personale alla contestazione della pretesa tributaria per la rilevanza che quest’ultima potrebbe avere in sede penale e comunque ex art. 33 l.fall.; - nell’ulteriore interesse a contenere l’entità del passivo in vista dell’esdebitazione (anche ai fini Iva) dopo la chiusura della procedura; - nella divergenza di questi obiettivi rispetto al disinteresse del curatore nei confronti di crediti concorsuali destinati a non trovare capienza nell’attivo fallimentare. Ma quando può dirsi che vi sia inerzia del curatore ? “ Il concetto di inerzia - per quanto etimologicamente e semanticamente chiaro ed univoco nell’indicare una condizione di assenza di azione, cioè di staticità, di immobilità e di quiete obiettivamente rilevabile - si prest[a] in realtà ad importanti distinguo se trasposto nel mondo giuridico e processuale ”. Si trovano quindi pronunce che hanno riconosciuto la legittimazione del fallito per il solo fatto, obiettivamente rilevato, che il curatore si era astenuto dall’agire; si tratta di decisioni che hanno dato per scontato che la capacità processuale del fallito discenda da una condizione di inerzia pura e semplice del curatore, senza necessità di indagarne le cause, le giustificazioni o gli scopi. All’opposto, altre pronunce hanno invece ritenuto di arricchire la fattispecie dell’inerzia di un elemento ulteriore, implicante sempre una più o meno approfondita indagine sulle ragioni che hanno indotto il curatore ad astenersi dal giudizio; per queste sentenze il fallito poteva agire personalmente solo se l’inerzia del curatore non era consapevole e voluta, cioè frutto di una mirata ponderazione e di una specifica valutazione di opportunità e convenienza per la massa. Per dirimere tale contrasto di indirizzi è intervenuta la sentenza qui segnalata, che ha previamente specificato che parte della giurisprudenza era pervenuta a “ una progressiva definizione della fattispecie legittimante dell’inerzia mediante l’introduzione in essa di un quid pluris ”, per cui si era passati “ da una nozione di inerzia semplice o essenziale ad una nozione di inerzia consapevole o qualificata o vestita che dir si voglia. La prima libera la capacità sostitutiva del fallito, la seconda la preclude ”. Ebbene, il carattere pubblicistico dell’obbligazione tributaria; il fatto che il rapporto giuridico d’imposta basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura; l’ulteriore fatto che il rapporto giuridico d’imposta inadempiuto ha effetti sulle future prospettive di esdebitazione e di ripresa una volta che il debitore torni in bonis ; gli aspetti sanzionatori di natura non penale ma amministrativa ma che rispondono comunque, “in ogni caso, a uno stampo di tipo penalistico” per le evidenti finalità afflittivo-deterrenti (v. Cass. civ., Sez. Unite, 27.4.2022, n. 13145), sono fattori tutti che complessivamente considerati hanno indotto la Corte a concludere, sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata della l.fall., art. 43 e della Cost., art. 24, che occorre ammettere il contribuente fallito ad impugnare in proprio l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore. La Corte ha così formulato il seguente principio di diritto: “ in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex l.fall., art. 43 in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato ”. Con l’occasione la Corte ha esaminato anche la questione se l’eventuale difetto di legittimazione del fallito ha natura relativa o assoluta, così pervenendo alla formulazione del seguente principio di diritto: “ l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo ”. E questo correlato corollario, perché quella in esame è questione che attiene non alla titolarità del diritto ma a “una carenza di capacità o legittimazione attinente ai presupposti processuali e il cui verificarsi è subordinato alla attivazione del curatore”, per cui “ il relativo vizio ha carattere assoluto, così da poter e dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite. In presenza di questo palesato interesse (vale a dire, del difetto di un’inerzia obiettivamente intesa), il rapporto litigioso deve ritenersi ex lege acquisito al fallimento, così da rendere inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, e il difetto di capacità processuale di quest’ultimo non rientra più nella sola disponibilità del curatore, assumendo piuttosto uno spessore ordinamentale, cioè assoluto ”.
Autore: Alma Chiettini 24 apr, 2023
Corte Cost., 21 marzo 2023, n. 47 La Corte costituzionale è tornata ad occuparsi della legittimità costituzionale dell’ art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 , recante lo statuto dei diritti del contribuente , nella parte in cui il citato comma 7 “ non estende il diritto al contraddittorio endoprocedimentale a tutte le modalità di accertamento in rettifica poste in essere dall’Agenzia delle Entrate ” e, quindi, anche a quelle effettuate con la modalità c.d. “a tavolino”. La Corte ha concluso l’esame della vertenza con una dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità sollevata, ma ha colto l’occasione per esporre un’articolata analisi e un ragionamento propositivo che vale la pena esaminare. Ebbene, sul piano legislativo, la Corte ha preso atto che “ difetta nel vigente sistema tributario, una disciplina positiva che generalizzi, in capo all’amministrazione finanziaria, l’obbligo di attivare il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente, al di fuori delle fattispecie normative in cui ciò è espressamente previsto ”. E su questo punto ha specificato che “ il procedimento tributario costituisce una species del procedimento amministrativo ma, a differenza di quest’ultimo, non contiene previsioni generali in ordine alla formazione partecipata dell’atto impositivo che ne costituisce l’eventuale atto conclusivo. Anzi, l’art. 13, comma 2, della legge n. 241 del 1990, che reca la disciplina generale sul procedimento amministrativo, esclude l’applicabilità delle disposizioni del Capo III, dedicate alla ‘partecipazione al procedimento amministrativo’, ai procedimenti tributari, per i quali ‘restano […] ferme le particolari norme che li regolano’ ( il che non va letto come un impedimento alla sottoposizione dei procedimenti tributari al principio di partecipazione ma, semplicemente, come espressione dell’esigenza che ai procedimenti tributari sia dedicata una disciplina specifica). A essi non si applicano, quindi, le norme che disciplinano l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 7), l’intervento nel procedimento (art. 9), il diritto di accesso agli atti endoprocedimentali (art. 10, comma 1, lettera a) e quello di produrre memorie e allegare documenti (art 10, lettera b), nonché l’obbligo di comunicare il cosiddetto preavviso di rigetto (art. 10 bis) ”. Sul piano giurisprudenziale, la Corte ha constatato che la Corte di cassazione , con un indirizzo consolidatosi a seguito della sentenza a Sezioni Unite n. 24823 del 2015 , interpreta “il diritto nazionale allo stato della legislazione, nel senso che non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto”. E anche che la Corte di legittimità afferma che la previsione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, “non ha valenza generale perché questa disposizione, come emerge dal suo tenore testuale, va delimitata ai soli accertamenti conseguenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente, senza che possa estendersi anche alle verifiche ‘a tavolino’” (Cass., sez. V, 13.12.2022, n. 36502; id., sez. VI, 29.7.2022, n. 23729; id., sez. V, 6.4.2020, n. 7690; id., sez. VI, 3.7.2019, n. 17897). Parallelamente, la Corte ha ricordato che l’amministrazione tributaria ha l’obbligo di attivare il contraddittorio endoprocedimentale ogniqualvolta adotta decisioni che rientrano nella sfera di applicazione del diritto europeo . In tali casi, difatti, l’amministrazione è tenuta a osservare gli obblighi derivanti dal diritto a una buona amministrazione sancito dall’ art. 41, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea , inteso come “il diritto a che le questioni [...] siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione”, tra le cui articolazioni, elencate in via esemplificativa, è previsto “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio” (Corte di giustizia, sez. V, 24.2.2022, in causa C-582/20; id., sez. VI, 4.6.2020, in causa C-430/19; id., sez. V, 16.10.2019, in causa C-189/18). Di tanto ha preso atto anche la giurisprudenza di legittimità affermando che, nell’accertamento dei cosiddetti “ tributi armonizzati , avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, vige un generale obbligo dell’amministrazione di instaurare un’ interlocuzione preventiva con il contribuente , la cui inosservanza può portare all’invalidità dell’atto impositivo”, ma solo se l’interessato assolve alla “prova di resistenza allegando le ragioni che avrebbe potuto far valere in sede procedimentale e il conseguente pregiudizio sostanziale subito” (Cass., sez. V, 1.4.2021, n. 9076; id., sez. V., 3.10.2019 n. 24699). La Corte delle leggi ha poi osservato che, settorialmente, si è assistito “a progressive e ripetute aperture del legislatore, che hanno reso obbligatorio, in un sempre più consistente numero di ipotesi, il contraddittorio endoprocedimentale”. Trattasi di disposizioni specifiche che prescrivono l’interlocuzione preventiva con il contribuente con modalità ed effetti differentemente declinati a seconda della dinamica istruttoria seguita dall’amministrazione e delle esigenze, di matrice tipicamente collaborativa o più prettamente difensiva, ad essa sottese. Ne sono esempi: - l’ art. 38, settimo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 che per la determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche prescrive, a pena di nullità, che l’ufficio convochi il contribuente e solo successivamente avvii il procedimento di accertamento; - l’ art 10, comma 3 bis, della l. n. 146 del 1998 , sugli studi di settore, che impone all’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, di invitare il contribuente a comparire ai fini dell’accertamento con adesione; - gli artt. 36 bis e 36 ter del d.P.R. n. 600 del 1973 , sui controlli automatizzati e formali, i cui esiti devono, a pena di nullità, essere comunicati al contribuente che, entro trenta giorni, può fornire chiarimenti; - l’ art. 10 bis della l. n. 212 del 2000 che, dopo aver introdotto la clausola generale antielusiva, impone, a pena di nullità, una preventiva richiesta di chiarimenti rivolta al contribuente, caratterizzata dalla precisa indicazione degli elementi che portano a ritenere configurabile l’abuso del diritto, cui segue la concessione di un termine dilatorio di sessanta giorni durante il quale al contribuente è data la possibilità di comunicare i chiarimenti sollecitati dall’ufficio e dei quali l’amministrazione è obbligata a tenere conto in sede di motivazione dell’atto impositivo. Da ultimo, l’ art. 4 octies del d.l. n. 34 del 2019 ha introdotto l’ art. 5 ter nel d.lgs. n. 218 del 1997 , in forza del quale, prima di emettere un avviso di accertamento, l’ufficio deve notificare al contribuente l’invito a comparire per avviare il procedimento di accertamento con adesione (comma 1); in caso di mancato accoglimento dei chiarimenti forniti nel corso del contraddittorio, è imposto all’amministrazione un obbligo di motivazione rinforzata (comma 3). E tale invito a comparire può essere omesso soltanto nei casi di particolare urgenza, specificamente motivata, o nelle ipotesi di fondato pericolo per la riscossione (comma 4). Inoltre, il successivo comma 5 tipizza la cosiddetta prova di resistenza, prevedendo che “ il mancato avvio del contraddittorio … comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento, qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato ”. Su questo specifico punto la Corte ha osservato che “nonostante la scelta legislativa di inserire la nuova disciplina dell’invito obbligatorio a comparire nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione – così circoscrivendone il campo di applicazione alle sole imposte a cui si estende questa procedura – e di escluderne l’operatività nel caso di accertamenti e rettifiche parziali, si deve evidenziare come essa denoti un’evoluzione del sistema, tale per cui l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale non costituisce più un’ipotesi residuale, ma aspira ad assurgere a principio generale”. In definitiva, dalla riportata analisi sullo stato della legislazione e della giurisprudenza emerge “un sistema composito del contraddittorio nel procedimento tributario”. La Corte ha poi ricordato di aver “già riconosciuto che il contraddittorio endoprocedimentale è espressione del principio del ‘giusto procedimento’ (in virtù del quale i soggetti privati dovrebbero poter esporre le proprie ragioni, in particolare prima che vengano adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), principio che ha assunto un ruolo centrale nel nostro ordinamento (sentenza n. 71 del 2015), anche come criterio di orientamento non solo per l’interprete, ma prima ancora per il legislatore (sentenza n. 210 del 1995). E che ciò vale anche in ambito tributario, dove il contraddittorio endoprocedimentale da un lato, persegue lo scopo di ‘ottimizzare’ l’azione di controllo fiscale risultando così strumentale al buon andamento dell’amministrazione finanziaria; dall’altro, garantisce i diritti del contribuente permettendogli di neutralizzare, sin dalla fase amministrativa, eventuali errori a lui pregiudizievoli”. Per cui ha concluso che “ la mancata generalizzazione del contraddittorio preventivo con il contribuente, fin qui limitato a specifiche e ben tipizzate fattispecie, risulta ormai distonica rispetto all’evoluzione del sistema tributario, avvenuta sia a livello normativo che giurisprudenziale. Tuttavia, dalla pluralità dei moduli procedimentali legislativamente previsti e dal loro ambito applicativo, emerge con evidenza la varietà e la frammentarietà delle norme che disciplinano l’istituto e la difficoltà di assumere una di esse a modello generale ”. Per cui, a fronte alla molteplicità di strutture e di forme che il contraddittorio endoprocedimentale ha assunto e può assumere in ambito tributario, “spetta al legislatore il compito di adeguare il diritto vigente, scegliendo tra diverse possibili opzioni che tengano conto e bilancino i differenti interessi in gioco, in particolare assegnando adeguato rilievo al contraddittorio con i contribuenti”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 10 apr, 2023
Corte Cost., 17 marzo 2023, n. 46 Una Corte di Giustizia tributaria di merito, esaminando una vicenda che aveva visto il contribuente aver omesso una dichiarazione ma avere versato imposte e sanzioni ridotte prima di ricevere l’avviso di accertamento, ha dubitato della tenuta costituzionale della disciplina sanzionatoria, ossia della ragionevolezza e della proporzionalità della sanzione prevista per il caso di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, sanzione quantificata nell’importo minino del 120% e massimo del 240% dell’ammontare delle imposte dovute ( art. 1, comma 1, primo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997 ). La Corte costituzionale ha risposto con un’articolata pronuncia cui ha anteposto una premessa di carattere generale sulle ragioni che giustificano le sanzioni gravose in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi , premessa che vale riportare: « un sistema di fiscalità di massa poggia sull’architrave dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della dichiarazione, che costituisce uno degli atti più importanti nell’ambito della disciplina attuativa di tale imposta. Tramite la dichiarazione dei redditi il contribuente è pertanto chiamato a collaborare … con l’amministrazione finanziaria, esponendosi quindi ai relativi controlli. Tale dichiarazione ha, infatti, una rilevanza procedimentale: consente all’Agenzia delle entrate, innanzitutto, di attivare i controlli automatizzati e formali, di cui, rispettivamente, agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973; condiziona poi l’accertamento e determina, in particolare, i metodi di rettifica del reddito dichiarato. In tal modo la presentazione della dichiarazione agevola le attività dell’amministrazione finanziaria, che dovrà invece ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento delle imposte dovute. In caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, infatti, l’Agenzia delle entrate può anche procedere, ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, all’accertamento d’ufficio, di carattere induttivo, che consente di determinare il reddito complessivo del contribuente “sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui al terzo comma dell’art. 38 e di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze della dichiarazione, se presentata, e dalle eventuali scritture contabili del contribuente ancorché regolarmente tenute”. Ma resta fermo che questa attività di accertamento implica un impegno ben superiore, in termini di risorse umane, rispetto a quello normalmente richiesto per la effettuazione degli altri controlli, e in particolare di quelli automatizzati e formali. Di qui l’esigenza, per il buon funzionamento del sistema tributario, che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi sia presidiata da una sanzione con un forte effetto deterrente ». La Corte ha però riconosciuto che, per alcune situazioni (quale era quella esaminata nel giudizio a quo ove il contribuente, per effetto dell’applicazione del minimo edittale, era chiamato a versare una cifra maggiore dell’imposta già versata) «può venir meno un rapporto di congruità tra il concreto disvalore dei fatti e la misura della sanzione». Ebbene, in tali casi, ha affermato la Corte, è possibile una lettura sistematica dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, in correlazione con un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997. Per giungere a tale conclusione (un vero e proprio suggerimento) la Corte delle leggi ha preso in esame l’evoluzione storica del sistema sanzionatorio tributario per giungere a osservare che l’attuale sistema (incentrato sui tre d.lgs. del 1997 n. 471 relativo alle sanzioni in materia di imposte dirette e IVA, n. 472 di adeguamento ai principi generali della l. n. 689 del 1981, n. 473 per le sanzioni relative ai tributi indiretti) ha mutuato la propria disciplina dal diritto punitivo, come dimostra, per esempio, l’introduzione del principio dell’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e quello della retroattività della normativa successiva più favorevole, e come afferma anche la Corte di cassazione ove sostiene che “l’impianto sanzionatorio non penale nella materia tributaria risponde a uno stampo penalistico” (Corte cass., Sezioni Unite, 27 aprile 2022, n. 13145). Innovativa, a tali fini, è stata l’introduzione dell’ art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 , che stabilisce che nella determinazione della sanzione «si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali» (comma 1) e che contempla la facoltà di ridurre in modo consistente la misura della sanzione : «qualora concorrano eccezionali circostanze che rendano manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo» (comma 4). Comma 4 che, viene ribadito, deve essere letto non atomisticamente ma in rapporto col precedente comma 1: in questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione quanto indicato nel comma 1 dello stesso articolo, ossia la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze. Il comma 4 dell’art 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 è dunque «una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dalla norma censurata, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano». E il comma 4 dell’art 7, che pertanto consente la riduzione della sanzione, può essere applicato già dall’Agenzia delle Entrate poiché essa dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utili. E comunque dalla Corte di Giustizia tributaria nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 mar, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 27 febbraio 2023, n. 5899 Nell’anno 1992 le società di autotrasporti usufruirono di crediti di imposta - istituiti e disciplinati con decreto ministeriale - sulle spese sostenute per l’acquisto di carburanti e lubrificanti per veicoli di autotrasporto merci in conto terzi. La Commissione delle Comunità europee chiese immediatamente al Governo italiano informazioni sul decreto, segnalando che poteva costituire una violazione dell’ art. 92, n. 1, del Trattato CE , sull’incompatibilità con il Trattato degli aiuti concessi dagli Stati . E il Governo italiano rispose che il credito d’imposta non costituiva un aiuto ma piuttosto una misura di natura fiscale. Ma la Commissione, con decisione 9 giugno 1993, 93/496/CEE , affermò che l’aiuto sotto forma di credito d’imposta a valere sull’imposta sul reddito o sulle imposte comunali o sull’IVA era illegittimo perché incompatibile con il mercato comune ai sensi dell’articolo 92, paragrafo 1, del Trattato. Chiese pertanto all’Italia di sopprimerlo e di recuperarlo entro due mesi dalla notifica della decisione. L’Italia non impugnò la decisione e non recuperò il credito d’imposta: anzi, lo prorogò per i due anni successivi e lo estese anche agli autotrasportatori di altri Stati membri in relazione al consumo di gasolio sul territorio italiano. La Commissione contestò nuovamente tale operato ( decisione 22 ottobre 1996, 97/270/CE ) precisando che la pronuncia era motivata non soltanto sulla discriminazione tra gli autotrasportatori italiani e quelli di altri Stati membri ma anche dall’esistenza di una distorsione della concorrenza. Ma l’Italia oppose che l’imposto recupero era tecnicamente impossibile poiché il credito, essendo stato deducibile da vari tipi d’imposta, costringeva l’Amministrazione a effettuare una serie di controlli su una massa di dichiarazioni presentate da circa 150.000 imprese di trasporti e sostituti d’imposta. A quel punto la Commissione introdusse un ricorso innanzi alla Corte di Giustizia per far dichiarare che la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato. La Corte di Giustizia, con sentenza 29 gennaio 1998, n. 280/95 , affermò che fin dal 1992 il Governo italiano era stato informato dell’ incompatibilità del sistema dei crediti d’imposta fiscali con il Trattato e, di conseguenza, del rischio di dover recuperare il credito; che riconoscere, a tali condizioni, un’impossibilità di recupero significherebbe mettere in discussione l’efficacia del diritto comunitario in materia di aiuti di Stato; che, in definitiva, l’Italia, non essendosi conformata alla decisione della Commissione “ è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del Trattato CE ”. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti intimò dunque alle società di autotrasporto che avevano goduto di quei crediti di imposta la restituzione delle somme portate in detrazione. Una società di autotrasporti ha impugnato il provvedimento di recupero lamentando la violazione dell’art. 97 della Costituzione sotto il profilo dell’efficienza e del buon andamento applicabili anche all’autotutela amministrativa nei provvedimenti volti a rimuovere precedenti atti ritenuti illegittimi, e che era oramai decorso il termine di legge per l’osservanza dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili. Tale censure, condivise dal Giudice di merito, sono state però tutte respinte dalla Corte di cassazione con la sentenza qui segnalata (ricca di richiami giurisprudenziali), particolare significativa perché ha: - anzitutto, asserito che la Corte tributaria di merito “ ha confuso l’esercizio del potere di autotutela - nel quale ha erroneamente ritenuto rientri il potere di recupero delle somme costituenti aiuti di stato - con l’attuazione nell’ordinamento interno degli obblighi unionali che vietano l’adozione di tali misure e che ne impongono il recupero ove rivelatesi contrarie al diritto dell’Unione ”; - ricordato la nozione di “aiuto di Stato” e di “aiuto di Stato fiscale”, una species dell’ampio genus “aiuto” che, in via generale, configura una rinuncia dell’ente pubblico, in toto o in parte, all’esercizio della potestà impositiva, in senso derogatorio rispetto alle norme vigenti in un determinato sistema tributario, che comprende una serie eterogenea di misure tributarie agevolative che incidono su una fase del prelievo (individuazione del presupposto, liquidazione della base imponibile o dell’imposta, accertamento, riscossione), caratterizzate da un regime giuridico speciale rispetto all’ordinaria applicazione della legislazione vigente; - rammentato che anche la Corte costituzionale ha riconosciuto la sussistenza di un vero e proprio obbligo in capo allo Stato membro di assicurare il recupero dell’aiuto (configurabile come il pagamento di una somma corrispondente a un tributo già spettante) e ha dichiarato non opponibili le eccezioni relative ai principi di attualità della capacità contributiva di cui all’art. 53, e di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 (ord. 6 febbraio 2009, n. 36; id., 30 aprile 2009, n. 125); - rievocato la giurisprudenza in forza della quale l’efficacia diretta delle norme unionali nell’ordinamento interno si estende anche alle decisioni con cui la Commissione, nell’esercizio del controllo sulla compatibilità degli aiuti di Stato con il mercato comune, dispone la sospensione di una misura di aiuto, o ne dichiara l’incompatibilità, o ne ordina la restituzione, e affermato che ciò comporta l’invalidità o l’inefficacia delle norme di legge e degli atti amministrativi o negoziali in forza dei quali la misura di aiuto è stata erogata; - osservato che la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata, per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora impedisca il recupero di un aiuto dichiarato incompatibile con una decisione della Commissione divenuta definitiva; - considerato che ciò non significa che il beneficiario dell’aiuto nazionale sia esposto all’azione di recupero degli aiuti senza limiti temporali , in quanto la normativa comunitaria - ai sensi dell’art. 15 del Regolamento (CE) 22 marzo 1999, n. 659, ora art. 17 del Regolamento (CE) 13 luglio 2015, n. 1589 - fissa in dieci anni, dalla concessione del beneficio, il termine entro il quale la decisione negativa della Commissione può far sorgere il diritto-dovere di recuperare gli aiuti incompatibili erogati; - affermato che in tema di recupero di aiuti di Stato dichiarati dalla Commissione incompatibili con il mercato comune, l’ azione di ripetizione è soggetta al termine di prescrizione decennale e, quanto al momento di decorrenza della prescrizione, che essa non decorre dalla data di fruizione dell’aiuto bensì dalla notifica della decisione della Commissione allo Stato membro e, cioè, dal momento in cui l’aiuto erogato è qualificabile come illegittimo (con l’ulteriore precisazione che tale termine di prescrizione non è interrotto dall’avvenuta impugnazione alla Corte di Giustizia, da parte dello Stato, della decisione della Commissione, poiché tale effetto interruttivo è previsto esclusivamente nei rapporti tra la Commissione e lo Stato membro, non già nel rapporto, assoggettato alle regole interne, tra quest’ultimo e il destinatario dell’aiuto). Quanto, da ultimo, alla conservazione delle scritture contabili , la Corte ha osservato che da tempo viene precisato che l' art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 (che impone al contribuente la conservazione delle scritture contabili obbligatorie sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta) va interpretato nel senso che l’ultrattività dell’obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all’art. 2220 c.c. opera solo se l’accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza. Tuttavia, nel caso all’esame, a fronte della concessione degli aiuti di stato negli anni 1992, 1993, 1994, dichiarati illegittimi con le decisioni della Commissione del 1993 e del 1996, la legittimità degli stessi - e quindi la pendenza dell’accertamento tributario, essendo aiuti di Stato fiscali - era sub iudice appunto dalle date in cui la Commissione ne aveva contestato la contrarierà al diritto unionale. E “ tale pendenza, in allora esistente e tuttora perdurante, sino alla definizione del giudizio, rendeva e rende, non essendo definito l’accertamento, perdurante l’obbligo del contribuente di conservare la documentazione contabile ad esso connessa ”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 23 feb, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 24 gennaio 2023, n. 2095 La sentenza segnalata riassume puntualmente i principi dettati dalla giurisprudenza in materia di prescrizione di sanzioni e di interessi nell’ordinamento tributario. Quanto alle sanzioni: l’ art. 20, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997 stabilisce che il diritto alla riscossione della sanzione amministrativa irrogata per violazione di norme tributarie si prescrive nel termine di cinque anni. Il comma 1 dello stesso articolo stabilisce un analogo termine di decadenza: l’ atto di contestazione , o l’atto di irrogazione, devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi. Questa è la norma generale in tema di prescrizione e di decadenza delle sanzioni tributarie, norma che assoggetta la prescrizione delle sanzioni tributarie a una disciplina autonoma e indipendente dalla prescrizione dei presupposti crediti nascenti dal rapporto tributario. L’ art. 24 del d.lgs. n. 472 del 1997 dispone, invece, che per la riscossione delle sanzioni (pertanto, in fase esecutiva e non di accertamento) si applicano le disposizioni sulla riscossione dei tributi cui la violazione si riferisce. Ebbene, in sintesi: - le sanzioni tributarie si prescrivono in cinque anni; - solo in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo beneficiano della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c. (Cass. civ., sez. un., n. 23397 del 2016); - l’art. 20 del d.lgs. n. 472 del 1997 è “ disciplina prescrizionale di diritto speciale … stante il carattere speciale dell’illecito tributario” ed è conforme al sistema e alle norme di contabilità pubblica, circa i quali è stato osservato che “l’esigenza di modulare i tempi dell’azione amministrativa sulla base di termini di prescrizione più contenuti rispetto a quello decennale ordinario, previsto dall’art. 2946 c.c., (che comunque rivive in caso di giudicato), trova il suo fondamento nei vincoli di competenza del bilancio dello Stato, in forza dei quali l’Amministrazione finanziaria deve potere, almeno per grandi linee, programmare e prevedere per ciascun anno il gettito fiscale ed i tempi della riscossione, tenendo conto anche delle proprie risorse di uomini e mezzi (bilancio di previsione). E’ evidente, però, che quando poi si instaura un contenzioso, non sono possibili previsioni di medio tempo, né è possibile preventivare le risorse necessarie per la riscossione, che dipendono dai tempi del contenzioso stesso e dalla percentuale di esito positivo per la stessa amministrazione ” (Cass. civ., sez. un., n. 25790 del 2009); - peraltro, come ha sottolineato la dottrina, “una durata della prescrizione generalizzata e quinquennale obbedisce anche a esigenze di certezza e di tutela del contribuente, in ordine ai tempi di irrogazione di tutte le sanzioni tributarie”; - ciò comporta che il termine di prescrizione entro il quale l’Amministrazione deve far valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non è di tipo unitario (Cass. civ., sez. VI - 5, n. 7486 del 2022) e che tale regime prescrizionale speciale, generalizzato per qualunque provvedimento sanzionatorio tributario, opera sia in caso di sanzioni irrogate con un autonomo procedimento sia per le sanzioni irrogate contestualmente all’avviso di accertamento o di rettifica; - ne deriva che non è corretto ritenere che la prescrizione quinquennale di cui all’art. 20 citato riguardi i soli atti di contestazione o irrogazione di sanzioni autonomi e non anche quelli che irrogano sanzioni emessi contestualmente all’atto di recupero del tributo, per i quali opererebbe l’art. 24 del d.lgs. n. 472 del 1997 con conseguente applicazione del medesimo regime prescrizionale del tributo; - a ciò consegue che, in caso di notifica di una cartella di pagamento avente per oggetto crediti per sanzioni, azione non fondata su di una sentenza passata in giudicato, il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria relativa alle sanzioni è quello quinquennale che decorre dall’iscrizione a ruolo del credito. Quanto agli interessi , la disciplina sulla prescrizione si rinviene nella norma di diritto comune quale è l’ art. 2948, n. 4, c.c. , secondo cui l’obbligazione relativa agli interessi riveste natura autonoma rispetto al debito principale e soggiace al generalizzato termine di prescrizione quinquennale. Precisamente, tale disposizione stabilisce che si prescrivono in cinque anni “gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. L’utilizzo della congiunzione “e” comporta che la disciplina della prescrizione quinquennale riguarda gli interessi in quanto tali e che essa si affianca a quella delle prestazioni periodiche, con la quale non può essere confusa. Questa è “norma speciale rispetto alla prescrizione della sorte capitale e si applica a tutte le categorie di interessi. La rilevanza di una disciplina unitaria della prescrizione dell’obbligazione di interessi appare significativa, in considerazione del fatto che il codice civile conosce diverse categorie di interessi”, quali: - gli interessi corrispettivi , dovuti in caso di debiti liquidi ed esigibili (per quando i debiti dello Stato e degli altri enti pubblici diventano liquidi ed esigibili, e perciò produttivi di interessi corrispettivi ai sensi dell’art. 1282 c.c., cfr., Cass. civ., sez. I, n. 11655 del 2020); - gli interessi moratori , quale corrispettivo del ritardato adempimento (Cass. civ., sez. un., n. 12324 del 2016; id., sez. VI-1, n. 13763 del 2021); - gli interessi compensativi , diretti a compensare il pregiudizio subito dal creditore per mancato godimento di beni o servizi (Cass. civ., sez. I, n. 28930 del 2022); - gli interessi compensativi sul prezzo previsti dall’art. 1499 c.c. (Cass. civ., sez. VI-2, n. 11605 del 2018). La sentenza in esame fornisce un’ampia spiegazione storico-giuridica della disciplina prescrizionale degli interessi: “ il legislatore ha introdotto una disciplina unitaria applicabile alle diverse categorie di interessi (corrispettivi quelli propri del diritto commerciale e moratori quelli del tradizionale diritto civile), indipendentemente dalla fonte e dalla natura degli stessi. Il che appare conforme a quel fenomeno giuridico frutto della codificazione del 1942, investigato da antica dottrina come commercializzazione del diritto privato, che aveva inteso estendere al diritto privato istituti propri del diritto commerciale, armonizzando e unificando le relative originarie e distinte discipline”. Peraltro, “la generalizzata applicazione della disciplina della prescrizione quinquennale agli interessi risponde a una più risalente ragione storica (e di più antica codificazione) - come osservatosi in dottrina - che era quella di sganciare la riscossione dell’obbligazione ‘accessoria’ degli interessi da quella del capitale. Benché le due prestazioni (capitale e interessi) appaiano omogenee (entrambe essendo prestazioni pecuniarie) e benché la prestazione degli interessi scaturisca dall’obbligazione pecuniaria, l’obbligazione di interessi si aggiunge alla originaria prestazione in sorte capitale e aggrava la posizione del debitore. Il legislatore ha inteso liberare il debitore dalle prestazioni scadute, non richieste tempestivamente dal creditore, di questa prestazione accessoria in termini più rapidi rispetto all’obbligazione principale; lo ha fatto differenziando il periodo di esigibilità dell’obbligazione accessoria rispetto a quella principale attraverso l’introduzione di una disciplina prescrizionale più breve di quella ordinaria, prevista per la sorte capitale ”. È quindi errato sostenere che la prescrizione dell’obbligazione degli interessi sia agganciata a quella dell’obbligazione in sorte capitale. Su questo punto “ la Corte ritiene - in conformità a quanto osservatosi in dottrina - che il carattere dell’accessorietà dell’obbligazione degli interessi attiene unicamente all’aspetto genetico di tale obbligazione, la quale sorge unitamente all’obbligazione principale e, conseguentemente, cessa con l’estinzione dell’obbligazione principale stessa. Peraltro, una volta sorta l’obbligazione di interessi (per effetto del sorgere dell’obbligazione principale), il flusso produttivo di interessi vive di vita propria in virtù della sua progressiva maturazione; man mano che maturano, gli interessi vanno a costituire una obbligazione autonoma e rimangono indipendenti dall’obbligazione principale dalla quale sono sorti, per cui possono essere suscettibili ‘di autonome vicende rispetto all’obbligazione tributaria configurata a carico del contribuente ’” (in termini, Cass. civ., sez. un., n. 22281 del 2022). Ne deriva “che la disciplina della prescrizione, che attiene alla fase in cui gli interessi, in quanto sorti già separati dal capitale, vengono a maturazione, deve necessariamente essere risolta in base al principio dell’autonomia , con la conseguenza che il termine prescrizionale è quello quinquennale stabilito dall’art. 2948, n. 4, c.c. il quale prescinde sia dalla tipologia degli interessi, sia dalla natura dell’obbligazione principale”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 gen, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 16 gennaio 2023, n. 1035 L’operazione straordinaria di fusione societaria è un evento fiscalmente neutro: in tal senso il comma 1 dell’art. 172 del d.P.R. n. 917 del 1986 recita: “ la fusione tra più società non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”, e il successivo comma 4 stabilisce che: “dalla data in cui ha effetto la fusione la società risultante dalla fusione, o incorporante, subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi, salvo quanto stabilito nei commi 5 [disciplina delle riserve in sospensione di imposta] e 7 [disciplina delle perdite] ”. È questa seconda eccezione che qui interessa e che è stata bene esposta e chiarita dalla sentenza segnalata, la quale ha innanzitutto ricordato come il Legislatore, dopo aver riscontrato “fenomeni di rincorsa e quasi di incetta di società in perdita” coinvolte in operazioni di fusione, abbia posto un argine al pericolo di diffusione di operazioni di fusione con società decotte. Ecco, dunque, la ratio del comma 7 dell’art. 172 , secondo cui le perdite di una società che partecipa a una fusione possono essere portate in diminuzione dei redditi della società risultante dalla fusione a condizione che dal conto economico della società le cui perdite si vogliono riportare, nell’esercizio precedente a quello in cui la fusione è deliberata: - risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori; - risulti un ammontare di spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori. In presenza di questi due parametri, che costituiscono il c.d. test di vitalità , le perdite si possono utilizzare, ma limitatamente a un prescritto importo massimo: solo per la parte che non eccede il patrimonio netto della società le cui perdite si vogliono riportare, come risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale ex art. 2501 quater c.c., senza tenere conto dei conferimenti e dei versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce il bilancio o la situazione stessa. Con riguardo a questo punto, è stato bene specificato che “ il c.d. patrimonio netto inferiore va individuato tra quello dell’ultimo bilancio di esercizio e quello risultante dalla situazione patrimoniale aggiornata, previa rettifica in diminuzione dei conferimenti e versamenti eventualmente eseguiti nel biennio precedente alla data cui detto patrimonio si riferisce ”. In assenza di questi due parametri le perdite non si possono utilizzare. Il Legislatore ha pertanto riconosciuto puntuali limiti al riporto delle perdite delle società partecipanti alla fusione quale meccanismo di tutela da fenomeni elusivi, di commercio di perdite fiscali, così evitando la fusione di “scatole vuote” cariche solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante ma ormai prive di ogni concreta operatività, di c.d. “bare fiscali” utilizzabili al solo scopo di abbattere gli utili tassabili. Il comma 7 in esame è una norma antielusiva specifica che colpisce una certa situazione il cui verificarsi comporterebbe un determinato effetto elusivo: il vantaggio derivante dalla compensazione tra le perdite di una società che non produceva più utili (oppure ne produceva in misura insufficiente a compensare le perdite) e il reddito di un’altra società. La norma è applicazione del più generale principio secondo cui un soggetto non può compensare perdite con i redditi di un altro soggetto in quanto ogni compensazione deve avvenire in capo allo stesso soggetto fiscale. E per le persone giuridiche societarie questo non comporta affatto divieto di fusione ma impossibilità di conseguire benefici fiscali dalla compensazione intersoggettiva di perdite laddove l’attività che ha prodotto queste perdite non è più in grado di riassorbirle. La disposizione in esame contiene dunque “ una regola circolare costruita dal Legislatore a tutela dal rischio di operazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi esclusivamente oppure prevalentemente elusivi, mediante l’identificazione di criteri preventivi, legalmente presuntivi ma specificamente predeterminati, entro cui l’operatore economico è in grado di conoscere come deve muoversi e cosa aspettarsi sotto il profilo fiscale ”. Trattasi, in altri termini, di una presunzione legale perché individua sulla base di due parametri presuntivi – condizioni minime di vitalità economica – i casi in cui vi può essere un vantaggio fiscale indebito, ovvero la compensazione intersoggettiva. Parametri presuntivi perché la norma, in concreto, rileva solo se una società è stata depotenziata in prossimità dell’operazione di fusione, posto che confronta i due parametri considerati rilevanti (ricavi e proventi dell’attività caratteristica e spese per prestazioni di lavoro subordinato) nell’esercizio precedente la fusione rispetto ai due esercizi antecedenti. Parametri presuntivi perché la vitalità di una società può essere rilevata anche da parametri diversi da quelli previsti dal comma 7; per esempio: - in base alla composizione dell’attivo patrimoniale; - in base al valore economico della società che può essere superiore al suo patrimonio netto contabile; - tenendo conto che una società può operare senza costi del personale (ad esempio una società costituita con la sola finalità di acquisire la partecipazione totalitaria in un’altra società e che quindi non svolge alcuna altra attività – cfr., sul punto, Cass. civ., sez. V, 4.3.2021, n. 5953, e risoluzioni A.d.E. n. 337/E del 29.10.2002 e n. 143/E del 10.4.2008). Da quanto sin qui esposto emerge l’oggetto della prova che compete al contribuente per superare la presunzione di legge: - la dimostrazione che gli effetti elusivi “non possono verificarsi” perché la società le cui perdite si vogliono riportare non era una “bara fiscale” nonostante l’applicazione della disposizione del comma 7 dell’art. 172 l’abbia fatto presumere; - la dimostrazione della perdurante attività della società le cui perdite si vogliono riportare, attività che può essere valutata anche con parametri diversi da quelli codificati dal comma 7 in esame. Ne deriva che quando la disciplina antielusiva presenta dei limiti nel caso concreto, tali limiti possono essere superati mediante il ricorso all’ istanza di interpello prevista dall’ art. 11, comma 2, della l. n. 212 del 2000 . In tal modo al contribuente è assicurato uno strumento con cui, controbilanciando lo schema rigido del comma 7 in esame, può richiedere all’Amministrazione la disapplicazione della norma (sul punto vedasi la risoluzione A.d.E. n. 337/E del 29.10.2002 e la circolare A.d.E. n. 9/E del 9.3.2010 che riconoscono la disapplicabilità della norma qualora la società dimostri che, pur con perdite fiscali pregresse, ostative al superamento dei limiti di deducibilità imposti dall’art. 172, comunque non è una “bara fiscale”). Peraltro, la mancata attivazione della relativa procedura non implica la decadenza dalla possibilità di ottenere la disapplicazione della norma antielusiva perché la giurisprudenza ha pure chiarito che il contribuente che intende far valere l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione in ordine al mancato riconoscimento della possibilità di utilizzare perdite pregresse in un’operazione di fusione “ non è tenuto obbligatoriamente ad avanzare istanza di interpello disapplicativo … ma può far valere la medesima pretesa direttamente in sede giudiziale, con correlativo obbligo del giudice di pronunciarsi in merito ” (Cass. civ., n. 5953 del 2021, cit.). In conclusione, la Corte ha pronunciato il seguente principio di diritto: “ in tema di reddito imponibile delle società che partecipano a un’operazione di fusione, la disciplina contenuta nell’art. 172, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986, posta a tutela dal rischio di operazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi esclusivamente o prevalentemente elusivi, costituisce una regola circolare, che, mediante l’identificazione di criteri legali presuntivi ma specificamente predeterminati, assicura all’operatore economico la conoscenza degli effetti della fusione sotto il profilo fiscale ed è in ogni caso disapplicabile, mediante il ricorso all’interpello previsto dall’art. 11 della L. n. 212 del 2000, qualora sia dimostrato che la società partecipante all’operazione, pur con perdite fiscali incompatibili con la deducibilità dal reddito della società risultante dalla fusione, non è una ‘scatola vuota’ ”. Ed ha osservato che tale conclusione sulla “disciplina antielusiva non assoluta” apprestata dall’art. 172, comma 7, è del tutto compatibile con i principi eurounitari, in forza dei quali “uno Stato membro può rifiutare di applicare in tutto o in parte le disposizioni [sulle fusioni e scissioni societarie] o di revocarne il beneficio, qualora risulti che una delle operazioni ha come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali l’elusione o l’evasione fiscale; il fatto che l’operazione non sia effettuata per valide ragioni economiche, quali la ristrutturazione o la razionalizzazione delle attività delle società partecipanti all’operazione, può costituire la presunzione che quest’ultima abbia come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali l’elusione o l’evasione fiscali” (art. 15 della direttiva 19.10.2009, n. 2009/133/CE, già art. 11 della direttiva 23.7.1990, n. 90/434/CEE).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 12 gen, 2023
Cass. Civile, Sez. V, 19 dicembre 2022, n. 37065 A seguito della modifica dell’ art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 disposta con la l. n. 130 del 2022 , il processo tributario ammette la prova testimoniale solamente per i ricorsi notificati a decorrere dalla data di entrata in vigore della novella legislativa, ossia dal 16 settembre 2022. Ma tale limitazione probatoria sulle cause pregresse non ha impedito - e non impedisce - l’utilizzabilità in sede processuale delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale oppure prodotte dal contribuente. Nella vicenda qui segnalata, in cui era contestata l’inesistenza soggettiva di una serie di operazioni commerciali di vendita di autoveicoli, è stato sottolineato come le dichiarazioni di terzi , dalle quali risultava concordemente che il contribuente era l’unico vero dominus di ogni transazione, dovevano essere logicamente e giuridicamente apprezzate in un quadro fattuale unitario e coerente. La richiesta contestualizzazione in termini di precisione e gravità imponeva dunque di valutarle alla luce delle emergenze cartolari emerse, delle difese svolte in giudizio e della sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., che costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito posto che l’imputato-contribuente aveva ritenuto di non contestare il fatto e la sua responsabilità. Più in generale, con la sentenza n. 18 del 2000 la Corte costituzionale affermò che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria al di fuori e prima del processo hanno “ valore probatorio proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione ”. La Corte di cassazione precisò di seguito: - che le dichiarazioni di terzi inserite nel processo verbale di constatazione hanno natura non di testimonianza (anche quand’anche siano state rese in seno a un procedimento penale) ma di mere informazioni acquisite nell’ambito di indagini amministrative, sfornite, pertanto, ex se , di efficacia probatoria, con la conseguenza che esse risultano del tutto inidonee a fondare un’affermazione di responsabilità del contribuente in termine di imposta, “potendo soltanto fornire un ulteriore riscontro a quanto già accertato e provato aliunde in sede di procedimento tributario” (Cass. civ., sez. V, 11.3.2002, n. 3526); - e, soprattutto, che andava del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale con il medesimo valore probatorio, dando così concreta attuazione alla regola del giusto processo come riformulata nel nuovo testo dell’ art. 111 della Costituzione al fine di garantire i principi della parità delle armi processuali, di uguaglianza e di effettività del diritto di difesa (Cass. civ., sez. V, 25.3.2002, n. 4269; id., sez. V, 29.7.2005, n. 16032). È dunque ormai costante orientamento della Corte di legittimità quello secondo cui le dichiarazioni di terzi sono ammissibili e utilizzabili nel rapporto processuale tributario con valore di elemento indiziario , che può essere fatto valere dall’Amministrazione con inserimento nel processo verbale di constatazione delle dichiarazioni raccolte in sede di verifica, ma anche dal contribuente. E un indizio diviene piena prova, assurgendo così a presunzione semplice, quando si qualifica sotto il profilo della “gravità” (quale continuità logica tra il fatto noto e l’ignoto), della “precisione” (storica dei fatti noti) e, in caso di pluralità di fonti, della “concordanza” (Cass. civ., sez. V, 4.5.2022, n. 14173). In caso di prova raggiunta per presunzioni semplici , anche nel processo tributario valgono i criteri di cui all’ art. 2729 c.c. e, pertanto, affinché un indizio assurga a prova critica non è sufficiente che le dichiarazioni del terzo siano plurime e di contenuto analogo (ossia che siano “concordanti”), ma è necessario anche analizzare la “precisione” e “gravità” dell’indizio. Occorre, in definitiva, “u n approfondimento da parte del giudice circa la precisione del fatto storico noto, desunta dalla sua contestualizzazione anche con riferimento agli ulteriori elementi di prova raccolti nel processo, nonché riguardo alla sua gravità riconnessa alla probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola di esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto ”. In altri termini, per raggiugere la prova presuntiva non basta che vi siano numerose dichiarazioni rese da terzi e tra loro concordanti, ma occorre anche che tali dichiarazioni rivestano i caratteri della precisione e gravità , ad esempio compiendo un accertamento in fatto circa l’attendibilità dei dichiaranti, la credibilità delle dichiarazioni rese, lo iato cronologico tra fatto storico e momento delle dichiarazioni, l’interesse del singolo dichiarante favorevole, contrario o neutro al contenuto della dichiarazione. E questa valutazione del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., sez. 5, 4.11.2021, n. 31588). Vale anche precisare che le dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente si presentano, spesso, sotto forma di “dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà” o di “autocertificazione”. Ebbene, a tale riguardo si afferma concordemente che tali atti hanno attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative e che sono privi di efficacia in sede giurisdizionale dove, tuttavia, “ non sono in toto inutilizzabili ai fini probatori poiché ad essi può attribuirsi un valore indiziario che, seppur insufficiente a porli da soli a fondamento della decisione, può corroborare ulteriori elementi istruttori ”. Pertanto, anch’essi presentano il valore probatorio proprio degli elementi indiziari che devono essere valutati dal Giudice nel contesto probatorio emergente dal complesso degli atti (Cass. civ., sez. V, 15.6.2021, n. 16812; id., sez. VI, 19.10.2015, n. 21153). Più di recente, è stato poi precisato che le dichiarazioni di terzi costituiscono elemento indiziario a favore dell’Amministrazione anche quando non siano state trascritte nel processo verbale di constatazione ma riportate solamente nell’ avviso di accertamento , che è il provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di applicazione dell’imposta. Anche in tal caso, dunque, “ le dichiarazioni di terzi rilevano come fonti di conoscenza, come fatti o indizi, che spetta al giudice di merito valutare insieme con gli altri elementi presuntivi che completano il quadro probatorio a sostegno della pretesa tributaria, al fine di decidere se l’Ufficio abbia soddisfatto l’onere della prova a suo carico, con conseguente trasferimento al contribuente dell’onere della prova contraria ” (Cass. civ., sez. V, 28.10.2022, n. 32024).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 11 dic, 2022
