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Presunzione di maggior reddito e accreditamenti sul conto del contribuente dall'estero

aggiornamento a cura di Alma Chiettini • ago 20, 2021

Cassazione Civile, Sez. V, 13 luglio 2021, n. 19885


L’art. 32, primo comma, n. 7), del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che gli Uffici finanziari possono chiedere, previa autorizzazione del direttore centrale o regionale dell’Agenzia delle Entrate o del comandante regionale della Guardia di Finanza, a “banche, Poste italiane spa, società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie, intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e società fiduciarie” i “dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto od operazione effettuata, ivi compresi i servizi prestati, con i loro clienti, nonché alle garanzie prestate da terzi o dagli operatori finanziari sopra indicati e le generalità dei soggetti per i quali gli stessi operatori finanziari abbiano effettuato le suddette operazioni e servizi o con i quali abbiano intrattenuto rapporti di natura finanziaria”.

Ai sensi del n. 2) dello stesso primo comma dell’art. 32, i dati, le notizie e i documenti in tal modo rinvenuti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti “se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”. Alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, “i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”.

In tal modo, il Legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa, in forza della quale l’Amministrazione finanziaria deve provare l’esistenza di una movimentazione di denaro non considerata nella determinazione del reddito, mentre spetta al contribuente dimostrare l’estraneità o l’irrilevanza di quell’operazioni rispetto al suo reddito.

Più specificatamente: 

- la presunzione legale secondo cui i “prelevamenti” sono considerati ricavi è utilizzata nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa soggetti all’obbligo di tenuta delle scritture contabili (così dopo la correzione apportata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e attività professionale ai fini della presunzione legale di ricavi o compensi, e ciò per la specificità la figura del lavoratore autonomo rispetto a quella dell’imprenditore per cui “è arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale”);

- la presunzione legale della disponibilità di maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari, postali, assicurativi, … dove sono stati rinvenuti “versamenti” non giustificati “si estende alla generalità dei contribuenti”, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, primo comma, n. 2). Tale presunzione si fonda sul principio dell’id quod plerumque accidit, cioè sul dato di comune esperienza in base al quale le somme versate sul conto e non giustificate è verosimile che sottendano al corrispettivo di una cessione o di una prestazione resa in evasione d’imposta.

Nella vicenda esaminata dalla Cassazione in commento, in presenza di un contribuente che aveva acquistato un immobile, l’Agenzia delle Entrate aveva provato che sul conto corrente dell’interessato erano affluite somme di denaro a seguito di accreditamenti dall’estero. Ciò è stato ritenuto sufficiente per dimostrare, in via presuntiva, la disponibilità di maggiori redditi tassabili. E ciò ha determinato un'inversione dell’onere della prova per cui spettava al contribuente provare, con elementi circostanziati, che quel denaro non aveva rilevanza ai fini del suo reddito. Sul punto non è stato considerata sufficiente l’affermazione del privato che sul suo conto corrente confluivano anche somme di pertinenza di terzi, in quanto, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal citato art. 32, “non è sufficiente dimostrare genericamente di avere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario somme affidategli da terzi ma è necessario che egli fornisca la prova analitica della inerenza alla sua attività di maneggio di denaro altrui di ogni singola movimentazione del conto”.

Sulla valutazione delle prove, la giurisprudenza della Corte di legittimità è difatti univoca nell’affermare che, sul fronte dell’Amministrazione, l’onere probatorio è soddisfatto con l’esibizione dei dati e degli elementi risultanti dai conti correnti, e che spetta al contribuente dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili a operazioni imponibili, dovendo egli fornire, a tal fine, prove non generiche ma analitiche, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili. Per cui “debbono essere indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti”. 

E “a fronte dell’analiticità nella deduzione del mezzo di prova, o comunque delle allegazioni difensive da parte del contribuente, corrisponde una speculare analiticità da parte del giudice nell’esaminare quanto dedotto e documentato” (Cass. Civ., Sez. V, 22.5.2020, n. 9423).



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