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La "tassa" sulle radiodiffusioni

dalle Lezioni... • apr 29, 2021

Il canone RAI è un canone corrisposto all’ente radiotelevisivo, che lo riscuote per conto dello Stato, mediante pagamento annuale di un determinato importo, da parte di chiunque detenga uno o più apparecchi atti alla ricezione radio-televisiva.

La norma di riferimento è il regio decreto-legge n. 246 del 1938, e l’importo del canone è variato nel tempo a seconda che dell’apparecchio si facesse un uso privato o un uso speciale (ad esempio, in bar o ristoranti).

Con le ultime modifiche del 2015 (L. n. 208 del 28 dicembre 2015), si presume che chi abbia in essere un contratto di fornitura dell’energia elettrica detenga anche un apparecchio televisivo; tale detenzione costituisce elemento sufficiente e necessario per far scattare l’obbligazione tributaria, il cui assolvimento avviene oggi tramite addebito rateale nella bolletta dell’energia elettrica.

Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come "tassa", collegata alla fruizione del servizio pubblico, in seguito si è optato per la qualificazione di imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’art. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (in questi termini, la sentenza della Corte costituzionale n. 535 del 1988).

Ciò ha comportato lo spostamento della valutazione di legittimità dell’imposizione dalla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone è destinato, alla riconducibilità del tributo ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva. Ed è sotto tale profilo che la Corte delle leggi, chiamata a pronunciarsi in riferimento all’art. 53 della Costituzione, ha dichiarato non fondate le relative questioni, aventi ad oggetto gli articoli 1, 10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938, ritenendo che l’indice di capacità contributiva consistente nella mera detenzione di un apparecchio radiotelevisivo non potesse considerarsi irragionevole.

L’esistenza di un servizio radiotelevisivo pubblico, cioè promosso e organizzato dallo Stato, non più a titolo di monopolista legale della diffusione di programmi televisivi, ma nell’ambito di un sistema misto pubblico-privato, si giustifica però solo in quanto chi esercita tale servizio sia tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema, bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all’informazione e per la diffusione della cultura, con il fine di "ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese", come esplicitava l’art. 1, comma 1 della legge n. 103 del 1975. Di qui la necessità che la concessione preveda specifici obblighi di servizio pubblico e imponga alla concessionaria l’obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l’apertura dei programmi alle più significative realtà culturali.

In questa prospettiva si giustifica l’esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all’imposizione tributaria, e nella specie all’imposizione del canone. L’altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione di programmi radiotelevisivi liberamente accessibili (al di fuori dunque delle forme di televisione a pagamento) è infatti la raccolta pubblicitaria, la quale, a sua volta, oltre che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli utenti e degli altri mezzi di comunicazione, e dalle libere scelte degli operatori del settore e degli inserzionisti, è di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti. Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per altro verso impone, al soggetto che svolge il servizio pubblico di adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi, sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di adeguare la tipologia e la qualità della propria programmazione alle specifiche finalità di tale servizio, non piegandole alle sole esigenze quantitative dell’ascolto e della raccolta pubblicitaria, e non omologando le proprie scelte di programmazione a quelle proprie dei soggetti privati che operano nel ristretto e imperfetto "mercato" radiotelevisivo.

E’ questa caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla scelta legislativa di imposizione del canone destinato a finanziare tale servizio: mentre esulano, evidentemente, dall’ambito di profili di costituzionalità le valutazioni circa l’adeguatezza in concreto dell’attività svolta alla natura dei compiti affidati al servizio pubblico.

Il collegamento dell’obbligo di pagare il canone alla semplice detenzione dell’apparecchio, atto o adattabile alla ricezione anche solo di trasmissioni via cavo o provenienti dall’estero, indipendentemente dalla possibilità e dalla volontà di fruire dei programmi della concessionaria del servizio pubblico, discende dalla natura di imposta impressa al canone, che esclude ogni nesso di necessaria corrispettività in concreto fra obbligo tributario e fruizione effettiva del servizio pubblico.

Non vi è dunque né irragionevolezza nella scelta del legislatore di fondare l’imposizione genericamente sulla detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni radiotelevisive, né una disparità di trattamento tra chi riceva le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi eventualmente le riceva con altri mezzi, o non le riceva affatto. Ancora una volta, ciò che viene in rilievo, come presupposto dell’imposizione, è la detenzione degli apparecchi (ed è questione di mera interpretazione della legge stabilire quali siano tali apparecchi), non rilevando, ai fini della costituzionalità di tale imposizione, la circostanza che l’utente riceva o meno le trasmissioni del servizio pubblico. 



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