Cassazione Civile, Sez. VI, 21 novembre 2022, n. 34151 Le detrazioni d’imposta per gli interventi di riqualificazione energetica sugli edifici esistenti sono state introdotte dalla L. n. 296 del 2006, all’art. 1, commi 344 e ss. , che rinviano - quanto alle modalità per conseguirle - all’art. 1 della L. n. 449 del 1997 sulle detrazioni d’imposta per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio. Le disposizioni attuative sono contenute nel d.m. 19 febbraio 2007 . L’art. 1 declina gli interventi di riqualificazione energetica nelle seguenti tipologie: - interventi sull’involucro di edifici esistenti riguardanti strutture opache verticali, finestre comprensive di infissi, delimitanti il volume riscaldato, verso l’esterno e verso vani non riscaldati; - interventi di installazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda per usi domestici o industriali e per la copertura del fabbisogno di acqua calda in piscine, strutture sportive, case di ricovero e cura, istituti scolastici e università; - interventi di sostituzione, integrale o parziale, di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione e contestuale messa a punto del sistema di distribuzione, nonché di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di pompe di calore ad alta efficienza e con impianti geotermici. Il successivo art. 4 prevede che i soggetti che intendono avvalersi della detrazione relativa alle spese per i suddetti interventi sono tenuti a: a) acquisire l’asseverazione di un tecnico abilitato che attesti la rispondenza dell’intervento ai pertinenti requisiti prescritti nello stesso decreto; b) trasmettere all’ENEA, entro novanta giorni dalla fine dei lavori, attraverso il sito internet e ottenendo la ricevuta informatica, i dati contenuti nell’attestato di certificazione energetica, ovvero nell’attestato di qualificazione energetica, prodotto da un tecnico abilitato e la scheda informativa compilata secondo lo schema allegato al medesimo decreto. La giurisprudenza di merito si è occupata sovente delle conseguenze sul beneficio fiscale conseguito in caso di successivi controlli e di accertamento dell’omessa comunicazione all’ENEA . Ebbene, sulla questione è intervenuta la Corte di legittimità, la quale ha affermato che la disciplina riportata “ afferma chiaramente che l’omessa comunicazione preventiva all’ENEA entro il termine indicato costituisce una causa ostativa alla concessione delle agevolazioni relative agli interventi di riqualificazione energetica. È evidente che la norma si pone un obiettivo di controllo sulla effettiva spettanza dell’agevolazione, in modo da impedire eventuali frodi e attribuire all’organo deputato allo svolgimento di tali controlli un termine congruo per l’adempimento di tale funzione, diretta a verificare se effettivamente i lavori, in quanto diretti effettivamente a salvaguardare l’ambiente risparmiando energia o producendola in maniera ‘pulita’, risultino meritevoli di vantaggi fiscali, astrattamente in deroga al principio di capacità contributiva e potenzialmente in contrasto con il principio di equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio dello Stato, ma in realtà conformi al principio in base secondo il quale occorre trattare in maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali, ove la ‘diseguaglianza’ sta nel riconoscimento, da parte dell’ENEA, della particolare meritevolezza dei lavori, in quanto diretti a produrre, direttamente o indirettamente, effetti benefici per l’ambiente. La norma costituisce dunque un ragionevole bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica privata (che verrebbe seriamente ostacolata qualora il margine temporale con il quale va comunicato in anticipo la comunicazione all’ENEA fosse eccessivo), la tutela dell’ambiente e la tutela delle entrate fiscali dello Stato ”. La pronuncia ha anche soggiunto che tale soluzione è conforme ai più ampi ragionamenti già svolti dalla Corte in materia di agevolazioni fiscali. Ha così ricordato i principi più volte affermati: - sulle norme che introducono agevolazioni o esenzioni che, in quanto eccezionali, sono soggette al criterio di stretta interpretazione ; - sull’ onere del contribuente di dimostrare la sussistenza dei costi integralmente deducibili quale fatto costitutivo del diritto alla deduzione; - sull’ illecito disciplinare del notaio che omette di inviare alla Regione copia degli atti di vendita per i quali non è stato esibito l’attestato di prestazione energetica; - sul fatto che se un termine decadenziale non è espressamente indicato dalla legge nella sua scadenza (la normativa in esame, difatti, non stabilisce testualmente le conseguenze dell’omesso invio della comunicazione all’ENEA entro il termine di legge) non è corretto sostenere, come conseguenza, che alcun effetto consegua in caso di mancato o tardivo invio di quella comunicazione; per cui tale omissione “ non significa che la stessa scadenza non possa e debba essere individuata prima che inizi l’attività di controllo da parte dell’Ente impositore ”. Ne deriva che la normativa in esame deve essere letta nel senso che l’omessa comunicazione preventiva all’ENEA costituisce una causa ostativa alla concessione delle agevolazioni relative agli interventi di riqualificazione energetica. In tal modo essa è coerente con i principi sopra elencati e conforme alla Costituzione perché “incoraggia uno sviluppo sostenibile diretto al risparmio energetico e alla produzione di energie pulite”. Trattandosi di un’agevolazione fiscale e di un onere posto in capo al contribuente per ottenere il vantaggio fiscale, “l’assolvimento di detto onere costituisce adempimento inderogabile per ottenere l’agevolazione stessa in ragione del doveroso onere del contribuente di osservare una diligenza media , adeguata al compimento della richiesta in questione, mentre il riconoscimento dell’agevolazione oltre i confini tracciati dalle norme costituirebbe una illegittima deroga ai principi di certezza giuridica e di capacità contributiva in quanto le norme che prevedono agevolazioni fiscali sono di stretta interpretazione”. Neppure può dirsi che si tratta di un onere complesso, in quanto “ nel quadro delle politiche energetiche nazionali nella direzione di uno sviluppo sostenibile diretto al risparmio energetico e alla produzione di energie pulite, si tratta non di un inutile onere burocratico contrario al principio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., comma 1, ma di un adempimento non particolarmente oneroso e ragionevolmente esigibile in relazione al dovere di attenersi a uno standard di normale diligenza, indispensabile per consentire all’organo competente di svolgere eventualmente i controlli che ritenga necessari in merito alla meritevolezza dei lavori in relazione ai limiti previsti dall’art. 41 Cost., comma 2, e quindi in relazione da un lato ai vantaggi ambientali per la collettività con essi conseguiti e dall’altro ai vantaggi fiscali per il contribuente che la legge ritiene di dover far conseguire a seguito dei predetti vantaggi ambientali ”. A tanto giova qui aggiungere che il Legislatore, con il comma 1 dell’art. 2 del d.l. n. 16 del 2012 (denominato decreto in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento fiscali), ha previsto una particolare forma di ravvedimento operoso per l’omissione di comunicazioni e adempimenti indispensabili per fruire di benefici fiscali (c.d. “remissio in bonis”). L’istituto è volto a evitare che dimenticanze relative a comunicazioni ovvero, in generale, ad adempimenti formali non eseguiti tempestivamente precludano al contribuente, in possesso dei requisiti sostanziali richiesti dalla norma, la possibilità di fruire di benefici fiscali o di regimi opzionali. Ai sensi del citato comma 1, infatti, “ la fruizione di benefici di natura fiscale o l’accesso a regimi fiscali opzionali, subordinati all’obbligo di preventiva comunicazione ovvero ad altro adempimento di natura formale non tempestivamente eseguiti, non è preclusa, sempre che la violazione non sia stata constatata o non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore dell’inadempimento abbia avuto formale conoscenza, laddove il contribuente: - a) abbia i requisiti sostanziali richiesti dalle norme di riferimento; - b) effettui la comunicazione ovvero esegua l’adempimento richiesto entro il termine di presentazione della prima dichiarazione utile; - c) versi contestualmente l’importo pari alla misura minima della sanzione stabilita dall’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, secondo le modalità stabilite dall’art. 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, esclusa la compensazione ivi prevista ”. La ratio delle disposizioni riportate è dunque la rimessione nei termini, l’attribuzione di rilevanza al comportamento del contribuente che spontaneamente pone rimedio a errori di natura formale, con unico e fermo limite alla possibilità di sanare i predetti errori individuato nell’avvenuta constatazione della violazione o nell’inizio delle attività istruttorie di accertamento. Tanto emerge inequivocabilmente dal testo normativo: la remissio in bonis è vietata quando “la violazione è stata constatata o sono iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l’autore dell’inadempimento abbia avuto formale conoscenza”. Cosicché la possibilità di conseguire, di “fruire” dei correlati benefici di natura fiscale rimane “preclusa”. Queste disposizioni trovano applicazione per regolarizzare le omissioni che si sono verificate in data successiva al 2 marzo 2012, ossia alla data di entrata in vigore del decreto legge, nonché per quelle realizzate antecedentemente ma in un periodo d’imposta in relazione al quale il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi non era scaduto alla predetta data di entrata in vigore del d.l. n. 16 del 2012.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 14 nov, 2022
Cassazione Civile, Sez. Unite, 31 ottobre 2022, n. 32061 Nel giudizio tributario la regolazione delle spese di lite è disciplinata dall’ art. 15 del d.lgs. n. 546 del 1992 il quale, a seguito della modificazione disposta col d.lgs. n. 156 del 2015, presenta una disciplina sulla compensazione delle spese di giudizio autonoma rispetto al codice di procedura civile stabilendo, infatti, e in termini generali, che “ La parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza. Le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte … soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate ” (commi 1 e 2). Nondimeno, il concetto di “ soccombenza reciproca ” è presente anche nel comma 2 dell’art. 92 c.p.c. ove è prescritto che “Se vi è soccombenza reciproca … il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. Sulla nozione di “soccombenza reciproca” è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza qui segnalata perché di comune interesse, sentenza che risolve un contrasto giurisprudenziale del quale dà ampiamente nota e spiegazioni. L’ordinanza rimettente aveva sollevato il seguente quesito: “ se sia corretta e costituzionalmente orientata l’interpretazione dell’art. 92 c.p.c. secondo cui, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di un’aliquota delle spese di lite in favore della controparte ”. Ebbene, le Sezioni Unite hanno anzitutto ricordato che la Corte costituzionale ha affermato che “l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice nel singolo processo, quando ricorrono giusti motivi, sia per previsione di legge” (sentenza n. 77 del 2018). E che dottrina ha individuato la ratio del principio di soccombenza applicato alla liquidazione delle spese di lite nell’esigenza di evitare che il processo vada a detrimento di chi ha ragione, e quindi di assicurare alla parte vittoriosa la restituzione di un diritto pienamente integro anche sotto il profilo economico. Ma che la stessa dottrina ha anche segnalato l’esistenza di una serie di ipotesi in cui l’applicazione del medesimo principio non può trovare una ragionevole giustificazione. In tal senso, è stata evidenziata la natura indennitaria della condanna alle spese , non riconducibile a una condotta illecita della parte a carico della quale viene pronunciata ma al dato obiettivo della soccombenza, e quindi svincolata dalla valutazione dell’elemento soggettivo che può dar luogo alle conseguenze risarcitorie previste dall’ art. 96 c.p.c.. E non è stata trascurata l’osservazione che il principio di soccombenza non può trovare applicazione nei casi in cui il ricorso al giudice è inevitabile per la parte che intenda ottenere determinati effetti. Ed è proprio l’esistenza di siffatte ipotesi che hanno condotto a individuare il fondamento della condanna alle spese nel principio di causalità , in virtù del quale i costi del processo devono essere fatti gravare, in definitiva, sulla parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece vi ha dato causa. La regola generale esige dunque che a sopportare le spese del processo sia colui che “risulta vinto nella lotta giudiziale”: e tale è anche la parte che, pur avendo agito o resistito in giudizio con argomentazioni ritenute parzialmente fondate dal giudice, abbia visto accogliere, sia pure in misura ridotta, quelle della controparte. Argomentazioni che devono però tradursi in più domande, o in una domanda articolata, perché l’aggettivo “reciproca” evoca una pluralità di azioni rivolte in direzione opposta tra i medesimi soggetti. Preferibile è dunque “ la tesi che circoscrive la fattispecie della soccombenza reciproca all’ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ritenendola configurabile anche in presenza di un’unica domanda articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni siano stati accolti, ed escludendola invece nel caso in cui sia stata proposta una domanda articolata in un unico capo, il cui accoglimento, anche in misura sensibilmente ridotta, non consente la condanna della parte risultata comunque vittoriosa al pagamento delle spese processuali, potendone giustificare, al più, la compensazione totale o parziale. Tale orientamento, oltre a essere maggiormente conforme alla disciplina dettata dal codice di rito orientata in senso favorevole alla limitazione della discrezionalità spettante al giudice in materia di regolamentazione delle spese processuali, prospetta una regola di facile e pronta applicazione, idonea a garantire il pieno dispiegamento del diritto alla tutela giurisdizionale, evitando, nel contempo, incertezze operative foriere d’impugnazioni limitate alle spese, in linea con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111 Costituzione, comma 2, che impone di preferire, per quanto possibile, soluzioni mirate al contenimento delle fasi e dei tempi del giudizio ”. Conclusivamente, la Corte ha pertanto formulato il seguente principio di diritto: “in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92 c.p.c., comma 2”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 27 ott, 2022
Corte costituzionale, 13 ottobre 2022, n. 209 Sulla questione dell’esenzione IMU per i nuclei familiari i cui coniugi abbiano stabilito la residenza in due distinti immobili , sia nello stesso comune che in comuni diversi, la Corte di Cassazione aveva raggiunto una posizione univoca: dato il principio che l’interpretazione delle norme di agevolazione fiscale deve essere necessariamente rigorosa, e chiarito che non si dovevano confondere i concetti di “dimora abituale” e di “abitazione principale” - in quanto questa seconda nozione sottintende una preponderanza della destinazione rispetto ad altre, pur possibili, soluzioni abitative, alla luce della regola di esperienza per cui per ogni nucleo familiare non può esservi che una sola abitazione principale -, aveva affermato che quando i coniugi stabilivano la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi, l’aliquota e la detrazione per l’abitazione principale e per le relative pertinenze dovevano essere uniche per nucleo familiare , indipendentemente dalla dimora abituale e dalla residenza anagrafica dei rispettivi componenti, perché solo uno degli immobili può beneficiare delle agevolazioni per l’abitazione principale (da ultimo, Cassazione Civile, sez. V, 17 gennaio 2022, n. 1199 , già commentata in questa sezione). Ma con la sentenza qui segnalata la Corte costituzionale ha osservato che siffatta “ interpretazione produce l’effetto che sino a che non avviene la costituzione del nucleo familiare ciascun possessore di un immobile che vi risiede anagraficamente e vi dimori abitualmente può fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto: i due partner in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, perché ciascuno di questi potrà considerare il rispettivo immobile come abitazione familiare ”. E che la “scelta di accettare che il proprio rapporto affettivo sia regolato dalla disciplina legale del matrimonio o dell’unione civile” determina “l’effetto di precludere la possibilità di mantenere la doppia esenzione anche quando effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti”. Ebbene, la Corte ha affermato che “ nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile ”. L’articolata pronuncia ha anzitutto considerato che tale agevolazione fiscale, esentando le abitazioni principali dei residenti dalla più importante imposta municipale, determina un effetto poco lineare rispetto ai principi che giustificano l’autonomia fiscale locale, in quanto gran parte dei residenti di un comune è esentata dall’imposta e questa finisce per risultare a carico di chi non vota nel comune che la stabilisce. Essa pertanto è un’agevolazione riconducibile a una scelta rimessa alla mera discrezionalità del legislatore e richiede perciò “ un sindacato particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio ”. E' stato poi ricostruito il complesso quadro normativo, rilevando che il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina IMU (art. 8 del d.lgs. n. 23 del 2011 e art. 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011) e che è stato introdotto, ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione, con l’ art. 4, comma 5, lettera a), del d.l. n. 16 del 2012 (il quale ha così integrato l’ art. 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 : “ per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile ”). Tale disciplina è stata poi confermata dalla l. n. 147 del 2013 (che ha reintrodotto la completa esenzione dell’abitazione principale per tutte le categorie catastali abitative tranne per quelle classificate nelle categorie A/1, A/8 e A/9) e ribadita col comma 741, lettera b), dell’art. 1 della l. n. 160 del 2019 (cosiddetta “nuova IMU” sostanzialmente comprensiva anche del tributo sui servizi indivisibili - TASI). Da ultimo, con l’art. 5 decies, comma 1, del d.l. n. 146 del 2021 è stato integrato l’art. 1, comma 741, lettera b), della l. n. 160 del 2019 prevedendo che “ nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare ”. In definitiva, la Corte delle leggi ha rilevato che vi è stato un passaggio da una situazione oggettiva (la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile prescindendo dal suo status (singolo, coniugato, convivente) al rilievo dato a un elemento soggettivo (la relazione del possessore dell’immobile con il suo nucleo familiare). E che l’introduzione di questo elemento soggettivo si è risolta in “ una radicale penalizzazione dei possessori di immobili che hanno costituito un nucleo familiare, i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con la originaria formulazione prevista nel d.lgs. n. 23 del 2011 ”. E nell’attuale contesto sociale¸ caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile che concordano di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente e rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale. In tali casi, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e la dimora abituale in un determinato immobile determina un’evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore. Ne deriva che tale discriminazione è costituzionalmente illegittima perché in contrasto con: - l’art. 3 Cost., perché se la logica dell’esenzione dall’IMU è quella di riferire il beneficio fiscale all’abitazione in cui il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la dimora abituale, deve risultare irrilevante il suo essere coniugato, separato o divorziato, componente di una unione civile, convivente o singolo; per cui la disciplina di situazioni omogenee in modo ingiustificatamente diverso contrasta con il principio di eguaglianza nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale; - l’art. 31 Cost., perché ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione IMU (o alla doppia esenzione) solo in caso di frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi e conseguente disgregazione del nucleo familiare; - l’art. 53 Cost., perché l’IMU è un’imposta reale (che ha come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili) e non personale, per cui è irrilevante la relazione del soggetto con il suo nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente . Da ciò la dichiarazione di illegittimità costituzionale del quarto periodo del comma 2 dell’art. 13 del d.l. n. 201 del 2011, nella parte in cui stabilisce che “ per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente ”, anziché disporre che “ per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente ”. E, in via consequenziale, delle seguenti ulteriori disposizioni: - il quinto periodo del medesimo comma 2 dell’art. 13 ove si stabilisce che “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”; - il primo periodo della lettera b) del comma 741, dell’art. 1 della l. n. 160 del 2019 dove, per la cosiddetta nuova IMU, è stata ripetuta la precedente disciplina; - il secondo periodo della lettera b) del medesimo comma 742 dell’art. 1, anche come successivamente modificato dall’art. 5 decies, comma 1, del d.l. n. 146 del 2021. Infatti, queste ultime disposizioni, consentendo ai contribuenti la scelta sull’individuazione dell’unico immobile da esentare, disancorano, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica. È però alquanto significativa la chiusa della sentenza in esame: “ le dichiarazioni di illegittimità costituzionale pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli artt. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione IMU con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette «seconde case» delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta ”. Difatti, la sentenza ha preso atto che la costruzione del diritto vivente dichiarato incostituzionale era sorta con intenti antielusivi stante il notorio “rischio che le cosiddette seconde case vengano iscritte come abitazioni principali”. Obiettato che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, la Corte ha evidenziato che “i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 10, lettera c), punto 2, del d.lgs. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale”. Comuni che sono pertanto chiamati e responsabilizzati a effettuare i controlli in termini efficaci.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 set, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 15 settembre 2022, n. 27158 Tra i poteri degli Uffici fiscali in sede di accertamento tributario vi è la possibilità di richiedere atti e documenti, anche tramite questionari, ai sensi dell’ art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte dirette e ai sensi dell’ art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA. A tali fini, l’Amministrazione deve notificare la richiesta di documenti e fissare un termine per l’adempimento, termine che non può essere inferiore a quindici giorni (a trenta giorni nel caso di attività finanziarie e creditizie). E, soprattutto, vige la regola che “ le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’Ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’Ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta ”. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che l’ invito a fornire dati e documenti assolve alla “funzione di assicurare - in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria - un dialogo preventivo tra Fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa. Tale inutilizzabilità consegue automaticamente all’inottemperanza all’invito, non è soggetta alla eccezione di parte e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio” (sez. VI, 1.10.2020, n. 20954). Ma ha anche soggiunto che la disciplina in esame deve essere “ interpretata in modo restrittivo ” e che ciò comporta che siano inutilizzabili in sede amministrativa e processuale solamente i documenti “ espressamente richiesti dall’Ufficio ”, in quanto “ la norma deve essere interpretata in coerenza con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione e con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione ” (sez. V, 21.4.2021, n. 10507). Da ultimo, ha ulteriormente precisato che “a fronte di un invito a consegnare documentazione privo dei requisiti di specificità, non sussiste un onere in capo al contribuente di chiedere chiarimenti in ordine a quali documenti siano richiesti: è invero il richiedente Ufficio che prende l’iniziativa a dover rendere la stessa adeguatamente precisa e chiara da poter essere adempiuta agevolmente dal contribuente rispettoso dei propri doveri, senza che sia legittimo né ragionevole addossare a quest’ultimo l’onere di integrarne il contenuto con proprie iniziative essendo interesse dell’Ufficio, non del contribuente che già ne conosce ovviamente il contenuto, esaminare i documenti oggetto della richiesta” (sez. VI, 6.9.2022, n. 26245). Gli Uffici fiscali possono richiedere documenti anche nel corso attività di accessi, ispezioni o verifiche disposte ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte dirette e ai sensi dell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA. In questi casi, “ i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione ”. Per questa fattispecie la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che essa “trova applicazione ai soli casi di ispezione , con ciò intendendo l’attività di esame e controllo svolta dai verificatori in sede di accesso presso il contribuente o in luoghi a questi collegati, e non nei casi in cui i documenti sono richiesti con l’invio di apposita comunicazione o questionario ma senza introduzione e stazionamento per quanto necessario di personale dell’Amministrazione presso il soggetto sottoposto a controllo”, e che essa, principalmente, “prevede chiaramente come elemento essenziale della condotta che origina la preclusione quello della intenzionalità di non consentire l’esame della documentazione” (sez. V, 14.6.2021, n. 16757). Ebbene, è necessario che in entrambe le ipotesi l’Amministrazione indichi esattamente quanto richiede e che avverta espressamente delle conseguenze in caso di inottemperanza. Tuttavia le due ipotesi – come ha bene evidenziato la sentenza segnalata – divergono per le relative preclusioni: - nel primo caso , il mancato invio della documentazione puntualmente richiesta nel termine indicato equivale a rifiuto , con conseguente inutilizzabilità della stessa in sede amministrativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all’atto della sua produzione con il ricorso, che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova il contribuente è onerato; - nel secondo caso , invece, la mancata esibizione di quanto richiesto ne preclude la valutazione a favore del contribuente solo ove si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile quella documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull’Amministrazione . Su questo punto era già stato precisato che “ la dichiarazione del contribuente di non possedere libri, registri, scritture e documenti, specificamente richiestigli dall’Amministrazione finanziaria nel corso di un accesso, preclude la valutazione degli stessi in suo favore in sede amministrativa o contenziosa e rende legittimo l’accertamento induttivo solo ove sia non veritiera, cosciente, volontaria e dolosa, così integrando un sostanziale rifiuto di esibizione diretto a impedire l’ispezione documentale”, e ciò perché le citate disposizioni hanno carattere eccezionale e devono essere interpretate alla luce degli artt. 24 e 53 della Costituzione in modo da non comprimere il diritto alla difesa, sicché, per esempio, “non può reputarsi sufficiente, ai fini della suddetta preclusione, il mancato possesso imputabile a negligenza o imperizia nella custodia e conservazione della documentazione contabile ” (sez. V, 1.8.2019, n. 20731). Ne è disceso che in un caso di verifica presso la sede del contribuente ove erano stati prodotti solo alcuni documenti contabili mente altri erano stati consegnati in seguito, aveva sbagliato la Commissione Tributaria Regionale, applicando l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 anziché l’art. 33 dello stesso testo normativo, a ritenere operante il principio di inutilizzabilità degli altri documenti, perché in tal modo era stato erroneamente “valorizzato il dato oggettivo della mancata produzione trascurando di vagliare l’aspetto intenzionale …senza indagare il profilo soggettivo, volontaristico e doloso del contribuente alla base della mancata produzione documentale”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 10 set, 2022
Cassazione Civile, Sez. Unite, 6 settembre 2022, n. 26283 Con l’ art. 3 bis del d.l. n. 146 del 2021 , inserito in sede di conversione dalla l. n. 215 del 2021, è stato introdotto il comma 4 bis nell’ art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973 per prescrivere che « l’estratto di ruolo non è impugnabile » e che « il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, … oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici, … o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione ». La puntuale distinzione fra ruolo ed estratto di ruolo era stata oggetto della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 19704 del 2015, la quale aveva precisato: - che il ruolo, come stabilito dall’art. 10, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 602 del 1973, è l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’Ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario; è un atto amministrativo impositivo tipico che viene consegnato al concessionario, il quale redige la cartella di pagamento contenente l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo (art. 25, comma 2, del d.P.R. n. 602 del 1973) e provvede alla relativa notificazione; è un atto che deve essere notificato e la sua notificazione coincide con la notificazione della cartella di pagamento (art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992); è un atto impugnabile (art. 19, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 546 del 1992; - che l’estratto di ruolo è un documento non previsto da alcuna disposizione di legge, è un elaborato informatico formato dall’esattore e consegnato al contribuente, a seguito di specifica richiesta, che riporta l’elenco delle cartelle ma che non contiene alcuna pretesa impositiva, diretta o indiretta; di conseguenza, è un documento non impugnabile per mancanza di interesse. Nondimeno, dopo l’affermazione, in linea generale, della non sussistenza di interesse a impugnare un estratto di ruolo in quanto tale, la Corte di legittimità ha soggiunto che può sussistere un “interesse a impugnare il contenuto dell’estratto di ruolo, ossia gli atti che in esso sono indicati e riportati” invalidamente notificati o non notificati e dei quali il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo e non attraverso una valida notifica. Di conseguenza, la Corte espresse il seguente principio di diritto: “ è ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione ”. Da ciò, quella che è stata definita la “proliferazione” di contestazioni dei crediti riportati in estratti di ruolo per “far valere, spesso pretestuosamente, ogni sorta d’eccezione avverso cartelle notificate anche molti anni prima, senza che l’agente della riscossione si fosse attivato in alcun modo per il recupero delle pretese ad esse sottese, e perfino nei casi in cui avesse rinunciato anche all’esercizio della tutela” (relazione della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria del 30 giugno 2021). Tanto ha giustificato l'intervento del Legislatore del 2021 sopra riportato, che ha così codificato la non impugnabilità dell’estratto di ruolo, stabilendo che il ruolo e la cartella di pagamento invalidamente notificata è impugnabile solo in poche, nominate e tassative ipotesi. Tale disposizione normativa è stata immediatamente criticata dalla dottrina e contestata da difensori dei contribuenti, assumendo che sottrarrebbe diritti e garanzie di difesa . La questione è giunta in tempi rapidi all’esame delle Sezioni Unite della Corte di cassazione che, con la sentenza in commento, ha affermato: 1. che la prima disposizione di cui al primo periodo del sopra riportato comma 4 bis “ è ricognitiva della natura dell’estratto di ruolo, mero elaborato informatico contenente gli elementi della cartella, ossia gli elementi del ruolo afferente a quella cartella, che non contiene pretesa impositiva alcuna ”; 2. che la seconda disposizione di cui al secondo periodo, che “ha suscitato accesi fermenti”, non è una norma d’interpretazione autentica (come era stato da taluni sostenuto) né è “una norma retroattiva, perché non disconosce le conseguenze già realizzate del fatto compiuto, né ne impedisce le conseguenze future per una ragione relativa a questo fatto soltanto: essa non incide sul novero degli atti impugnabili e, specificamente, non ne esclude il ruolo e la cartella di pagamento; né introduce motivi d’impugnazione o foggia quelli che già potevano essere proposti”; 3. in tal senso, con la seconda disposizione il legislatore ha innanzitutto regolato “specifici casi tassativi e non esemplificativi di azione diretta” stabilendo “quando l’invalida notificazione della cartella ingeneri di per sé bisogno di tutela giurisdizionale”, trattandosi di una “ selezione dei pregiudizi operata dal legislatore che è espressione di discrezionalità non irragionevole, in quanto identifica una coerente serie di rapporti con la pubblica amministrazione”; 4. nei suoi contenuti generali la seconda disposizione incide “sull’ interesse ad agire ”, che è “condizione dell’azione che ha natura dinamica” e che “può e deve essere valutato anche nei giudizi in corso”; ne consegue che “la disciplina sopravvenuta si applica ai processi pendenti perché incide sulla pronuncia della sentenza (o dell’ordinanza) che è ancora da compiere”; 5. a tali fini, occorre tener conto che “il principio della tutela immediata affermato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite del 2015 è superato” perché in seguito è stato affermato che “il pignoramento che costituisca il primo atto col quale si esprime la volontà di procedere alla riscossione di un credito, in mancanza di precedenti atti ritualmente notificati, suscita l’interesse ad agire e va impugnato davanti al giudice tributario” (Cassazione, Sezioni Unite n. 13913 e n. 13916 del 2017), e che “nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notificazione della cartella o all’intimazione di pagamento, sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c.” (Corte costituzionale n. 114 del 2018); 6. per cui, anche “a fronte dell’invalida o dell’omessa notificazione della cartella o dell’intimazione di pagamento, c’è sempre un giudice chiamato a pronunciarsi sulle doglianze del contribuente, che impugni l’atto successivo, anche se esecutivo, o alternativo all’esecuzione, perché volto a indurre il debitore all’adempimento”; 7. e, in definitiva, occorre considerare che “nei casi in cui si contestino il ruolo e/o la cartella o l’intimazione di pagamento non notificate o invalidamente notificate, conosciute perché risultanti dall’estratto di ruolo, l’esercizio della pretesa tributaria non emerge da alcun atto giuridicamente efficace”, per cui la relativa azione è da qualificarsi di “ accertamento negativo ” e dunque “ improponibile nel giudizio tributario in considerazione della sua struttura impugnatoria ”. In conclusione, la Corte ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale della norma, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 104, 113, 117 Cost., quest’ultimo con riguardo all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 della Convenzione, ed ha formulato il seguente principio di diritto: “ in tema di riscossione a mezzo ruolo, l’art. 3 bis del d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, inserito in sede di conversione dalla l. 17 dicembre 2021, n. 215, col quale, novellando l’art. 12 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, è stato inserito il comma 4 bis, si applica ai processi pendenti, poiché specifica, concretizzandolo, l’interesse alla tutela immediata a fronte del ruolo e della cartella non notificata o invalidamente notificata ”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 21 lug, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 4 luglio 2022, n. 21065 La cartella di pagamento è un titolo esecutivo in forza del quale è possibile per l’Amministrazione finanziaria procedere, trascorsi sessanta giorni, all’espropriazione forzata, ossia a dare attuazione al credito tributario con una procedura speciale sostitutiva dell’adempimento del contribuente. Ma se trascorre un anno, prima di dare l’avvio all’espropriazione forzata, l’Amministrazione deve notificare un avviso di mora contenente la “intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni”, un atto formale redatto in conformità a un modello approvato con decreto del Ministero delle finanze. Ebbene, un’intimazione di pagamento è stata impugnata lamentando che l’atto non conteneva elementi essenziali quali un’idonea motivazione, l’indicazione dei termini e dell’autorità dinnanzi alla quale ricorrere, il tasso e il metodo di calcolo degli aggi e degli interessi. E il giudice tributario di merito, sia di primo che di secondo grado, ha condiviso la posizione della parte privata, affermando che il contenuto dell’atto notificato non consentiva di comprendere le ragioni della richiesta del pagamento. Ma la Corte di Cassazione, con la sentenza qui segnalata, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione facendo applicazione dell’ art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990 . Sul punto, la Cassazione ha affermato: - che l’intimazione di pagamento è normativamente prevista dai commi 2 e 3 dell’art. 50 del d.P.R. n. 602 del 1973 e che dal contenuto delle relative disposizioni si evince che trattasi di “ un atto vincolato in quanto redatto in relazione a un modello ministeriale e avente come contenuto l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni ”; - che “è esaustivo il solo riferimento alla cartella di pagamento in precedenza notificata”, contenuto capace di “rendere edotto l’interessato delle ragioni dell’emissione dell’intimazione”, idoneo “a conoscere la pretesa tributaria nell’an e nel quantum” e in grado “di garantire la difesa del contribuente e la sua effettiva possibilità di contestazione”; - che “ lo scopo dell’intimazione è rendere edotto il contribuente che per effetto della mancanza di pagamento della cartella già notificata inizia l’esecuzione coattiva, assolvendo nel caso la funzione equivalente a quella del precetto, sicché il suo contenuto, in relazione alle finalità sue proprie, può dirsi esaustivo ove non solo si dia atto del mancato pagamento del debito tributario ma anche contenga l’intimazione al contribuente di effettuare il versamento dovuto entro un termine ristretto, con l’avvertenza che in mancanza si procederà a esecuzione forzata ”; - che è erroneo “pretendere ulteriori contenuti, peraltro già noti al contribuente proprio in virtù della precedente cartella notificata”, e da ciò deriva che “l’intimazione di pagamento non necessita di particolare motivazione oltre all’indicazione della cartella non pagata e precedentemente notificata, né va allegata la cartella precedentemente notificata, essendo sufficiente indicare gli estremi della stessa, come desumibile dal modello ministeriale”; - che, di conseguenza, l’intimazione di pagamento “non è annullabile a causa della insufficienza della motivazione”, ai sensi dell’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, che è “norma applicabile a tutti i provvedimenti amministrativi tra cui quelli tributari, in quanto per la natura vincolata del provvedimento, è palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. La sentenza si segnala perché sia in giurisprudenza che in dottrina non è (ancora) del tutto pacifica l’applicazione dei principi dettati dal comma 2 dall’art. 21 octies al diritto tributario, e ciò per la specialità dello stesso (sebbene l’art. 13 della legge sul procedimento amministrativo non abbia incluso l’art. 21 octies tra le disposizioni che non si applicano ai procedimenti tributari), e perché l’ art. 7 della l. n. 212 del 2000 sulla motivazione dell’atto tributario non menziona testualmente la presupposta istruttoria ma dispone che devono essere indicati “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche” che hanno determinato la decisione. Ed anche perché si considera che la violazione di alcune norme tributarie (anche di natura procedimentale, per esempio l’inosservanza del termine dilatorio previsto dal comma 7 dell’art. 12 della l. n. 212 del 2002 in caso di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio dell’attività del contribuente) è sanzionata con la nullità , il che esclude l’ammissibilità della prova di resistenza. In concreto, per gli avvisi di accertamento, o di rettifica, la Suprema Corte afferma che, se è vero che non sono frutto dell’esercizio di discrezionalità amministrativa, essi sono tuttavia emessi nell’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica tanto che, se possono essere vincolati nell’ an , non necessariamente sono emessi con contenuto dispositivo prestabilito ex lege , perché presentano margini di valutazione tecnica nella rilevazione, come pure nell’accertamento, del fatto presupposto cui la legge ricollega l’esigenza di provvedere, e perché condizionano in modo variabile il loro contenuto dispositivo in relazione alle diverse caratteristiche e qualificazioni giuridiche del fatto presupposto come in concreto rilevato (Cass. Civ., sez. V, 14.2.2019, n. 4388; id., sez. V, 11.11.2015, n. 23050). All’opposto, la figura dell’ atto vincolato ricorre se la scelta della sua emanazione e il suo contenuto sono prestabiliti da una norma, o da un altro provvedimento sovraordinato, sicché all’Amministrazione non residua alcuna facoltà di scelta tra determinazioni diverse. Sono tipici atti vincolati gli atti conseguenziali, meramente esecutivi, quali la cartella di pagamento e l’avviso di mora. E, da ultimo, l’art. 21 octies ha trovato applicazione anche: - in un caso di emissione di un atto di contestazione di sanzioni da parte di un ufficio dell’Agenzia delle entrate incompetente territorialmente , in quanto “il vizio derivante dall’incompetenza territoriale dell’ufficio emittente è di natura solo formale, senza alcun riflesso sul contenuto vincolato dell’atto di contestazione delle sanzioni” (Cass. civ., sez. V, 11.11.2021, n. 33287); - in un’ omessa sottoscrizione del ruolo d’imposta , perché l’art. 12 del d.P.R. n. 602 del 1973 non prevede alcuna sanzione per tale ipotesi, sicché non può che operare la presunzione generale di riferibilità dell’atto amministrativo all’organo da cui promana (con onere della prova contraria a carico del contribuente, che non può limitarsi a una generica contestazione dell’esistenza del potere o della provenienza dell’atto ma deve allegare elementi specifici e concreti a sostegno delle sue deduzioni), e per la “natura vincolata del ruolo, che non presenta in fase di formazione e redazione margini di discrezionalità amministrativa, il che comporta l’applicazione del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento” (Cass. civ., sez. V, 14.4.2020, n. 7800); - nella mancata indicazione del responsabile del procedimento in un provvedimento di diniego di agevolazione, atto di natura vincolata perché il rilascio del nulla osta dipende dalla disponibilità di risorse economiche e dall’ordine cronologico di arrivo della domanda, atto perciò che, viste le dichiarate condizioni di fatto, non può avere contenuto diverso da quello adottato, per cui “va esclusa la sua annullabilità in ragione dell’inidoneità dell’intervento dei soggetti ai quali è riconosciuto un interesse a interferire sul suo contenuto” (Cass. civ., sez. V, 17.7.2018, n. 18987).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 02 lug, 2022
Corte costituzionale, sentenza del 7 giugno 2022, n. 140 L’ art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986 (testo unico sull’imposta di registro) stabilisce che i cancellieri e i segretari degli organi giurisdizionali possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione solo dopo che gli stessi atti siano stati registrati e indicando (con apposita attestazione da loro sottoscritta) gli estremi della registrazione compreso l’ammontare dell’imposta. Il successivo comma 2 dell’art. 66 prevede alcune deroghe a tale divieto le quali, tuttavia, valgono solo per gli “atti tassativamente enunciati”, come ha avuto occasione di precisare la Corte costituzionale (sentenza n. 198 del 2010). Nell’elenco delle deroghe non è ( rectius , non era) contemplato il rilascio della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale funzionale all’instaurazione del giudizio di ottemperanza. Della legittimità costituzionale di tale disposizione ha dubitato il Consiglio di Stato (sez. IV, ord. 2 marzo 2021, n. 1765) rilevando: - quanto alla rilevanza della questione, che il passaggio in giudicato è un presupposto indefettibile per agire in sede di ottemperanza, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. c), del codice del processo amministrativo, e che la mancata prova dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza azionata mediante ricorso per ottemperanza rende inammissibile il medesimo ricorso, non essendo sufficiente un’autocertificazione del ricorrente o del suo difensore; - in diritto, che tale procedura precludeva la possibilità di agire in sede di ottemperanza per l’attuazione delle pronunce del giudice, limitando irragionevolmente il diritto alla tutela giurisdizionale con conseguente lesione degli artt. 3 e 24 della Costituzione. È quindi intervenuta la Corte costituzionale con la pronuncia qui segnalata, particolarmente interessante perché ricostruisce storicamente il “delicato tema del rapporto tra oneri fiscali e diritto alla tutela giurisdizionale”: - è stata così rammentata la prima sentenza rilevante in materia, la n. 21 del 1961 sul solve et repete , che ha eliminato dall’ordinamento una regola che rifletteva una concezione autoritaria del rapporto tributario in quanto ancora fondata sulla nozione precostituzionale di dovere di soggezione, per cui l’atto impositivo andava prima eseguito e solo dopo, eventualmente, contestato; - poi le sentenze che hanno espunto dall’ordinamento residui normativi fondati sulla medesima logica del solve et repete : 1) n. 79 del 1961 , sull’illegittimità costituzionale di norme che, pur ritenute applicative del principio già dichiarato incostituzionale del solve et repete , avevano nel sistema una propria vita giuridica, quali l’art. 140 del r.d. n. 3269 del 1923, l’art. 52, secondo periodo del secondo comma, della l. n. 762 del 1940, l’art. 24, terzo comma, della l. n. 1424 del 1940; 2) n. 75 del 1962 , sull’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, del r.d.l. n. 186 del 1942 perché conteneva un’ulteriore e più grave espressione della regola del solve et repete , in quanto disponeva che essa venisse osservata persino per la proposizione dei ricorsi innanzi alle commissioni tributarie; 3) n. 89 del 1962 , sull’illegittimità costituzionale dell’art. 18, secondo comma, del r.d.l. n. 334 del 1939, concernente l’imposta di fabbricazione degli oli minerali, e dell’art. 97 del r.d. n. 3270 del 1923, concernente l’imposta di successione, secondo i quali l’onere del pagamento costituiva presupposto imprescindibile per l’esperimento dell’azione giudiziaria promossa per la tutela del diritto del contribuente ad accertare l’illegittimità di quei tributi; 4) n. 80 del 1966 , sull’illegittimità costituzionale dell’art. 117 del r.d. n. 3269 del 1923, che precludeva ai funzionari delle cancellerie, prima della relativa registrazione, di rilasciare copia della sentenza di primo grado a colui che intendeva appellarla; 5) n. 100 del 1964 , sull’illegittimità costituzionale dell’art. 77 del r.d. n. 3270 del 1923 nella parte in cui subordinava l’esperimento dell’azione giudiziaria alla dimostrazione dell’avvenuto pagamento dell’imposta, nonché degli artt. 79 e 80 della stessa legge in quanto sanzionavano, con l’obbligo di corrispondere l’importo delle tasse e soprattasse, l’inosservanza dell’onere previsto per l’esercizio dell’azione giudiziaria. Pressoché contestualmente la Corte affermava anche che “ nell’ordinamento giuridico posto in essere dalla Costituzione repubblicana i diritti individuali dei cittadini sono armonicamente coordinati con quelli della collettività ”, e che “ il diritto di adire gli organi giurisdizionali, sancito nell’art. 24, primo comma, deve essere contemperato con l’interesse generale alla riscossione dei tributi, che pure è affermato nell’art. 53, primo comma, della Costituzione ” ( sentenze n. 61 del 1970 e n. 111 del 1971 ). La Corte costituzionale ha poi ricordato che il problema è stato in gran parte risolto dal Legislatore, il quale con l’art. 7 della legge delega n. 825 del 1971 ha dettato il principio direttivo di eliminare “ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. In tal modo, “l’ordinamento si è indirizzato verso un nuovo e più proporzionato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo nella previsione di oneri fiscali condizionanti l’accesso alla tutela giurisdizionale”. Proprio in tema di imposta di registro , la Corte aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 nella parte in cui non consentiva al cancelliere il rilascio della copia esecutiva alla parte vittoriosa per procedere all’esecuzione forzata nei confronti della parte soccombente, se non dopo il pagamento dell’imposta di registro. Sul punto aveva osservato che con l’art. 65 del d.P.R. n. 131 del 1986 il Legislatore aveva soppresso il divieto di utilizzare in giudizio atti non registrati prevedendo, all’opposto, l’obbligo del cancelliere di inviarli all’ufficio del registro. “ Il Legislatore della riforma ha pertanto ritenuto che la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione. È chiaro il giudizio di valore così espresso, per cui, nel bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale, il primo è ritenuto sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di informare l’ufficio finanziario dell’esistenza dell’atto non registrato, ponendolo così in grado di procedere alla riscossione ”. E tale bilanciamento fra l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale e quello alla riscossione dei tributi doveva essere praticato per entrambi i tipi di processo: se l’inadempimento dell’obbligazione tributaria non precludeva lo svolgimento del processo di cognizione fino all’emanazione della sentenza (o di altro provvedimento esecutivo) e determinava solo la comunicazione da parte del cancelliere all’ufficio del registro degli atti non registrati, tanto doveva essere applicato, a pena di irragionevolezza, anche per la sentenza (o il provvedimento esecutivo) cui doveva essere data attuazione mediante l’esercizio della tutela giurisdizionale in via esecutiva ( sentenza n. 522 del 2002 ). Nel solco di tale decisione la Corte ha in seguito dichiarato l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione normativa, sempre il comma 2 dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui non si applicava al rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo (sentenza n. 198 del 2010). È alla luce di tali premesse che con la sentenza in esame, la n. 140 del 2022 , la Corte ha affermato che “il diritto alla tutela giurisdizionale non può essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell’interesse fiscale”. Quest’ultimo, sebbene costituisca un interesse particolarmente tutelato dall’art. 53, primo comma, della Costituzione, attiene a momenti della dinamica impositiva nei quali è ancora in fase di definizione ciò a cui corrisponde il dovere tributario. E, del resto, nella vigente legislazione la cosiddetta riscossione frazionata in pendenza di giudizio non è mai impeditiva della tutela giurisdizionale. Conformemente, tale criterio di bilanciamento è riflesso nella già ricordata scelta del Legislatore delegante di informare l’ordinamento intorno al principio per cui gli impedimenti al diritto di agire in giudizio, oltre a non essere consentiti con riguardo all’interesse fiscale, non sono strettamente necessari neanche al fine di tutelare il dovere tributario, traducendosi in forme di controllo fiscale eccessive essendo possibili altre modalità comunque idonee a tutelarne l’adempimento. E con specifico riferimento al divieto di rilasciare, prima della relativa registrazione con l’indicazione dell’ammontare dell’imposta, il provvedimento giurisdizionale recante in calce la certificazione di passaggio in giudicato al fine di instaurare un giudizio di ottemperanza innanzi al giudice amministrativo, la Corte ha dichiarato che ciò impediva di fatto l’accesso al giudizio di ottemperanza che è volto a “dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale tutelato dall’art. 24 Cost.”. E - a fronte dell’obiezione che il giudizio di ottemperanza non è l’unico rimedio per attuare le decisioni nei confronti della pubblica amministrazione, potendo la parte vittoriosa procedere all’esecuzione forzata civile - ha precisato che “il rapporto tra i due rimedi non si pone in termini di mera alternatività, perché il giudizio di ottemperanza è diretto a completare la tutela conseguibile nell’ambito del procedimento di esecuzione forzata, essendo connotato da potenzialità sostitutive e intromissive nell’azione amministrativa non comparabili con i poteri del giudice dell’esecuzione nel processo civile”, per esempio “l’accesso a tecniche di esecuzione incisive, quali sono la possibilità d’irrogazione di penalità di mora e la nomina di un commissario ad acta che, nella persistente inerzia dell’amministrazione dello Stato, proceda al reperimento materiale delle risorse necessarie al pagamento”. La Corte delle leggi ha poi soggiunto che la limitazione contestata non è strettamente necessaria e proporzionata rispetto alle esigenze di tutela dell’adempimento del dovere tributario. Difatti, la normativa sull’imposta di registro, al fine di garantire una tempestiva collaborazione con gli uffici finanziari nell’accertamento dei rapporti imponibili e nella percezione delle imposte dovute, prevede obblighi collaterali, la cui inosservanza è sanzionata in via amministrativa, a carico di cancellieri e segretari degli organi giurisdizionali. Questi, infatti, sono tenuti sia a richiedere la registrazione delle sentenze, dei decreti e degli altri atti alla cui formazione hanno partecipato nell’esercizio delle loro funzioni (art. 10, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 131 del 1986), sia a iscrivere gli atti soggetti a registrazione in un apposito repertorio e a presentarlo poi, ogni quadrimestre, all’ufficio finanziario (artt. 67, comma 1, e 68, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986). All’amministrazione finanziaria, pertanto, è assicurata la conoscenza dell’atto soggetto a registrazione e, per tal via, la possibilità di procedere alla liquidazione e alla riscossione dell’imposta. In definitiva, poiché l’adempimento del dovere tributario risulta già adeguatamente tutelato, senza che sia necessario disporre “un ostacolo alla tutela giurisdizionale, che risulta obiettivamente eccessivo e quindi sproporzionato”, la Corte ha dichiarato “ l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986 nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale, i quali debbano essere utilizzati per proporre l’azione di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo ”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 07 giu, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 12 maggio 2022, n. 15138 L’imposizione indiretta sulla produzione e sul consumo di prodotti energetici, dell’alcol etilico e delle bevande alcoliche, dell’energia elettrica e dei tabacchi lavorati è disciplinata dal d.lgs. n. 504 del 1995 , c.d. testo unico sulle accise. All’art. 2 è previsto che l’obbligazione tributaria sorge al momento della fabbricazione, compresa l’estrazione dal sottosuolo, l’importazione e l’ingresso (anche irregolare) nel territorio dello Stato. E che è obbligato al pagamento dell’ accisa il titolare del deposito fiscale dal quale avviene l’immissione in consumo e, in solido, i soggetti che si siano resi garanti del pagamento o i soggetti nei cui confronti si verificano i presupposti per l’esigibilità dell’imposta. Analogamente dispone, con riguardo più specificamente all’energia elettrica, il successivo art. 53, mentre l’art. 60 regola le addizioni sull’energia elettrica. L’art. 14 prevede il procedimento dei “ rimborsi ” che spettano quando l’accisa, e/o le addizionali, risultano indebitamente pagate, rimborsi che devono essere chiesti, a pena di decadenza, entro due anni dalla data del pagamento, ovvero dalla data in cui il relativo diritto può essere esercitato, e che possono essere concessi anche mediante accredito dell’imposta da utilizzare per il pagamento dell’accisa. Anche il consumatore finale può aver indebitamente pagato al produttore e/o al distributore di beni soggetti ad accisa maggiori imposte e/o relative addizionali. Nulla dispongono, testualmente, le disposizioni del testo unico sui rimborsi ai privati. È quindi intervenuta la giurisprudenza affermando che “ a dispetto della formulazione ellittica l’art. 14 non contiene alcuna indicazione specifica dei soggetti legittimati ”, e che “ detta disposizione non può ritenersi applicabile a tutti coloro che dimostrino di avere indebitamente pagato l’imposta ”. E ciò in quanto le imposte, anche addizionali, sul consumo di energia elettrica sono dovute dal fornitore al momento della fornitura dell’energia elettrica al consumatore finale. Per cui “ nel caso di pagamento indebito, unico soggetto legittimato a presentare istanza di rimborso all’Amministrazione finanziaria, ai sensi art. 14 del d.lgs. n. 504 del 1995 (e dell’art. 29, comma 2, della l. n. 428 del 1990), è il fornitore ”. Il consumatore finale dell’energia elettrica , a cui sono state addebitate maggiori imposte e/o addizionali sul consumo di energia elettrica da parte del fornitore, “ può agire nei confronti di quest’ultimo con l’ordinaria azione di ripetizione di indebito e, solo nel caso in cui tale azione si riveli impossibile o eccessivamente difficile con riferimento alla situazione in cui si trova il fornitore, può eccezionalmente chiedere il rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, nel rispetto del principio unionale di effettività e previa allegazione e dimostrazione delle circostanze di fatto che giustificano tale legittimazione straordinaria ”. Ed “è il caso di rilevare che il consumatore si trova in una posizione di vantaggio, poiché può fruire di un termine di prescrizione ordinario per l’azione civilistica di ripetizione dell’indebito più ampio di quello di decadenza assegnato al soggetto passivo per il rimborso” (Cass. Civ., sez. V, 21.7.2020, n. 15504, n. 15505 e n. 15506). Con la sentenza qui segnalata la Corte di legittimità ha ribadito tali principi, precisando quindi che: 1) obbligato al pagamento delle accise e delle addizionali nei confronti dell’Amministrazione doganale è unicamente il fornitore; 2) il fornitore può addebitare integralmente le accise e le addizionali pagate al consumatore finale; 3) i rapporti tra fornitore e Amministrazione doganale e fornitore e consumatore finale sono autonomi e non interferiscono tra loro; 4) in ragione della menzionata autonomia, il consumatore finale, anche in caso di addebito del tributo da parte del fornitore, non ha diritto a chiedere direttamente all’Amministrazione finanziaria il rimborso delle imposte e delle addizionali indebitamente corrisposte; 5) il diritto al rimborso spetta unicamente al fornitore, che può esercitarlo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria: a) nel caso in cui non abbia addebitato l’imposta al consumatore finale, entro due anni dalla data del pagamento; b) nel caso in cui il consumatore finale abbia esercitato vittoriosamente nei suoi confronti azione di ripetizione di indebito, entro novanta giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza; 6) nel caso di addebito delle addizionali al consumatore finale, quest’ultimo può esercitare l’azione civilistica di ripetizione di indebito direttamente nei confronti del fornitore, salvo chiedere eccezionalmente il rimborso anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria allorquando alleghi che l’azione esperibile nei confronti del fornitore si riveli oltremodo gravosa (come accade, ad esempio, nell’ipotesi di fallimento del fornitore). Ne consegue che in materia di accise i rapporti tra Amministrazione finanziaria, fornitore e consumatore finale sono separati: il rapporto d’imposta di natura tributaria corre tra Erario e fornitore; il rapporto di rivalsa di natura civilistica corre tra fornitore e consumatore. E questi, in caso di indebito, e tranne casi eccezionali, può agire soltanto nei confronti del suo fornitore, avviando in sede civilistica un’azione per indebito oggettivo.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 06 mag, 2022
Cassazione Civile, Sez. Unite, 27 aprile 2022, n. 13145 In base al d.m. 2 agosto 1969 erano considerati di lusso gli edifici aventi precise caratteristiche e, per le singole unità immobiliari, una superficie utile complessiva maggiore di 240 metri quadrati. Dal 13 dicembre 2014 , data di entrata in vigore dell’ art. 33 del d.lgs. n. 175 del 2014 , è stato modificato il n. 21), della Tabella A, Parte II, allegata al d.P.R. n. 633 del 1972, e così sostituito a fini IVA il criterio per l’individuazione degli immobili di lusso : non più il parametro delle caratteristiche costruttive ma quello della classificazione catastale nelle categorie A1 (abitazioni signorili), A8 (ville) e A9 (castelli e palazzi di pregio). Quanto all’ imposta di registro , applicabile in base al principio di alternatività stabilito dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, la stessa, in forza dell’art. 10, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 23 del 2011, dall’1 gennaio 2014 è stata ridotta nella misura del 2 per cento per i trasferimenti in presenza delle condizioni “prima casa” con eccezione per le abitazioni di categoria catastale A1, A8 e A9. Per godere di tali benefici, l’acquirente dell’immobile “prima casa” doveva e deve dichiarare, nell’atto pubblico di acquisto, la sussistenza delle condizioni fissate dalle predette norme. Immutata è rimasta la disciplina sanzionatoria : il comma 4 della nota II-bis dell’art. 1 della Tariffa Parte Prima allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 recita: “ in caso di dichiarazione mendace … sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, nonché una [sanzione pecuniaria] pari al 30 per cento delle stesse imposte. Se si tratta di cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate presso cui sono stati registrati i relativi atti deve recuperare nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonché irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30 per cento della differenza medesima ”. La sostituzione della normativa sul criterio per individuare gli immobili di lusso – dalla metratura alla categoria catastale – ha fatto emergere una problematica di diritto intertemporale: è sanzionabile colui che prima del dicembre 2014 (per IVA) o del gennaio 2014 (per imposta di registro) aveva dichiarato come non di lusso un immobile che invece lo era secondo i parametri allora vigenti del d.m. del 1969 (ad esempio, perché di dimensioni superiori a 240 metri quadrati) ma che non lo era più successivamente, al momento dell’irrogazione della sanzione, perché per il nuovo parametro quell’immobile, sebbene di ampie dimensioni, non è censito nelle categorie catastali A1, A8 e A9? La giurisprudenza di legittimità si era divisa su due opposte posizioni : a) una prima, affermava che non sussistevano più i presupposti per l’irrogazione delle sanzioni perché le modifiche legislative, benché non avessero abolito né l’imposizione né le previsioni sanzionatorie derivanti dalla dichiarazione mendace, hanno cancellato dall’ordinamento l’oggetto della dichiarazione, che costituisce elemento normativo della fattispecie; in altri termini: il diritto sopravvenuto avrebbe spezzato il collegamento fra la norma sanzionatoria e quella impositiva, caducando il titolo per l’applicazione della sanzione; questa posizione faceva applicazione del principio del favor rei (art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997) o del principio dell’ abolitio criminis (art. 3, comma 2, medesimo decreto); b) una seconda interpretazione sosteneva la persistenza della sanzione perché la normativa sopravvenuta ancora vieta per le abitazioni acquistate in epoca in cui era vigente il d.m. del 1969 di qualificare di lusso un’abitazione superiore all’indicata metratura; in altri termini: qualora da una certa data un’imposta non sia più dovuta, ma lo resti per il periodo precedente, non si verifica alcuna abolitio criminis , la quale richiede la radicale eliminazione del presupposto impositivo; pertanto, se l’imposta continua a essere dovuta sono dovute anche le sanzioni. Alla questione ha dato soluzione la pronuncia a Sezioni Unite qui segnalata n. 13145 del 2022 , di estremo interesse perché che ha fatto applicazione dei “principi che governano il microcosmo del diritto sanzionatorio” e dei “principi fissati dalla giurisprudenza penale”, precisando che “ l’impianto sanzionatorio non penale nella materia tributaria risponde a uno stampo penalistico, sia pure modellato, qualora incida sulle materie di competenza dell’Unione, dai principi unionali di adeguatezza, proporzionalità ed effettività; e quest’impianto s’impernia sul principio di legalità ”. Dopo l’osservazione preliminare che “nel caso in esame il precetto consiste nell’obbligo di rendere la dichiarazione in ordine ai presupposti dell’agevolazione, che dev’essere vera, in ragione della fruizione automatica del beneficio, e l’infrazione consiste nella dichiarazione mendace”, la Corte ha rilevato: - in primo luogo, quanto al favor rei , che “non si discute dell’applicazione di un trattamento sanzionatorio mitigato e quindi più favorevole” per cui non può essere preso in considerazione tale “principio il quale postula che, a seguito di una successione di leggi, l’infrazione continui a sussistere, ma è regolata in modo diverso”; - in secondo luogo, che è cambiata “la disciplina normativa dell’agevolazione, mediante la modifica del criterio d’individuazione degli immobili che possono fruirne”, per cui occorre determinare se sia configurabile una abolitio criminis , ossia se l’intervento legislativo posteriore abbia alterato, anche mediatamente, il precetto e, quindi, abbia escluso la figura di infrazione scaturente dalla violazione di esso. Puntualizzato che per la sussistenza della abolitio criminis il criterio della doppia punibilità in concreto è stato ripudiato dalla giurisprudenza delle sezioni unite penali, emerge che è errata la tesi che valorizzava la circostanza che l’agevolazione spetti in base ai nuovi parametri ma non in base a quelli previgenti. Nella presente questione giuridica, “nonostante la modificazione normativa, l’imposta, per il passato, continua a essere dovuta”, per cui “la modificazione segna il passaggio tra due contesti giuridici, con le correlate situazioni di fatto: fare applicazione al primo contesto del trattamento riservato al secondo, sia pure ai soli fini sanzionatori, si traduce in un’inammissibile applicazione della norma nuova a una situazione diversa da quella alla quale essa si riferisce”. Ne deriva che “nessuna abolitio criminis si è verificata” e che “il mendacio oltre che sussistente, resta rilevante”. Diversamente si sarebbe potuto concludere “s e la norma successiva, che ha diversamente disciplinato l’oggetto della dichiarazione, fosse stata retroattiva: in tal caso la norma non avrebbe soltanto qualificato un elemento di fatto, ma avrebbe mutato l’assetto giuridico della fattispecie astratta ”. Questo dunque il principio di diritto formalizzato: “in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa, la modifica dei parametri ai quali ancorare i presupposti per il riconoscimento del beneficio … non ha inciso retroattivamente e l’infrazione, costituita dalla dichiarazione mendace, della quale è soltanto cambiato l’oggetto, è rimasta immutata; ne consegue che non si è verificata alcuna abolitio criminis ”. Per cui, in definitiva, restano dovute le sanzioni nei confronti di coloro che, in vigenza del parametro delle caratteristiche costruttive, avevano dichiarato come non di lusso immobili che lo erano.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 06 apr, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 22 marzo 2022, n. 9186 L’ art. 752 c.c. prevede che “ i coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto ”. L’ art. 754 c.c. dispone che “g li eredi sono tenuti verso i creditori al pagamento dei debiti e pesi ereditari personalmente in proporzione della loro quota ereditaria ”. E l’ art. 1295 c.c. sancisce che, “ salvo patto contrario, l’obbligazione si divide tra gli eredi di uno dei condebitori o di uno dei creditori in solido, in proporzione delle rispettive quote ”. Per costante giurisprudenza queste disposizioni – ossia la regola comune della ripartizione dei debiti ereditari pro quota – sono applicabili, in mancanza di norme speciali derogatrici, anche ai debiti ereditari di natura tributaria (Cass. civ., sez. V, 22.10.2014, n. 22426). Ma, ai fini dell’assunzione della qualità di erede, non è sufficiente la mera chiamata all’eredità né la presentazione della denuncia di successione , che è un atto di natura meramente fiscale. La qualità di erede si consegue solo con l’ accettazione dell’eredità , espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del successore del de cuius . Sul tema, sono risalenti e costanti le pronunce che affermano che la delazione dell’eredità – l’offerta a succedere al soggetto designato – non è da sola sufficiente per far sì che l’interessato acquisti la qualità di erede in quanto, per tale effetto, “ è necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione mediante ‘aditio’, oppure per effetto di ‘pro erede gestio’, oppure per la ricorrenza della condizioni di cui all’articolo 485 c.c. ” che disciplina gli adempimenti del chiamato all’eredità che è nel possesso di beni (Cass. civ., sez. II, 6.5.2002, n. 6479), oppure, ancora, un comportamento oggettivo di acquiescenza (Cass. civ., sez. VI, 6.3.2018, n. 5247). All’opposto, non costituisce accettazione dell’eredità la presentazione della dichiarazione di successione perché le formalità stabilite dall’ art. 28 (sulla dichiarazione della successione) del d.P.R. n. 346 del 1990 hanno la funzione di mera “pubblicità notizia” e non presentano natura costitutiva o integrativa del diritto, o della rinuncia allo stesso (Cass. civ., sez. V, 29.3.2017, n. 8053). E dell’avvenuta assunzione della qualità di erede deve darne prova l’Amministrazione finanziaria, ei qui dicit non ei qui negat , secondo i generali principi in tema di onere della prova dettati dall’ art. 2697 c.c. . Con la sentenza qui segnalata la Corte di Cassazione non solo ha ribadito i riportati principi ma ne ha fatto applicazione in una vicenda in cui i contribuenti erano stati pretermessi dal testamento del congiunto, lo avevano impugnato e anche introdotto l’azione di riduzione previa accettazione con beneficio d’inventario (ai sensi dell’art. 564 c.c.). Ebbene, la Corte ha dapprima osservato che i soli fatti della morte del de cuius e dell’apertura della successione non presentano rilevanza giuridica ai fine dell’individuazione degli eredi e che, in concreto, non vi era alcuna prova circa l’avvenuta accettazione dell’eredità, e ha poi affermato che “il legittimario acquista la qualità di chiamato all’eredità solo al momento della sentenza che accoglie la domanda di riduzione”. Per cui, in definitiva, i contribuenti ricorrenti non potevano considerarsi soggetti passivi d’imposta.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 23 mar, 2022
Corte costituzionale 18 marzo 2022, n. 73 L’ art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992 sul processo tributario prevede la trattazione della controversia in camera di consiglio, salvo che almeno una delle parti non chieda, con apposita istanza da depositare in segreteria e da notificare alle altre parti costituite, la discussione in pubblica udienza. Nel processo tributario è quindi lasciata alla valutazione discrezionale di ogni parte costituita la scelta della trattazione della causa in forma pubblica. La disposizione è stata sospettata di incostituzionalità perché la regola generale della pubblicità dei dibattimenti giudiziari – la quale è implicita nel precetto costituzionale dell’ art. 101 che fonda l’amministrazione della giustizia sulla sovranità popolare – non potrebbe essere derogata dalla volontà dei litiganti, stante il carattere indisponibile della pretesa fiscale dedotta in giudizio; né l’interesse sotteso al principio della pubblicità delle udienze potrebbe essere bilanciato con una finalità, quale quella dell’economia processuale, priva di rilevanza costituzionale; perché la più ampia tutela giurisdizionale di cui all’ art. 111 Costituzione si attuerebbe solo con la discussione in pubblica udienza; e per contrasto con l’ art. 136 Costituzione , essendo stata già dichiarata costituzionalmente illegittima una norma (art. 39, primo comma, d.P.R. n. 636 del 1972) che escludeva l’applicabilità al processo tributario del principio generale di pubblicità dell’udienza di cui all’art. 128 c.p.c. Ma la Corte costituzionale, con la sentenza qui segnalata, ha respinto ogni censura. Innanzitutto, è stata esclusa la violazione del giudicato costituzionale di cui all’art. 136 perché essa si configura solo quando la nuova disposizione mantiene in vita o ripristina gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale, mentre nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternatività . È stata poi esclusa la violazione dell’art. 101 sul principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari perché, nonostante esso non sia stato positivizzato neanche a seguito della riforma introdotta dalla legge cost. n. 2 del 1999 e sebbene la stessa Corte ne abbia ravvisato un’enunciazione implicita anche nel novellato primo comma dell’art. 111 Costituzione, il rafforzamento della sua rilevanza costituzionale accresce sì la sua forza di resistenza ma “il precetto in questione non ha carattere assoluto e può subire deroghe” in quanto “la Costituzione non impone in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario e tanto meno di ogni fase di esso”. Si pensi che anche nel processo penale, in cui l’udienza pubblica assume un valore più pregnante, diverse pronunce costituzionali hanno ravvisato un vulnus al principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari nell’assenza, in alcune procedure camerali penali, non già dell’udienza pubblica quale snodo procedimentale necessario, ma piuttosto della previsione della possibilità, per l’interessato, di richiederne la celebrazione. Nel processo tributario la pubblica udienza è non esclusa ma condizionata alla sollecitazione di parte . E tale modalità operativa soddisfa adeguatamente l’esigenza di controllo popolare sottesa al principio di pubblicità dei giudizi. Pertanto, avuto anche riguardo alla circostanza che il legislatore ha connotato il giudizio tributario come processo prevalentemente documentale (in particolare dal punto di vista probatorio, tanto che è esclusa l’ammissibilità della prova testimoniale e del giuramento), “ non è irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell’udienza pubblica ”. Ed è stata anche esclusa la violazione dell’art. 111: il secondo comma, introdotto dalla legge cost. n. 2 del 1999, ha positivizzato il principio audiatur et altera pars in base al quale il provvedimento giurisdizionale non può assumere carattere di definitività senza che la parte destinata a subirne gli effetti sia stata posta in condizione di svolgere una difesa effettiva e di influire, in condizioni di parità rispetto alle altre parti, sul convincimento del giudice. Nondimeno, l’attuazione del contraddittorio non implica necessariamente che il confronto dialettico tra i litiganti si svolga in modo esplicito e contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi successivi, purché anteriori all’assunzione del carattere della definitività della decisione. Difatti, non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità. Nel processo tributario non è esclusa la discussione in pubblica udienza ma subordinata a una tempestiva richiesta di almeno una delle parti; inoltre, per la trattazione in camera di consiglio esse possono depositare, oltre alle memorie illustrative, ulteriori memorie di replica in un identico termine in parallelo (art. 32, comma 3). E ciò garantisce “un’adeguata e paritetica possibilità di difesa”. Al contempo, la trattazione camerale soddisfa “ primarie esigenze di celerità e di economia processuale, particolarmente avvertite in un processo, come quello tributario, che attiene alla fondamentale e imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l’esercizio delle sue funzioni attraverso l’attività dell’Amministrazione finanziaria ". In definitiva, il meccanismo del processo tributario dell’udienza pubblica su richiesta per un profilo consente a entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza, e per altro e correlato profilo persegue un ragionevole fine di elasticità – in forza del quale le risorse offerte dall’ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela – e non interferisce con la cura dell’interesse pubblico al prelievo fiscale.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 12 mar, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 24 febbraio 2022, n. 6071 L’ art. 12 della l. n. 212 del 2000 ( statuto dei diritti del contribuente ) disciplina i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali presso la propria sede , e quindi i casi di accessi, ispezioni e verifiche eseguite nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali. L’articolo, per quanto qui interessa, prevede la redazione di un processo verbale delle operazioni di verifica ( comma 4 ); stabilisce che, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo al contribuente, questi può comunicare osservazioni e richieste entro sessanta giorni; conclude affermando che “ l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza ” ( comma 7 ). La giurisprudenza della Corte di legittimità ha avuto molte occasioni per pronunciarsi su tale disciplina e queste sono le conclusioni oramai consolidate in materia: - la disposizione è posta a tutela del contribuente ogniqualvolta vi sia stata un’intromissione autoritativa nei luoghi di sua pertinenza, per cui tale intromissione è controbilanciata dalla garanzia del contradditorio come prevista dal comma 7; - l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al contribuente del verbale di chiusura delle operazioni, determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus ; nondimeno, “il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’Ufficio” (Cass. civ., Sez. Unite, 29.7.2013, n. 18184); - le garanzie fissate dal comma 7 trovano applicazione esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad a ccessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente ; militano univocamente in tal senso il dato testuale della rubrica dell’articolo, il disposto del comma 1 e la circostanza che l’intera disciplina risulta palesemente calibrata sulle esigenze di tutela del contribuente in relazione alle visite ispettive subite in loco (Cass. civ., Sez. Unite, 9.12.2015, n. 24823); - ne consegue che la disposizione trova applicazione anche nei casi in cui l’accesso sia avvenuto presso la sede non del contribuente ma della persona che detiene le scritture contabili e sua mandataria, perché sussiste l’onere del contribuente di collaborare con l’Ente verificatore (Cass. civ., sez. V, 16.11.2021, n. 34586); - la procedura e le relative garanzie si applicano, data la loro valenza generale e per il fatto che le disposizioni si riferiscono a “organi di controllo in genere”, anche agli accessi eseguiti da operatori degli enti locali e delle società a cui gli enti impositori affidano in concessione compiti di accertamento e riscossione delle imposte, ivi inclusi i compiti strumentali di rilevazione di dati necessari alla determinazione della base imponibile (Cass. civ., sez. V, 28.3.2019, n. 8654); - non è richiesta né la dimostrazione di un pregiudizio subito dalla parte privata né alcuna prova di resistenza perché nell’ordinamento tributario la prova di resistenza è necessaria, ai fini dell’invalidità dell’atto, solo se non esiste una norma che espressamente impone il contraddittorio preventivo (Cass. civ., Sez. Unite, 9.12.2015, n. 24823); ma non è questo il caso, posto che l’obbligo di far decorrere il termine dilatorio di sessanta giorni prima di emettere un provvedimento di accertamento, salvi solamente i casi di urgenza, significa che “il Legislatore, nel comminare la nullità dell’atto impositivo in caso di sua violazione, ha operato una valutazione ex ante del rispetto del contraddittorio che assorbe a monte la prova di resistenza” (Cass. civ., sez. V, 15.6.2021, n. 16867; id., sez. VI - 5, 1.2.2022, n. 3004); - quanto ai casi di urgenza , particolare e motivata a cura dell’Amministrazione procedente in applicazione del principio di vicinanza della prova, essi non possono in alcun modo essere individuati nell’imminente scadenza del termine decadenziale dell’azione accertativa, perché trattasi di termine gestibile e programmabile dall’Amministrazione stessa; - all’opposto, sono stati individuati come idonei casi di urgenza l’emersione di nuovi fatti nel corso di procedimenti penali svolti nei confronti di terzi, il grave stato di insolvenza del contribuente (dato che il trascorrere del tempo rende difficoltoso il recupero del tributo), le reiterate condotte penali tributarie del contribuente, l’elevata entità degli importi accertati per la quale sono applicabili le misure cautelari dell’ipoteca e del sequestro conservativo (Cass. civ., sez. V, 12.8.2021, n. 22750; id., sez. VI, 29.10.2021, n. 30784, e la giurisprudenza ivi citata); - non è un valido caso di urgenza la tardiva segnalazione giunta alla Direzione Provinciale da parte della Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate, perché ciascuna Direzione è organo della stessa Amministrazione e tale evenienza rientra nelle responsabilità dell’Ente impositore (Cass. civ., sez. V, 21.4.2021, n. 10476); - non è neppure un valido caso di urgenza la tardiva comunicazione all’Agenzia delle Entrate del processo verbale di constatazione da parte della Guardia di Finanza, di modo che l’Ente accertatore non sia fattualmente nella condizione di poter assolvere all’onere di far trascorrere i sessanta giorni prima di emettere l’avviso di accertamento perché il termine decadenziale quinquennale per l’emissione dello stesso è prossimo alla scadenza, in quanto gli operatori militari appartengono a un corpo di polizia chiamato istituzionalmente a “cooperare” con l’Ufficio delle imposte ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, degli artt. 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 2 del d.lgs. n. 68 del 2001 (Cass. civ., sez. V, 11.1.2022, n. 498; id., sez. V, 10.2.2022, n. 4242); - fa eccezione solo il caso in cui la Guardia di Finanza, ai sensi del secondo periodo del terzo comma dell’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973 , previa autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, utilizza e trasmette all’Ufficio delle imposte documenti, dati e notizie acquisiti nell’esercizio di poteri di polizia giudiziaria (Cass. civ., sez. V, 18.10.2021, n. 28730); - a identica conclusione deve pervenirsi qualora, a seguito di un accesso nei locali del contribuente, il processo verbale di constatazione non sia stato notificato, pur ricorrendone i relativi presupposti, e in seguito sia stato notificato l’avviso di accertamento, atteso che l’omissione della notifica del verbale “osta alla decorrenza del termine dilatorio” (Cass. civ., sez. V, n. 6071 del 2022, qui segnalata). Quest’ultima pronuncia ha così colto l’occasione per ribadire che il comma 7 dell’art. 12 va interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus , poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente, ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 23 feb, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 14 febbraio 2022, n. 4599 Nel volgere di pochi anni il Legislatore è intervenuto ben tre volte per sancire che nel diritto tributario l’incertezza normativa comporta l’esenzione dalla responsabilità amministrativa . Più precisamente, oggi sono vigenti queste disposizioni, solo parzialmente differenti ma accomunate nella disciplina (con definizione testualmente identica) delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria: - art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 : la commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce; - art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997 : non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento; - art. 10, comma 3, della l. n. 212 del 2000 : le sanzioni non sono irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. La sentenza segnalata ha ricapitolato (citando numerosi precedenti) e ribadito una posizione giurisprudenziale oramai assodata: • quanto al profilo soggettivo : l’incertezza normativa è ravvisabile quando sussiste “una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già a un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione”; • quanto al profilo oggettivo : l’incertezza normativa è caratterizzata dalla “impossibilità di individuare con sicurezza e univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni ‘indici’, quali, ad esempio: o 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; o 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; o 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; o 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; o 5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; o 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; o 7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; o 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; o 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; o 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente. Ciò comporta che in sede processuale la possibilità di disapplicazione delle sanzioni prescinde dalla qualità del contribuente, nonostante possa essere professionalmente un addetto ai lavori e quindi capace di interpretazione qualificata delle norme, perché richiede che sia il giudice ad accertare la situazione di obiettiva incertezza. Per cui, in definitiva, questo è il principio di diritto formulato: “ l’incertezza normativa oggettiva tributaria deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie; l’incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto, come emerge dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997 il quale distingue in modo netto le due figure dell’incertezza normativa oggettiva e dell’ignoranza (pur ricollegandovi i medesimi effetti) e perciò l’accertamento di essa è esclusivamente demandata al giudice e non può essere operato dall’Amministrazione ”. La vicenda esaminata riguardava la disciplina applicabile per la determinazione delle caratteristiche delle abitazioni di lusso . La Corte ha ricordato che l’ art. 10 del d.m. 2 agosto 1969 (“Caratteristiche delle abitazioni di lusso”) prevede che “alle abitazioni costruite in base a licenza di costruzione rilasciata in data anteriore a quella della entrata in vigore” dello stesso d.m. del 1969 (il 1° settembre 1969) si applicano le disposizioni di cui al decreto ministeriale 4 dicembre 1961 (il testo previgente sulle caratteristiche per considerare di lusso un’abitazione). Ebbene, tale art. 10 fu inizialmente interpretato (prime pronunce nell’anno 2006) nel senso di attribuirgli “una mera funzione di regolamentazione transitoria dell’unica fattispecie in esso prevista”, ossia le sole abitazioni o in corso di costruzione al momento dell’entrata in vigore della disposizione o costruite successivamente a tal momento ma sulla base di licenza di costruzione rilasciata in data anteriore. Ne derivava che soltanto tali costruzioni erano destinatarie dei benefici fiscali previsti dalle leggi a quel momento vigenti. Nondimeno, con l’art. 2, commi 1 e 2, del d.l. n. 12 del 1985 furono introdotte norme fiscali sull’edilizia destinate ad abitazioni non di lusso secondo i criteri di cui al d.m. 2 agosto 1969 “indipendentemente dalla data della loro costruzione”. Con tale inciso le abitazioni di lusso furono individuate solo in quelle indicate nel d.m. del 1969 e, in tal modo, si operò una reductio ad unum del complessivo panorama edilizio, evitando discriminazioni fondate non già su caratteristiche obiettive omogenee ma su di una nozione storica del concetto di abitazione non di lusso a seconda dell’epoca della costruzione e addirittura normativamente inesistente per quelle più risalenti. Conseguentemente, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato l’art. 10 superando il dato letterale ma applicando principi di ragionevolezza e di equità contributiva: per cui ai fini della qualificazione di abitazione di lusso di un immobile è stata attribuita rilevanza al momento del suo acquisto e non a quello della sua costruzione. Questa vicenda rappresenta un caso emblematico di “ incertezza normativa oggettiva tributaria caratterizzata dall’impossibilità d’individuare in modo univoco, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la corretta portata della norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile ”. Difatti, le prime pronunce sull’interpretazione dell’art. 10 erano fondate su di un criterio teleologico, mentre quelle successive richiamano i principi costituzionali di equità contributiva e di ragionevolezza. Per cui “le modalità di confezionamento della norma, l’assenza di precedenti giurisprudenziali (il provvedimento impugnato era datato 2008) e l’articolata interpretazione offerta dalla Corte per superare il dato letterale”, sono elementi che hanno consentito di ravvisare la causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità tributaria.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 11 feb, 2022
Cassazione Civile, Sez. Unite, 2 febbraio 2022, n. 3182 Il quesito sulla possibilità di utilizzare legittimamente documentazione extracontabile rinvenuta all’interno di una valigetta chiusa appartenente all’amministratore delegato di una società e appoggiata sulla scrivania dello stesso, valigetta aperta dall’interessato spontaneamente e senza coercizione rispondendo a una richiesta della Guardia di Finanza, ha fornito alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione l’occasione per chiarire alcune questioni sul livello e sul grado di tutela apprestati dall’ordinamento ai diritti che entrano in gioco in caso di acquisizione di borse durante gli accessi eseguiti in sede di verifiche fiscali (art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 12 della l. n. 212 del 2000 ), e anche sulla compatibilità del sistema con i canoni costituzionali. 1. In primo luogo, è stato affermato che “ quando viene in discussione la tematica relativa ai poteri istruttori in materia di acquisizione coattiva di borse, i parametri costituzionali di riferimento sono costituiti dagli artt. 13 e 14 della Costituzione ”, e non dall’art. 15 della Costituzione, sul diritto alla segretezza della corrispondenza e di qualsiasi forma di comunicazione, come ha ipotizzato parte della dottrina. Difatti, non si discute di uno scambio di corrispondenza ma dell’apertura di borse del cui contenuto nulla è dato sapere all’atto del loro rinvenimento. Invece, occorre bene distinguere l’ipotesi in cui la borsa costituisce un elemento collegato e a stretto contatto con l’individuo, che la indossa in modo che essa diviene parte della persona stessa, a cui si applicano le garanzie sulla libertà personale apprestate dall’art. 13 Costituzione, dalla distinta ipotesi in cui la borsa costituisce un mezzo di trasporto, ove si applica la tutela apprestata per il domicilio dall’art. 14 Costituzione. E il comma terzo di quest’ultimo articolo dispone che “ gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali ”. Per cui “il fatto che, in tema di accertamenti ed ispezioni, il legislatore costituzionale abbia equiparato la materia fiscale a quelle incidenti su sanità e incolumità pubblica, di evidente e primaria rilevanza sociale, rende palese il particolare valore attribuito alla materia fiscale dal costituente, che ha appunto demandato al legislatore fiscale di regolarne presupposti e modalità in modo autonomo rispetto alle garanzie previste in tema di libertà personale”. 2. In secondo luogo, è stato osservato che con la disposizione di cui al comma 3 dell’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972, ove è prevista la necessità dell’ autorizzazione del Procuratore della Repubblica “per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili”, il legislatore ha introdotto una peculiare misura protettiva nei confronti del contribuente che, con il suo contegno, mostra di opporsi alla richiesta avanzata dai verificatori di apertura di uno dei beni indicati. Ne discende che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica è richiesta soltanto nel caso di < apertura coattiva > mentre non è necessaria in presenza di consenso in qualunque forma manifestato dal contribuente, e che spetta al giudice individuare. Sul punto, in termini generali è stato precisato che il consenso deve ritenersi mancante non soltanto nelle ipotesi di costrizione materiale ma anche in quelle di apertura operata dal contribuente sotto minaccia, o solo determinata da coazioni implicite e ambientali indotte, cioè, dalle modalità utilizzate dai verificatori per la richiesta di apertura. Il consenso è coartato, ad esempio, quando è indotto dalla minaccia di conseguenze sfavorevoli in caso di mancata consegna. In ogni caso, la verifica in ordine all’esistenza del consenso e alla sua validità, prestato dal contribuente o da chi ha la disponibilità giuridica della borsa, involge un accertamento che è riservato al giudice di merito e che deve essere effettuato in base agli elementi offerti dalle parti. Occorre altresì tenere conto che con l’autorizzazione si realizza il corretto bilanciamento fra l’interesse fiscale all’acquisizione della borsa e del suo contenuto (ex art. 53 Costituzione) ed il diritto alla inviolabilità del domicilio ex art. 14 Costituzione), e che il medesimo equilibrio il legislatore fiscale ha inteso realizzare tutte le volte in cui è lo stesso contribuente a dimostrare, con il suo contegno, una volontà adesiva alla richiesta di consegna della borsa da parte dei verificatori , dato che in tali ipotesi l’autorizzazione risulta non necessaria in conseguenza dell’atto volontario e consapevole del titolare del diritto. 3. In terzo e ultimo luogo, è stato affermato che non esiste, allo stato, alcuna norma da cui desumere che la disciplina in tema di apertura di borse sia condizionata all’adempimento di un “obbligo informativo relativo alla necessità dell’autorizzazione del P.M. o del giudice”. E ciò perché il contenuto precettivo contenuto nel comma 3 dell’art. 52 in esame si limita a prevedere l’autorizzazione per il solo caso dell’acquisizione coattiva. E non rileva neppure il disposto del comma 2 dell’art. 12 della legge n. 212 del 2000 (sul diritto del contribuente a essere informato delle ragioni che hanno giustificato la verifica fiscale, sulla facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché sui diritti e sugli obblighi che vanno riconosciuti in occasione delle verifica), sia perché lo statuto dei diritti del contribuente contiene “criteri guida per orientare l’interprete nell’esegesi delle norme” sia, soprattutto, perché non vi è alcuna “c onnessione né un’immediata e consequenziale relazione causale tra l’informazione circa la facoltà di farsi assistere da un professionista in sede di verifica e la validità del consenso prestato all’apertura della borsa. E ciò per l’assorbente considerazione che non si rinviene nell’art. 12, comma 2, l’esistenza di uno specifico obbligo informativo in tal senso ”.Da ciò consegue che “l a mancata informazione sulla possibilità di farsi assistere da un difensore non può esser valorizzata onde supplire al deficit normativo in atto esistente in tema di obbligo di informazione del contribuente del diritto di non aprire la borsa (e del conseguente instaurarsi del regime autorizzatorio di cui all’art. 52, comma 3) ”. In conclusione, è stato pronunciato il principio di diritto, secondo cui in tema di accertamento delle imposte, con riguardo all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prevista in materia di IVA dal d.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, ai fini della valida espressione del consenso alla apertura della borsa non è necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, non rinvenendosi un obbligo in tal senso nell’art. 52 citato e neanche nella l. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 gen, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 17 gennaio 2022, n. 1199 L’esenzione per l’abitazione principale dall’ imposta municipale propria trovava disciplina: - fino al 31 dicembre 2019, nell’art 13, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011; - dall’1 gennaio 2020 al 20 dicembre 2021 nell’art. 1, comma 741, della l. n. 160 del 2019. Entrambe le disposizioni prevedono che: - l’imposta IMU non si applica al possesso dell’ abitazione principale (e delle sue pertinenze) sempreché non classificata nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 (abitazioni di tipo signorile, ville e castelli, palazzi artistici o storici, immobili che, se adibiti ad abitazione principale, fruiscono comunque di un’aliquota ridotta); - per abitazione principale si intende l’unica unità immobiliare nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente; - se i componenti del nucleo familiare hanno stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile. L’interpretazione di queste norme ha generato contenzioso soprattutto nei casi, sempre più frequenti, di coniugi, non legalmente separati , residenti sia in immobili diversi dello stesso comune sia in comuni differenti. La Corte di Cassazione ha da tempo assunto una precisa posizione che è stata ribadita da recenti pronunce, fra cui la sentenza che qui si segnala, la quale ha anzitutto ricordato che l’ interpretazione delle norme di agevolazione fiscale deve essere necessariamente rigorosa e che non è consentita la loro estensione ai casi non espressamente previsti, perché trattasi di norme di natura eccezionale che costituiscono una deroga al principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione. Nel merito, è stata riaffermata la regola generale secondo cui l’esenzione in esame “ richiede non soltanto che il possessore e il suo nucleo familiare dimorino stabilmente nell’immobile, ma altresì che vi risiedano anagraficamente ”. Ciò significa, in pratica: a) anzitutto, che l’abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare ; se vengono utilizzate come abitazione principale più unità immobiliari distintamente iscritte in catasto, esse vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita, e il contribuente può scegliere quale di esse destinare ad abitazione principale con applicazione dell’agevolazione; le altre, invece, vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l’applicazione dell’aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati; in sintesi, il contribuente non può applicare le agevolazioni per più di un’unità immobiliare, salvo il caso di loro accatastamento unitario; b) per abitazione principale si intende l’immobile nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente; il legislatore ha voluto sia collegare i benefici dell’abitazione principale e delle sue pertinenze al possessore e al suo nucleo familiare, sia unificare il concetto di residenza anagrafica e di dimora abituale, individuando come abitazione principale solo l’immobile in cui le condizioni previste dalla norma sussistono contemporaneamente; c) ciò che assume rilevanza per beneficiare dell’agevolazione è la residenza della famiglia e non quella dei singoli coniugi (difatti, l’art. 144 c.c. prevede che i coniugi possono avere esigenze diverse ai fini della loro residenza individuale); d) per cui, nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, l’aliquota e la detrazione per l’abitazione principale e per le relative pertinenze devono essere uniche per nucleo familiare, indipendentemente dalla dimora abituale e dalla residenza anagrafica dei rispettivi componenti: ciò comporta che solo uno degli immobili può beneficiare delle agevolazioni per l’abitazione principale. “ Lo scopo di tali norme è evitare comportamenti elusivi in ordine all’applicazione delle agevolazioni, soprattutto per impedire che, nel caso in cui i coniugi stabiliscano la residenza in due immobili diversi nello stesso comune, ognuno di loro possa usufruire delle agevolazioni dettate per l’abitazione principale e per le relative pertinenze. In particolare, la ratio della previsione normativa è quella di impedire un uso strumentale, non essendo ipotizzabile che due coniugi, a meno che non siano separati di fatto, risiedano e dimorino abitualmente in due appartamenti situati nel medesimo comune. In simile evenienza solo uno dei due immobili beneficerà dell’esenzione e, precisamente, quello che rappresenterà l’abitazione principale del nucleo familiare. Se, ad esempio, nell’immobile in comproprietà fra i coniugi, destinato all’abitazione principale, risiede e dimora solo uno dei coniugi – non legalmente separati – poiché l’altro risiede e dimora in un diverso immobile, situato nello stesso comune, l’agevolazione non viene totalmente persa, ma spetta solo ad uno dei due coniugi ” (Cass. Civ., Sez. V, 17 giugno 2021, n. 17408). Per il secondo profilo, è stato evidenziato come la legge non avesse espressamente disciplinato il caso in cui i coniugi, sempre non separati legalmente, abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili situati in differenti comuni . Ebbene, anche per questa fattispecie è stato osservato che “il nucleo familiare (inteso come unità distinta e automa rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico” e, pertanto, unica è l’abitazione principale a esso riferibile che può beneficiare dell’agevolazione. Da ciò la “conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisce anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della ‘abitazione principale’ del suo nucleo familiare”. Difatti, “ la nozione di abitazione principale postula l’unicità dell’immobile e richiede la stabile dimora del possessore e del suo nucleo familiare, sicché non possono coesistere due abitazioni principali riferite a ciascun coniuge sia nell’ambito dello stesso comune o di comuni diversi ”. È frequente l’ipotesi di coniugi che, per esempio per motivi di lavoro, fissano in differenti, e magari distanti, comuni la loro residenza e la loro dimora abituale. Per cui in siffatte evenienze occorre accertare in quale degli immobili si realizzi “l’abitazione principale del nucleo familiare” in quanto solo questa può beneficiare dell’esenzione. È stato bene sottolineato come non si devono confondere i concetti di “dimora abituale” e di “abitazione principale” (da individuarsi sulla base della coabitazione dei coniugi e della di loro famiglia), tenendo altresì presente che quest’ultima nozione sottintende una preponderanza della destinazione rispetto ad altre, pur possibili, soluzioni abitative. Ciò alla luce della regola di esperienza per cui per ogni nucleo familiare non può esservi che una sola abitazione principale. Il concetto di “abitazione principale” resta quello consolidatosi all’esito dell’elaborazione giurisprudenziale, secondo cui per residenza della famiglia deve intendersi il luogo di ubicazione della casa coniugale, perché è questo luogo a individuare, presuntivamente, la residenza di tutti i componenti della famiglia. In definitiva, l’abitazione principale è solo quella ove il proprietario e la sua famiglia abbiano fissato: - la residenza (accertabile tramite i registri dell’anagrafe); - la dimora abituale (ossia il luogo dove la famiglia abita la maggior parte dell’anno). Tale lettura delle sopra riportate disposizioni è l’unica “ costituzionalmente orientata perché, diversamente opinando, si realizzerebbe una frattura evidente dei principi costituzionali, sotto il profilo dell’uguaglianza e della capacità contributiva ”. Da ultimo, è necessario segnalare che la lettera b) del comma 741 dell’art. 1 della l. n. 760 del 2019 è stata modificata dall’art. 5 decies del d.l. n. 146 del 2021, introdotto con la legge di conversione n. 215 del 2021, in vigore dal 21 dicembre 2021. Tale novella è intervenuta sul secondo periodo inserendo, dopo le parole: “situati nel territorio comunale” le seguenti: “o in comuni diversi” e aggiungendo, in fine, le seguenti parole: “, scelto dai componenti del nucleo familiare”. In conclusione il Legislatore ha fatto propria la posizione della giurisprudenza di legittimità e ha definitivamente chiarito che quando i coniugi vivono in immobili distinti, situati sia nel medesimo comune che in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e le relative pertinenze (esenzione oppure applicazione dell’aliquota ridotta) si applicano solo a uno di tali immobili, perché unica è l’abitazione della famiglia che può beneficiarne. Con la novità che l’immobile beneficiario può ora essere “ scelto degli stessi componenti del nucleo familiare ”. Se tale novello intervento normativo ha posto un punto fermo sulla regola per cui i benefici fiscali spettano a una sola unità abitativa, esso è comunque idoneo ad aprire altri fronti applicativi: sia nel caso in cui i componenti il nucleo familiare non concordino nello scegliere l’abitazione per cui chiedere le agevolazioni, sia nel caso in cui le stesse venissero chieste per un immobile dove un coniuge ha sì la residenza, ma dove il suo nucleo familiare non dimora abitualmente.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 17 gen, 2022
Cassazione Civile, Sez. V, 11 gennaio 2022, n. 495 Per la ripetizione del pagamento indebito l’ordinamento tributario prevede un regime speciale che richiede un’istanza della parte interessata da presentare, a pena di decadenza, entro il termine previsto dalle singole leggi di imposta. Ad esempio, si vedano l’ art. 37 del d.P.R. 29.9.1973, n. 602 , per le richieste di rimborso di ritenute dirette (da presentarsi entro il termine di decadenza di quarantotto mesi in caso di errore materiale, duplicazione o inesistenza totale o parziale dell’obbligazione tributaria) e l’ art. 38 dello stesso d.P.R. per le richieste di rimborso di versamenti diretti (con termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso; se l’istanza è presentata dal percipiente le somme assoggettate a ritenuta, il termine di decadenza è di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata). L’art. 38, peraltro, si applica a qualsiasi ipotesi di indebito correlato all’adempimento dell’obbligazione tributaria, qualunque sia la ragione per cui il versamento è in tutto o in parte non dovuto, e quindi a errori connessi ai versamenti o riferibili all’ an o al quantum del tributo, ovvero a ritenute alla fonte. E si veda anche l’ art. 77 del d.P.R. 26.4.1986, n. 131 , per le imposte sugli atti soggetti a registrazione, ai sensi del quale il rimborso dell’imposta deve essere richiesto, a pena di decadenza, entro tre anni dal giorno del pagamento ovvero, se posteriore, da quello in cui è sorto il diritto alla restituzione. Solo in difetto di uno specifico termine stabilito dalla legge di settore si applica l’art. 21, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. 31.12.1992, n. 546, ai sensi del quale “ la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione ”. Quest’ultima disposizione, che prevede il termine biennale di decadenza per la presentazione dell’istanza, non esclude tuttavia, una volta maturato il silenzio-rifiuto, la decorrenza del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c.. Tale specialissimo regime impedisce dunque l’applicazione della disciplina prevista per l’indebito di diritto comune di cui all’ art. 2033 c.c. . E a ciò consegue che, da un lato, all’istituto del rimborso su istanza di parte deve riconoscersi carattere di regola generale in materia tributaria, e, dall’altro, che eventuali norme che contemplano possibilità di rimborsi ufficiosi che escludono la necessità dell’istanza (per esempio regolamenti comunali ex art. 59 del d.lgs. 15.12.1997, n. 446 , sui termini, limiti temporali e condizioni per il rimborso dell’imposta comunale sugli immobili) data la loro natura eccezionale, vanno considerate di stretta interpretazione.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 dic, 2021
Cassazione Civile, Sez. Unite, 17 dicembre 2021, n. 40543 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a risolvere le seguenti questioni: A) se il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione trovi applicazione anche agli atti di imposizione tributaria tenuto conto che trattati di atti recettizi soggetti a termini di decadenza; B) se, in caso di soluzione positiva, tale applicazione sia possibile anche qualora l’amministrazione finanziaria si avvalga del messo speciale autorizzato dall’Ufficio (ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. a), del d.P.R. n. 600 del 1973). Hanno dunque enunciato il seguente principio di diritto: « in materia di notificazione degli atti di imposizione tributaria e agli effetti di questa sull’osservanza dei termini, previsti dalle singole leggi di imposta, di decadenza dal potere impositivo, il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, sancito per gli atti processuali dalla giurisprudenza costituzionale, e per gli atti tributari dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, trova sempre applicazione, a ciò non ostando né la peculiare natura recettizia di tali atti né la qualità del soggetto deputato alla loro notificazione. Ne consegue che, per il rispetto del termine di decadenza cui è assoggettato il potere impositivo, assume rilevanza la data nella quale l’ente ha posto in essere gli adempimenti necessari ai fini della notifica dell’atto e non quello, eventualmente successivo, di conoscenza dello stesso da parte del contribuente ». Per giungere alla riportata conclusione, con un’articolata sentenza la Corte ha innanzitutto rammentato che il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione è stato introdotto per gli atti processuali dalla Corte Costituzionale con la sentenza 26 novembre 2002, n. 447 ; che è stato positivizzato con l’art. 149 c.p.c.; che è stato poi riconfermato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza 4 gennaio 2004, n. 28 (con la declaratoria di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 139 e 148 c.p.c.) e con l’ordinanza 12 marzo 2004, n. 97. Quanto alla giurisprudenza di legittimità, il principio della scissione degli effetti della notificazione tra il notificante e il destinatario dell’atto è stato applicato con le sentenze 29 gennaio 2004, n. 1647 (sulla notificazione a mezzo posta degli avvisi di accertamento tributari); 14 aprile 2010, n. 8830 (in materia di diritto del lavoro), 9 dicembre 2015, n. 24822 (sugli effetti sostanziali degli atti processuali), 19 maggio 2017, n. 12332 (a Sezioni Unite, in materia di atti amministrativi sanzionatori di natura recettizia) oltre che in numerosissime altre successive pronunce della Sezione tributaria tutte (citate e tutte) fondate sulla seguente asserzione: “ l’esercizio del potere impositivo è assoggettato al rispetto di un termine di decadenza, insuscettibile d’interruzione a garanzia del corretto instaurarsi del rapporto giuridico tributario, ai fini del rispetto del quale, a differenza di quanto avviene per il termine di prescrizione, assume rilevanza la data nella quale l’ente ha posto in essere gli adempimenti necessari ai fini della notifica dell’atto, e non quello, eventualmente successivo, di conoscenza dello stesso da parte del contribuente ”. In presenza di un orientamento che pareva consolidato, l’ordinanza di rimessione n. 15545 del 21 luglio 2020 della Sezione tributaria aveva ipotizzato un contrasto col diverso principio, anch’esso costantemente e pacificamente applicato, enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite 5 ottobre 2004, n. 19854 , secondo cui: « la natura sostanziale e non processuale (né assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario - che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria - non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c.. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza - previsto dalle singole leggi d’imposta - per l’esercizio del potere di accertamento ». A) La sentenza in esame (che merita di essere segnalata anche perché con una pregevole disquisizione teorica) ha dapprima esaminato la natura dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria e il rapporto tra lo stesso e la sua notificazione: - l’atto tributario è l’atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria; esso ha natura sostanziale e non processuale pur se a esso, stante l’espresso richiamo contenuto nella disciplina tributaria a istituti appartenenti al diritto processuale, può estendersi, in virtù dell’applicazione all’avviso di accertamento delle norme sulle notificazioni nel processo civile, il regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato; - l’atto di imposizione tributaria è sottoposto a un regime procedimentale che, pur nelle sue peculiarità rispetto a quello generale dell’atto amministrativo, lascia ben distinta la fase di decisione, o di perfezione dell’atto, dalla fase integrativa della sua efficacia; in particolare, in assenza di una normazione generale sull’atto amministrativo di imposizione tributaria, dall’esame delle principali leggi speciali d’imposta si riscontra che in esse si segue, in genere, questa sequenza: si regola, anzitutto la fase istruttoria dell’esercizio del potere di accertamento, si disciplina, poi, il risultato della fase della decisione, cioè l’avviso di accertamento o di liquidazione, di cui si prevede il carattere recettizio, sottoponendolo all’operazione di conoscenza della notificazione, per la quale si fissa un termine di decadenza a carico dell’Ufficio tributario; - la notificazione non è un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria e non contribuisce alla sua perfezione (tanto è chiaramente riconosciuto dall’art. 19, comma 3, n. 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, ai sensi del quale “la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”, dal che si deduce che la mancanza della notificazione di un atto amministrativo d’imposizione tributaria non influisce sulla sua esistenza; - questo regime generale ha radicato nella giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità il principio secondo cui la notificazione della decisione tributaria non è un elemento per la sua giuridica esistenza, ma ne rappresenta una mera condizione di efficacia; - in tal senso, la notificazione dell’atto tributario, già esistente e perfetto, assolve alla duplice sanzione di tutelare le contrapposte esigenze del diritto dello Stato a riscuotere agevolmente quanto necessario per affrontare le spese pubbliche cui tutti concorrono in ragione della propria capacità contributiva (ai sensi dell’art. 53 Cost.), e del diritto del contribuente a non subire danni ingiusti dagli atti autoritativi dello Stato; la notificazione rileva in quanto è processo produttivo di conseguenze sul rapporto giuridico fisco-contribuente perché, da un lato, assolve al rito della ricettività degli atti amministrativi di accertamento e, dall’altro, risponde all’esigenza di assicurare il contraddittorio tra le parti; - è in tale ottica che va inquadrata la natura recettizia dell’atto di imposizione tributaria: esso non è, sicuramente, atto recettizio nei sensi di cui all’art. 1334 c.c., perché tale norma vale solo per gli atti negoziali (laddove, di contro, l’atto di imposizione tributaria ha indubbia natura di provvedimento amministrativo vincolato con il quale si determina autoritativamente l’obbligazione tributaria), ma lo è perché la recettività è sua “condizione di efficacia”; - in altri termini, l’atto amministrativo d’imposizione tributaria è una dichiarazione recettizia solitaria che non necessita di per sé della collaborazione cognitiva di altri soggetti per svolgere la sua funzione, ma è solo per la sua forza di limitazione della sfera di un altro soggetto che si vuole che questi sia posto in condizione di conoscibilità e che a tale condizione sia subordinata l’efficacia della dichiarazione. Ne deriva, a differenza della dichiarazione recettizia non solitaria, per la quale la conoscenza del destinatario è condizione necessaria perché la dichiarazione esplichi, non solo i suoi effetti giuridici, ma anche la sua funzione pratica, l’idoneità della decisione amministrativa tributaria a produrre, anche da sola, il risultato effettivo per il quale è stata formulata; - alla luce di questi “superiori e consolidati principi” si deve affermare che “l’atto tributario, perfetto e valido sin dal momento della sua emissione, esplica i suoi effetti (di incisione sulla sfera giuridica del contribuente e di attivazione del contraddittorio tra questi e l’amministrazione) con la sua notificazione che rimane, però, momento susseguente e autonomo, rispetto a quello di giuridica formazione dell’atto, tant’è che eventuali vizi del procedimento notificatorio non incidono sull’esistenza e sulla validità dell’atto stesso”. La Corte ha concluso il ragionamento affermando che “non appare revocabile in dubbio l’applicabilità, anche agli atti impositivi tributari, del principio di scissione degli effetti della notificazione tra il notificante ed il destinatario dell’atto”, principio peraltro dal 2006 codificato nel sesto comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 il quale dispone che: “ qualunque notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione ”. Né, per la Corte, è fondato l’ipotizzato contrasto con l’altro principio sancito dalle Sezioni Unite: i due orientamenti segnalati riguardano fattispecie diverse (il primo, la scissione soggettiva degli effetti della notificazione; il secondo, l’applicabilità della sanatoria processuale per raggiungimento dello scopo se la notificazione non si è perfezionata per una sua invalidità). La scissione soggettiva, infatti, non opera se la notificazione non si perfeziona e decadono anche gli effetti provvisori prodotti. All’opposto, se la notifica si perfeziona gli effetti di essa retroagiscono per il notificante al momento in cui ha consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario (ovvero all’ufficio postale). In altri termini, tale consegna produce per il notificante effetti immediati e provvisori, che si stabilizzano e diventano definitivi se e solo se la notifica viene validamente perfezionata. In tale ottica, i due principi convivono, in quanto il principio dell’estensione della sanatoria ex art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo dell’atto, consente di superare il vizio di notifica dell’atto tributario ai fini dell’instaurazione del contraddittorio su di esso, una volta che sia impugnato, ma non consente di evitare una decadenza maturata, prima della conoscenza effettiva da parte del destinatario, perché, in mancanza di valido perfezionamento del procedimento notificatorio, non si può far leva sugli effetti provvisori favorevoli al notificante in virtù del principio di scissione soggettiva degli effetti. Per cui, in definitiva, in considerazione della esplicita normazione del principio di scissione soggettiva degli effetti della notificazione per gli atti tributari contenuta nell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’applicabilità dello stesso principio in virtù dell’espresso richiamo, formulato dallo stesso art. 60, alle norme processuali civili in materia di notificazioni, e della indubbia valenza generale della regola (come già evidenziata, alla luce del principio di ragionevolezza e all’esito di un bilanciamento degli interessi coinvolti, da numerose pronunce), la Corte non ha ravvisato la sussistenza di “ragioni ostative alla conferma dell’orientamento consolidato, in materia, della Sezione ordinaria e, quindi, all’affermazione della piena applicabilità della regola anche agli atti tributari impositivi e di riscossione”. B) Quanto all’applicabilità del principio della scissione soggettiva degli effetti notificatori quando la notificazione non è effettuata dall’ufficiale giudiziario bensì dal messo notificatore speciale ex art. 60, primo comma, lett. a), del d.P.R. n. 600 del 1973 (dipendente dell’Agenzia delle Entrate, o mero incaricato), la Corte ha osservato che le obiezioni contenute nell’ordinanza di rimessione erano basate sull’assunto che trattasi di un organo interno all’amministrazione con la conseguenza che, per detta circostanza, l’amministrazione dovrebbe subire i rischi degli eventuali ritardi del proprio organo interno senza potere invocare l’assenza di colpa derivante dagli eventuali ritardi di organi terzi quali sono l’ufficiale giudiziario o quello postale. Ma la Corte ha obiettato: - per un primo profilo, una “impropria sovrapposizione tra rapporto di servizio e attività funzionale”; difatti, l’art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel concedere all’ufficio o all’ente locale la facoltà di provvedere “alle notificazioni anche a mezzo del messo comunale o di messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria”, equipara la figura del messo notificatore autorizzato a quella del messo comunale il quale, nello svolgimento dell’incarico di notificazione, svolge una funzione indipendente rispetto a quella dell’amministrazione di appartenenza, restando pertanto a egli applicabili i principi generali con riferimento al momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario; ne discende che il messo speciale autorizzato svolge una funzione indipendente rispetto a quella dell’amministrazione a cui appartiene; a tale riguardo la Corte ha osservato che il citato comma 4 dell’art. 16, secondo cui la notificazione espletata per il tramite del messo (comunale o autorizzato dall’Ufficio) si effettua con l’osservanza delle disposizioni del comma 2 (secondo le norme degli art. 137 e ss. c.p.c.), induce a ritenere che il legislatore tributario abbia inteso, in tal modo, significare la scelta della totale equiparazione della posizione funzionale del messo notificatore e di quella dell’ufficiale giudiziario, sicché all’uno non può che applicarsi la stessa disciplina di azione che si applica anche all’altro; - per un secondo profilo, che l’esigenza posta alla base della regola della scissione soggettiva degli effetti della notificazione è sì evitare pregiudizi per attività in parte sottratte ai poteri di impulso del notificante, ma è anche impedire irragionevolmente un effetto di decadenza, la quale ha senso come sanzione solo se rapportata ad un’effettiva inerzia della parte nel termine fissato per legge, termine che gli deve essere riconosciuto per intero; ebbene, in tale logica rimane ininfluente la natura del soggetto notificatore (terzo o dipendente della parte notificante) essendo invece rilevante, ai fini dell’impedimento della decadenza, unicamente che la parte gravata svolga le attività poste a suo carico (emissione dell’atto e richiesta per la notificazione) nel termine perentorio di legge, e che, al fine di garantire l’effettività dell’esercizio dei suoi diritti, sia messa in grado di svolgerle sino all’ultimo momento. Per cui escludere dalla regola qui in esame le notificazioni effettuate dall’amministrazione a mezzo dei messi speciali autorizzati comporterebbe non solo un’ingiustificata e irragionevole riduzione del termine per l’esercizio del potere impositivo nei confronti dell’Ente impositore, solo perché si è avvalso, tra le varie tipologie di notificazione possibile, dell’opera di un soggetto che il legislatore ha appositamente previsto per l’esigenza opposta (ovvero assicurare una notificazione dell’atto impositivo la più diretta e, quindi, celere possibile), ma condurrebbe anche a incentivare forme di notificazione contrarie allo stesso spirito della legge che tali speciali messi notificatori ha previsto, o comportamenti in violazione dello spirito di collaborazione che, pure, deve improntare il destinatario della notificazione.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 07 dic, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 26 novembre 2021, n. 36846 L’Agenzia delle Entrate iniziò un accertamento nei confronti di un professionista a seguito di una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza che si era conclusa con la notifica del relativo processo verbale di constatazione . L’Agenzia prese quindi in esame quel processo verbale, le osservazioni e i documenti prodotti dal contribuente e dispose un “ accesso mirato ” presso lo studio del professionista per raccogliere altra documentazione e per acquisire informazioni sui beni strumentali da egli posseduti. Pochi giorni dopo il contribuente produsse una memoria e ulteriore documentazione. Successivamente l’Amministrazione finanziaria emise l’avviso di accertamento nel rispetto del termine dilatorio di 60 giorni previsto dal comma 7 dell’art. 12 della l. n. 212 del 2000 (“ dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza ”) considerando tuttavia la sua decorrenza dalla notifica del processo verbale da parte della Guardia di Finanza. L’interessato ha impugnato il provvedimento lamentando che la decorrenza del termine dilatorio di sessanta giorni non avrebbe dovuto essere calcolata dalla notifica del processo verbale bensì dall’ultimo accesso effettuato dall’Amministrazione finanziaria, tanto più che l’avviso di accertamento era frutto (anche) delle verifiche posteriori a quella notifica. Quest’interpretazione del comma 7 dell’art. 12 in esame è stata avvallata dalla Corte di legittimità che ha osservato come il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza non aveva definito l’attività di accertamento con un successivo ed eventuale completamento a tavolino mediante riscontri interni. Infatti, solo in quest’ultimo caso è fermo il principio in forza del quale il termine dilatorio non deve essere rispettato nell’ipotesi in cui, dopo la chiusura del processo verbale, l’Ufficio procede autonomamente a ulteriori verifiche sulla base di un’istruttoria interna, anche con richiesta di giustificazioni al contribuente, quale aggiuntiva e autonoma attività rispetto all’accesso presso i locali (sez. VI, 30 ottobre 2018, n. 27732). All’opposto, il verbale della Guardia di Finanza esaminato in corso di causa aveva “semplicemente segnato un passaggio della procedura”, che è poi proseguita con “il confronto con il contribuente, l’acquisizione di documenti e l’accesso presso lo studio del professionista per acquisire ulteriori dati e documenti, che ha permesso all’Ente impositore anche di acquisire dati sui beni strumentali di cui il contribuente disponeva, elementi evidentemente essenziali nell’ambito dell’accertamento tributario”. La Corte ha anche ricordato di aver già chiarito che “ ove siano eseguiti più accessi nei locali dell’impresa per reperire documentazione strumentale all’accertamento, il termine di sessanta giorni decorre dall’ultimo accesso, in quanto postula il completamento della verifica e la completezza degli elementi dalla stessa risultanti, essendo posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio, in modo da attribuire al contribuente un lasso di tempo sufficiente a garantirgli la piena partecipazione al procedimento e ad esprimere le proprie valutazioni ”, e che il termine dilatorio di cui si discute “ decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo " (sez. V, 23.1.2020, n. 1497; id., sez. VI, 25.5.2021, n. 14315). In definitiva, la Corte di Cassazione ha affermato che il comma 7 dell’art. 12 non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell’accesso e che, di conseguenza, anche in caso di “accesso breve”, o di “accesso mirato”, comunque finalizzato all’acquisizione di documentazione, si verifica un’intromissione autoritativa dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente, intromissione che deve essere controbilanciata dalle garanzie di cui all’art. 12 dello statuto dei diritti del contribuente .
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 23 nov, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 16 novembre 2021, n. 34445 La Corte di Cassazione precisa che “non è priva di senso logico-giuridico” la distinzione – in passato talvolta disconosciuta – tra “ credito non spettante e/o non utilizzabile ” e “ credito inesistente ”. Difatti, per il “credito non spettante e/o non utilizzabile” valgono le seguenti disposizioni: - il comma 421 dell’art. 1 della l. n. 311 del 2004 stabilisce che “per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, … l’Agenzia delle Entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973”; il successivo comma 422 dispone che “in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme dovute entro il termine assegnato dall’Ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni, si procede alla riscossione coattiva con le modalità previste dal d.P.R. n. 602 del 1973”; - il comma 4 dell’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 punisce l’utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante, o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti, con la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato. Per il “credito inesistente” valgono le seguenti disposizioni: - i commi da 16 a 20 dell’art. 27 del d.l. n. 185 del 2008 prevedono che l’atto di recupero “emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”, e che “in caso di mancato pagamento entro il termine assegnato dall’Ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni, le somme dovute in base all’atto di recupero …, anche se non definitivo, sono iscritte a ruolo ai sensi dell’art. 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973; - il comma 5 dell’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 che ne porta la definizione positiva: “si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36 bis e 36 ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54 bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”; - lo stesso comma 5, che prevede che “nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi” e che non si applichi, “in nessun caso, la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472”. Ebbene, le riportate norme confermano la dignità della distinzione delle due categorie di crediti . È significativo che il comma 421 dell’art. 1 della l. n. 311 del 2004 si riferisca alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte” in termini generali, mentre la disposizione che estende il termine di decadenza all’ottennio dal relativo utilizzo concerne la sola riscossione di “crediti inesistenti utilizzati in compensazione”, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, “ossia - già intuitivamente, sul piano semantico, prim’ancora che giuridico - a una fattispecie necessariamente più ristretta rispetto a quella generale, ed evidentemente ritenuta più grave”. A ciò si aggiunga che l’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 è stato sostituito - con decorrenza 1° gennaio 2016 - a opera dell’art. 15, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 158 del 2015 e che tale ultima “novella mira a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di credito inesistente ad una dimensione anche secondo il linguaggio comune ‘non reale’ o ‘non vera’, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza”. Ulteriore conseguenza della distinzione, è che soltanto il credito inesistente viene iscritto per l’intero importo nel ruolo straordinario previsto dall’art. 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973 , mentre il credito non spettante deve essere iscritto, a titolo provvisorio e solo per un terzo del suo ammontare, nel ruolo ordinario, ai sensi dell’art. 15 dello stesso d.P.R. n. 602 del 1973. Per cui la Corte di legittimità ha affermato il seguente principio di diritto: « in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza ottennale previsto dal d.l. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito ‘non spettante’ bensì di un credito ‘inesistente’, per tale ultimo dovendo intendersi - ai sensi del d.lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 5, terzo periodo - il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, ‘reale’) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui al d.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis e 36 ter e al d.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis ».
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 10 nov, 2021
Cassazione Civile, Sez. VI-5, 26 ottobre 2021, n. 30083 L’art. 21 (rubricato “Termine per la proposizione del ricorso”), comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 prescrive che “ il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato ”. Il successivo comma 2 stabilisce che “ il ricorso avverso il rifiuto tacito della restituzione di cui all’art. 19, comma 1, lett. g), può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione ”. A sua volta, il citato art. 19, comma 1, lett. g), stabilisce che “il ricorso può essere proposto avverso il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti”. Dal combinato disposto delle riportate disposizioni discende che: - la domanda di rimborso o di restituzione di un tributo, e comunque di quanto pagato in quantità eccedente, deve essere presentata all’Amministrazione competente, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dalla disciplina di settore o, secondo la norma generale residuale di cui al comma 2 dell’art. 21, entro due anni dal pagamento; - se a seguito della domanda il contribuente riceve dall’Ufficio un provvedimento esplicito di diniego, questo deve essere impugnato entro 60 giorni dal perfezionamento della sua notificazione; - all’opposto, se l’Ufficio non risponde e sulla domanda si forma il silenzio rifiuto , questo non è impugnabile entro 60 giorni ma entro il termine di prescrizione; difatti, per il contribuente inizia a decorrere il termine decennale della prescrizione ordinaria di cui all’art. 2946 c.c., termine che decorre solo se e quando il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.) e che è sospeso durante il tempo di formazione del silenzio rifiuto a norma dell’art. 21 che, per l’appunto, prevede che l’istanza di rimborso si intende respinta quando sono trascorsi 90 giorni dalla data della sua presentazione senza che l’Ufficio si sia pronunciato. Il principio è, quindi, quello per cui, in caso di silenzio-rifiuto, il termine di prescrizione decorre da quando quest’ultimo si forma, cioè non dalla data dell’istanza ma alla scadenza dei 90 giorni successivi. Applicando tali principi, con la sentenza n. 30083 del 26 ottobre 2021 la Corte di cassazione ha riformato la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva affermato, erroneamente, che il ricorso avverso il silenzio rifiuto dovesse essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione ed entro 60 giorni da tale data, cosicché il termine complessivo per la proposizione del ricorso sarebbe stato di 90 più 60 giorni. La Corte ha così precisato che il Giudice d’appello “erroneamente aveva ritenuto che in caso di silenzio rifiuto dell’Amministrazione fosse applicabile il termine di 60 giorni per proporre ricorso previsto dal d.lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 1, dettato per l’ipotesi di un provvedimento esplicito di diniego, mentre per la fattispecie del rifiuto tacito il successivo comma 2 detta una disciplina ad hoc che contempla solo un termine di decadenza di due anni dal pagamento per la domanda di restituzione e un termine di prescrizione del diritto alla restituzione di dieci anni”. A tanto vale soggiungere che se, dopo la formazione del silenzio rifiuto in base al principio dell’inesauribilità del potere, l’Amministrazione interrompe la propria inerzia notificando all’interessato un provvedimento di reiezione, anche parziale, dalla data di tale notificazione inizia a decorrere il termine decadenziale per l’impugnazione dell’atto esplicito di rigetto, “ dovendosi escludere che il contribuente possa proseguire la controversia già introdotta con l’impugnazione del silenzio rifiuto ”, rispetto alla quale sopravviene carenza di interesse (Cass. civ., sez. V, 21.9.2021, n. 25446).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 06 nov, 2021
Corte Costituzionale 26 ottobre 2021, n. 200 Con le ordinanze nn. 5483 e 5484, del 28 febbraio 2020, la Sez. V della Corte di cassazione aveva osservato che il comma 3 dell’art. 57 del d.lgs. n. 504 del 1995 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative - t.u. accise) stabilisce che “ il termine di prescrizione per il recupero dell’imposta è di cinque anni dalla data in cui è avvenuto il consumo ” e che “ in caso di comportamenti omissivi la prescrizione opera dal momento della scoperta del fatto illecito ”. Aveva altresì rilevato che l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997, sulle sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, prevede che l’atto di contestazione o di irrogazione delle sanzioni in materia tributaria deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione “o nel diverso termine previsto per l’accertamento dei singoli tributi” quale è, appunto, quello previsto dall’57, comma 3, secondo periodo. Pertanto, la Sezione ha affermato che in caso di comportamenti omissivi del contribuente le riportate disposizioni non prevedono una data certa di inizio della decorrenza del termine di prescrizione delle obbligazioni tributarie e delle sanzioni correlate al loro inadempimento, e che, di conseguenza, un termine iniziale indeterminato e indeterminabile comporta che il contribuente rimanga esposto per un tempo indefinito all’azione dell’Amministrazione. E tanto a differenza di quanto previsto per le imposte erariali, per le quali la decorrenza del termine prescrizionale coincide con la data di scadenza dell’obbligo inadempiuto, ossia con la consumazione dell’illecito omissivo, anche nel caso di condotta particolarmente lesiva quale quella dell’evasore totale (vedasi gli artt. 57, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, 43, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 76, comma 1, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131). La Corte di legittimità ha pertanto ravvisato la lesione del principio di ragionevolezza, ai sensi dell’art. 3 Cost., in quanto la diversa disciplina contenuta nella norma censurata sarebbe frutto di discrezionalità immotivata e determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti, nonché del diritto di difesa ai sensi dell’art. 24 Cost. in relazione all’assoggettamento a tempo indeterminato del contribuente all’azione accertatrice e sanzionatoria dell’Amministrazione finanziaria. Con la sentenza n. 200 del 26 ottobre 2021 la Corte costituzionale ha anzitutto condiviso l’interpretazione della disposizione censurata offerta dalla Cassazione: “ la norma censurata, identificando nella scoperta dell’illecito il termine di decorrenza della prescrizione del credito tributario - e della decadenza dalla pretesa sanzionatoria, per effetto del rinvio operato dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997 - non individua in maniera certa il dies a quo di inizio del computo, così esponendo a tempo indeterminato il contribuente alle pretese del Fisco, potenzialmente avanzabili anche a distanza di decenni dall’insorgenza dell’obbligo rimasto inadempiuto, in violazione dell’art. 24 Cost. Ad aggravare il pregiudizio del diritto di difesa, quantomeno con riferimento al credito dell’imposta, concorrono l’esclusiva previsione di un termine di prescrizione - suscettibile, a differenza di quello di decadenza, di interruzione e, quindi, eventuale fonte di ulteriore indeterminatezza - nonché la circostanza che l’obbligo di conservazione documentale, funzionale a contraddire le pretese del fisco, sia previsto per un tempo molto più breve (artt. 2220 del codice civile e 8, comma 5, della l. n. 212 del 2000 nonché l’art. 15, comma 6, t.u. accise) ”. La Suprema Corte ha poi aggiunto di aver già chiarito che il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. impedisce un’indeterminata o irragionevolmente ampia soggezione del contribuente all’azione accertativa del Fisco, ancorché condizionata dal mancato compimento di una specifica attività posta dalla legge a carico del contribuente medesimo. E che l’esigenza di certezza nei rapporti giuridici impone un termine prescrizionale determinato per l’esercizio dell’azione di recupero dei tributi. Nondimeno, sebbene sia “palese l’inadeguatezza del regime tuttora dettato dall’art. 57, comma 3, secondo periodo, t.u. accise, rispetto alle esigenze poste dall’art. 24 Cost.”, la Corte costituzionale ha affermato di non poter porvi rimedio perché la reductio ad legitimitatem auspicata dal Giudice rimettente “postula un intervento manipolativo-additivo, la cui scelta è prioritariamente affidata alla discrezionalità del Legislatore”, chiamato a un ineludibile e tempestivo intervento legislativo perché la declinazione costituzionale del diritto di difesa impedisce di lasciare il contribuente assoggettato all’azione del Fisco per un tempo indeterminato.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 12 ott, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 22 settembre 2021, n. 25684 Una persona era stata condannata al risarcimento dei danni subiti dal coniuge a seguito dell’appropriazione indebita di una somma di denaro versata sul conto corrente cointestato ma appartenente in via esclusiva al coniuge. Nei confronti della persona condannata l’Agenzia delle Entrate ha accertato un maggior reddito IRPEF per la provata sussistenza di un provento illecito assoggettabile a tassazione. Il contribuente ha impugnato il provvedimento di accertamento, anche affermando che la somma versata dal suo coniuge sul conto corrente cointestato presumeva una donazione indiretta della metà a suo favore. Ma la Corte di Cassazione non ha condiviso le tesi del contribuente. In termini generali, si rammenta che l’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993 - laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e che i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria - costituisce interpretazione autentica della normativa contenuta nel predetto testo unico delle imposte sui redditi. Con la decisione di considerare reddito imponibile l’arricchimento derivato dal prezzo del reato (c.d. pretium sceleris), il Legislatore ha inteso sottrarre all’autore dell’illecito parte dei vantaggi economici acquisiti. In termini puntuali riferiti ai fatti di causa, la Corte di legittimità ha osservato che, sul piano civilistico, il versamento di una somma di danaro da parte di un coniuge su di un conto corrente cointestato all’altro coniuge non costituisce, di per sé, un atto di liberalità. Difatti l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito che risulti però essere appartenuta a uno solo dei contestatari, può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità. Per cui, in assenza di circostanze univocamente suffraganti l’immanenza di uno spirito liberale, il mero versamento da parte del coniuge di danaro personale sul conto corrente cointestato al contribuente non è idoneo a fondare una presunzione di appartenenza pro quota a quest’ultimo. Sul piano fiscale, la Corte ha ribadito che anche i proventi derivanti da fatti illeciti rientrano nelle categorie reddituali e che, di conseguenza, devono essere assoggettati a tassazione pure se il contribuente - come nel caso di specie - è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento del danno. Infatti, la condanna al restituzione e al risarcimento è un fatto che, in linea di principio, non influisce sulla nascita dell’obbligazione tributaria perché, logicamente e cronologicamente, è successivo al verificarsi del presupposto d’imposta dal quale deriva l’obbligazione. Il risarcimento, inoltre, non è specificamente previsto tra i fatti impeditivi o estintivi dell’obbligazione tributaria. Ed ancora, il fatto che ci sia stata la condanna alla reintegrazione e al risarcimento non significa che la sentenza sia stata eseguita e, quindi, non vi è prova che l’incremento di ricchezza sia stato azzerato, ammesso che la regressione finanziaria possa incidere, retroattivamente, nell’anno di imposta oggetto di accertamento (cfr., in termini, Cass. civ., Sez. V, 5.6.2000, n. 7511; id., Sez. VI, 24.10.2019, n. 27357).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 29 set, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 9 settembre 2021, n. 24255 L’Agenzia delle Entrate aveva acquisito sentenze presso vari uffici giudiziari dalle quali emergeva che uno studio professionale di avvocati aveva patrocinato una serie di difese. Nondimeno, nessuno dei legali associati aveva dichiarato quei compensi. Da ciò una rettifica analitica-induttiva ai sensi dell’ art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 , l’espletamento del contraddittorio con gli interessati senza che questi “fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi”, e l’emanazione di avvisi di accertamento nei confronti dell’associazione e dei singoli associati con la contestazione di maggiori redditi da lavoro autonomo e di un maggiore volume d’affari, da cui scaturiva una maggiore pretesa fiscale ai fini IRAP e IVA nonché l’applicazione delle relative sanzioni. L’accertamento, fondato dunque sulla presunzione che a seguito del deposito della sentenza l’avvocato difensore riceva il compenso, è stato giudicato legittimo. In particolare, la Corte di Cassazione ha: - innanzitutto, precisato che il fatto che dalla contabilità dello studio non risultava il versamento di alcun compenso era irrilevante visto che la ricostruzione analitico-induttiva del reddito prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti (requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.); - e che anche il fatto che non risultavano fatture era inconsistente in quanto “appare ragionevole ritenere che la fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte”; -all’opposto, l’utilizzo di una presunzione per individuare il momento dell’effettiva percezione del reddito - individuato con il deposito della sentenza, atto che conclude l’incarico professionale - è legittimo perché conforme ai criteri generali posti dagli artt. 2727 e 2729 c.c.; - è già stato affermato che per le imposte sui redditi “il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale” (Cass. Civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969); - la prestazione difensiva ha carattere unitario e ciò importa che gli onorari di avvocato devono essere liquidati una volta posta in essere una prestazione tecnicamente idonea a raggiungere il risultato a cui quella prestazione è diretta e in base alla tariffa vigente nel momento in cui essa è condotta a termine; - più precisamente, l’unitarietà va rapportata ai singoli gradi in cui si è svolto il giudizio, e quindi al momento della pronunzia che chiude ciascun grado; - manifestazione dell’unitarietà della prestazione è anche la decorrenza della prescrizione del diritto dell’avvocato al compenso che, ai sensi dell’art. 2957 c.c., decorre dal momento dell’esaurimento dell’affare (decisione della lite o conciliazione delle parti) per il cui svolgimento fu conferito l’incarico. Per cui in presenza di una prova indiziaria grave, precisa e concordante - le sentenze - era onere del contribuente avvocato dare la prova di non aver percepito i relativo compenso o che precisi fattori ne avevano impedito l’incasso (per esempio, producendo diffide ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l’infruttuosità dell’esecuzione). E ciò non significa chiedere una prova negativa, perché “può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto è tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 20 ago, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 13 luglio 2021, n. 19885 L’ art. 32, primo comma, n. 7), del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che gli Uffici finanziari possono chiedere, previa autorizzazione del direttore centrale o regionale dell’Agenzia delle Entrate o del comandante regionale della Guardia di Finanza, a “ banche, Poste italiane spa, società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie, intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e società fiduciarie ” i “ dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi o dagli operatori finanziari sopra indicati e le generalità dei soggetti per i quali gli stessi operatori finanziari abbiano effettuato le suddette operazioni e servizi o con i quali abbiano intrattenuto rapporti di natura finanziaria ”. Ai sensi del n. 2) dello stesso primo comma dell’art. 32, i dati, le notizie e i documenti in tal modo rinvenuti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti “ se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine ”. Alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, “i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”. In tal modo, il Legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa , in forza della quale l’Amministrazione finanziaria deve provare l’esistenza di una movimentazione di denaro non considerata nella determinazione del reddito, mentre spetta al contribuente dimostrare l’estraneità o l’irrilevanza di quell’operazioni rispetto al suo reddito. Più specificatamente: - la presunzione legale secondo cui i “prelevamenti” sono considerati ricavi è utilizzata nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa soggetti all’obbligo di tenuta delle scritture contabili (così dopo la correzione apportata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e attività professionale ai fini della presunzione legale di ricavi o compensi, e ciò per la specificità la figura del lavoratore autonomo rispetto a quella dell’imprenditore per cui “è arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale”); - la presunzione legale della disponibilità di maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari, postali, assicurativi, … dove sono stati rinvenuti “versamenti” non giustificati “si estende alla generalità dei contribuenti ”, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, primo comma, n. 2). Tale presunzione si fonda sul principio dell’ id quod plerumque accidit , cioè sul dato di comune esperienza in base al quale le somme versate sul conto e non giustificate è verosimile che sottendano al corrispettivo di una cessione o di una prestazione resa in evasione d’imposta. Nella vicenda esaminata dalla Cassazione in commento, in presenza di un contribuente che aveva acquistato un immobile, l’Agenzia delle Entrate aveva provato che sul conto corrente dell’interessato erano affluite somme di denaro a seguito di accreditamenti dall’estero. Ciò è stato ritenuto sufficiente per dimostrare, in via presuntiva, la disponibilità di maggiori redditi tassabili. E ciò ha determinato un' inversione dell’onere della prova per cui spettava al contribuente provare, con elementi circostanziati, che quel denaro non aveva rilevanza ai fini del suo reddito. Sul punto non è stato considerata sufficiente l’affermazione del privato che sul suo conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi, in quanto, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal citato art. 32, “ non è sufficiente dimostrare genericamente di avere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario somme affidategli da terzi ma è necessario che egli fornisca la prova analitica della inerenza alla sua attività di maneggio di denaro altrui di ogni singola movimentazione del conto ”. Sulla valutazione delle prove, la giurisprudenza della Corte di legittimità è difatti univoca nell’affermare che, sul fronte dell’Amministrazione, l’onere probatorio è soddisfatto con l’esibizione dei dati e degli elementi risultanti dai conti correnti, e che spetta al contribuente dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili a operazioni imponibili, dovendo egli fornire, a tal fine, prove non generiche ma analitiche, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili. Per cui “ debbono essere indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti ”. E “a fronte dell’analiticità nella deduzione del mezzo di prova, o comunque delle allegazioni difensive da parte del contribuente, corrisponde una speculare analiticità da parte del giudice nell’esaminare quanto dedotto e documentato” (Cass. Civ., Sez. V, 22.5.2020, n. 9423).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 22 lug, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 5 luglio 2021, n. 18895 In sede di dichiarazione dei redditi modello Unico, una Società contribuente aveva dichiarato un valore della produzione netta pari a x e un correlato importo del dovuto acconto IRAP pari a y. In seguito, però, aveva effettuato il versamento dell’acconto per un importo inferiore a quello dichiarato. La discrasia è emersa in sede di controllo automatizzato delle dichiarazioni, ai sensi dell’art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, e da ciò il conseguente invio alla Società di una cartella di pagamento. In sede giurisdizionale la Società ha riconosciuto di avere commesso un errore nella compilazione della dichiarazione dei redditi (riportando una non corretta indicazione del valore della produzione) e ha al contempo affermato di aver effettuato il pagamento dell’imposta nel rispetto delle disposizioni di legge al tempo vigenti. Tale assunti erano stati apprezzati dalla Commissione tributaria regionale che ha dato atto che la dichiarazione dei redditi riportava una non corretta indicazione del valore della produzione e che ha rilevato sia che il calcolo dell’imposta effettuato dalla Società era rispettoso delle disposizioni di legge, sia che la stessa contribuente, con la documentazione prodotta in giudizio, aveva dimostrato la correttezza dell’ammontare delle riduzioni di valore operate e portate in deduzione dalla base imponibile IRAP. Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza è stato respinto con la sentenza in esame: - per un primo profilo, perché la contestazione rivolta alla metodologia di calcolo utilizzata dalla Società e fatta propria dal Giudice di appello era, in realtà, volta a riproporre una questione che atteneva al merito e alla valutazione delle prove acquisite agli atti del giudizio per ottenere una diversa ricostruzione contabile; si trattava, in altre parole, di un accertamento di mero fatto non scrutinabile in sede di legittimità per “non trasformare, surrettiziamente, il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto dei fatti storici, quanto le valutazioni di quei fatti espresse dal giudice di appello - non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone alle proprie aspettative”; - per altro e più sostanziale profilo, perché “la dichiarazione dei redditi non è una dichiarazione di volontà ma una dichiarazione di scienza, emendabile e ritrattabile, con la conseguenza che il contribuente è sempre ammesso, in sede contenziosa, a provare che l’originaria dichiarazione era viziata da un errore di fatto o di diritto e che il presupposto impositivo non era sussistente; al verificarsi di tale condizione, in applicazione delle regole generali sulla ripartizione dell’onere della prova stabilite dall’art. 2697 c.c., spetta al contribuente che ritratta la propria dichiarazione dimostrare il fatto impedivo dell’obbligazione tributaria”, ossia la mancanza del presupposto impositivo. In tal senso, è stato sottolineato che il titolo dell’obbligazione tributaria non risiede nella dichiarazione, la quale integra solamente un momento dell’ iter procedimentale inteso all’accertamento di tale obbligazione e al soddisfacimento delle ragioni erariali che ne sono l’oggetto. Tale ricostruzione è compatibile con i principi costituzionali sulla capacità contributiva (art. 53, comma 1, della Costituzione) e sull’oggettiva correttezza dell’azione amministrativa (art. 97, comma 1, della Costituzione) perché un sistema legislativo che nega la rettificabilità della dichiarazione sottoporrebbe il contribuente a un prelievo fiscale sostanzialmente e legalmente indebito (Cass. Civ., Sez. Unite, 25.10.2002, n. 15063; Sez. Unite, 30.6.2016, n. 13378). Ed ancora, se così non fosse si determinerebbe un’irrazionale disparità di trattamento tra coloro che chiedono il rimborso di un’imposta versata e non dovuta, onerati di fornire la prova del diritto alla restituzione, rispetto a coloro che, dopo essersi dichiarati soggetti all’imposta e averla indicata nella dichiarazione, ne omettono (in tutto o in parte) il versamento (cfr., Cass. Civ., Sez. V, 5.3.2020, n. 6239). Il principio che, in via generale, le denunce dei redditi costituiscono dichiarazioni di scienza e possono pertanto essere modificate ed emendate in presenza di errori che espongono il contribuente al pagamento di tributi maggiori di quelli effettivamente dovuti è oramai consolidato in giurisprudenza, la quale ha tuttavia precisato che l’emendabilità degli errori commessi in dichiarazione deve essere circoscritta all’indicazione di quei dati, relativi alla quantificazione delle poste reddituali positive o negative, che integrino errori tipicamente materiali (per esempio, errori di calcolo o di errata liquidazione degli importi) oppure formali (concernenti l’esatta individuazione della voce del modello da compilare nella quale collocare la posta). Conseguentemente, occorre tenere bene distinti i casi in cui, compilando la dichiarazione dei redditi, il contribuente effettua una vera e propria scelta (per esempio, per avvalersi di un beneficio fiscale), poiché in tali ipotesi la relativa sezione della dichiarazione consiste nella formulazione di una precisa manifestazione di volontà da compiersi con la compilazione di un modulo che, per questa parte, assume il valore di un atto negoziale irretrattabile . Tale manifestazione di volontà integra l’esercizio di un potere discrezionale di scelta riconducibile a una tipica manifestazione di autonomia negoziale del soggetto, volontà diretta a incidere sull’obbligazione tributaria e sul conseguente effetto vincolante di assoggettamento all’imposta. Pertanto, eventuali errori della volontà espressa dal contribuente assumono rilevanza soltanto ove sussistano i requisiti di essenzialità e di riconoscibilità ai sensi dell’ art. 1428 c.c. (Cass. Civ., Sez. V, 29.11.2019, n. 31237).
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini 14 lug, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 1 luglio 2021, n. 18702 L’art. 2 del d.P.R. n. 917 del 186 disciplina la residenza fiscale: “ 1. Soggetti passivi … sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato. 2. … si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. 2 bis. Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale ”. (Fino al 31.12.2007 quest’ultimo comma recitava “2 bis. Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”). La differenza con il regime anteriore al 2008 consiste nella sostituzione del riferimento agli “Stati aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze”, con la formula “ Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze ”. Con ciò il precedente sistema, incentrato sull’individuazione con decreto ministeriale dei c.d. “paradisi fiscali” inseriti in black list , è stato sostituito col nuovo sistema basato sull’individuazione degli Stati aventi un regime fiscale conforme a standard di legalità e trasparenza adottati in sede europea ( Paesi white list ). La giurisprudenza è granitica nell’affermare che per la configurabilità della residenza fiscale in Italia sono necessari tre presupposti, indicati in via alternativa: - il primo, formale, è rappresentato dall’ iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente ; - gli altri due, fattuali, sono costituiti dalla residenza o dal domicilio ai sensi del codice civile, per “la maggior parte del periodo di imposta” (è così evidente l’intento del Legislatore di non legare l’accertamento a eventi occasionali ma di ancorarlo alla verifica di una sufficiente permanenza temporale). Consegue a ciò che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residente all’estero (AIRE) non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia se lo stesso cittadino ha in Italia il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari e interessi economici, nonché le proprie relazioni personali. Per cui non risulta determinante il carattere soggettivo ed elettivo della scelta dell’interessato, rilevante solo quanto alla libertà dell’effettuazione della stessa ma non ai fini della verifica del risultato di quella scelta, dovendosi invece “contemperare la volontà individuale con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, sicché il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente e in modo riconoscibile”. Per una consolidata giurisprudenza euro-unitaria, l’esercizio della potestà impositiva diretta, pur essendo attribuito in via di principio agli ordinamenti degli Stati membri e alle Convenzioni internazionali, deve tuttavia conformarsi ai principi del diritto comunitario e alle libertà fondamentali riconosciute dal Trattato. È stato pertanto osservato che “ai fini della determinazione del luogo della residenza normale di un cittadino devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell’interessato in un luogo determinato, sia la loro durata”, evidenziando sul punto che “ qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l’art. 7, n. 1, comma 2, della direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali ” (si veda, da ultimo, Corte di Giustizia 27 aprile 2016, causa C-528/14). Ma la giurisprudenza europea ha anche precisato che “ tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione al fine di determinare la residenza in quanto centro permanente degli interessi della persona di cui trattasi, vale a dire, in particolare, la presenza fisica di quest’ultima, quella dei suoi familiari, la disponibilità di un’abitazione, il luogo dove i figli frequentano effettivamente la scuola, il luogo di esercizio delle attività professionali, il luogo in cui vi siano interessi patrimoniali, quello dei legami amministrativi con le autorità pubbliche e gli organismi sociali, nei limiti in cui detti elementi traducano la volontà di tale persona di conferire una determinata stabilità ad luogo di collegamento, motivo di una continuità che risulti da un'abitudine di vita e dallo svolgimento di rapporti sociali e professionali normali ” (Corte di Giustizia 12 luglio 2001, causa C-262/99). Con la pronuncia in esame è stato ulteriormente chiarito che nel caso in cui i legami personali e quelli professionali non coincidano, “ occorre esperire una valutazione globale di tutti gli interessi del contribuente, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo ruolo prioritario, invece, le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento ”. In definitiva, si afferma che “ l’orientamento sulla prevalenza dei legami familiari è attualmente recessivo ” perché “le relazioni affettive familiari non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo unitariamente ad altri probanti criteri che univocamente attestino il luogo con il quale il soggetto ha il più stretto collegamento”.
Autore: dalle Lezioni... 11 lug, 2021
Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546/92 (come modificato dall’art. 12 legge 448 del 2001 e dall’art. 3 bis della legge 2-12-2005, n. 248 di conversione del D.L. 30-9-2005, n. 203) “ appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie…comunque denominati ...”. La delimitazione della giurisdizione tributaria deriva, dunque, dall’appartenenza della prestazione non ad un elenco nominativamente prefissato di tributi, ma alla materia genericamente indicata dei “tributi di ogni genere e specie“. L’espressione riprende quella sostanzialmente equivalente, di “imposte e tasse”, anch’essa generica, contenuta nel comma 2 dell’art. 9 c.p.c. L’evoluzione della giustizia tributaria è stata segnata, a partire dal riconoscimento delle Commissioni tributarie quali organi sicuramente giurisdizionali, da due direttrici di fondo: la prima, costituita dal progressivo adeguamento del processo tributario al processo civile; la seconda, consistente nel continuo ampliamento della cognizione della giurisdizione tributaria. La Corte costituzionale, posta di fronte al problema della estensione della giurisdizione delle Commissioni tributarie a seguito della riforma del 1992, con riferimento a una possibile violazione dell’art. 102 della Costituzione, dichiarò manifestamente infondata la questione, basata sull’assunto secondo cui il potere di revisione di cui alla VI disposizione transitoria della Costituzione sarebbe già stato esercitato per effetto della delega di cui all’art. 10, numero 14 della legge 9 ottobre 1971, n. 825 e sfociato nella disciplina prevista dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, di modo che tale potere non sarebbe stato più suscettibile di ulteriore esercizio, non essendo consentita la revisione di una normativa già revisionata. La Corte ha rilevato che era privo di fondamento il presupposto da cui partiva il giudice a quo , secondo cui la normativa censurata avrebbe disciplinato, anziché il riordino del contenzioso tributario, l’istituzione di nuovi giudici speciali mediante la revisione dell’ambito della competenza e della cognizione, nonché dell’ordinamento, dei gradi di giudizio e dei poteri conferiti alle Commissioni tributarie. Invero, la modifica mediante ampliamento della competenza delle Commissioni tributarie non era di per sé tale da trasformare il giudice tributario esistente in un diverso giudice speciale, in quanto era rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi migliorato dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata con la previsione di imposte locali in aggiunta a quelle statali, e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile. D’altra parte, l’art. 102, secondo comma, della Costituzione, in ordine al divieto di istituzione di giudici speciali, avrebbe dovuto essere interpretato, secondo la Corte, in relazione alla VI disposizione transitoria, nel senso di escludere l’introduzione di altri giudici (creati ex novo ), diversi da quelli espressamente nominati in Costituzione (Consiglio di Stato, Corte dei conti e Tribunali militari, esclusi testualmente dalla VI disposizione transitoria della Costituzione e come tali non soggetti ad obbligo di revisione, oltre agli organi di giustizia amministrativa di primo grado) e con una ulteriore possibilità di diverso trattamento per le giurisdizioni speciali preesistenti, oggetto tuttavia di obbligo di revisione. In altri termini, la Costituzione ha voluto che le (altre) giurisdizioni speciali preesistenti avrebbero dovuto essere sottoposte a revisione, revisione che, comportando una scelta delicata tra soppressione pura e semplice e trasformazione, è stata affidata esclusivamente al Parlamento. Invero, l’obbligo di procedere alla revisione delle anzidette giurisdizioni speciali preesistenti, ha consentito l’intervento del legislatore con leggi posteriori alla Costituzione attraverso mutamenti graduali e con parziali adeguamenti, anche per colmare le molte deficienze del contenzioso tributario sottolineate dalla Corte, con invito a riordino legislativo dell’intera materia. Allo stesso modo, tuttavia, l’intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell’ordinamento e nel funzionamento le Commissioni tributarie come già revisionate, in quanto, per le preesistenti giurisdizioni speciali, una volta che siano state assoggettate a revisione, non si crea una sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento, né si consumano le potestà di intervento del legislatore ordinario, il quale conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura, con il duplice limite di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione. Sotto altro profilo, peraltro, l’ampliamento della giurisdizione si è sempre mal raccordato con la previsione normativa sulle parti del processo (art. 10) e sugli atti impugnabili (art. 19). Ai problemi di raccordo dell’art. 2 con gli artt. 10 e 19 del d.lgs. 546/92 ha dato peraltro risposta la Corte di Cassazione, a sezioni unite, sin dal 2000, dichiarando che vada sempre riconosciuta la giurisdizione del giudice tributario in presenza di una controversia che riguardi uno specifico rapporto tributario. Il giudice tributario, secondo la Cassazione, ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo, e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti. D’altra parte, la Corte costituzionale ha ribadito che non appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie che conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria, abbattendo la propria scure sull’articolo 2 del d.lgs. n. 546/1992, nelle parti in cui devolveva alle Commissioni tributarie le controversie relative al canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap) e alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non tributarie. In quell’occasione, la Consulta ha stabilito che il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l'attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un nuovo giudice speciale. Problemi non facilmente risolvibili attengono poi alla natura del processo tributario. Teoricamente, il d.lgs. n. 546 del 1992 elenca un catalogo tassativo di atti autonomamente impugnabili (tra cui avviso di accertamento, avviso di liquidazione, ruolo e cartella di pagamento), di modo che gli atti non compresi in tale elenco sono impugnabili – in via differita – con il primo atto successivo, che a sua volta deve essere compreso nell’elenco degli atti espressamente previsti come impugnabili. Atti ad impugnazione differita sono ad esempio le risposte negative agli interpelli disapplicativi di norme antielusive e i provvedimenti di autorizzazione della perquisizione domiciliare e personale da parte del fisco emessi dal Procuratore della Repubblica, che sono impugnabili con il successivo atto impositivo. Anche se l’art. 19, comma 3 del d.lgs. n. 546 del 1992 dispone espressamente che “ gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente ” una parte della giurisprudenza considera impugnabili tutti gli atti che risultino comunque idonei a portare a conoscenza i presupposti di fatto e le ragioni in diritto della pretesa impositiva o del diniego del diritto vantato dal contribuente (tra cui gli inviti al pagamento o le fatture emesse per la riscossione della tariffa sui rifiuti). Secondo questo filone interpretativo, si tratterebbe di atti ad impugnazione facoltativa, la cui ammissibilità equivale di fatto ad ammettere l’azione di mero accertamento nel processo tributario. D’altra parte, l’impugnazione di un atto non compreso nell’elenco di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 non impedisce di affermare la natura tributaria della controversia, essendo le questioni relative alla impugnabilità questioni che attengono alla proponibilità della domanda e non alla giurisdizione, né ha rilievo se la posizione lesa sia un diritto soggettivo o un interesse legittimo, in quanto l’art. 103 della Costituzione, pur attribuendo al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nel confronti della pubblica amministrazione, non esclude che una giurisdizione amministrativa – tra cui deve essere compresa anche quella delle Commissioni tributarie – possa, in determinati casi, essere organo di tutela anche dei diritti soggettivi (si pensi alle cause tributarie di rimborso). Se peraltro l’azione ordinariamente esperibile nel processo tributario è un’azione di impugnazione – con correlativo esito di annullamento dell’atto impugnato -, la Corte di cassazione non ha mancato di affermare, anche recentemente, che il processo tributario non è un processo sull’atto (la cui mancata analitica descrizione, relativamente alle pretese impositive e sanzionatorie, infirmerebbe l’essenza stessa del processo), né un processo diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, bensì un processo che converge verso una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, come anche della dichiarazione del contribuente. In questa prospettiva, pertanto, sarebbe il rapporto sostanziale posto a base dell’atto impositivo a costituire il petitum sostanziale del procedimento tributario e a dovere essere compiutamente descritto dal giudice del merito, al fine di operare una motivata valutazione sostitutiva. Sotto questo profilo, dunque, il tipo di potere giurisdizionale esercitato dalle Commissioni tributarie viene ad avere più punti di contatto con quello del giudice ordinario che con quello del giudice amministrativo di legittimità. In realtà, bisognerebbe distinguere tra casi in cui l’impugnazione verte su vizi formali dell’atto particolarmente gravi (ad esempio, difetto assoluto di motivazione e incompetenza dell’ufficio), rispetto ai quali il giudice si limita ad annullare l’atto impugnato, e casi il cui il giudizio verte sull’ an e/o sul quantum dell’imposta, rispetto ai quali la sentenza sostituirebbe l’atto impugnato, sia quando respinge, che quando accoglie il ricorso. Diversamente dall’esito processuale appena visto – che sfocia in un annullamento dell’atto o in un accertamento “sostitutivo” della pretesa tributaria – le sentenze che accolgono le domande di rimborso sono sentenze di condanna, il cui contenuto è da considerarsi complesso, perché deve contenere, in primo luogo, l’annullamento del diniego di rimborso, e , dall’altro, l’accertamento del credito dell’interessato e la condanna dell’amministrazione a rimborsare. Diverso ancora, è il tipo di accertamento che viene operato dal giudice sul rifiuto di autotutela, che è da considerarsi non impugnabile – con conseguente inammissibilità dell’azione a tale fine proposta – perché atto discrezionale, non compreso nell’elenco degli atti impugnabili, e perché, in caso contrario, qualora non vi sia stata una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria, si darebbe ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo. Ad ogni modo, posto che la natura tributaria della controversia risulta dirimente nella fase di accertamento del diritto, il discrimine tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria in ordine all’attuazione della pretesa tributaria manifestata con un atto esecutivo è stato così fissato dalla giurisprudenza: - alla giurisdizione ordinaria spetta la cognizione delle questioni inerenti alla legittimità dell’atto esecutivo come tale, nonché dei fatti incidenti sulla pretesa sostanziale tributaria azionata in executivis successivi alla valida notifica della cartella o della intimazione, ivi compresa l’opposizione all’esecuzione per far valere l’illegittimità della riscossione tributaria per inesistenza del diritto di procedere alla riscossione stessa; - alla giurisdizione tributaria spetta la cognizione di ogni questione relativa a fatti incidenti sulla pretesa tributaria che si assumano verificati fino alla notificazione della cartella o dell’intimazione di pagamento, sia che si tratti di fatti inerenti ai profili di forma e di contenuto degli atti in cui è espressa la pretesa, sia che si tratti di fatti costitutivi, modificativi o impeditivi di essa. Quanto invece al rapporto tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione tributaria, gli atti amministrativi e i regolamenti, anche quando contengono norme tributarie, devono necessariamente essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo, qualora risulti concreta e attuale la lesione dell’interesse protetto dalla norma. Gli stessi atti possono peraltro essere anche disapplicati di ufficio dal giudice tributario, in vista dell’annullamento dell’atto applicativo. Sono infine impugnabili dinanzi al giudice amministrativo gli atti tributari individuali non impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie, come gli atti istruttori che hanno destinatari soggetti diversi dal contribuente, il diniego di accesso agli atti del procedimento e i provvedimenti di fissazione del domicilio fiscale.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 03 lug, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 25 giugno 2021, n. 18337 Le società di progetto, oggi disciplinate dall’art. 184 del d.lgs. n. 50 del 2016, sono escluse dall’applicabilità della disciplina delle società non operative, c.d. “di comodo”, perché soggetti che ex lege devono costituirsi sotto forma di società di capitali.. L’art. 30 della l. n. 724 del 1994 disciplina le “società non operative”, o “senza impresa”, o “di mero godimento”, o “di comodo”, individuate nelle entità che, salvo prova contraria (ossia la dimostrata presenza, a carico del contribuente, di “situazioni oggettive” sopravvenute che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito), conseguono un ammontare di ricavi inferiore alla somma degli importi risultanti dall’applicazione dei coefficienti stabiliti nello stesso articolo. Il meccanismo deterrente consiste nel fissare un livello minimo di ricavi e proventi correlato al valore di determinati beni patrimoniali, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, con conseguente presunzione di un reddito minimo stabilito in base a coefficienti medi di redditività degli elementi patrimoniali di bilancio. Si tratta di una normativa antielusiva introdotta per contrastare il fenomeno della costituzione di entità societarie che non esercitano un’effettiva attività commerciale e che si limitano a gestire il patrimonio nell’interesse dei soci, entità che della società hanno solo la forma giuridica perché vengono costituite non per scopi lucrativi ma per eludere la normativa fiscale e che frequentemente chiudono i bilanci a credito sia ai fini delle imposte sui redditi che dell’Iva. Lo stesso art. 30 prevede una serie di eccezioni in presenza delle quali non trova applicazione: dai soggetti appena avviati (che si trovano nel “primo periodo di imposta”) alle società in amministrazione controllata o straordinaria o in stato di fallimento o assoggettate a procedure di liquidazione giudiziaria, di liquidazione coatta amministrativa e in concordato preventivo; dalle società esercenti pubblici servizi di trasporto ai “ soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali ”. Rientrano in quest’ultima ipotesi le “società di progetto” disciplinate, per la prima volta, con l’art. 37-quinquies della l. n. 109 del 1995 (aggiunto con la l. n. 415 del 1998), poi dall’art. 156 del d.lgs. n. 163 del 2006 e ora dall’art. 184 del nuovo Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 50 del 2016, ove è stabilito che in caso di affidamento di una concessione per la realizzazione e/o gestione di una infrastruttura o di un nuovo servizio di pubblica utilità, il bando di gara deve prevedere che l’aggiudicatario ha la facoltà, dopo l’aggiudicazione, di costituire una “società di progetto in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche consortile”. Ebbene, proprio per la particolare attività svolta - project financing con riferimento all’affidamento di una concessione per la realizzazione e/o gestione di una infrastruttura o di un nuovo servizio di pubblica utilità -, “le società di progetto devono essere costituite in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche consortile, per espressa disposizione di legge”. Sicché, a chi intende avvalersi della facoltà (prevista dal bando di gara) di costituite una società di progetto “è fatto obbligo, per legge, e proprio in virtù della particolare attività svolta, di costituire la detta società in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche consortile”. In tal senso, la sentenza sottolinea che non si deve confondere la facoltà della costituzione della società di progetto (prevista dal bando) con l’obbligo di costituirla in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, anche consortile. Ne consegue che “ tali società di progetto sono escluse dall’operatività della disciplina della ‘società di comodo’ in quanto soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali ”. Questa lettura dei rapporti tra le due discipline è confermata dalle finalità dei due istituti, oltre che essere coerente con la ratio sottesa e collegata alla perfetta autonomia patrimoniale delle società di capitali in relazione alla rilevanza pubblica dell’affidamento e alla sua esecuzione mediante project financing e con il connesso effetto di ring fence (ossia la separazione giuridica ed economica tra l’attività da finanziare e la generalità delle attività del promotore dell’iniziativa). La caratteristica della società di progetto è di introdursi nella fase post aggiudicazione per realizzare le opere, effettuando tutti gli adempimenti a tal fine necessari. Il suo scopo è quello di evitare che le eventuali conseguenze pregiudizievoli connesse a tale sua attività, soprattutto se di natura patrimoniale, possano riflettersi sulla stessa società aggiudicataria di cui è emanazione. Non essendovi cessione di contratto, la società di progetto, peraltro, non fa in alcun modo venir meno le garanzie patrimoniali e di capacità tecnica che l’aggiudicataria è tenuta a mantenere intatte per tutta la durata dei lavori (garanzie che, del resto, sono assicurate dal fatto stesso che sono soci della società di progetto le medesime società che si sono aggiudicate la gara). La società di progetto diventa quindi la concessionaria, subentrando nel rapporto di concessione all’aggiudicatario (senza necessità di approvazione o autorizzazione e senza che tale subentro costituisca cessione di contratto). Per effetto del subentro la società di progetto diventa la concessionaria a titolo originario e sostituisce l’aggiudicatario in tutti i rapporti con l’Amministrazione concedente. Le dette finalità della società di progetto richiedono dunque la sostituzione dell’aggiudicatario con il nuovo soggetto giuridico, a cui devono necessariamente essere corrisposti i flussi di cassa derivanti dalla gestione dell’opera, affinché sia efficacemente prodotto l’effetto di ring fence , ossia la separazione giuridica ed economica tra l’attività da finanziare e la generalità delle attività del promotore dell’iniziativa.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 23 giu, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 14 giugno 2021, n. 16711 Processo tributario – Divieto di prova testimoniale – Ammissibilità e valore probatorio delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà rese da terzi – Compatibilità fra i due istituti. Nel processo tributario non è ammessa la prova testimoniale (art. 7, comma 4, d.lgs. n. 546 del 1992). Nondimeno, per giurisprudenza oramai consolidata, tale divieto non osta alla possibilità per la parte interessata - sia l’Amministrazione finanziaria sia il contribuente - di produrre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (spesso nella forma delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà), le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti. Tale principio è stato ribadito dalla pronuncia in epigrafe la quale, dopo aver ribadito che “l’inammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi, per quanto alle stesse non debba essere riconosciuto valore probatorio pieno, rappresentando esse, piuttosto, un indizio, valutabile in relazione agli altri elementi acquisiti”, ha precisato che il giudice tributario ha “il potere-dovere di valutarne l’attendibilità, comportando il principio della libera valutazione delle prove l’obbligo di confrontare le propalazioni raccolte e di valutare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di queste con gli eventuali altri elementi acquisiti, per poi impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo”. Inoltre, alle dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente non può essere applicato il principio di non contestazione perché, vista e ferma la pretesa tributaria formalizzata nell’atto impositivo, esse sono solo potenzialmente idonee, in corso di causa, a dimostrare il contrario. Tale ricostruzione dell’istituto non elude il divieto di prova testimoniale perché le dichiarazioni dei terzi non possono mai tradursi in prove esclusive; esse possono solo concorrere a formare il convincimento del giudice ma non a giustificarlo senza ulteriori elementi. La pronuncia in esame ha anche precisato che la compatibilità tra il divieto di testimonianza e la possibilità di presentare dichiarazioni di terzi tiene conto dei principi espressi in sede sovranazionale in materia di contraddittorio, secondo i quali “l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile” (Corte EDU 23 novembre 2006, Jussilla contro Finlandia; 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia). Difatti, se in termini generali la Corte EDU ha dichiarato che l’art. 6 della CEDU (che si riferisce letteralmente ai “diritti e doveri di carattere civile”) non è applicabile alle liti tributarie vertendo esse su obbligazioni che, seppure di contenuto patrimoniale, attengono a doveri civici imposti in una società democratica (sul rilievo che “la materia fiscale rientra nell’ambito delle prerogative del potere d’imperio”), è altresì vero che tale rigida interpretazione della disposizione ha visto e sta vedendo continuamente plurime deroghe.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 12 giu, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 1 giugno 2021, n. 15209 Abuso del processo - Finalità estranee o contrarie a quelle apprestate dall’ordinamento per la tutela della posizione sostanziale della parte - Casistica. La pronuncia merita di essere segnalata perché affronta il caso di un ricorso in cui l’Amministrazione finanziaria ha lamentato l’abuso dello strumento processuale da parte di un contribuente che aveva introdotto un ricorso per revocazione della sentenza di primo grado al solo asserito fine di precostituirsi la possibilità di addurre la tardività dell’appello proposto dall’Ufficio, abuso che sarebbe stato confermato dal fatto che il rimedio processuale della revocazione era stato, in seguito, dichiarato inammissibile. La Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito che “la notificazione della sentenza e la notificazione dell’istanza di revocazione” sono “strumenti equivalenti per la decorrenza del termine breve di impugnazione”; e ciò perché se la conoscenza della sentenza per effetto della notificazione al difensore (art. 285 c.p.c., in relazione all’art. 170 c.p.c., comma 1) si realizza tramite la consegna da parte dell’ufficiale giudiziario della copia integrale della stessa, è evidente che quando il difensore della parte esercita per conto di questa il diritto di impugnazione, il notum facere relativo alla sentenza, idoneo al decorso del termine per impugnare, si realizza a maggior ragione nel momento in cui alla redazione dell’atto di impugnazione segue l’esternazione nel processo con effetti per tutte le sue parti tramite la notificazione dell’impugnazione (art. 51, artt. 64 e ss. c.p.t.). Ha quindi concluso affermando che non vi era stato abuso processuale da parte del contribuente poiché, accanto all’effetto vantaggioso di riduzione del termine di impugnazione, vi era stato un concorrente difetto di normale diligenza dell’Ufficio, che aveva appellato oltre il termine breve di sessanta giorni dalla notifica del ricorso per revocazione della sentenza di primo grado. La Corte di legittimità ha colto altresì l’occasione per precisare cosa si intende per “abuso del processo”. Premesso che il principio del giusto processo, espresso dal comma 1 dell’art. 111 della Costituzione, non consente più di utilizzare, per l’accesso alla tutela giudiziaria, “ metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia, ed impedisce, perciò, di accordare protezione ad una pretesa priva di meritorietà e caratterizzata per l’uso strumentale del processo, con la conseguenza, che le norme processuali devono essere vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali ”, sono stati ricapitolati gli approdi giurisprudenziali più significativi in tema di abuso degli strumenti processuali: - la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria di una determinata somma di denaro, dovuta allo stesso soggetto in forza di un unico rapporto obbligatorio (Sez. Un., n. 23726 del 2007); - il frazionamento della tutela giurisdizionale da parte dell’unico danneggiato, mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale di danno derivante da un unico fatto illecito (Cass. n. 28286 del 2011); - il frazionamento della tutela giurisdizionale in tema di licenziamento, mediante la proposizione di due distinti giudizi lamentando, in uno, solo vizi formali e, nell’altro, vizi di merito, con conseguente disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto (Cass. n. 4867 del 2016); - il mancato uso della nomale diligenza nell’iscrivere ipoteca sui beni per un valore proporzionato rispetto al credito garantito secondo i parametri individuati nella legge, così ponendo in essere, mediante l’eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela, un abuso del diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore (Cass. n. 6533 del 2016); - in materia tributaria, nei casi di definizione delle liti tributarie pendenti, in presenza di elementi dai quali emerga, in modo evidente e inequivoco, il carattere meramente fittizio e artificioso della controversia principale, instaurata, nonostante la palese tardività, al solo fine di creare il presupposto per poter fruire del beneficio (Cass. n. 18445 del 2016 e n. 210 del 2014). In definitiva, sussiste “ abuso del processo allorquando lo strumento processuale viene azionato per conseguire finalità estranee o addirittura contrarie rispetto a quelle per cui l’ordinamento appresta lo strumento di tutela per la posizione sostanziale della parte ”.
Autore: dalle Lezioni... 23 mag, 2021
Un soggetto colpito da un’imposta o da una tassa, a seguito di generazione del relativo presupposto, può tenere vari comportamenti, al fine di ridurre il carico fiscale a suo carico, alcuni leciti e altri illeciti. Nei comportamenti leciti rientrano la traslazione delle imposte e il legittimo risparmio fiscale. La traslazione delle imposte è un fenomeno che si verifica quando il contribuente (di diritto o percosso) riversa una parte o l’intera quota del tributo dovuto su un altro contribuente (di fatto o inciso). Generalmente, ciò avviene nei confronti dell’acquirente di un bene o servizio, tramite la formazione del prezzo, e può verificarsi sia lungo il processo produttivo di un bene, nel caso di cessione di materia prima o di un prodotto semilavorato, sia al termine del processo di produzione, per la cessione al consumatore finale. Si genera così un meccanismo per cui, ad esempio, un’imposta gravante sulla produzione, mediante la traslazione di essa sull’acquirente del bene finale, diventa nei fatti un’imposta sui consumi (si pensi, ad esempio, all’imposta sui carburanti). Con riferimento alla direzione della traslazione , si distingue tra traslazione in avanti (che si verifica quando l'imposta colpisce il produttore provocando una restrizione dell'offerta, ma poi viene trasferita al consumatore attraverso un aumento del prezzo del bene tassato), traslazione all'indietro (l'imposta viene trasferita dal consumatore al produttore, a seguito della riduzione della domanda di un bene tassato), traslazione verticale (la quale si verifica qualora la variazione dei prezzi riguarda il bene colpito dall'imposta e i beni strumentali necessari a produrlo qualora si tratti di un bene finito) e traslazione obliqua (l'imposta fissata per un determinato bene viene trasferita sui consumatori di un altro bene non tassato attraverso la modificazione della domanda o dell'offerta di quest'ultimo). Per comprendere invece cosa sia il legittimo risparmio d’imposta occorre definire il concetto di elusione fiscale. Invero, ogni comportamento del contribuente che non costituisca evasione né elusione ma che gli permetta di alleggerire il proprio carico fiscale è da ritenersi lecito. In particolare, secondo l’ art. 10-bis, comma 4 dello Statuto dei diritti del contribuente , si ha legittimo risparmio d’imposta quando è stata esercitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. Il fenomeno dell’ elusione fiscale si realizza, in generale, quando il contribuente applica una normativa fiscale più favorevole invece di adottare il regime fiscale che sarebbe appropriato per l’operazione economica sottostante. L’elusione si distingue dall’ evasione perché non è violazione diretta, ma aggiramento dei precetti fiscali, ed è illecita quando consiste in un abuso delle norme fiscali, con il conseguimento di risultati indebiti. La distinzione tra aggiramento (elusione) e violazione (evasione) è stata ribadita dall’ art. 10-bis comma 12 dello Statuto dei diritti del contribuente , secondo cui in sede di accertamento l’ abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie. L’elusione può essere contrastata o con norme di portata generale , a contenuto espressamente antielusivo, o con norme antielusive specifiche, cioè da norme la cui antielusività risiede nella loro ratio . Quanto alla prima fattispecie, nel nostro ordinamento è stato introdotto, con il d.lgs. n. 128 del 2015, l’ art. 10-bis, comma 1 dello Statuto dei diritti del Contribuente , che definisce “ abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti ”. Prima di tale innovazione normativa, l’elusione era prevista soltanto dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (disposizione oggi abrogata), che però aveva portata limitata. Peraltro, la giurisprudenza aveva ritenuto esistente nel nostro ordinamento una più generale clausola antielusiva non scritta , che si traduceva in un divieto generale di abuso del diritto fiscale, la cui violazione comportava la nullità dei relativi contratti per difetto di causa. Tanto, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che aveva sanzionato, sia in settori fiscali che in settori non fiscali, l’abusivo avvalimento delle norme comunitarie, stabilendo in particolare, con la sentenza Halifax , un principio generale antiabuso in materia di IVA. Anche se tale tipologia di sentenze vincolava il nostro ordinamento - in materia fiscale - soltanto per le imposte armonizzate (come l’IVA), la Cassazione aveva ritenuto di estendere l’applicazione dei principi da esse desumibili alle imposte dirette interne, ravvisando il fondamento del principio generale antielusivo nel principio di capacità contributiva. L’art. 10-bis, comma 1 dello Statuto dei diritti del contribuente, come detto, ha stabilito una disciplina generale in materia di elusione, andando a colpire le operazioni rispettose formalmente delle norme fiscali ma prive di sostanza economica e volte nella sostanza a realizzare vantaggi fiscali indebiti. L’operazione priva di sostanza economica è costituita da fatti, atti o contratti, anche tra di loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Esempi di operazioni economiche che hanno una giustificazione essenzialmente di natura fiscale sono la costituzione di società che non svolgono attività in Paesi in cui i proventi delle partecipazioni non sono tassati o le esportazioni a U , concepite al mero fine di usufruire della restituzione di dazi doganali per l’esportazione, con cessione e restituzione della merce senza alcun utilizzo della stessa da parte dell’importatore. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. Mentre non sono elusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali , non marginali, anche di ordine organizzativo e gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. A tale riguardo, la giurisprudenza nazionale, anche alla luce della giurisprudenza unionale, ha precisato che la circostanza fondamentale da verificare, per delineare il carattere elusivo o meno dell’operazione, è se lo scopo economico dell’operazione stesso sia tale per cui questa sarebbe stata compiuta anche senza vantaggi fiscali. E’ da considerarsi pertanto abusiva, ad esempio, una complessa operazione societaria posta in essere, secondo uno schema “circolare” (cioè tramite un insieme di atti la cui soluzione finale non differisce nella sostanza dalla situazione di partenza), soltanto allo scopo di fruire dei benefici fiscali riservati alle società di nuova costituzione. Non è invece da considerarsi elusivo il “ leveraged buy out ”, ovvero l’acquisizione con indebitamento posta in essere mediante più atti di fusione, se è necessaria per eseguire un progetto di riorganizzazione aziendale. In questo caso, infatti, la giustificazione della complessiva operazione non è di natura fiscale, o, meglio ancora, i benefici fiscali (da considerarsi comunque “marginali”) seguono gli effetti di una strategia societaria che sarebbe stata in ogni caso perseguita. I vantaggi fiscali (anche non immediati) conseguiti dalle operazioni economiche attuate sono da considerarsi indebiti se realizzati in contrasto con norme fiscali che siano espressione di un principio dell’ordinamento tributario, anche se secondo taluni – sulla base di un’interpretazione letterale dell’art. 10-bis, comma 12 dello Statuto – basterebbe un generico contrasto con i principi dell’ordinamento tributario. Un diversa interpretazione della violazione di principi antielusivi tra amministrazione finanziaria e giurisprudenza si è avuta nel caso del contratto di sale and lease back , attraverso il quale un’impresa vende un bene ad una società finanziaria, la quale lo retrocede subito dopo in leasing allo stesso venditore. L’amministrazione ha riqualificato il doppio contratto (compravendita e leasing) considerandolo come un’operazione unitaria di mero finanziamento, e ritenendo pertanto non conseguibili i benefici fiscali derivanti dal doppio negozio giuridico (detrazione ai fini IVA e deduzione ai fini delle imposte sui redditi dell’ammortamento del costo). Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che il contratto di questione può rispondere a precise ragioni economiche di strategia aziendale e che la complessiva vicenda giuridica che lo caratterizza è da considerarsi elusiva soltanto ove sia palese l’antieconomicità delle singole operazioni sottostanti. In ogni caso, il contratto elusivo non sarà anche nullo , perché – e adesso lo conferma espressamente anche l’art. 10, comma 3 dello Statuto – le norme imperative a cui si riferisce l’ art. 1344 c.c. sono le norme civilistiche proibitive, mentre le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto. Al più, sarà disponibile per il creditore privato frodato lo strumento della revocazione ex art. 2901 c.c.. Ad ogni modo, se l’amministrazione finanziaria ritiene elusiva l’operazione, ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni (cosiddetta inopponibilità al fisco del contratto). L’inopponibilità è una forma di inefficacia relativa e deve essere preceduta, a pena di nullità del successivo avviso di accertamento, da una richiesta di chiarimenti , nella quale l’amministrazione finanziaria deve individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico e volta al mero risparmio d’imposta. La richiesta di chiarimenti dev’essere notificata nei modi previsti per gli avvisi di accertamento entro il termine di decadenza previsto per la notifica dell’atto impositivo; il successivo avviso di accertamento non preclude la possibilità di emettere un ulteriore avviso di accertamento, per ragioni diversi dall’elusione. A sua volta, a seguito della richiesta di chiarimenti (oltre che dell’eventuale successivo avviso di accertamento), il contribuente ha l’ onere di provare , sia in sede procedimentale che processuale, i fatti che sono alla base delle ragioni extrafiscali che giustificano la sua condotta, dimostrando che l’uso di quella determinata forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso dal mero risparmio fiscale. Le operazioni abusive – se accertate - danno luogo anche all’applicazione di sanzioni amministrative , ma non sono mai considerate fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, per espressa previsione dell’art. 10-bis, comma 13, dello Statuto dei diritti del contribuente . Tuttavia, l’elusione può comportare l’applicazione di sanzioni, secondo la Corte di Giustizia, solo se sussiste un fondamento normativo chiaro e univoco. Il contribuente ha a disposizione, nei casi in cui ritenga dubbio se un comportamento sia elusivo, lo strumento dell’ interpello di cui all’articolo 11 dello Statuto, per ottenere un parere riguardante l’applicazione della disciplina dell’abuso ad una determinata fattispecie. Si tratta del cosiddetto interpello antielusivo , che si affianca ad altri tipi di istanze similari, ma ne differisce per i presupposti applicativi. Mentre infatti l’ interpello ordinario o interpretativo è volto a ottenere un parere quando sussistano obiettive condizioni di incertezza sull’interpretazione di qualsivoglia disposizione tributaria, in relazione alla sua applicazione a casi concreti e personali (con la variante dell’ interpello qualificatorio , che riguarda non l’applicazione ma la corretta qualificazione delle fattispecie complesse), l’interpello anti-abuso costituisce il nuovo strumento attraverso il quale il contribuente può chiedere all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto. Ancora diversi sono l’ interpello probatorio , che si sostanzia in una richiesta all’amministrazione tesa a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale, e l’ interpello disapplicativo , residuale ipotesi di interpello obbligatorio (mentre tutti gli altri sono meramente facoltativi), che si ha quando l’istanza è necessaria ai fini dell’accesso a un regime derogatorio, per lo più agevolativo, rispetto a quello legale, normalmente applicabile (ad esempio, ultimo comma dell’art. 84 TUIR in materia di riporto delle perdite). Ci sono poi gli interpelli non disciplinati dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, come l’ interpello indirizzato alle società che effettuano nuovi investimenti (art. 2 del d.lgs. n. 147 del 2015) e l’ interpello preventivo derivante dall’adesione al regime dell’adempimento collaborativo (d.lgs. n. 128 del 2015). In linea generale, comunque, tutti gli interpelli necessitano di una risposta scritta e motivata entro un determinato lasso temporale (novanta o centoventi giorni a seconda dei casi), in mancanza della quale il silenzio equivale a condivisione, da parte dell’amministrazione finanziaria interpellata, della soluzione prospettata dal contribuente. Gli atti dell’amministrazione difformi dalla risposta, espressa o tacita, sono nulli , mentre il parere vincola l’amministrazione e non il contribuente, che resta libero di disattenderlo, e può impugnare soltanto l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data nella risposta all’interpello, e non direttamente detta risposta. D’altra parte, l’interpello obbliga l’amministrazione a rispondere solo se concerne una disposizione la cui interpretazione si presenti obiettivamente incerta , dovendosi ritenere che non ricorrono condizioni di obiettiva incertezza quando l’amministrazione ha compiutamente e pubblicamente fornito la soluzione per fattispecie corrispondenti a quella rappresentata dal contribuente. L’istanza non può inoltre essere presentata da chiunque e a scopo accademico, ma solo da chi svolge un’attività che comporta l’applicazione delle norme a cui si riferisce l’interpello. Tornando all’elusione fiscale, si è già detto che essa può essere contrastata anche con norme antielusive specifiche , cioè da norme la cui antielusività risiede nella loro ratio . Si tratta di norme con cui si incide sulla disciplina sostanziale di un tributo, come ad esempio quelle che limitano la deducibilità delle perdite maturate in un periodo di imposta sul reddito dei periodi d’imposta successivi, quelle che riguardano la deducibilità da parte della società incorporante delle perdite della società incorporata, quelle che escludono nella disciplina del consolidato nazionale e della trasparenza delle società di capitali l’utilizzabilità delle perdite fiscali realizzate prima dell’adozione del consolidato nazionale o della trasparenza stessa, quelle che limitano la deduzione dei canoni di leasing dal reddito d’impresa, quella sul transfer price , in base alla quale nei trasferimenti infragruppo è rilevante il prezzo che sarebbe stato pattuito tra soggetti indipendenti in condizioni di libera concorrenza e non il prezzo concretamente pattuito (anche se secondo la Cassazione tale disciplina non va intesa come antielusiva in senso proprio, ma come attuativa del principio di libera concorrenza), e la legislazione CFC , che stabilisce che gli utili derivanti dalla partecipazione in società estere controllate con sede in Stati a fiscalità privilegiata siano tassati secondo il principio di trasparenza e non secondo il principio di cassa. Si tratta di norme specifiche, che hanno lo scopo di impedire pratiche elusive, ma che possono essere sempre disapplicate nel caso in cui il contribuente dimostri che non possono verificarsi gli effetti elusivi presunti. Vi è infine la riqualificazione dei negozi giuridici prevista dall’ art. 20 del Testo unico dell'imposta di registro , secondo cui l’imposta è applicata in rapporto alla intrinseca natura e agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati. La Corte costituzionale ha recentemente dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 20 sopra citato, come modificato nel 2017, e ritenuto norma di interpretazione “autentica” nel 2018, affermando che risulta rispettata la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, coerenza sulla cui verifica verte infine il giudizio di legittimità costituzionale. La norma di riqualificazione dei negozi giuridici e la clausola generale antielusiva divergono tra di loro sotto i seguenti profili: - la prima colpisce atti la cui apparenza non corrisponde alla sostanza e applica l’imposta dovuta sul negozio realmente posto in essere; la seconda colpisce atti privi di sostanza economica e rende inopponibili all’amministrazione gli effetti dell’operazione elusiva; - nel caso di riqualificazione, devono essere applicate le norme del procedimento impositivo dell’imposta di registro, integrate dalla regola del contraddittorio procedimentale; nel caso di applicazione della clausola antielusiva generale, la procedura da seguire è quella prevista dall’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. SI segnala infine che un caso particolare di riqualificazione ex art. 20 del Testo unico sopra citato è quello del conferimento di azienda cui segue la cessione dell’intera partecipazione ; tale operazione, prima della modifica avvenuta nel 2017 della norma sulla riqualificazione, veniva ritenuta dalla giurisprudenza un’operazione complessiva di vendita dell’azienda, da tassare dunque in quanto tale.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 19 mag, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 11 maggio 2021, n. 12372 Accertamento con adesione – Sottoscrizione congiunta del verbale di contraddittorio – Mancata adozione dell’atto di accertamento con adesione ed emissione dell’avviso di accertamento – Conseguenze per l’Amministrazione – Legittimo affidamento del contribuente – Limiti. La sentenza – che definisce una vicenda che aveva visto l’Agenzia delle Entrate e il contribuente (che aveva presentato istanza di accertamento con adesione) sottoscrivere un processo verbale di contraddittorio con il quale erano stati determinati, per singole annualità, gli importi riconosciuti; ma, in seguito, per alcune annualità l’Ufficio aveva emesso gli atti di accertamento con adesione mentre per altre annualità “repentinamente e senza giustificazioni” aveva proceduto con l’emissione di avvisi di accertamento recuperando le pretese originarie – merita di essere segnalata per due ragioni: a) ricostruisce nel dettaglio l’ accertamento con adesione , un istituto deflattivo del contenzioso che mira a impedire l’avvio del giudizio avverso le contestazioni dell’Erario e a definire in tempi rapidi la pretesa sostanziale avuto riguardo alle tipologie di tributi di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 218 del 1997; ne sottolinea le differenze rispetto agli accordi procedimentali della Pubblica Amministrazione regolati dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990; afferma che l’accordo (ossia la formulazione della proposta conclusiva da parte dell’Amministrazione seguita dall’accettazione del contribuente) non integra un atto negoziale, assoggettabile alle condizioni e ai rimedi previsti dal codice civile ma “un atto unilaterale dell’Ufficio - posto in essere nell’esercizio di una unitaria potestà impositiva che permea l’intero procedimento - oggetto di mera adesione da parte del contribuente”; puntualizza, nondimeno, che ciò “non significa che l’attività realizzata dall’Ufficio - il concreto svolgimento delle trattative e il loro precipitato in un processo verbale di sintesi con nuova definizione della pretesa impositiva in base ad una proposta, finale, proveniente dall’Amministrazione e recepita senza contestazioni dal contribuente - sia irrilevante o priva di conseguenze per l’Amministrazione stessa ove, successivamente, le determinazioni dell’Ufficio si discostino, ingiustificatamente ed immotivatamente, da quelle concordate”; questo il conseguente principio di diritto affermato: « in tema di accertamento con adesione è lesiva del principio di collaborazione e buona fede la condotta dell’Ufficio che, dopo aver emesso, in base alla proposta accettata dal contribuente, gli atti di accertamento con adesione per alcune annualità d’imposta, proceda, repentinamente, senza motivazione e nonostante il tempestivo e regolare adempimento degli atti già emanati, all’emissione per le restanti annualità, pure oggetto della proposta, di avviso di accertamento per l’originaria pretesa, sicché, in relazione al legittimo affidamento sulla regolare definizione della procedura di accertamento con adesione, è inesigibile la maggior pretesa costituita dalla differenza tra gli importi concordati e quelli richiesti »; b) analizza - con numerosi richiami giurisprudenziali - la portata del comma 1 dell’art. 10 della l. n. 212 del 2000 , ai sensi del quale «i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede», precisando il significato che deve essere attribuito ai termini «collaborazione» e «buona fede»; il primo trova riferimento, dal lato dell’Amministrazione, nei principi di buon andamento, efficienza e imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’articolo 97, primo comma, della Costituzione; dal lato del contribuente vengono invece in rilievo comportamenti non collidenti con il dovere, sancito dall’articolo 53, comma 1, della Costituzione e imposto a tutti i contribuenti, di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva; il secondo, se riferito all’Amministrazione coincide con i significati attribuibili al termine collaborazione posto che entrambi mirano ad assicurare comportamenti coerenti, vale a dire non contraddittori o discontinui; se riferito al contribuente presenta un’analoga parziale coincidenza con quello di collaborazione e allude a un generale dovere di correttezza volto a evitare comportamenti capziosi, dilatatori, sostanzialmente connotati da abuso di diritti e tesi a eludere una giusta pretesa tributaria; questo il conseguente principio di diritto affermato: « in tema di legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della legge n. 212 del 2000, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee ad indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono. La relativa tutela - pur tipizzata in talune più ricorrenti ipotesi - non è ancorata a schemi precostituiti e al modello formale della validità/invalidità dell’atto, ma richiede una valutazione in concreto in relazione alla diversità delle fattispecie e delle situazioni ».
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 12 mag, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 21 aprile 2021, n. 10507 Attività di accertamento fiscale – Poteri dell’Ufficio – Richieste di notizie e di esibizione di dati, atti, documenti, libri, registri – Successiva preclusione probatoria – Limiti – Interpretazione restrittiva e costituzionalmente orientata. La norma generale sui poteri dell’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento e, per quanto qui interessa, sui correlati obblighi del contribuente è contenuta nell’art. 32, comma quarto, del d.P.R. n. 600 del 1973 ai sensi del quale “le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”. L’unica deroga prevista, a favore del contribuente, è disciplinata dal successivo comma 5 in base al quale “le cause di inutilizzabilità previste dal [precedente] comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile”. Su questo peculiare dettato normativo – che introduce una significativa preclusione amministrativa e processuale (vedasi Corte costituzionale 7.6.2007, n. 181, e 3.3.2015, n. 26) – la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto occasione di precisare che l’invito a fornire dati, notizie e chiarimenti assolve alla “funzione di assicurare - in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria - un dialogo preventivo tra Fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa. Tale inutilizzabilità consegue automaticamente all’inottemperanza all’invito, non è soggetta alla eccezione di parte e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio” (Sez. VI, 1.10.2020, n. 20954) Con la pronuncia in epigrafe la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che la disciplina in esame deve essere “interpretata in modo restrittivo” e che ciò comporta che siano inutilizzabili in sede amministrativa e, soprattutto, processuale solamente i documenti “espressamente richiesti dall’Ufficio”, in quanto “la norma deve essere interpretata in coerenza con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione e con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione”. Pertanto, in presenza di richieste documentali generiche, di domande di esibizione di documenti non indicati dall’Ufficio in modo puntuale, la preclusione in esame non opera. Nel caso di specie, l’Amministrazione aveva chiesto copia del libro giornale, copia del registro IVA acquisti, copia del libro inventari nonché la documentazione relativa a un’operazione oggetto di ripresa fiscale. In sede processuale la contribuente aveva prodotto ulteriori documenti a propria difesa che non erano stati specificamente chiesti dall’Ufficio e, precisamente, due consulenze di parte, un mastrino di contabilità, la scheda contabile relativa all’operazione contestata, estratto del libro dei cespiti ammortizzabili, del bilancio 2003, della dichiarazione ICI, delle ricevute di pagamento ICI. Il Giudice di legittimità ha così concluso che la nuova documentazione era sicuramente producibile e utilizzabile in sede processuale non essendo precluso dalla disposizione legislativa del testo unico sull’accertamento. Peraltro, non sussisteva alcun divieto ostativo alla produzione di quei documenti in appello perché l’art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 consente la produzione anche nel giudizio di appello di qualsiasi documento, pur se già disponibile in precedenza.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 11 mag, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 28 aprile 2021, n. 11151 Interposizione di persona – Contribuente con redditi di cui appare titolare un altro soggetto – Contestazioni dell’Amministrazione finanziaria sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti – Individuazione della reale sostanza economica dell’operazione. La disposizione antielusiva generale sull’interposizione di persona è contenuta nell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale “ in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona ”. Costituisce ius receptum che tale norma imputa al contribuente i redditi formalmente intestati a un altro soggetto quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, quest’ultimo ne risulti l’effettivo titolare. E ciò senza distinguere tra interposizione fittizia e interposizione reale, sicché la sua applicazione non è limitata alle sole operazioni simulate. Difatti, la disciplina sull’interposizione “non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta”. Ne deriva che “il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito della quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali”. Per cui, in sostanza, la disposizione in esame: - “considera elusive le operazioni, siano esse simulate o reali, che integrano il mezzo per aggirare l’applicazione della normativa fiscale sfavorevole”; - “colpisce ogni uso improprio o ingiustificato di strumenti giuridici, pur di per sé legittimi, quando l’uso che se ne fa mira a realizzare l’elusione”. E spetta all’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare perché la forma giuridica impiegata presenti caratteri anomali o inadeguati rispetto all’operazione economica intrapresa, mentre ricade sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino l’operazione come strutturata. Facendo applicazione di detti principi, la Suprema Corte ha esaminato il caso di una società non quotata, a ristretta base partecipativa riconducibile a quattro nuclei familiari, che aveva emesso un prestito obbligazionario decennale interamente sottoscritto dai soci. Gli interessi passivi erano stati dedotti dall’imponibile della società come oneri finanziari ed erano stati tassati in capo ai soci-sottoscrittori del prestito con l’aliquota agevolata del 12,5 per cento. Ha contestualmente rilevato che la società non aveva ragioni per accedere al finanziamento e, comunque, che se avesse fatto ricorso al credito bancario avrebbe scontato interessi passivi più bassi, mentre le obbligazioni venivano remunerate a tassi doppi e tripli rispetto a quelli ordinariamente praticati. Inoltre, ha osservato che i soci avrebbero potuto finanziare la società accordandole un prestito infruttifero o con un aumento di capitale. La Corte di legittimità ha concluso che ricorreva l’ipotesi dell’interposizione perché la società aveva “elusivamente traslato” sui soci l’utile di esercizio avvalendosi dello strumento, in sé legittimo, ma “piegato a finalità elusive”, dell’emissione del prestito obbligazionario. Sicché “la ratio giustificatrice dell’operazione, la sua autentica sostanza economica, era non l’(apparente) emissione del prestito obbligazionario ma la distribuzione degli utili ai soci (le persone realmente interposte) al fine di ottenere un indebito risparmio d’imposta, con ciò attuandosi, anche grazie alle peculiarità del prestito (interamente sottoscritto dai soci), mercè il ricorso ad uno strumento giuridico (il prestito obbligazionario) concepito per ben altre finalità, un risultato elusivo, quale, appunto, la traslazione del reddito dalla base imponibile di un soggetto (la società) a quella di altri (i soci obbligazionisti). Per giungere a questa conclusione la Corte ha rammentato che occorre “volgere lo sguardo al di là dell’apparenza negoziale … e individuare la reale sostanza economica dell’operazione”.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 30 apr, 2021
Cassazione Civile, Sezioni Unite, 25 marzo 2021, n. 8500 Attività di accertamento fiscale – Decadenza dal potere – Elementi economici e patrimoniali con effetti pluriennali sulla base imponibili – Sono rettificabili per ogni dichiarazione – Il termine di decadenza decorre dalla dichiarazione nella quale è indicato il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale. La norma generale sulla decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla potestà impositiva è contenuta nell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale “gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione”. Ma quando vi sono componenti di reddito ad efficacia pluriennale, la decadenza si determina con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il componente reddituale pluriennale è maturato ed è stato iscritto per la prima volta, oppure con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione dove è indicato ciascun singolo rateo in cui il componente reddituale pluriennale è suddiviso? La questione non è di poco conto se si considera che si discute di elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta, sono tuttavia ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive, eventualmente anche molto lontane da quella di origine. Importanti applicazioni di tali fattispecie si hanno - per esempio - nel riporto in avanti delle perdite di esercizi pregressi, nelle quote di ammortamento di beni materiali e immateriali, nelle sopravvenienze attive rateizzabili, nelle detrazioni decennali per rate costanti di quota delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici; nella detrazione decennale per rate costanti del novante per cento delle spese documentate per la pulitura o tinteggiatura delle facciate esterne degli edifici; nella detrazione quinquennale in rate costanti delle spese affrontate per l’efficientamento energetico degli edifici, la prevenzione sismica, l’installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine di ricarica di veicoli elettrici (c.d. “superbonus 110%”). Si tratta di ipotesi tra loro eterogenee, sia per soggetti interessati alla dilazione (soggetti Ires, Irap, persone fisiche), sia per natura del componente reddituale pluriennale, che può essere tanto negativo quanto positivo. Pur affermando il principio che “l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo e unitario, e il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove e autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi”, la giurisprudenza aveva tratto conseguenze applicative non univoche: dallo stesso principio dell’autonomia di ciascun periodo d’imposta veniva fatta discendere - talvolta - la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato dal contribuente e non contestato dall’Amministrazione nel quinquennio, - talaltra - la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità successiva, indipendentemente dalla mancata contestazione del componente pluriennale nel primo quinquennio. Orbene, a Sezioni Unite il Giudice di legittimità ha dapprima osservato che la dichiarazione fiscale ha natura di dichiarazione di scienza o giudizio, non dispositiva e di volontà. Per cui ogni dichiarazione dei redditi costituisce una narrazione di fatti (elementi, dati, informazioni) giuridicamente rilevanti perché ricostruiti in funzione impositiva. Ha poi ritenuto che la mera indicazione unilaterale di un fatto, valevole per legge solo per l’anno al quale la dichiarazione si riferisce, non può di per sé esplicare alcun effetto preclusivo sull’azione dell’Amministrazione finanziaria che contesti quello stesso fatto una volta dichiarato ex novo in una dichiarazione diversa, in quanto concernente un’altra annualità d’imposta nella quale quello stesso fatto continui a rilevare. Peraltro, anche il potere di accertamento si rinnova di anno in anno, nel senso che il suo oggetto è il controllo del reddito di ciascuna singola annualità presa in esame, e siccome il reddito verificato costituisce un dato complessivo unitario costituente l’esito dell’interdipendenza di una molteplicità di voci rilevanti, la sua verifica non può essere limitata a taluni componenti soltanto con la salvezza di altri (quelli pluriennali) che, in ipotesi, non siano stati sottoposti a verifica negli anni precedenti. Inoltre, non vi è alcun affidamento da tutelare in capo al contribuente a seguito della mera inerzia dell’Amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione di prima deduzione dell’elemento pluriennale. Difatti, da detta circostanza il contribuente non può realisticamente trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza del suo operato e la legittimità della reiterazione di quell’elemento nelle dichiarazioni successive. Per cui, in conclusione, è stato affermato il seguente principio di diritto: “nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 43, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.
Autore: dalle Lezioni... 29 apr, 2021
Il canone RAI è un canone corrisposto all’ente radiotelevisivo, che lo riscuote per conto dello Stato, mediante pagamento annuale di un determinato importo, da parte di chiunque detenga uno o più apparecchi atti alla ricezione radio-televisiva. La norma di riferimento è il regio decreto-legge n. 246 del 1938, e l’importo del canone è variato nel tempo a seconda che dell’apparecchio si facesse un uso privato o un uso speciale (ad esempio, in bar o ristoranti). Con le ultime modifiche del 2015 (L. n. 208 del 28 dicembre 2015), si presume che chi abbia in essere un contratto di fornitura dell’energia elettrica detenga anche un apparecchio televisivo; tale detenzione costituisce elemento sufficiente e necessario per far scattare l’obbligazione tributaria, il cui assolvimento avviene oggi tramite addebito rateale nella bolletta dell’energia elettrica. Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come "tassa", collegata alla fruizione del servizio pubblico, in seguito si è optato per la qualificazione di imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’art. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (in questi termini, la sentenza della Corte costituzionale n. 535 del 1988). Ciò ha comportato lo spostamento della valutazione di legittimità dell’imposizione dalla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone è destinato, alla riconducibilità del tributo ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva. Ed è sotto tale profilo che la Corte delle leggi, chiamata a pronunciarsi in riferimento all’art. 53 della Costituzione, ha dichiarato non fondate le relative questioni, aventi ad oggetto gli articoli 1, 10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938, ritenendo che l’indice di capacità contributiva consistente nella mera detenzione di un apparecchio radiotelevisivo non potesse considerarsi irragionevole. L’esistenza di un servizio radiotelevisivo pubblico, cioè promosso e organizzato dallo Stato, non più a titolo di monopolista legale della diffusione di programmi televisivi, ma nell’ambito di un sistema misto pubblico-privato, si giustifica però solo in quanto chi esercita tale servizio sia tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema, bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, con il fine di "ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese", come esplicitava l’art. 1, comma 1 della legge n. 103 del 1975. Di qui la necessità che la concessione preveda specifici obblighi di servizio pubblico e imponga alla concessionaria l’obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali. In questa prospettiva si giustifica l’esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione tributaria, e nella specie all’imposizione del canone. L’altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione di programmi radiotelevisivi liberamente accessibili (al di fuori dunque delle forme di televisione a pagamento) è infatti la raccolta pubblicitaria, la quale, a sua volta, oltre che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli utenti e degli altri mezzi di comunicazione, e dalle libere scelte degli operatori del settore e degli inserzionisti, è di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti. Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per altro verso impone, al soggetto che svolge il servizio pubblico di adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi, sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di adeguare la tipologia e la qualità della propria programmazione alle specifiche finalità di tale servizio, non piegandole alle sole esigenze quantitative dell’ascolto e della raccolta pubblicitaria, e non omologando le proprie scelte di programmazione a quelle proprie dei soggetti privati che operano nel ristretto e imperfetto "mercato" radiotelevisivo. E’ questa caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla scelta legislativa di imposizione del canone destinato a finanziare tale servizio: mentre esulano, evidentemente, dall’ambito di profili di costituzionalità le valutazioni circa l’adeguatezza in concreto dell’attività svolta alla natura dei compiti affidati al servizio pubblico. Il collegamento dell’obbligo di pagare il canone alla semplice detenzione dell’apparecchio, atto o adattabile alla ricezione anche solo di trasmissioni via cavo o provenienti dall’estero, indipendentemente dalla possibilità e dalla volontà di fruire dei programmi della concessionaria del servizio pubblico, discende dalla natura di imposta impressa al canone, che esclude ogni nesso di necessaria corrispettività in concreto fra obbligo tributario e fruizione effettiva del servizio pubblico. Non vi è dunque né irragionevolezza nella scelta del legislatore di fondare l’imposizione genericamente sulla detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni radiotelevisive, né una disparità di trattamento tra chi riceva le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi eventualmente le riceva con altri mezzi, o non le riceva affatto. Ancora una volta, ciò che viene in rilievo, come presupposto dell’imposizione, è la detenzione degli apparecchi (ed è questione di mera interpretazione della legge stabilire quali siano tali apparecchi), non rilevando, ai fini della costituzionalità di tale imposizione, la circostanza che l’utente riceva o meno le trasmissioni del servizio pubblico.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 24 apr, 2021
Cassazione Civile, Sez. V, 2 aprile 2021, n. 9135 Abuso del diritto – IVA tributo armonizzato – All’Amministrazione finanziaria la prova del disegno elusivo e dell’irragionevole applicazione degli schemi negoziali classici secondo una normale logica di mercato – Al contribuente la prova delle giustificazioni economiche poste a base delle operazioni diverse dal mero risparmio tributario. Con la pronuncia in epigrafe - corredata da numerose citazioni giurisprudenziali - la Corte di legittimità ha ricordato che l’abuso del diritto, o elusione ( art. 10 bis della l. n. 212 del 2000 ), trova il suo fondamento normativo nell’ordinamento unionale e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo la quale per la configurazione di una pratica abusiva è necessario: - un “ elemento oggettivo ”, che si manifesta in un insieme di circostanze da cui risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa, l’obiettivo perseguito dalla legge non è stato raggiunto; - un “ elemento soggettivo ”, da cui risulti che lo scopo essenziale delle operazioni controverse è il conseguimento di un vantaggio indebito, anche indirettamente non voluto dal sistema tributario, non vietato peraltro da una disposizione espressa, mediante la creazione artificiosa delle condizioni richieste per il suo ottenimento. Dal combinato disposto di entrambi gli elementi deve emergere che il risultato raggiunto dal contribuente è contrario alle disposizioni tributarie e che lo scopo essenzialmente perseguito è ottenere un (indebito) vantaggio fiscale, che è dunque sempre “illecito” quando rappresenta l’essenza (la parte preponderante, se non essenziale comunque prevalente) dell’oggetto del contratto o degli accordi nel loro complesso. In quest’ottica, l’elemento integrante l’indebito vantaggio fiscale, per contrarietà allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse, si deve ricercare nella “ causa concreta dell’operazione negoziale sottesa al meccanismo giuridico contorto diretto ad aggirare la normativa tributaria per raggiungere lo scopo essenziale del risparmio d’imposta, che in altro modo non sarebbe possibile conseguire ”. E la necessità di apprezzare l’operazione nella sua “essenza”, al fine di privilegiarne l’intrinseca natura e gli effetti giuridici rispetto al titolo e alla forma apparente, comporta che gli stessi concetti privatistici di autonomia negoziale finiscono per regredire, di fronte alle esigenze antielusive, a semplici elementi della fattispecie tributaria. Quanto al riparto dell’onere probatorio , incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale. È invece a carico del contribuente l’onere di dedurre e provare le giustificazioni economiche poste a base dell’operazione, diverse dal mero risparmio tributario. Nella vicenda oggetto di giudizio (acquisto di macchinari, contratto rescisso con emissione di note di credito che avevano dimezzato il debito IVA, successivi contratti di leasing per gli stessi macchinari con altri soggetti subentrati al contratto di compravendita), l’amministrazione aveva ritenuto che i comportamenti delle società, tra loro in rapporto di controllo, fossero caratterizzati da un improprio utilizzo della strumentazione fiscale. Ma il Giudice di legittimità ha valutato che l’effettiva ragione imprenditoriale perseguita (anche manipolando i meccanismi fiscali ma con connotazione non prevalente) fu la fornitura di macchinari dalla società costruttrice a quella utilizzatrice mediante ricorso a un finanziamento, con l’intervento delle società di leasing, con i minori oneri possibili.
Autore: dalle Lezioni... 21 apr, 2021
Soggetto passivo dell’obbligazione tributaria è il soggetto che risulta debitore dell’imposta perché si sono verificati fatti e situazioni, previsti dalla legge come presupposto tributario, che sono a lui riferibili o ascrivibili. Dal punto di vista del diritto tributario, per essere soggetto passivo non è necessario avere la personalità giuridica ma un’ autonomia patrimoniale e giurisdizionale , tale cioè da permettere di imputare a un soggetto determinato l’obbligazione tributaria; a tali fini, basta essere individuabili come organizzazioni di beni o di persone. NelI'Ires, sono soggetti passivi anche " le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei quali il presupposto si verifica in modo unitario e autonomo ". La situazione dei soggetti sui quali si deve effettuare per legge il prelievo tributario si cumula normalmente con la responsabilità per il pagamento del tributo e con la individuazione soggettiva ai fini dell’esecuzione coatta, in casi di mancato adempimento volontario. Tuttavia, esistono delle particolari circostanze in cui l’unitarietà dell’individuazione del soggetto passivo si frammenta, e si affiancano o si sostituiscano all’obbligato principale altri soggetti. Una prima situazione particolare è quella della obbligazione solidale , che nasce, ai sensi del codice civile, quando vi sono due o più debitori tenuti ad adempiere l’intera obbligazione. In tal caso, l’amministrazione finanziaria può esigere l’intera prestazione da ciascun debitorie e colui che adempie all’obbligo può rivalersi nei confronti degli altri obbligati, esigendo dagli stessi la parte di imposta che la legge mette a loro carico. Se la solidarietà è paritaria (ad esempio: parti contraenti ai fini dell’imposta di registro o eredi per l'imposta sulle successioni), l’imposta viene ripartita internamente, in base alle norme del codice civile in materia ( artt. 1298 e ss. ), in ragione della partecipazione dei coobbligati al presupposto, secondo la quota riferibile a ciascuno di essi; quando è possibile imputare per quote il presupposto, la stessa suddivisione si riflette sulla divisione del debito nei rapporti interni, ma quanto invece la suddivisione non è possibile, e non vi sono norme ad hoc (ad esempio, nella compravendita, tra le spese del contratto, poste a carico del compratore, deve ricomprendersi anche l’imposta di registro), non resta che considerare uguali le quote, ferma restando la libertà delle parti di disciplinare in via convenzionale la ripartizione tra di esse dell’onere tributario. Se invece la solidarietà è dipendente – ovvero uno dei soggetti obbligati non ha realizzato il presupposto d’imposta ma è in ogni caso collegato al fatto imponibile, come ad esempio il notaio che stipula l’atto per l’imposta di registro -, il soggetto che non ha realizzato il presupposto può rivalersi sugli obbligati principali per l’intero importo dovuto e versato al fisco. Altra ipotesi di solidarietà nell’obbligazione tributaria si ha nella rappresentanza necessaria (ad esempio: rappresentante legale del minore e rappresentante legale delle persone giuridiche) e nella rappresentanza volontaria o negoziale, laddove a un soggetto viene affidata tramite mandato la trattazione di questioni inerenti al rapporto tributario (ad esempio: coniuge, avvocato o funzionario dei Centri di assistenza fiscale). In questi ultimi casi, il rappresentante volontario non risponde del pagamento del tributo, mentre è ordinariamente obbligato per le sanzioni pecuniarie. Se infine una persona fisica o giuridica, o comunque un soggetto fornito di personalità giuridica tributaria, scompare, non per questo si produce un’estinzione del debito d’imposta che sia sorto prima della sua scomparsa, e ciò anche se lo stesso non sia stato ancora accertato. In questi casi, il soggetto che subentra negli obblighi inerenti a un determinato rapporto d’imposta, in quanto destinatario di obblighi e diritti in via successoria, deve assolvere anche al debito tributario. Se vi sono più successori – come ad esempio in caso di pluralità di eredi di una persona deceduta – gli stessi subentrano non solo nell’obbligazione tributaria, ma anche negli obblighi formali a cui era tenuto il precedente debitore. Trova ordinariamente applicazione l' art. 752 c.c. , a norma del quale gli eredi non rispondono in solido dei debiti ereditari, ma in proporzione delle rispettive quote, salvo che per i debiti derivanti da imposte sui redditi, per i quali vi è una norma ad hoc che dispone la solidarietà degli eredi per le obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. Un'altra disposizione particolare, sempre con riferimento alle imposte sui redditi, è stata prevista per quanto riguarda i termini pendenti , in caso di decesso prima dell’assolvimento dell’obbligo di dichiarazione da parte del debitore d’imposta; tali termini, infatti, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi, qualora scadano entro quattro mesi dal decesso del de cuius , previa comunicazione da parte degli eredi, all’Agenzia delle entrate competente in base all’ultimo domicilio fiscale del defunto, delle proprie generalità e residenza rilevante ai fini tributari. In materia di IVA, invece, gli eredi possono adempiere agli obblighi fiscali derivanti da operazioni effettuate dal de cuius , entro tre mesi dalla morte di questi. La cancellazione di una società dal registro delle imprese ne determina l'estinzione, con il relativo fenomeno successorio previsto dalla legge, ma l' art. 28, comma 4 del d.lgs. n. 175 del 2014 ha disposto in via derogatoria che la società cancellata sopravvive per cinque anni agli effetti fiscali, con norma che è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, in quanto rientrante tra le disposizioni orientate a preservare la garanzia dell'adempimento delle obbligazioni tributarie, e che dunque segnano uno scostamento dalla disciplina ordinaria ragionevole, proprio in quanto correlato ad una consentita condizione di maggior favore per l'amministrazione finanziaria. Figure particolari e rilevanti per il diritto tributario sono quelle del sostituto d’imposta e del responsabile d’imposta . Il primo è colui che è obbligato in base alla legge al pagamento di imposte in luogo di altri per fatti e situazioni a questi riferibili, il secondo è un soggetto che è obbligato per legge al pagamento dell’imposta pur non avendo concorso a realizzare il presupposto dell’imposta, ma per avere posto in essere una fattispecie ulteriore e diversa. Nella figura del responsabile d’imposta (che è un’ipotesi di solidarietà tributaria dipendente), si realizza un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra la fattispecie principale e la fattispecie secondaria; se viene a mancare l’obbligazione principale, viene meno anche l’obbligazione del responsabile. Ciò però non ha rilievo nei confronti dell’amministrazione finanziaria, in quanto ai suoi occhi il responsabile d’imposta è un coobbligato in solido, anche dal punto di vista degli obblighi formali, come nella solidarietà paritaria; nei rapporti interni, invece, il responsabile d’imposta, se paga il tributo, ha diritto di regresso per l’intero e non pro quota. Oltre all’esempio sopra descritto del notaio rispetto all’imposta di registro, sono casi particolari di responsabilità d’imposta quelli della società controllante rispetto alle società controllate (la controllante è debitrice obbligata in solido anche per i debiti tributari delle controllate, pur non avendo realizzato il relativo presupposto fiscale), del sostituto d’imposta iscritto a ruolo per imposte per le quali non ha effettuato né le ritenute né i versamenti, del rappresentante fiscale a fini IVA e del cessionario d’azienda (il quale risponde di imposte e sanzioni dovute dal cedente riferibili alle violazioni commesse nell’anno di cessione e nei due precedenti, ma con il beneficio della preventiva escussione del cedente, ed entro il limite del valore dell’azienda ceduta, salvo che venga dimostrato, anche tramite presunzioni, che la cessione sia stata attuata in frode dei creditori tributari). Nel caso del sostituto d’imposta, l’obbligo di versamento dell’imposta grava su di lui, che pure non realizza il presupposto, e ha come corrispondente causa il diritto di operare una ritenuta nei confronti del sostituito, il quale percepisce dal sostituto somme rilevanti ai fini dell’imposta sul reddito. E’ una sostituzione soggettiva , da tenere distinta dalla sostituzione oggettiva, che si ha quando la legge prevede un regime fiscale sostitutivo , con la sottoposizione di un presupposto d’imposta ad un regime fiscale diverso da quello ordinario. Il sostituto è obbligato, pena l’inflizione di sanzioni amministrative, ad operare la ritenuta, e il suo obbligo è una garanzia di attuazione del tributo per il fisco. Diventano sostituti d’imposta i soggetti passivi IRES, le società di persone, le associazione, gli imprenditori individuali, coloro che esercitano arti e professioni e i curatori fallimentari, allorché corrispondono le somme (per lo più formanti reddito di lavoro dipendente, compensi di lavoro autonomo e interessi, dividendi e altri redditi di capitale) individuate dagli artt. 24 e ss. del d.P.R. n. 600 del 1973. Il sostituto, nel momento in cui corrisponde le somme soggette a ritenuta, ha il diritto-dovere di trattenerne una frazione, in forza della norma sulla ritenuta, che incide dunque sul regime del rapporto civilistico. La sostituzione tributaria può essere definitiva o a titolo di acconto , a seconda che comporti l’applicazione di una aliquota fissa su di un determinato provento, che è così sottratto alla sua inclusione nel reddito complessivo del percipiente – reddito che ordinariamente sarebbe tassato progressivamente – o si limiti ad affiancare al debitore principale, soggetto passivo dell’obbligazione tributaria commisurata al presupposto e all’intero periodo d’imposta, un soggetto tenuto ad obblighi di natura diversa, che presuppongono l’erogazione, nel corso del periodo d’imposta, di somme al sostituito, e si sostanziano nella ritenuta e versamento di una somma pari alla ritenuta. Nel caso di sostituzione a titolo di imposta o definitiva viene realizzato nello stesso tempo una sostituzione in senso oggettivo – regime fiscale sostitutivo della ordinaria imposta sul reddito – e una sostituzione in senso soggettivo (obbligazione tributaria posta a carico di un soggetto diverso da colui che realizza il presupposto). E’ un sistema derogatorio rispetto alla tassazione globale e progressiva delle persone, ed è perciò prevista in un numero limitato di casi (ad esempio ritenute su redditi di capitali), l’imposta è proporzionale e il sostituto è unico debitore verso il fisco dell’imposta, mentre il sostituito non deve neanche dichiarare i proventi soggetti alla ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. Tra sostituto e sostituito vi è un rapporto di natura privata dal quale scaturisce un credito del sostituito nei confronti del sostituto, e sull’importo di questo credito il sostituto trattiene una somma pari all’importo da versare al fisco. Sostituto e sostituito diventano coobbligati in solido verso l’amministrazione finanziaria per il debito d’imposta soltanto se il sostituto omette sia la ritenuta che il versamento . Nella sostituzione a titolo d’imposta, in altri termini, fatta eccezione per la situazione patologica sopra descritta – doppia omissione del sostituto – il soggetto passivo resta soltanto uno, ovvero il sostituto (mentre ad esempio il responsabile d’imposta, pur non avendo realizzato il presupposto, è coobbligato anch’egli con il debitore principale fin dall’origine). Nella sostituzione a titolo di acconto , invece, il sostituto non è debitore in luogo del soggetto che sarebbe obbligato secondo i criteri generali della soggettività passiva dell’obbligazione, ma è un soggetto passivo di un obbligo di ritenuta e di versamento . Il sostituito non ha alcun obbligo verso il fisco derivante dalla percezione delle somme soggette a ritenuta, ma è tenuto a subire le ritenute che opera su tali somme il sostituto; tali ritenute costituiscono un acconto dell’imposta che sarà dovuta sul complesso dei redditi di quel periodo d’imposta, di modo che, quando si esaurisce tale periodo, il sostituito avrà il diritto di portare in detrazione l’importo corrispondente alle ritenute subite rispetto all’imposta complessiva risultante dalla dichiarazione dei redditi. Tale diritto viene acquisito per il solo fatto di avere subito le ritenute, di modo che se il sostituto non versa le somme ritenute, il fisco non può agire nei confronti del sostituito. La sostituzione a titolo di acconto non implica dunque una fattispecie di regime sostitutivo, perché l’imposta sui redditi resta di natura progressiva, ma semplicemente viene corrisposta in anticipo, tramite i singoli acconti trattenuti dal sostituto. Nel caso in cui il sostituto non opera le ritenute e non versa, il sostituito deve corrispondere l’imposta dovuta, senza potere operare detrazioni, assolvendo così il relativo debito tributario, fatte salve le sanzioni previste per l’inadempimento degli obblighi formali gravanti sul sostituto. Il sostituto che non effettua le ritenute d’acconto rimane obbligato nei confronti del fisco, ma al tempo stesso conserva il suo diritto-dovere di rivalersi sul sostituito, eventualmente in via successiva. Pur non essendo previsto normativamente a carico del sostituito alcun obbligo di corrispondere l’importo che doveva formare oggetto di ritenuta, parte della giurisprudenza ha sostenuto a lungo che l’amministrazione finanziaria potesse non solo accertare, nei confronti del sostituito, i redditi sui quali è stata omessa la ritenuta d’acconto – il che è normale conseguenza della nascita del presupposto d’imposta -, ma anche riscuotere nei suoi confronti le somme che il sostituto ha omesso di versare, pur operando la ritenuta. E ciò in quanto si diceva che il contribuente che percepisce somme soggette a ritenuta d’acconto sarebbe ab origine debitore verso il fisco, in solido con il sostituto. In tal caso il sostituito dovrebbe però subire un doppio prelievo, seppure con diritto di regresso verso il sostituto; le Sezioni Unite, nel 2019, hanno superato questo orientamento, affermando che, nel caso di ritenuta a titolo di acconto operata ma non versata dal sostituto d’imposta, è responsabile solo il sostituto, stante l’assenza, in questo caso, di un'ipotesi di solidarietà tributaria tra i due soggetti per il pagamento della ritenuta, solidarietà invece sussistente nell’ipotesi di sostituzione a titolo d’imposta. All’interno dei soggetti passivi dell’obbligazione tributaria, si distingue infine tra contribuente di diritto e contribuente di fatto , a seconda che si tratti del soggetto tenuto a pagare il tributo e soggetto che sopporta l’onere del tributo senza poterlo riversare su altri (ciò avviene ad esempio nelle imposte sui consumi, tramite una traslazione di fatto dal soggetto passivo/operatore commerciale al consumatore finale). In altri casi, peraltro, la traslazione è espressamente prevista dalla legge (ad esempio, tramite il diritto-obbligo dei soggetti passivi IVA di addebitare l’imposta ai loro clienti). Si parla ancora di diritto di rivalsa quando il soggetto passivo è un soggetto diverso da colui che realizza il presupposto: tale diritto o è espressamente conferito dalla norma tributaria o deriva dall’applicazione delle norme civilistiche, e nel primo caso fa parte del tributo inteso come istituto giuridico, ossia come insieme di norme corrispondenti ad un ratio unitaria. Se le norme tributarie qualificano la rivalsa come obbligatoria , sono nulli i patti con cui l’avente diritto rinuncia alla rivalsa stessa, accollandosi in via definitiva l’onere economico derivante dal tributo. Se la rivalsa non è obbligatoria, resta spazio per i patti di accollo dell’imposta ; l’accollo può essere interno , senza produrre effetti per l’amministrazione finanziaria, o con rilievo esterno , secondo quanto stabilito dall’art. 8, comma 2 dello Statuto dei diritti del contribuente (“ E’ ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente" ). L’accollo esterno è dunque sempre cumulativo. Il problema dei patti sull’imposta è la loro compatibilità con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione, principio che seppure è ordinariamente rivolto al legislatore e regola il rapporto verticale tra legislatore stesso e contribuenti, in alcuni casi può avere diretta applicabilità anche nei rapporti tra privati, con la conseguenza della nullità del negozio che si ponga in contrasto con esso. Al riguardo, nel 2019, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto compatibile con l’art. 53 della Costituzione la clausola con cui il conduttore di un contratto di locazione si era addossato il peso delle imposte gravanti sull’immobile ad esso locato (dovute normativamente dal locatore), ma soltanto qualora tale clausola sia stata prevista dalle parti come componente integrante la misura del canone locatizio complessivamente dovuto dal conduttore stesso. Accanto al diritto di rivalsa può poi sussistere il diritto di surrogazione previsto dall’art. 1203, n. 3 del codice civile, secondo cui l’assolvimento per conto di cui vi sia tenuto del debito d’imposta comporta anche il subentro negli stessi privilegi da cui è garantito il fisco (la surrogazione è espressamente prevista dalle norme in materia di imposta di registro anche per i responsabili d’imposta).
Autore: dalle Lezioni... 21 apr, 2021
I tributi si distinguono essenzialmente in imposte e tasse, a seconda che si tratti di entrate destinate a finanziare le spese indivisibile o di entrate destinate a finanziare spese divisibili. La tassa ha come presupposto un atto o un’attività pubblica, ovvero l’adozione di un provvedimento, o ancora lo svolgimento di un pubblico servizio, specificamente riguardanti un determinato soggetto. Si ispira al principio di corrispettività e non trova titolo giustificativo nella capacità contributiva del soggetto al quale è richiesto. E’un istituto prossimo, da un lato, a quello dei proventi di diritto pubblico di natura non tributaria (prezzi pubblici, tariffe e canoni), dall’altro, a quello dei corrispettivi di diritto privato (anche dette entrate patrimoniali). In particolare, i servizi pubblici possono essere effettuati dietro pagamento di una tassa o dietro pagamento di un corrispettivo, ma ciò non dipende dalla natura del servizio, bensì dal suo regime giuridico , e in particolare dal fatto che vi sia imposizione coattiva (tassa) o una base contrattuale (corrispettivo). Nella tassa non vi è un rapporto necessariamente sinallagmatico tra prestazione pecuniaria e attività pubblica, potendo esistere tasse dovute anche nel caso in cui il servizio non sia concretamente utilizzato; la tassa locale può infine essere sostituita con proventi di natura non tributaria (ad esempio, ciò avviene nel caso in cui il Comune decida di istituire il canone per occupazione di spazi ed aree pubbliche ). Il nomen iuris non è comunque decisivo. La tassa si distingue infine dal contributo rilevante ai fini del diritto tributario (anche detto tributo speciale) in quanto quest’ultimo è in realtà conformato sul modello dell’imposta, poiché è dal realizzarsi del presupposto che sorge l’obbligo di pagamento del tributo. Tuttavia, nel contributo – che ha ordinariamente come presupposto l’ arricchimento che determinate categorie di soggetti traggono dall’esecuzione di un’opera pubblica destinata di per sé, alla collettività in modo indistinto, come accadeva per i vecchi contributi di miglioria – il vantaggio dell’obbligato rileva direttamente come elemento costitutivo del presupposto stesso. Il vantaggio deve materialmente esserci, non presumersi come conseguenza ordinaria di una maggiore forza economica. Prossimo al corrispettivo e alla tassa è infine il monopolio fiscale , che è da un lato ciò che si paga per l’acquisto di un genere, e dall’altro può avere la funzione di procurare entrate all’ente pubblico. Le principali tasse del nostro ordinamento sono: - le tasse sulle concessioni governative; - il contributo per l’iscrizione a ruolo delle causa civili, amministrative e tributarie; - le tasse automobilistiche; - la tassa sull’occupazione degli spazi pubblici; - la tassa sui rifiuti. TASSE SULLE CONCESSIONI GOVERNATIVE Sono tasse collegate all’emanazione di atti o provvedimenti amministrativi che consentono agli interessati l’esercizio di diritti e facoltà ; la loro disciplina unitaria è rinvenibile nel d.P.R. n. 641 del 1972 . A seconda della tipologia di provvedimenti a cui si riferiscono, possono distinguersi in tasse di rilascio , tasse di rinnovo , tasse annuali e tasse di visto o vidimazione dovute per l’espletamento di tali formalità. La riscossione delle tasse in questione può avvenire mediante versamento su apposito conto corrente postale intestato all’Agenzia delle Entrate o mediante pagamento ad intermediario convenzionato con l’Agenzia, e l’ammontare ( tariffa ) è normalmente stabilito in misura fissa. CONTRIBUTO UNIFICATO E’ la tassa che deve essere versata, in sostituzione dell’imposta di bollo, per l’ iscrizione a ruolo , per ciascun grado di giudizio, nel processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, nel processo amministrativo e nel processo tributario, ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. n. 115 del 2002 , secondo gli importi fissi stabiliti, in relazione al valore della controversia, dal successivo art. 13. Se viene esercita l’ azione civile nel processo penale, la tassa è dovuta soltanto se la parte civile non si limita a chiedere la condanna generica del responsabile. Il contributo può essere versato all’agente della riscossione, presso gli uffici postali o presso le rivendite di generi di monopoli e di valori bollati; si tratta di un corrispettivo imposto coattivamente e collegato ad una attività pubblica. TASSA SULL’OCCUPAZIONE DI SPAZI PUBBLICI E’ una tassa collegata alla fruizione di un bene pubblico, che si riferisce sia all’ occupazione di spazi di qualsiasi natura, in strade, piazze, mercati o altri spazi appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei Comuni, sia agli spazi sottostanti o soprastanti il suolo (condutture sotterranee e fili elettrici), sia allo stazionamento di taxi e vetture di piazza nei parcheggi loro riservati. La tassa è dovuta al Comune dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione, o, in mancanza, dall’ occupante non autorizzato , in proporzione della superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico, e in misura proporzionale alle ore di effettiva occupazione, se si tratta di occupazione del suolo per un periodo non superiore all’anno, dovendosi altrimenti considerarsi l’occupazione suddetta come permanente , in quanto superiore all’anno e perdurante per tutto il tempo. La legge di bilancio per il 2020 ha previsto che, a decorrere dal 2021, è istituito dai Comuni, dalla Province e dalle Città metropolitane il canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria , il quale sostituisce la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, il canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, l'imposta comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni, il canone per l'installazione dei mezzi pubblicitari e il canone di cui all'articolo 27, commi 7 e 8, del c decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, limitatamente alle strade di pertinenza dei comuni e delle province. Il canone è comunque comprensivo di qualunque canone ricognitorio o concessorio previsto da norme di legge e dai regolamenti comunali e provinciali, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi. Il canone è disciplinato dagli enti in modo da assicurare un gettito pari a quello conseguito dai canoni e dai tributi che sono sostituiti dal canone, fatta salva, in ogni caso, la possibilità di variare il gettito attraverso la modifica delle tariffe. Nelle aree comunali si comprendono i tratti di strada situati all'interno di centri abitati di comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, individuabili a norma dell'articolo 2, comma 7, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285. Il presupposto del nuovo canone è l' occupazione, anche abusiva , delle aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi soprastanti o sottostanti il suolo pubblico, o comunque la diffusione di messaggi pubblicitari , anche abusiva, mediante impianti installati su aree appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile degli enti, su beni privati laddove siano visibili da luogo pubblico o aperto al pubblico del territorio comunale, ovvero all'esterno di veicoli adibiti a uso pubblico o a uso privato. TASSA SUI RIFIUTI (TARI) E’ una tassa locale collegata alla fruizione di un servizio pubblico (raccolta e smaltimento di rifiuti “ordinari”), e disciplinata allo stato dalla L. n. 147 del 2013 , il cui presupposto è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte , a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse le aree accessorie a locali tassabili, e le aree comuni condominiali non detenute od occupate in via esclusiva. Soggetti passivi sono i possessori o detentori (per almeno sei mesi) di tali aree, i quali rispondono in solido tra di loro se sono in numero maggiore di uno. La misura del tributo è correlata alle superfici dichiarate o accertate ai fini dei precedenti prelievi sui rifiuti (secondo la superficie calpestabile , con la possibilità, ad esito della revisione dei dati catastali, e relativamente alle unità immobiliari iscritte o iscrivibili nel catasto edilizio urbano, di considerare come superficie assoggettabile alla TARI quella pari all’80 per cento della superficie catastale determinata secondo i criteri stabiliti dal regolamento di cui al d.P.R. n. 138 del 1998. La tassa è corrisposta in base a tariffa commisurata ad anno solare , ed è determinata dai Comuni in base a categorie omogenee su cui applicare solo alcuni dei coefficienti previsti nel d.P.R. 158/1999 , con possibilità di prevedere riduzioni tariffarie ed esenzioni entro i limiti fissati dalla norma (ad esempio, per le abitazioni con unico ospitante oppure per abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale). La tariffa è composta da una parte fissa , determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e ai relativi ammortamenti, e da una parte variabile , rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione. Esistono ordinariamente due tipologie di TARI, la TARI per utenze domestiche e la TARI per utenze non domestiche ; i dati che incidono sul calcolo della tassa concretamente da pagare sono l’entità dello spazio occupato, il numero degli occupanti e i dati catastali. Il tributo non è in ogni caso dovuto in relazione alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di avere avviato a recupero, e i soggetti passivi sono tenuti a presentare dichiarazione entro un determinato termine successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione, con versamento dell’importo dovuto in due rate a scadenza semestrale tramite apposito bollettino di conto corrente postale o altra modalità a tali fini prevista. Il principio fondamentale per l’applicazione della TARI sarebbe quello, sancito dall’ art. 191 del TFUE , secondo cui “ chi inquina paga ”, ma è stato ritenuto compatibile con tale principio il sistema ordinariamente adottato dai Comuni, che sono stati normativamente autorizzati a commisurare la tassa al costo del servizio e alla quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie ( metodo “normalizzato” di calcolo del tributo). Tale metodo è da considerarsi legittimo, qualora rispetti la condizione di non ingenerare, a carico di alcune fasce di contribuenti, trattamenti irragionevolmente gravosi per inosservanza del principio di proporzionalità del tributo alla quantità e qualità dei rifiuti prodotti (ad esempio, non prevedendo una riduzione forfettaria a carico dei non residenti stagionali rispetto all’importo dovuto dai residenti stabili, che per dato di comune esperienza producono un volume di rifiuti superiore ai primi). Vi è da dire, in ogni caso, che dal 2019 il metodo “normalizzato” è stato parzialmente modificato dalle delibere ARERA in materia, con introduzione di metodologie di calcolo dei costi efficienti (adottate tramite l’aggiornamento annuale del “Metodo tariffario rifiuti" ), da includere nelle componenti di costo utilizzate per il Piano economico finanziario del gestore del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, piano che costituisce la base di calcolo della TARI.
Autore: aggiornamento a cura di Alma Chiettini, Giudice tributario 14 apr, 2021
Corte Costituzionale 21 luglio 2020, n. 158 e Corte Costituzionale 16 marzo 2021, n. 39 Imposta di registro - Come si leggono e si interpretano gli atti da sottoporre all’imposta di registro? In base al principio della prevalenza della sostanza sulla forma che impone di qualificare l’atto secondo parametri di tipo sostanzialistico e non nominalistico o di apparenza, oppure secondo i principi e i concetti giuridici propri del singolo atto? - La Corte delle leggi ha definito una querelle decennale affermando che oggetto dell’imposizione di registro è l’atto presentato per la registrazione e che non assumono rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con il primo. L’ art. 20 - Interpretazione degli atti - del d.P.R. 26.4.1986, n. 131 , sull’imposta di registro, così disponeva «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». A decorrere dall’1 gennaio 2018 il testo dell’articolo è stato così modificato (dall’art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), della l. 27.12.2017, n. 205) : «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi». Inoltre, con l’art. 1, comma 1084, della l. 30.12.2018, n. 145, è stato sancito che «L’articolo 1, comma 87, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131». La Corte di Cassazione aveva ritenuto che l’intervento normativo del 2017, che ha fatto divieto di prescindere da elementi extratestuali e da atti collegati a quello sottoposto a registrazione, non avesse valorizzato il principio, imprescindibile e anche storicamente radicato, della “prevalenza della sostanza sulla forma”, che impone di qualificare l’atto secondo parametri di tipo sostanzialistico e non nominalistico o di apparenza. Ad avviso del Giudice di legittimità, che ha richiamato il suo consolidato orientamento, tale principio doveva comportare la necessaria considerazione anche di elementi esterni all’atto e, in particolare, anche di elementi desumibili da atti eventualmente collegati con quello presentato alla registrazione, quindi in senso opposto a quanto disposto dalla nuova formulazione dell’art. 20. Inoltre, il tributo di registro non si presentava più (se non in minima parte) come una tassa con funzione corrispettiva del servizio di registrazione, assumendo i connotati di un’imposta il cui presupposto era rivelatore di una determinata forza economica, indice di capacità contributiva proprio in ragione del contenuto reale e della natura sottostante dell’atto. E ancora, il termine “atto” presentato alla registrazione avrebbe dovuto essere inteso come negozio complessivo, anche se non interamente espresso in un unico documento, per la cui interpretazione dovevano necessariamente essere utilizzati elementi extratestuali reperibili dall’interprete, compresi gli atti collegati contenuti in distinti documenti (ancorché non enunciati, né menzionati nell’atto presentato alla registrazione). Un’altra parte rimettente (la Commissione tributaria provinciale di Bologna) ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1084, della l. n. 145 del 2018 perché il Legislatore, nel disporre che l’intervento normativo del 2017 “costituisce interpretazione autentica” dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, avrebbe in realtà imposto la retroattività di quest’ultima norma “nella sua nuova ridotta portata”, in violazione di plurimi parametri costituzionali, fra i quali il più rilevante appariva la denunciata “mancanza di un persistente contrasto interpretativo da risolvere in nome del supremo principio, nazionale e sovranazionale, di certezza del diritto”, in quanto la giurisprudenza di legittimità aveva “pressoché unanimemente affermato la natura innovativa e non interpretativa dell’intervento legislativo del 2017”; inoltre, prima del suddetto intervento la situazione di “certezza del diritto” era raggiunta alla luce dell’uniforme applicazione dell’art. 20 da parte della giurisprudenza di legittimità. Per cui il Legislatore, anziché tutelare detto principio, avrebbe in realtà “forzato l’applicazione” della riformulazione operata dall’art. 1, comma 87, lettera a), della l. n. 205 del 2017, imponendola a fattispecie poste in essere nel vigore del previgente art. 20. Con la pronuncia n. 158 del 2020 la Corte Costituzionale ha subito chiarito che l’interpretazione evolutiva cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione era pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro “non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata”. La presa di posizione del Legislatore del 2017, che ha affermato “la tassazione isolata del negozio veicolato dall’atto presentato alla registrazione secondo gli effetti giuridici da esso desumibili”, è “coerente con i principi ispiratori della disciplina dell’imposta di registro e, in particolare, con la natura di ‘imposta d’atto’ storicamente riconosciuta al tributo di registro dopo la sostanziale evoluzione da tassa a imposta”. E, per quanto possa apparire, de iure condendo , in parte obsoleta rispetto all’evoluzione delle tecniche contrattuali, tale natura non risulta superata dal Legislatore positivo, tenuto conto dell’attuale impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro. Per cui, in tale contesto, il censurato intervento normativo - “esercizio non manifestamente arbitrario della discrezionalità del Legislatore” - è “ finalizzato a ricondurre il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori ”. Con la pronuncia n. 39 del 2021 la Corte Costituzionale ha precisato che “non è dirimente stabilire se la novella del 2017 abbia carattere innovativo o interpretativo” perché ciò che risulta realmente decisivo è che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e che non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti. E in tal senso ha ribadito che il Legislatore ha ricondotto il citato art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione risulta circoscritta agli effetti giuridici del singolo atto presentato alla registrazione. Ed entrambe le pronunce hanno affermato che “l’interpretazione evolutiva di detto art. 20 incentrata sulla nozione di ‘causa reale’ provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10 bis della l. 27.7.2000, n. 212, perché consentirebbe all’Amministrazione finanziaria di operare in funzione antielusiva senza applicare le garanzie del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale”.
Autore: dalle Lezioni... 12 apr, 2021
I tributi si distinguono essenzialmente in imposte e tasse , a seconda che si tratti di entrate destinate a finanziare le spese indivisibili o di entrate destinate a finanziare spese divisibili. Il presupposto dell’imposta è un fatto economico posto in essere dal soggetto passivo, senza alcuna relazione specifica con una determinata attività dell’ente pubblico. Le imposte sono dovute a titolo di solidarietà, ex artt. 2 e 53 della Costituzione, e sono commisurate alla dimensione economica del presupposto. Le principali imposte del nostro ordinamento sono: - l’imposta sul reddito delle persone fisiche; - l’imposta sul reddito delle società; - l’imposta sul valore aggiunto; - l’imposta di registro; - l’imposta ipotecaria e catastale; - l’imposta sulle assicurazioni; - l’imposta sulle successioni e donazioni; - l’imposta di bollo; - l’imposta regionale sulle attività produttive; - l’imposta unica comunale. IRPEF Le norme fondamentali di tale tributo sono contenute nel testo unico approvato con il d.P.R. n. 917 del 1986 . Presupposto dell’imposta è il possesso di redditi, in denaro o in natura, rientranti in una delle categorie indicate nell’art. 6 di tale testo unico (redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi di impresa, redditi diversi). L’imposta si applica su tutti i redditi posseduti, per le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato; sui soli redditi prodotti nello Stato, per le persone fisiche non residenti nel territorio dello Stato. A tali fini, sono considerati residenti coloro che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente, hanno il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 43 del codice civile. Per i “residenti” – così come estensivamente intesi dalla normativa tributaria – l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, al netto degli oneri deducibili indicati dall’art. 10 del testo unico, nonché della deduzione spettante per l’abitazione principale. Sono esclusi dall’ammontare imponibile i redditi soggetti a tassazione separata (cioè redditi maturati in archi temporali piuttosto lunghi ma percepiti in un unico periodo d’imposta, tipo le indennità percepite per cessazione del rapporto di lavoro dipendente). Non concorrono in ogni caso alla formazione della base imponibile, tra l’altro, i redditi esenti dall’imposta , soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva , gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli e gli assegni familiari. Il reddito complessivo annuo è dato dalla somma dei redditi netti di ogni categoria , diminuita dalle perdite derivanti dall’esercizio di arti e professioni. Tra le singole categorie di redditi, sono di interesse le seguenti precisazioni: - per il reddito dei fabbricati , posto che sono considerate unità immobiliari urbane i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro porzioni suscettibili di reddito autonomo, e che il reddito medio ordinario dei fabbricati è determinato secondo la rendita catastale risultante in catasto per le unità immobiliari, il reddito per le unità locate è costituito dal canone di locazione ridotto del 5%, salvo che il proprietario non opti per l’applicazione di un’imposta sostitutiva tramite cedolare secca , con aliquota normalmente al 21%, che è appunto sostitutiva, oltre che dell’Irpef, anche dell’imposta di registro e di bollo dovute sul contratto di locazione nonché sulla risoluzione o sulle proroghe dello stesso; - i redditi di capitale sono proventi in denaro o in natura derivanti dall’impiego di denaro o di altri beni, non sono percepiti nell’esercizio di attività di imprese e sono generalmente tassati alla fonte, in base al principio d’imputazione per cassa (aliquota del 26%); - i redditi di lavoro sono omnicomprensivi e tassati con il criterio di cassa e mediante ritenuta alla fonte operata dal sostituto d’imposta (datore di lavoro) o, per le amministrazioni statali, attraverso il meccanismo della ritenuta diretta in acconto (non vi è un sostituto d’imposta che trattiene per lo Stato, ma è lo Stato stesso che effettua direttamente il prelievo); - assieme ai redditi di lavoro dipendente sono assimilati altri tipi di compensi non derivanti da vero e proprio lavoro subordinato (ad esempio, indennità parlamentari, somme corrisposte a titolo di studio, trattamento speciale di disoccupazione); - i redditi di lavoro autonomo derivano dall’esercizio di arti o professioni – cioè attività di lavoro autonomo diversa da quella d’impresa, anche se esercitate in forma di associazione priva di personalità giuridica -, mentre i redditi di impresa sono quelli che derivano dall’esercizio professionale e abituale, anche se non esclusivo, di attività commerciale; - i redditi diversi sono tutti quei redditi che non rientrano nelle altre categorie, in quanto privi di uno dei requisiti propri di tali categorie (ad esempio, esercizio non abituale di attività di lavoro autonomo, plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso dei beni immobili acquistati da non più di cinque anni). Per determinare il reddito complessivo netto ai fini IRPEF occorre calcolare il reddito complessivo lordo (somma dei singoli redditi percepiti, con esclusione di quelli soggetti a ritenuta alla fonte o ad imposta sostitutiva o a tassazione separata), sottrarre da tale reddito il valore gli oneri deducibili (ad esempio, assegni periodici corrisposti al coniuge e contributi assistenziali e previdenziali obbligatori per legge), dedurre interamente l’imposta che sarebbe dovuta a titolo di rendita catastale per l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e applicare a tale reddito l’ imposta lorda , dalla quale va infine sottratta la somma spettante a titolo di detrazioni per oneri sostenuti (ad esempio, detrazioni per carichi di famiglia e detrazioni per spese mediche e funerarie, etc.). IRES E’ un imposta personale che colpisce con aliquota proporzionale (24%) la capacità contributiva totale, ossia il reddito delle persone giuridiche ed enti assimilati (società ed enti di ogni tipo) residenti in Italia. Non sono soggetti a tale imposta gli organi e le amministrazioni dello Stato, i Comuni, le Unioni di Comuni, i consorzi tra enti locali, le comunità montane, le Province e le Regioni. Si considerano residenti in Italia le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o amministrativa o l’oggetto principale della loro attività nel territorio dello Stato; gli altri soggetti non considerabili come residenti sono tassati per il reddito prodotto nel territorio nazionale. La base imponibile è costituita dal reddito complessivo netto determinato con i criteri distintamente previsti per il particolare tipo di società, enti e imprese elencati dal TUIR. Una disciplina fiscale a parte è prevista per le società di comodo o non operative, che sono considerate le società di capitale o le società di persone – fatta eccezione per le società semplici – nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, i cui ricavi, aumentati delle rimanenze e dei proventi quali emergono dal conto economico, sono inferiori alla somma degli importi che risultano applicando le percentuali previste dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994. Le ONLUS (enti del terzo settore, quali organizzazioni di volontario, di promozione sociale, enti filantropici, cooperative sociali) sono soggetti che godono di esenzioni e di agevolazioni fiscali se perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale, e le cui attività di interesse generale si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento d corrispettivi che non sperano i costi effettivi, con ricavi che non superano di oltre il 5% i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi. IVA L’imposta sul valore aggiunto colpisce le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio dell’impresa, di arti o professioni e le importazioni da chiunque effettuate. L’IVA colpisce soltanto la parte di incremento di valore che il bene subisce nelle singole fasi di produzione e distribuzione, fino a incidere totalmente sul consumatore finale, che corrisponderà l’intera imposta. Affinchè un’operazione sia rilevante ai fini dell’applicazione dell’IVA è necessario che l’effettuazione sia operata nel territorio dello Stato, e che tale operazione sia svolta nell’ esercizio di imprese o di arti o professioni . Non si considerano attività d’impresa, ai fini IVA, le cosiddette attività di mero godimento. I soggetti passivi o debitori d’imposta sono coloro che effettuano le operazioni imponibili (chi effettua ad esempio cessioni di beni o prestazioni di servizi nell’esercizio di una impresa; questi in realtà sono soltanto percossi dal tributo mentre i contribuenti di fatto o incisi sono i consumatori finali che versano l’IVA ma non possono recuperala in alcun modo). L’acquirente, comunque, ivi compreso il consumatore privato, è chiamato a rispondere solidalmente con il venditore dell’omesso versamento da parte di quest’ultimo dell’imposta relativa di una cessione effettuata a prezzi inferiori rispetto al valore normale. L’obbligazione tributaria nasce ordinariamente nel momento della stipulazione dell’atto per le cessioni di beni immobili, nel momento della consegna o spedizione per le cessioni di beni mobili, nel momento del pagamento del corrispettivo per le prestazioni di servizi. L’ effettuazione dell’operazione configura il presupposto d’imposta, ma l’ esigibilità si ha dal momento in cui nasce il diritto del fisco alla percezione del tributo. Secondo il d.P.R. n. 633 del 1972 (testo unico in materia IVA) l’imposta diventa esigibile quando le operazioni sono state o si considerino effettuate. Tuttavia, per i soggetti IVA con volume d’affari inferiore a 2 milioni di euro, è possibile esercitare un’opzione per rendere esigibile l’ IVA in via differita , ovvero al momento del pagamento del corrispettivo ( IVA per cassa ). Oltre alle operazioni imponibili, in materia di IVA, esistono le operazioni non imponibili , che sono soggette agli obblighi di fatturazione e registrazione, concorrono alla formazione del volume di affari ma non sono assoggettate al tributo e consentono di recuperare l’IVA pagata a monte (ad esempio, cessioni destinate all’esportazione); vi sono poi le operazioni esenti , in relazione a motivi di carattere sociale, politico o fiscale (ad esempio servizi di trasporto pubblici, prestazioni sanitarie e scolastiche, locazioni immobiliari), che sono soggette agli obblighi di fatturazione e registrazione, concorrono alla formazione del volume di affari ma non sono assoggettate al tributo e non consentono di recuperare l’IVA pagata a monte su acquisti e spese; vi sono infine le operazioni escluse , che non sono nel campo IVA (in quanto non considerate cessioni di beni o prestazioni di servizi, come le cessioni di danaro o di campioni gratuiti di modico valore). Vi sono poi gli acquisiti intracomunitari , disciplinari allo stato dal principio della tassazione del Paese di destinazione. La base imponibile è costituita dall’ ammontare complessivo dei corrispettivi previsti contrattualmente, compresi gli oneri accessori, mentre le aliquote sono variabili a seconda del bene o della prestazione coinvolti dall’operazione (si va dall’aliquota ridotta del 4% all’aliquota ordinaria del 22%). Il meccanismo applicativo dell’IVA prevede che chi cede il bene o servizio imponibile riscuote dal cliente sia il prezzo pattuito che l’IVA, emettendo all’atto dell’operazione un apposito documento fiscale (fattura per i grossisti, ricevuta fiscale o scontrino per i professionisti e i dettaglianti). Alle scadenze previste (mensilmente o trimestralmente) il soggetto passivo deve detrarre dall’IVA ricevuta quella pagata e versare il saldo all’erario mediante delega ad una banca. A scadenza dell’anno solare lo stesso soggetto effettua una dichiarazione riepilogativa di tutte le somme incassante e corrisposte, calcolando il saldo finale d’imposta da versare o ricevere dall’erario. I termini relativi alla liquidazione e contestuale versamento dell’imposta sono fissati al giorno 16 del mese successivo a quello a cui si riferisce la liquidazione se questa avviene mensilmente, e al giorno 16 del secondo mese successivo a quello a cui si riferisce la liquidazione, se questa avviene trimestralmente. Nella dichiarazione, da redigersi in conformità al modello approvato ogni anno dall’Agenzia delle entrate, devono risultare dati ed elementi idonei all’individuazione del contribuente, a determinare l’ammontare delle operazioni e dell’imposta e a porre in essere i controlli; la dichiarazione annuale IVA deve essere presentata tra il primo febbraio e il 30 aprile dell’anno successivo, ed è oggi agevolata dalla dichiarazione IVA precompilata, resa possibile dalle informazioni acquisite attraverso le comunicazioni periodiche dei dati IVA, la fatturazione elettronica e la trasmissione telematica degli scontrini. La differenza tra l’ammontare dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale e l’ammontare dei versamenti effettuati nel corso dell’anno precedente (cosiddetto conguaglio ) deve essere versata in un’unica soluzione entro il 16 marzo di ciascun anno. Se si genera un’eccedenza di imposta versata superiore a 2.582,28 euro il contribuente può chiedere il rimborso di tale eccedenza, altrimenti il relativo importo viene computato in detrazione nell’anno successivo o compensato con altre imposte dovute in base a dichiarazione unificata o a versamenti periodici. I soggetti IRES possono non tenere i registri IVA purchè effettuino le registrazioni dei dati contabili nel registro cronologico, entro i termini previsti dalla disciplina IVA, e forniscano su richiesta dell’amministrazione finanziaria i dati contabili che sarebbe stato necessario annotare nei registri non tenuti; tutti gli altri soggetti passivi dell’IVA – fatta eccezione per i contribuenti minimi (ai quali si applica un regime forfettario, se hanno, in un anno, conseguito ricavi o percepiti compensi non superiori a 65.000,00 euro) – devono tenere il registro delle vendite con fatture o, in alternativa, il registro dei corrispettivi , e il registro degli acquisti . IMPOSTA DI REGISTRO L’imposta di registro è un’imposta reale indiretta sugli affari , che colpisce con aliquote a volte fisse (e in questo caso si atteggia come una vera e propria tassa) e a volte proporzionali al valore dell’atto registrato, la capacità contributiva che si deduce da atti di scambi della ricchezza, nonché da atti giuridici negoziali di vario genere, così come individuati nella tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 . In linea generale, la registrazione può essere a termine fisso (entro venti giorni dalla formazione dell’atto), e ricomprende, oltre a tutti gli atti scritti, i contratti verbali di locazione e affitto di beni immobili; in caso d’uso (se l’atto deve essere registrato quando viene depositato, per essere poi acquisito presso le cancellerie giudiziarie o presso le pubbliche amministrazioni); volontaria (atti non soggetti a registrazione obbligatoria). La base imponibile è il corrispettivo dichiarato nell’atto ovvero il valore dei beni o dei diritti alla data dell’atto , a seconda dell’oggetto del singolo atto stipulato. I soggetti passivi dell’imposta sono coloro che pongono in essere o che si avvantaggiano dell’atto soggetto a registrazione, pur sussistendo una serie di obblighi – tra cui quello di registrazione - per altri soggetti individuati dalla legge, in qualità di responsabili solidali con l’obbligato principale , quali ad esempio, i notai, i cancellieri, i mediatori iscritti negli agenti immobiliari per le scritture private non autenticate di natura negoziale stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari. Per le operazioni soggette ad IVA, le scritture private si registrano solo in caso d’uso e comunque in misura fissa., il che vuole dire che normalmente gli atti negoziali che fanno scattare l’imposta sul valore aggiunto non determinano alcun obbligo di registrazione ai fini dell’imposta di registro. All’atto della registrazione obbligatoria, in ogni caso, l’ufficio procedente deve applicare l’imposta valutando quale sia l’intrinseca natura dell’atto e quali effetti intenda produrre, anche se la forma apparente dell’atto o il titolo dello stesso indichino una diversa natura, ai sensi dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986. Se l’Ufficio procedente ritiene che il valore venale dei beni o diritti sia superiore a quello dichiarato provvede alla rettifica nonché alla liquidazione della maggiore imposta con gli interessi e le sanzioni mediante notificazione di apposito avviso entro due anni dal pagamento dell’ imposta principale (tale tipologia di imposta deve a sua volta essere tenuta distinta dall’ imposta suppletiva , dovuta ad errore di calcolo dell’ufficio procedente, e dalla imposta complementare , integrativa della principale per acquisizione di ulteriori dati utili). L’accertamento in rettifica è in ogni caso nullo se non adeguatamente motivato. IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E SULLE DONAZIONI L’imposta in questione si applica, oltre che ai trasferimenti mortis causa e alle liberalità tra vivi , anche alla costituzione di vincoli di destinazione . Sono espressamente escluse dall’imposta le erogazioni liberali per spese di mantenimento, educazione, malattia, nozze e abbigliamento, oltre che le donazioni di beni mobili di modico valore, da valutare in rapporto alla disponibilità economica generale del donante e del donatario. Se il defunto o il donante risiedeva all’estero al momento dell’apertura della successione o della donazione, l’imposta è dovuta limitatamente ai beni e diritti esistenti in Italia. Per le successioni l’obbligazione tributaria sorge con la semplice apertura della successione , i soggetti passivi sono eredi e legatari e la base imponibile è costituita dal valore delle quote ereditarie e dei legati , dato dalla differenza tra il valore dei beni e dei diritti che compongono la singola quota o il singolo legato, e l’ammontare delle passività e degli altri oneri ammessi in deduzione in ragione della quota di spettanza di ognuno, con una franchigia di 1.000.000 di euro per il coniuge e i parenti in linea retta, e due aliquote che variano tra il 4 e l’8% a seconda del grado di parentela coinvolto. Nel caso delle donazioni, l’obbligazione sorge con la stipula dell’atto , soggetto passivo è il beneficiario e base imponibile è il valore globale dei beni o diritti oggetto della donazioni, con le medesime franchigie stabilite per l’imposta sulle successioni a valore del coniuge e dei parenti in linea retta. IMPOSTA DI BOLLO L’imposizione tramite “imposta di bollo” è rappresentativa di un’imposta quando è riservata ai trasferimenti per atti tra vivi e una tassa quando si tratta di corrispettivo pagato per i servizi resi dallo Stato (secondo la tariffa allegata al d.P.R. n. 642 del 1972 , che si divide tra atti, documenti e registri soggetti all’imposta fin dall’origine e medesimi atti soggetti all’imposta solo in caso d’uso). L’imposta viene assolta normalmente mediante acquisto di valori bollati e dunque suo presupposto essenziale è l’esistenza della carta (si parla al riguardo anche di imposta cartolare ); può essere fissa o proporzionale ed è sostituita dal contributo unificato per gli atti e i provvedimenti dei processi civili, amministrativi e tributari. Può essere versata o in modo virtuale (pagamento su apposito conto) o mediante pagamento ad intermediario convenzionato con l’Agenzia delle entrate, che rilascia con modalità telematiche un contrassegno sostitutivo delle marche da bollo. Una particolare imposta di bollo è quella sostitutiva dell’imposta ordinaria sulle comunicazioni relative ai depositi di titoli , che si applica sul valore di mercato risultante dalle comunicazione inviate dagli intermediari residenti relativamente ai prodotti e agli strumenti finanziari, ed ammonta dal 2014 al 2 per mille annuo. Soggetti passivi sono solidalmente coloro che partecipano o hanno interesse all’atto, o comunque coloro che, in qualsiasi momento, accettano o fanno uso dell’atto. Nei rapporti interni valgono le norme di natura civilistica. IRAP L’imposta regionale sulle attività produttive è un’imposta a carattere reale, il cui presupposto è l’esercizio abituale di un’ attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. Sono comunque soggette ad IRAP le società e gli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, indipendentemente dall’attività svolta, e anche in caso di svolgimento esclusivo di pubbliche funzioni. Il requisito dell’autonoma organizzazione - essenziale per far scattare l’imposta, se non si tratta di società o enti – ricorre quando il contribuente sia il responsabile dell’organizzazione e impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività, ovvero si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Specifiche disposizioni sono state previste per il medico che abbia sottoscritto apposite convenzioni con le strutture ospedaliere per lo svolgimento della professione all'interno di tali strutture, dall’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 . La Corte Costituzionale ha affermato che il presupposto che giustifica il prelievo IRAP non sussiste nel caso di un’attività professionale svolta in assenza di elementi di organizzazione, in quanto l’’IRAP non è un’imposta sui redditi ma un’imposta che colpisce con carattere di realità un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione. L’IRAP colpisce, dunque, non il reddito personale del contribuente, bensì il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate . Mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa d’impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitale o lavoro altrui, e nel caso di un’attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’articolo 2, dall’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa. L’elemento dell’autonoma organizzazione per l’assoggettamento all’IRAP è ritenuto imprescindibile dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto se la norma fosse accolta nel senso di ritenere applicabile l’imposta anche nel caso d’inesistenza del suddetto elemento oggettivo, risulterebbero violati i principi di eguaglianza e di capacità contributiva. Il requisito dell’autonoma organizzazione non può essere inteso in senso meramente soggettivo, ma deve essere inteso necessariamente in senso oggettivo , non solo perché l’elemento dell’autonomia, se recepito in senso soggettivo, si risolve in una mera tautologia (il professionista è autonomamente organizzato perché è un soggetto capace di organizzazione autonoma), ma soprattutto perché è l’unica interpretazione ‘costituzionalmente orientata’. E’ proprio la presenza di un “differenziale” di arricchimento prodotto dalla struttura organizzativa , rispetto a quanto riconducibile all’impiego di risorse individuali, a determinare l’assoggettabilità all’IRAP. Sotto altro profilo, l’IRAP, a differenza dell’IVA, non può essere ritenuta un’imposta sulla cifra d’affari (così anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea), in quanto non è necessariamente proporzionale al prezzo dei beni o dei servizi forniti, comprendendo per il suo calcolo elementi che non hanno un rapporto diretto con le forniture di beni o servizi in quanto tali, e non è strutturata in modo da essere posta a carico del consumatore finale nel modo tipico dell’IVA, in quanto è impossibile per costui stabilire in modo preciso quanto incida l’IRAP sul prezzo finale del bene o servizio acquistato. L’IRAP è stata prevista per assicurare l’ autonomia finanziaria delle Regioni e la sua base imponibile è infatti costituita dal valore della produzione netta derivante dall’attività esercitata nel territorio della Regione. Tale valore è calcolato sulla base delle risultanze del bilancio , con criteri specifici per ciascuna categoria di soggetti passivi (ad esempio, per le società ed enti commerciali, il valore della produzione netta è dato dalla differenza tra il valore della produzione di cui alla lett. A del e i costi di produzione di cui alla lett. B del conto economico, con esclusione di alcuni voci, la più rilevante delle quali è normalmente costituita dalle spese per il personale di cui alla voce B.9, secondo il valore iscritto in bilancio). Per tutte le categorie di contribuenti, in ogni caso, è possibile dedurre dalla base imponibile alcuni costi tipicamente connessi al personale, quali contributi per le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro. L’imposta è determinata applicando al valore della produzione netta l’ aliquota ordinaria del 3,9% , ma tale aliquota può essere variata in aumento o in diminuzione entro un determinato “range” dalle singole Regioni. Per ogni periodo di imposta i soggetti passivi IRAP devono presentare apposita dichiarazione nella quale indicare i componenti del valore della produzione netta, anche se non ne consegue alcun debito d’imposta, direttamente alla Regione o alla Provincia autonomia di domicilio fiscale del soggetto passivo. IMU L’imposta municipale propria è diventata, dal 2014, una delle tre componenti dell’imposta unica comunale, insieme alla TASI e alla TARI. Dal primo gennaio 2020 è stata statuita una nuova imposta patrimoniale che ha unificato IMU e TASI, e che trova regolamentazione nei commi da 739 a 783 della L. n. 160 del 2019 . L’IMU non si applica alle abitazioni principali , ad accezione di quelle di pregio, ed è deducibile integralmente, dal 2022 in poi, dall’imposta assolta sugli immobili strumentali di imprese e professionisti. Peraltro, la Corte costituzionale ha recentemente censurato la norma che aveva stabilito che per dato intevallo temporale l’IMU fosse indeducibile dall’imponibile dell’IRES. Infatti, secondo la Corte, la deducibilità in esame, rispondendo a finalità intrinseche al prelievo, non si pone sul piano delle agevolazioni fiscali propriamente dette, che sono dettate da finalità extrafiscali e rispetto alle quali vi è un’ampia discrezionalità (purché non trasmodi in palese irrazionalità e arbitrarietà) in capo al legislatore. La deducibilità de qua attiene, invece, a quegli istituti tributari nei quali è «ravvisabile la prevalenza di un carattere strutturale, dal momento che la sottrazione all’imposizione (o la sua riduzione) è resa necessaria dall’applicazione coerente e sistematica del presupposto del tributo». La deducibilità dell’IMU dall’imponibile dell’IRES assume natura strutturale in quanto il legislatore ha espressamente individuato il presupposto dell’IRES nel possesso di un «reddito complessivo netto» (art. 75, comma 1, TUIR); ciò a differenza di quanto ha invece stabilito per alcune categorie di reddito, come, ad esempio, i redditi di lavoro dipendente, che sono computati al lordo, senza deduzione (analitica) dei costi di produzione. Costituisce inoltre principio imprescindibile della determinazione del reddito d’impresa quello di inerenza del costo da portare in deduzione . Nella sua formulazione essenziale, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo: tale principio da un lato definisce e dall’altro delimita, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa, l’area dei costi che concorrono al reddito tassabile. Da tale principio il legislatore non può arbitrariamente prescindere: questo infatti costituisce il presidio della verifica della ragionevolezza delle deroghe rispetto all’individuazione di quel reddito netto complessivo che il legislatore stesso ha assunto a presupposto dell’IRES. L’ampia discrezionalità del legislatore tributario nella scelta degli indici rivelatori di capacità contributiva non si traduce in un potere discrezionale altrettanto esteso nell’individuazione dei singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile, una volta identificato il presupposto d’imposta: quest’ultimo diviene, infatti, il limite e la misura delle successive scelte del legislatore. È del resto principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale che il controllo in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., si riconduce a un giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico. Quindi, con riferimento all’IRES, una volta che il legislatore nella sua discrezionalità abbia identificato il presupposto nel possesso del «reddito complessivo netto», scegliendo di privilegiare tra diverse opzioni quella della determinazione analitica del reddito, il legislatore stesso non può, senza rompere un vincolo di coerenza, rendere indeducibile un costo fiscale chiaramente e interamente inerente. Il presupposto dell’IMU è dato dal possesso di immobili (fabbricati, aree fabbricabili o terreni agricoli siti nel terreno dello Stato) che non siano, come detto, abitazioni principali, per tali intendendosi l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. I soggetti passivi dell’IMU sono proprietari di immobili o di altri diritto reale che implichi il godimento dell’immobile stesso, e la base imponibile è costituita, per i fabbricati iscritti in catasto, dalle rendite catastali, rivalutate del 5%, e moltiplicate per coefficienti prestabiliti e variabili a seconda del gruppo catastale di riferimento, mentre per le aree fabbricabili la base imponibile è rappresentata dal valore commerciale dell’immobile al primo gennaio dell’anno di imposizione. L’aliquota di base dell’imposta è pari allo 0.86%, con possibilità di aumento entro un determinato valore o di azzeramento da parte dei singoli Comuni. I soggetti passivi devono presentare la dichiarazione entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui è sorto il presupposto impositivo e l'imposta va rapportata, in fase di versamento (due rate, di cui la seconda entro il 16 dicembre), proporzionalmente alla quota e ai mesi di possesso dei beni immobili oggetto di tassazione. L’IMU sostituisce l’IRPEF sui redditi di terreni e fabbricati soltanto quando questi non risultino locati, salvo che nell’ipotesi in cui tale bene si trovi nello stesso Comune in cui si trova l’abitazione principale, nel qual caso sarà assoggettato a IRPEF nella misura del 50%. L’IMU non è infine deducibile dall’IRAP.
Autore: dalle Lezioni... 12 apr, 2021
Il procedimento di applicazione delle imposte fa parte della più generale attività dell’ amministrazione finanziaria . Si tratta di un‘ attività vincolata , sottoposta al principio di legalità sostanziale, in quanto la legge regola i contenuti dei suoi provvedimenti, ai sensi dell’art. 23 della Costituzione, e trae ulteriori regole di comportamento dalla L. n. 241 del 190 (anche se non le si applicano le norme ivi previste in materia di partecipazione al procedimento e di accesso) e dallo Statuto dei diritti del contribuente, oltre che dalle specifiche disposizioni inerenti ai singoli tributi. Le norme legislative sui procedimenti tributari devono peraltro essere interpretate e integrate in base a principi che si traggono dalla Costituzione, dalla CEDU e dati Trattati UE (tra cui la Carta dei diritti fondamentali dell’UE), tra i quali degni di nota sono il principio del contraddittorio, l’obbligo di motivazione, il principio di proporzionalità, il principio di buona fede e la tutela del legittimo affidamento. L’attività dell’amministrazione non è soltanto di tipo autoritativo, sussistendo nell’ordinamento anche alcuni istituti di tipo “collaborativo” come l’interpello, la conciliazione e l’accertamento con adesione, ma inizia sempre di ufficio, dovendo considerarsi la dichiarazione tributaria non come un atto di avvio del procedimento ma come assolvimento di un obbligo imposto dalla legge. L’atto di imposizione può essere anche un atto solitario e o si conclude con la notifica di un atto impositivo o senza l’emanazione di alcun provvedimento, non sussistendo nella prassi dell’amministrazione finanziaria la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, come previsto dall’art. 2 della L. n. 241 del 1990. L’ avviso di accertamento – atto di imposizione conclusivo del procedimento – è espressione di un potere vincolato, e può essere viziato o relativamente al presupposto di fatto o relativamente ai profili di legittimità, ma mai sotto il profilo dell’opportunità. L’avviso consta di due parti, la motivazione e il dispositivo (anche detto parte precettiva) e deve recare, ai sensi del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte sui redditi, l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti di imposta . Ciò che è essenziale e indefettibile è comunque la determinazione dell’imponibile, anche se esistono alcuni esempi di avviso senza imposta , in cui l’avviso vale solo ai fini della successiva determinazione dei redditi degli associati (ad esempio, con riferimento alle associazioni professionali). Nell’IVA, l’avviso di accertamento può contenere una nuova determinazione non solo dell’imposta dovuta, ma anche dell’imposta detraibile o rimborsabile. Nell’imposta di registro, la rettifica ha ad oggetto il valore venale dei beni o diritti sui quali deve essere applicato il tributo. In ogni caso, di regola, gli avvisi di accertamento contengono anche l’irrogazione delle sanzioni amministrative collegate al tributo. Se l’avviso non è sottoscritto dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, è nullo ; tale sottoscrizione è infatti considerata come essenziale garanzia per il contribuente. La motivazione dell’avviso deve essere chiara – secondo lo Statuto dei diritti del contribuente - e concernere sia i presupposti di fatto che le ragioni giuridiche che lo hanno determinato, facendo distinto riferimento ai singoli redditi della varie categorie e specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni. In campo IVA, è prevista la nullità dell’avviso in caso di mancata specifica indicazione delle omissioni e falsità o inesattezze rilevate, o di mancata indicazione degli elementi probatori di tali omissioni e inesattezze, o ancora la mancata indicazione dei fatti certi che danno fondamento alle deduzione presuntive. Se il contribuente interviene nel procedimento prima dell’emanazione dell’avviso di accertamento, sorge un obbligo di motivazione ("rafforzato" ) che tenga conto anche delle allegazioni difensive del contribuente stesso. L’avviso di accertamento assume denominazioni diverse a seconda del metodo con cui viene determinato l’imponibile, con differenze ulteriori tra imposta e imposta e tra accertamento del reddito complessivo e accertamento dei singoli redditi. Il reddito delle persone fisiche può essere ricostruito analiticamente , quando sono note le fonti del reddito, oppure sinteticamente , cioè desumendolo dalle spese sostenute, previo contraddittorio. In questo secondo caso, si mette a confronto il reddito dichiarato e quello accertabile in via sintetica, con un metodo che ha carattere presuntivo, e che dunque è ammissibile soltanto quando il reddito accertabile eccede di almeno un quinto quello dichiarato. In pratica, si prende in considerazione tutto ciò che il contribuente e il suo nucleo familiare hanno speso nel periodo di imposta più la cosiddetta quota di risparmio, presumendo che vi sia reddito imponibile non dichiarato se la somma tra questi due valori sia superiore al reddito netto dichiarato; ci si può avvalere anche del redditometro , che costituisce un accertamento standardizzato, con presunzioni semplici – tratte da analisi di campioni significativi di contribuenti – che devono essere dimostrate di volta in volta dagli uffici del fisco, e che possono essere smentite da allegazioni e documentazioni contrarie prodotte dal contribuente. Per quanto riguarda i redditi di impresa, occorre distinguere tra accertamento analitico-contabile (che si effettua determinando o rettificando singole componenti attive o passive del reddito), e l’ accertamento analitico-induttivo , che è basato su presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti , nel caso di attività non dichiarate o inesistenza di passività dichiarate, o ancora nel caso di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi, i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore. Questi due tipi di accertamento (analitico-contabile e analitico-induttivo) presuppongono entrambi, peraltro, che la contabilità di impresa sia attendibile , nel suo complesso. Ma quando tale attendibilità non sussista, sulla base di prove circostanziate circa le irregolarità contabili riscontrate nel caso specifico, l’ufficio può procedere ad accertamento induttivo extra-contabile , che consiste nell’avvalersi di dati e notizie comunque raccolti, nel prescindere in tutto o in parte dalle risultanze delle scritture contabili e nell’avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza . Questo potere è concesso all’amministrazione finanziaria, oltre che nel caso di accertata inattendibilità complessiva della contabilità, anche nei seguenti tre tassativi casi: 1. quando il reddito di impresa non è stato indicato nella dichiarazione; 2. quando nel verbale di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha sottratto all’ispezione una o più scritture contabili prescritte ai fini fiscali; 3. quando il contribuente non ha dato seguito all’invito a trasmettere esibire atti o documenti e non ha risposto al prescritto questionario. Una volta emesso, l’avviso di accertamento deve essere notificato al suo destinatario, di modo da divenire efficace; le norme che regolano la regolarità della notificazione dell’avviso di accertamento solo le stesse del codice di procedura civile in tema di notificazione degli atti processuali, a cui si aggiungono le specifiche regole stabilite dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. Per la giurisprudenza, peraltro, rileva anche la piena conoscenza dell’atto da parte del contribuente, piena conoscenza da cui decorre il termine per impugnare. Non si applicano agli atti tributari le disposizioni in tema di notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti, a militari in attività di servizio, mediante pubblico proclami, e in forme ordinate dal giudice; si applicano peraltro alle notifiche viziate le norme sulla sanatoria delle notifiche previste dall’art. 156 c.p.c.. In ogni caso, il ricorso contro l’avviso di accertamento sana i vizi di notifica, in quanto ciò significa che la notifica ha raggiunto il suo scopo, ma non si ha sanatoria se il ricorso è proposto dopo la scadenza del termine per l’esercizio del potere impositivo, e la notifica è inesistente, e non sanabile, se la relazione della notificazione non è sottoscritta. La notificazione degli avvisi alle imprese individuali o costituite in forma societaria e ai professionisti iscritti in albi o elenchi istituiti con legge dello Stato può essere effettuata a mezzo PEC all’indirizzo del destinatario risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata. Quanto ai termini entro i quali effettuare la notificazione degli avvisi di accertamento, per le imposte sui redditi e per l’IVA l’avviso deve essere notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, mentre nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla il termine scade il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata; per l’imposta di registro vi è un termine di decadenza di cinque anni per l’accertamento dell’imposta sugli atti non registrati, decorrente da quando doveva essere richiesta la registrazione, e un termine di decadenza di tre anni per riliquidare l’imposta principale o suppletiva e di due anni per la rettifica del valore imponibile. A causa dell’ emergenza epidemiologica Covid-19 è stata prevista una sospensione dei termini di decadenza che scadono tra l’8 marzo e il 31 dicembre 2020, con slittamento all’anno successivo. Gli effetti dell’avviso di accertamento sono di natura dichiarativa, se si accoglie la teoria secondo cui l’obbligazione tributaria sorge non appena si verifica il presupposto di fatto del tributo (in questo caso l’avviso sarebbe un provvedimento con effetti di mero accertamento dell’obbligazione tributaria); sono di natura costitutiva, se si accoglie l’impostazione secondo cui anche se oggetto dell’avviso è un’obbligazione che fin da subito doveva essere assolta o dichiarata dal contribuente, l’obbligazione effettiva nasce soltanto con l’avviso di accertamento, che, tra l’altro, è espressione di una potestà amministrativa, con effetto costitutivo del rapporto. Secondo questa seconda tesi, l’avviso di accertamento svolge una funzione essenziale, perché l’amministrazione finanziaria, specialmente nelle ipotesi in cui il contribuente dissimuli i suoi reali redditi o non li esponga, deve necessariamente ricostruire la situazione economica contributiva effettiva e fare sorgere l’obbligazione tributaria, come prefigurata e voluta dalla legge. Se l’atto di imposizione è concepito come dichiarativo, esso ha efficacia naturalmente retroattiva, se è invece concepito come costitutivo, deve avere effetti ex nunc . La soluzione nel diritto positivo è quella di considerare l’ avviso di accertamento come retroattivo , se si considera che il contribuente è tenuto a corrispondere gli interessi sulla maggiore imposta calcolata dagli uffici a partire da quando doveva essere effettuato il versamento dell’imposta da dichiarare e versare in precedenza. La differenza tra teoria dichiarativa e teoria costitutiva dell’avviso di accertamento ha riflessi infine anche sulla natura della posizione soggettiva del contribuente , che viene ora configurata come diritto soggettivo (alla giusta imposizione o di proprietà) leso dall’atto amministrativo, la cui azione in giudizio tende ad ottenere una sentenza di tipo dichiarativo, ora come diritto potestativo volto ad ottenere dal giudice l’annullamento, totale e parziale dell’atto illegittimo. In ogni caso non di tratta di interesse legittimo, a fronte di un potere vincolato e di una posizione di credito/debito costituzionalmente protetta. Quello che è certo è che l’avviso di accertamento è un presupposto necessario per permettere all’amministrazione finanziaria di agire coattivamente nei confronti del contribuente; sotto questo profilo, l’avviso di accertamento e l’irrogazione delle relative sanzioni sono ordinariamente titoli esecutivi (ivi compresi, dal primo gennaio 2020, quelli relativi ai tributi degli enti locali), dovendo tale avviso contenere anche l’intimazione ad adempiere dal momento in cui è decorso il termine per la proposizione di eventuale ricorso. L’avviso “esecutivo” non è dunque seguito dalla iscrizione a ruolo e dalla cartella di pagamento, ma è già esso titolo esecutivo e precetto, dal momento in cui è decorso il termine utile per la proposizione del ricorso (sessanta giorni, salvo la sospensione del periodo feriale e quella determinata dall’istanza di accertamento con adesione). L’ iscrizione a ruolo è oggi riservata, invece, soltanto ai tributi per i quali la riscossione non avviene mediante ritenuta alla fonte, o versamento diretto, o in base all’avviso di accertamento e all’atto sanzionatorio esecutivi. L’avviso può essere impugnato in quanto illegittimo/nullo o in quanto illegittimo/infondato. E’ nullo quando la legge prevede espressamente che la mancanza di un requisito nell’avviso (ad esempio, l’assenza della richiesta di chiarimenti prima di adottare un atto impositivo antielusivo o un atto impositivo non conforme alle risposte negli interpelli) rende nullo l’intero atto. Si tratta di una nullità che deve comunque essere fatta valere entro i termini di legge con l’azione di annullamento dinanzi al Giudice tributario; fin quando l’atto non è annullato, dunque, lo stesso resta efficace, e consolida i suoi effetti definitivamente una volta decorso il termine per l’impugnazione. E’ altresì invalidante – e porta ugualmente all’ annullamento dell’atto – la violazione delle norme dirette a garantire che l’atto amministrativo sia conforme ai suoi presupposti di fatto e di diritto e che limitano i poteri dell’amministrazione finanziaria, a tutela di interessi privati costituzionalmente riconosciuti. Tale principio (nullità dell’atto, anche se non sanzionata espressamente) è stato affermato, per esempio, nel caso di inosservanza del termine dilatorio prescritto dall’ art. 12, comma 7 dello Statuto dei diritti del contribuente (emissione senza ragioni di urgenza dell’avviso prima dei sessanta giorni concessi al contribuente per presentare osservazioni e richieste) o nel caso di cartella di pagamento emessa a seguito del controllo formale della dichiarazione, senza contraddittorio anteriore all’iscrizione a ruolo. Si tratta in entrambi i casi di violazione di norme che impongono il contraddittorio procedimentale, mentre normalmente, ai sensi dell’ art. 21-octies della L. n. 241 del 1990 , trattandosi di atti vincolati, non sono invalidanti le violazioni delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti che non hanno influito sul contenuto dell’atto (ad esempio, è una semplice irregolarità l’inosservanza dell’art. 7, comma 2 dello Statuto dei diritti del contribuente in tema di indicazione degli organi ai quali si può inoltrare istanza di riesame o ricorso). Non provoca altresì annullabilità dell’avviso di accertamento la violazione di norme poste a favore dell’amministrazione, e non a garanzia del contribuente, quali quelle relative alla collaborazione dei Comuni. Sono invalidanti invece le violazioni di norme sui metodi di accertamento e sui presupposti specifici di talune forme di accertamento (ad esempio, la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi per l'accertamento integrativo), così come rende annullabile l’avviso di accertamento la violazione del divieto di doppia imposizione , divieto espressamente enunciato per le imposte dirette, ma che è considerato principio generale dell’ordinamento tributario. Tale violazione viene integrata non se vi è doppia imposizione in senso economico (il legislatore prevede che uno stesso fatto economico sia tassato con più imposte, salvi gli eventuali profili di illegittimità costituzionale della scelta), ma se vi è doppia imposizione in senso giuridico. Ciò si verifica quando l’amministrazione finanziaria accerta due volte, a carico dello stesso soggetto, la stessa imposta, su di un medesimo presupposto, ma anche quando lo stesso presupposto viene imputato a soggetti diversi, magari tramite l’applicazione di imposte simili (ad esempio, stesso reddito prima assoggettato ad Ires come reddito di una società di capitali e poi assoggettato ad Irpef come reddito di una persona fisica). In questi casi, il secondo atto d’imposizione sullo stesso presupposto è illegittimo per il solo fatto che realizza una duplicazione. E’ nullo anche l’avviso di accertamento affetto dai vizi di cui all’ art. 21-septies, comma 1 della L. n. 241 del 1990 , e dunque per assenza di elementi essenziali (tipo motivazione, sottoscrizione, notificazione o intestazione a un soggetto esistente) e difetto assoluto di attribuzione (avviso su tributo inesistente o emesso da organo privo di potestà impositiva). Secondo la giurisprudenza, anche in questi ultimi casi l’avviso è semplicemente annullabile (confluendo la nullità nella più generale invalidità, che sarebbe categoria unitaria, nel diritto tributario) mentre autorevole dottrina ritiene che la nullità stabilita dall’art. 21-septies dovrebbe rendere inefficace l’atto e sottrarlo alla necessaria impugnazione entro i termini. Secondo questa tesi, sarebbe l’atto successivo a quello nullo a dovere essere impugnato per illegittimità derivata , conformemente a quanto di recente statuito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in materia di nullità e conseguenze della nullità del provvedimento amministrativo. Viene esclusa in ogni caso, nel diritto tributario, la possibilità di un’azione di accertamento della nullità di stampo civilistico. L’ invalidità/infondatezza deriva invece dall’erroneità delle valutazioni effettuate dall’amministrazione finanziaria nel ricostruire il reddito o l’imposta dovuta dal contribuente, o comunque dalla mancanza di prova dei fatti su cui si basa l’accertamento, o ancora dall’ inutilizzabilità di tali prove in quanto acquisite illecitamente. Una volta notificato l’avviso di accertamento, il contribuente, in alternativa alla proposizione di ricorso dinanzi alla Commissione tributaria territorialmente competente entro sessanta giorni, può presentare istanza di accertamento con adesione , se tale procedimento non è già stato attivato in precedenza, con effetti sospensivi del termine per impugnare, oppure può definire solo le sanzioni , pagando un terzo di quanto irrogato, o ancora può prestare acquiescenza , pagando le somme dovute e le sanzioni irrogate, ridotte di un terzo, prima che scada il termine per proporre ricorso.
Autore: dalle Lezioni... 11 apr, 2021
La norma tributaria, una volta emessa nel rispetto di tutte le regoli formali e sostanziali stabilite dalle fonti che ne regolano la genesi, dà origine a una legittima obbligazione tributaria di natura giuspubblicistica che ha da un lato un soggetto impositore e dall’altro un soggetto al quale è riconducibile la manifestazione di una capacità contributiva. Il rapporto tra questi due soggetti (soggetto attivo e soggetto passivo) viene definito tradizionalmente “ rapporto di imposta ”, e sorge automaticamente al verificarsi di determinati presupposti legalmente prestabiliti. Tuttavia, il rapporto di imposta in senso stretto è il rapporto credito-debito, su cui incidono, in senso statico, le norme sostanziali che stabiliscono le singole fattispecie e gli effetti dell’imposta; visto in senso lato e dinamico, invece, il rapporto di imposta è regolato da quell’insieme di norme che disciplinano l’attuazione del tributo, e cioè gli obblighi posti a carico del contribuente e dell’amministrazione finanziaria. Tale amministrazione, invero, assume contemporaneamente sia la veste di titolare di poteri autoritativi, sia quella di creditrice del tributo. Con riferimento alle imposte , la fattispecie che dà origine al tributo è denominata in vario modo, a seconda della disciplina di riferimento (ad esempio: nell’IVA si parla di operazione imponibile e nell’imposta di registro di oggetto dell’imposta) ma può essere sinteticamente definita come presupposto d’imposta o fatto generatore. E’ presupposto d’imposta quella circostanza o quell’evento economico al verificarsi del quale scatta – spesso in accordo con ulteriori fatti o atti, trattandosi di fattispecie complessa – il meccanismo di applicazione del tributo. In altri termini, la legge stabilisce dei presupposti oggettivi che determinano il sorgere del tributo, in quanto indicativi di capacità contributiva. A volte, accanto al presupposto, sono previste fattispecie cosiddette equiparate/assimilate o surrogatorie che ampliano o restringono l’area di applicabilità della fattispecie tipica. Ciò accade o perché il legislatore vuole che certi fatti economici non sfuggano alla tassazione, pur presentando tratti di eterogeneità rispetto all’ipotesi paradigmatica (ad esempio, determinati contratti verbali ai fini dell’imposta di registro), o perché l’ampliamento della sfera di applicazione del tributo risponde a fini antielusivi (fattispecie supplementari, come ad esempio la norma che assoggetta all’imposta sulla vendita immobiliare il mandato irrevocabile con dispensa dall’obbligo di rendiconto). Sussistono infine fattispecie alternative o condizionali , a seconda che il legislatore non voglia che la sovrapposizione di fattispecie determini l’applicazione di più imposte (ad esempio, alternatività tra IVA e imposta di registro), o in correlazione al fatto che è soggetta a condizione la stessa fattispecie tassata; il sorgere definitivo del debito d’imposta può peraltro dipendere dall’avveramento di una condizione esterna, come nel caso degli atti di procedimenti contenziosi in cui è parte un’amministrazione pubblica, che sono registrati a debito. Concetto diverso dal presupposto d’imposta – anche se a volte i due elementi tributari in questione possono coincidere - è invece il concetto di base imponibile , che concerne la fattispecie che determina, unitamente all’applicazione di un’ aliquota , la misura del tributo. Si tratta in altri termini della misura dell’imponibile, ovvero della grandezza monetaria che viene presa in considerazione dal legislatore per applicare il tributo. Peraltro, se la norma stabilisce che fino a un determinato importo o misura (base imponibile) non si applica il tributo, la base imponibile diviene elemento costitutivo del presupposto d’imposta, in quanto la capacità contributiva “scatta” presuntivamente soltanto oltre una determinata soglia economica (si pensi al minimo imponibile in materia di Irpef). La base imponibile delle imposte dirette è un importo netto – cioè ciò che residua dopo avere applicato le deduzioni e le riduzioni eventualmente previste -, mentre in molti altri casi è una somma algebrica di elementi positivi e negativi (come ad esempio in materia di reddito d’impresa). La base imponibile può peraltro essere costituita da un elemento che non è entità monetaria – e allora deve essere quantificato il valore in moneta – o da cose, misurate secondo le loro caratteristiche di misura e peso, o considerate nella loro unità (ad esempio, imposta di pubblicità, basata su dimensioni e caratteristiche del mezzo pubblicitario; o tassa sulla raccolta dei rifiuti, rapportata alla superficie degli immobili). Nelle imposte dirette , il presupposto deriva direttamente dalla capacità contributiva rappresentata dalla misura del reddito o del patrimonio del contribuente (Irpef o Imu); nelle imposte indirette , invece, la capacità contributiva è desunta indirettamente da una singola operazione espressiva di capacità contributiva (consumi per l’Iva, trasferimenti di beni per l’imposta di registro). Le imposte possono essere anche personali , se nella loro disciplina abbia rilievo qualche elemento che attiene alla persona del soggetto passivo, come ad esempio la situazione familiare (ad esempio Irpef, che tiene conto anche di situazioni personali, accordando deduzioni dal reddito o detrazioni dall’imposta, per ragioni non afferenti alla formazione del reddito). In caso contrario, l’imposta si definisce reale . Vi è poi da fare un’ulteriore distinzione tra i mposte istantanee e imposte periodiche . Le prime nascono da un fatto di natura istantanea: ogni avvenimento espressivo di capacità contributiva genera una distinta ed unica obbligazione (ad esempio, imposta di registro); le seconde hanno come presupposto una fattispecie che si prolunga nel tempo, per cui assumono rilievo giuridico tutti quei fatti che si collocano in un determinato arco temporale, definito a sua volta periodo di imposta (ad esempio, Irpef, Ires e IVA). Nel secondo caso, l’imposta viene liquidata alla fine dell’arco temporale considerato dal legislatore (normalmente, un anno) e non all’esito della singola operazione espressione di capacità contributiva; non si tratta di un rapporto di durata quale può essere una locazione ma di un rapporto obbligatorio la cui fattispecie comprende un dato intervallo temporale; non vi è inoltre completa separazione tra i singoli periodi di imposta, in quanto sono possibili fatti ad efficacia pluriennale e possono rilevare connessioni tra un periodo e l’altro. Ad ogni periodo di imposta è correlato un determinato e distinto procedimento di accertamento dell’imposta e le modifiche della disciplina delle imposte periodiche si applicano solo ratione temporis , cioè a partire dal periodo d’imposta successivo. Alcune imposte periodiche, e in specie quelle patrimoniali, pur applicandosi annualmente, hanno una base imponibile riferita ad un determinato momento (ad esempio, l’IMU o l’imposta di bollo sul conto di deposito, a meno che non venga applicata dalla banca trimestralmente). L’imposta può anche essere fissa , se è dovuta in misura immutabile per ogni atto o fatto che ne costituisce il presupposto, o proporzionale , cioè con una aliquota (cosiddetto tasso percentuale di applicazione del tributo) che non muta con il variare della base imponibile e che si applica in modo appunto proporzionale alle variazioni. Se invece il valore dell’imposta aumenta più che proporzionalmente con l’aumento della base imponibile, si parla di imposta progressiva ; la progressività può essere per classi o per scaglioni: nel secondo caso, che è quello tipico dell’Irpef, l’imponibile è diviso tra quote di reddito (da … a …) e ad ogni scaglione di reddito corrisponde un’aliquota via via crescente, che però non varia all’interno del singolo scaglione. Se, dunque, poniamo che il reddito di un soggetto sia formato da quattro scaglioni, a cui si applicano aliquote diverse, il valore dell’imposta complessiva si determina tramite la somma dei singoli importi ricavabili in base all’aliquota prevista per i diversi scaglioni. Esiste infine la sovrimposta , che si ha quando la fattispecie imponibile di un tributo viene usata come fattispecie di un’altra imposta. In questo caso, si parla di imposta madre (imposta prioritaria) e di imposta figlia (imposta secondaria). La sovrimposta si definisce anche come addizionale (ad esempio, l’addizionale comunale e regionale in materia di Irpef) e può essere ricavata dalla stessa base imponibile dell’imposta madre o da una frazione o multiplo di quanto dovuto per l’imposta di base. OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA E DICHIARAZIONE L’obbligazione tributaria nasce quando si verifica il presupposto d’imposta ma il suo adempimento non è sempre automatico. Spesso è necessario (specie nelle imposte periodiche) un accertamento dell’ an e una valutazione di entità che presuppone la collaborazione attiva del singolo contribuente. Nel caso di obbligazioni tributarie nascenti da acquisizione di redditi o da titolarità di patrimonio tassabile occorre la cosiddetta dichiarazione , ovvero una dichiarazione di volontà e di scienza tramite la quale il contribuente riconosce ufficialmente il suo reddito. La dichiarazione dei redditi soggetti a Irpef – che è la tipologia di dichiarazione paradigmatica per eccellenza - deve contenere l’ ” indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili ”, ai sensi dell’art. 1, comma 2 del d.P.R. n. 600 del 1973. Deve essere presentata, tramite il modello approvato appositamente dall’amministrazione finanziaria, da ogni soggetto che, nel periodo d’imposta di riferimento (annuale), abbia prodotto redditi, e anche se dai redditi che si dichiarano non consegue alcun debito d’imposta (fatta eccezione, ad esempio, per la dichiarazione dei lavoratori dipendenti che abbiano, oltre al reddito di lavoro dipendente, soltanto la proprietà dell’abitazione principale, o per i redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o per i soggetti che hanno redditi di ammontare inferiore al minimo imponibile). Ne consegue che la fattispecie da cui scaturisce l’obbligo di dichiarazione non coincide necessariamente con il presupposto dei tributi sul reddito, potendo esservi obbligo di presentare la dichiarazione ma nessun debito d’imposta discendente da tale obbligo, se non vi sono redditi imponibili. Sotto altro profilo, il contribuente, nella dichiarazione, non deve soltanto esporre fatti e dati, ma anche qualificarli giuridicamente, inquadrando il reddito nella categoria a cui appartiene. Normalmente, la dichiarazione è un mero atto, ma può divenire un negozio giuridico, a determinati effetti (ad esempio ai fini di applicabilità delle norme civilistiche in materia di errore), qualora contenga delle dichiarazioni di volontà afferenti a delle opzioni esercitabili in base alla legge. La dichiarazione ha una rilevanza procedimentale, poiché è sottoposta (salvo talune particolari circostanze, come l’accettazione senza modifiche del modello 730 precompilato ) al controllo dell’amministrazione, che può procedere alla liquidazione automatica, al controllo formale o sostanziale; ha un rilievo probatorio, in quanto tutto ciò che non emerge dalla dichiarazione stessa deve essere provato dall’amministrazione finanziaria; ma non ha un rilievo confessorio, al contrario di quanto si riteneva in passato, in quanto non è applicabile ad essa la disciplina civilistica della confessione, mancando i presupposti per l’applicazione analogica di tale disciplina nel procedimento amministrativo d’imposizione, e non ha efficacia vincolante o di prova piena contro colui che l’ha resa, perché verte su diritti non disponibili, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2733 c.c.. Rispetto al sorgere dell’obbligazione tributaria, alcuni considerano la dichiarazione come elemento della fattispecie costitutiva dell’obbligazione ( teoria costitutiva ), altri la considerano estranea al meccanismo legale che genera l’obbligazione ( teoria dichiarativa ). La dichiarazione può infine costituire o titolo per la riscossione dell’imposta liquidata in base a quanto dichiarato (se genera un debito d’imposta) o titolo costitutivo di un credito del contribuente, se l’ammontare complessivo dei crediti di imposta, dei versamenti e delle ritenute è superiore all’ammontare dell’imposta netta sul reddito complessivo; tale credito può esser portato in compensazione rispetto all’imposta del successivo periodo di imposta o essere fatto valere con un’istanza di rimborso . La dichiarazione può infine essere integrata in aumento (tramite rettifica con nuova dichiarazione, nel termine entro cui l’amministrazione finanziaria può rettificarla, e cioè normalmente entro la fine del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione da rettificare), ma anche in diminuzione, tramite correzione, e sempre e entro il sopra citato termine. Se la rettifica avviene successivamente alla notifica di un avviso di accertamento essa opera inevitabilmente in sede contenziosa, ed è onere del contribuente dimostrare la fondatezza della sua rettifica, con possibilità di far valere, sia in sede amministrativa che processuale, gli errori, di fatto o di diritto, commessi a suo danno. Ai fini delle sanzioni amministrative, poi, si distingue tra dichiarazione omessa (dichiarazione non presentata o presentata oltre novanta giorni dalla scadenza), dichiarazione nulla (dichiarazione non redatta sul modello ministeriale o priva di sottoscrizione) e dichiarazione infedele o incompleta (se, rispettivamente, un reddito netto non è indicato nel suo esatto ammontare o è omessa l’indicazione di una fonte reddituale). Nei primi due casi (dichiarazione nulla e dichiarazione omessa) l’amministrazione finanziaria, ad esito dei relativi controlli, può emettere un accertamento di ufficio , e dunque accertare il reddito globale delle persone fisiche con metodo sintetico, anziché – come sarebbe normale – con metodo analitico, e il reddito d’impresa e di lavoro autonomo con metodo induttivo-extracontabile, anziché, come sarebbe normale, con metodo analitico-contabile. In tutti i casi consegue una sanzione amministrativa , che è fissata, in materia di Irpef e Irap, in un ulteriore importo dal 120 al 140 per cento dell’imposta dovuta – per la dichiarazione omessa o nulla – e un importo dal 90 al 180 per cento della maggiore imposta non dichiarata – per la dichiarazione infedele o incompleta, salve le eventuali sanzioni penali. OBBLIGAZIONE TRIBUTARIA E ACCERTAMENTO Normalmente, l’iter di istruttoria e accertamento della fedeltà fiscale del contribuente, parte da un’attività di controllo che è affidata in via selettiva o sistematica alla Guardia di Finanza e agli uffici dell’Agenzia delle Entrate. Con riferimento all’attività degli uffici, vi è una fase di liquidazione dell’imposta (controllo dell’esattezza numerica dei dati dichiarati), una di controllo formale o documentale, con il ricorso a procedure automatizzate (tale fase si limita alla verifica dei dati forniti del contribuente) e una fase di controllo sostanziale (vera e propria attività di indagine sulle dichiarazioni per l’identificazione dei documenti che devono corredare la dichiarazione). Oltre all’obbligatoria indicazione del codice fiscale in alcuni atti della vita di tutti i giorni (con i dati più rilevanti di espressione di capacità contributiva che vengono acquisiti all’interno della banca dati centrale costituita dall’ Anagrafe tributaria ), sussiste altresì l’obbligo per alcuni specifici soggetti di comunicare all’anagrafe stessa determinate informazioni . Ad esempio, gli uffici pubblici devono comunicare le notizie contenute negli atti da presentare allo sportello unico comunale per l’edilizia, le aziende e società devono comunicare i dati catastali identificativi dell’immobile in cui è attivata l’utenza, le banche e gli intermediari finanziari devono comunicare i dati identificativi di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto di natura finanziaria, o effettui per il loro tramite operazioni finanziarie. L’attività di accertamento classica degli uffici finanziari comincia, dopo la scelta dei contribuenti da controllare – scelta che normalmente avviene sulla base di parametri generali stabili volta per volta -, con la liquidazione (entro l’inizio del periodo di presentazione della dichiarazione successiva) e il controllo formale (entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione), rispetto ai quali, in caso di correzione o rettifica , il contribuente deve essere messo in grado di interloquire, beneficiando eventualmente anche di rateizzazione delle somme dovute in più. Dopo il controllo formale inizia la fase volta ad individuare proventi occulti, costi fittizi e documenti falsi (controllo sostanziale), che può inverarsi in una fase di verifica – anche tramite accesso presso luoghi nella disponibilità del contribuente “sospetto”, seppure, secondo lo Statuto del contribuente, in orari e con modalità tali da arrecare la minore turbativa possibile dell’attività lavorativa del contribuente – e che si conclude con un processo verbale di constatazione , ovvero in un verbale che deve essere sottoscritto o comunque visionato dal contribuente – nel caso questi si rifiuti di apporre la sua firma – e che può dare l’avvio, non prima di 60 giorni dalla sua redazione, ad un avviso di accertamento. Se l’accesso viene effettuato presso abitazioni private, occorre la previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica , senza la quale le prove eventualmente raccolte tramite l’accesso sono inutilizzabili. Le altre attività di indagine consistono in richieste degli uffici e della guardia di finanza di documenti e dati o notizie a chiunque ne possa essere a conoscenza; se il soggetto richiesto dà informazioni o documenti falsi ne può rispondere penalmente ai sensi dell’ art. 11, comma 1 del d.l. n. 201 del 2011 . Ulteriori ed efficaci indagini possono consistere in indagini finanziarie (ovvero sui rapporti bancari e di credito-debito intrattenuti con gli intermediari finanziari), per le quali, una volta che vi sia l’autorizzazione prescritta per legge, non può essere opposto il segreto bancario. Vigono in materia due presunzioni . Una presunzione relativa, secondo cui i prelevamenti (di contanti, o mediante bonifici bancari o emissione di assegni) operati dall’imprenditore sono considerati ricavi o compensi se il contribuente non ne indica il beneficiario. La norma pone una doppia presunzione: che il prelevamento sia stato utilizzato per un acquisto non contabilizzato, inerente all’attività di impresa, e che al costo non contabilizzato corrisponda un ricavo pure non contabilizzato. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’applicazione della norma nei confronti dei lavoratori autonomi, ritenendo irragionevole presumere che una somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto compensi non fatturati, mentre l’ha salvata, come visto, con riguardo agli imprenditori, ritenendo al contrario non irragionevole ipotizzare che i prelievi ingiustificati siano destinati all’esercizio dell’attività di impresa. La seconda presunzione consiste nel fatto che l’ufficio può fondare gli avvisi di accertamento sui dati bancari, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine. Questa presunzione ha natura generale. Esiste inoltre la possibilità di compiere analisi di rischio effettuate incrociando in maniera anonima i dati a disposizione dell’Agenzia delle entrate, al fine di fare emergere posizioni da sottoporre a controllo e incentivare l’adempimento spontaneo. A tali fini, il legislatore ha incluso le attività di prevenzione e contrasto all’evasione tra quelle di rilevante interesse pubblico, rispetto alle quali dunque il singolo non può invocare in senso ostativo motivi di privacy .
Autore: dalle Lezioni... 08 apr, 2021
Nel nostro ordinamento non esistono definizioni legislative di tributo . Ma nel tradizionale linguaggio giuridico rientrano nel concetto di tributo fattispecie diverse (imposte, tasse, contributi e, per alcuni, anche i monopoli fiscali). In ogni caso, per la Corte costituzionale i caratteri essenziali della nozione di tributo – tali dunque da ricomprendere “ogni” tipo di tributo – sono la doverosità della prestazione, in assenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di una prestazione con la spesa pubblica, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante. La doverosità della prestazione deve però derivare da un atto autoritativo adottato sulla base di una legge, ex art. 23 della Costituzione . Secondo l’ art. 117, comma 2 della Costituzione , lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di “sistema tributario e contabile dello Stato”; alle Regioni è lasciata invece competenza concorrente nel “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Ai sensi dell’ art. 119 della Costituzione , peraltro, “ i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea”; “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributari o”. Dispongono, inoltre, “di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio”. Secondo l’interpretazione dominante, la potestà legislativa regionale in materia tributaria è potestà legislativa concorrente e non residuale, nel senso che allo Stato è sempre riservata la fissazione dei principi fondamentali del sistema tributario complessivo e la disciplina dei tributi regionali resta una competenza strumentale rispetto alle funzioni materiali attribuite alla Regioni. Le Regioni possono dunque legiferare in materia di tributi regionali e locali ma pur sempre nell’ambito segnato dai principi fondamentali e dai principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario fissati dal leggi statali; in altri termini, lo Stato definisce i tributi o i tipi di tributo regionali e locali, indicando quali oggetti imponibili e quali tributi possono essere oggetto di legislazione regionale, e la Regione, nell’ambito di tali coordinate, regola o istituisce a sua volta il singolo tributo sulla materia di sua competenza concorrente. In ogni caso, le Regioni possono realizzare, in linea con l’autonomia impositiva ad esse riconosciuta dall’art. 119 Cost., propri interventi di politica fiscale, anche di tipo agevolativo , ma questi, in coerenza con i presupposti che giustificano tale autonomia, devono inerire solo e unicamente a tributi il cui gettito è ad esse assegnato, e mai, invece, a tributi il cui gettito pertiene allo Stato, nella cui sfera di competenza esclusiva rientra anche l’eventuale regime agevolativo previsto dalla disciplina del singolo tributo, regime che non costituisce altro che un’integrazione della disciplina medesima. I tributi locali , invece, possono essere creati e disciplinati dallo Stato o dalle Regioni - nei limiti appena evidenziati -, ma mai dai Comuni, in quanto sussiste la riserva di legge, e gli enti sub-regionali, nel nostro ordinamento, non hanno potestà legislativa. Tali enti possono dunque disciplinare con regolamento i tributi propri (che cioè vengono qualificati espressamente dalla legge come tributi locali) ma soltanto in via secondaria, stabilendo norme attuative o integrative delle norme primarie, contenute in leggi statali o regionali. Considerando dunque il contenuto minimo della norma tributaria impositrice riservato alla legge dalla Costituzione (soggetti passivi, presupposto e misura del tributo, quanto meno tramite fissazione, se non proprio della base imponibile e dell’aliquota, dei criteri e limiti idonei a delimitare ed orientare le scelte fatte con fonti regolamentari), i Comuni devono limitarsi ad integrare tale contenuto (così, ad esempio, in materia di IMU). Dal punto di vista dei principi generali in materia di imposizione fiscale, posto che l’ art. 3 della Costituzione declina il principio di uguaglianza (valevole anche in materia fiscale, e non violato dalla concessione di agevolazioni per scopi costituzionalmente riconosciuti) e la necessità di rimozione degli ostacoli economici – quindi anche di natura tributaria – che impediscono la piena attuazione di tale principio, l’art. 23 della Costituzione sancisce invece la riserva di legge (statale e regionale, ma relativa e non assoluta) in materia tributaria (” nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge ”), e l’ art. 53 della Costituzione il principio della “ capacità contributiva ”, secondo cui ”tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Sotto quest’ultimo profilo, il dovere di concorrere alle spese pubbliche è uno dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” sanciti dall’ art. 2 della Costituzione ; il singolo non deve contribuire in ragione di ciò che riceve, ma in ragione delle sue capacità, e non in ragione proporzionale, ma in ragione progressiva rispetto alle sue potenzialità economiche. Fatto espressivo di capacità contributiva è un fatto che esprime forza economica, un indice concretamente rivelatore di ricchezza, dal quale sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta. Vi sono indici diretti (reddito, patrimonio, incrementi di patrimonio) e indici indiretti (consumi e trasferimenti di beni) di capacità contributiva, ma alcuni fatti economici non sono espressione di tale capacità (ad esempio, reddito minimo) e il fatto tassato deve essere rivelatore di capacità effettiva e non fittizia. La Corte costituzionale ha peraltro ritenuto che il principio di capacità contributiva non è violato per il solo fatto che una riduzione del valore della moneta faccia aumentare l’incidenza di un tributo, e che non sono necessariamente lesive del principio di effettività della capacità contributiva le norme che collegano i tributi a parametri legalmente predeterminati (ad esempio, reddito catastale). Le presunzioni legali sono legittime, se corrispondono a regole di esperienza e ammettono la prova contraria; l’effettività è inoltre collegata necessariamente all’ attualità della capacità contributiva , di modo che sono illegittimi da un lato i tributi retroattivi, se i fatti del passato “colpiti” dal tributo non esprimono una capacità contributiva attuale, e dall’altro i pagamenti anticipati di tributi, se la fattispecie a cui si collega il prelievo anticipato sia del tutto avulsa dal presupposto, l’obbligo di versamento sia incondizionato o non siano previsti meccanismi di riequilibrio. Il principio di progressività , infine, non riguarda i singoli tributi ma il sistema nel suo complesso, indica che il sistema tributario non ha soltanto lo scopo di fornire mezzi finanziari allo Stato ma anche funzioni redistributive, ed è soddisfatto, nel nostro ordinamento, da un tributo sul reddito complessivo a carattere progressivo – quale l’Irpef – che abbia valore caratterizzante di tutto il sistema tributario. Altri principi comuni al sistema fiscale si rinvengono nello Statuto dei diritti del contribuente , che ha peraltro valore di legge ordinaria, e dunque può essere astrattamente derogato da norme di pari rango ad esso successive. Tuttavia, l’art. 1 della L. n. 212 del 2000 stabilisce che le disposizioni di essa sono da considerarsi diretta attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, e costituiscono “principi generali dell'ordinamento tributario”, di modo che tali disposizioni “possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”. Inoltre, lo Statuto pone un limite alle leggi apparentemente interpretative , cioè a quelle norme che non hanno l’obiettivo di interpretare correttamente e autenticamente una disposizione tributaria di incerto significato, ma si autodefiniscono interpretative per modificare la norma che dicono di interpretare, così intervenendo sulla stessa retroattivamente, posto in ogni caso che la Corte costituzionale ha statuito che la palese erroneità di tale autoqualificazione può costituire di per sé un indice della irragionevolezza della disposizione interpretativa. Secondo lo Statuto, se delle previsioni di legge costituiscono interpretazione autentica di norme tributarie – con effetti cioè retroattivi e applicabili anche ai “rapporti non esauriti” -, tali norme devono riguardare casi eccezionali, avere forza di legge ordinaria e autoqualificarsi espressamente come di “interpretazione autentica”. Si tratta peraltro sempre di interpretazione di norme tributarie sostanziali, disciplinanti an e quantum dei singoli tributi, perché per le altre norme (ad esempio procedimentali e processuali) non si pone una peculiarità di sistema. Resta inteso che in diritto tributario le norme che accordano esenzioni o agevolazioni sono da interpretare sempre restrittivamente, in quanto deroghe ad una regola generale (in conformità all’art. 14 delle preleggi), e che le fattispecie imponibili non sono soggette ad integrazione analogica , secondo alcuni perché le norme impositrici sono norme a fattispecie esclusiva (norme cioè che non rispondono a un principio superiore, e che dunque non sono suscettibili di estensione analogica), secondo altri perché non possono presentare lacune in senso tecnico – la eventuale lacuna corrisponde sempre ad una scelta del legislatore – e il divieto di analogia corrisponde al pacifico divieto di analogia delle relative norme sanzionatorie, dovendosi in tesi estendere analogicamente un’imposta a casi non previsti espressamente dalla legge tributaria e poi considerare non punibile l’evasione, in considerazione dell’impossibilità di estendere parallelamente la norma punitiva. Tra i principi stabiliti dallo Statuto dei diritti del contribuente degno di nota è quello previsto dall’ art. 10 , secondo cui “ i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fed e ” e “ non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall'amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa ”. Secondo lo stesso art. 10, peraltro, le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. Tale condizione di incertezza non è rinvenibile nella pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria, mentre le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto , pur trattandosi di disposizioni imperative (in tal senso, la norma pare costituire l’espressa deroga richiesta dall’art. 1418, comma 1, del codice civile, in tema di nullità virtuale).
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