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Fallimento e legittimazione processuale. Inerzia del curatore

Alma Chiettini • mag 17, 2023

Cass. Civile, Sezioni Unite, 28 aprile 2023, n. 11287


Il soggetto fallito è, in linea generale, privo della capacità di stare in giudizio. 

In tal senso l’art. 43, rubricato “rapporti processuali” della legge fallimentare (r.d. 16.3.1942, n. 267) stabilisce che “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore” e che, di conseguenza, “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”. Le eccezioni codificate nello stesso articolo prevedono che “il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, o se l’intervento è previsto dalla legge”.

E nello stesso senso dispone l’art. 143 (ugualmente rubricato “rapporti processuali”) del d.lgs. 12.1.2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Tali regole non sono altro che l’applicazione in ambito concorsuale della regola generale di cui all’art. 75 c.p.c., in forza della quale sono capaci di stare in giudizio solo “le persone che hanno il libero esercizio dei diritti” che si fanno valere, mentre le persone che tale libero esercizio non hanno non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate “secondo le norme che regolano la loro capacità”.

È pertanto pacifico che il fallito mantiene la capacità processuale con riguardo alle posizioni estranee agli interessi e alle funzioni del concorso, come quelle di natura strettamente personale o comunque non incidenti sulla sorte dei creditori.

Ma anche per le questioni che incidono o che possono incidere sulla sorte dei creditori, da tempo la giurisprudenza di legittimità afferma che “il fallito mantiene legittimazione ad agire, e a impugnare provvedimenti incidenti sui rapporti patrimoniali appresi al fallimento, nel caso di «inerzia» degli organi della procedura fallimentare, e ciò anche con specifico riguardo all’impugnazione di atti impositivi basati su presupposti antecedenti all’apertura della procedura concorsuale” (cfr. da ultimo, Cass. civ., sez. V, 30.9.2021, n. 26506). Il fondamento del riconoscimento di questa legittimazione straordinaria è stato individuato:

- nella persistenza in capo al fallito della qualità di contribuente e nella rilevanza, anche costituzionale, del rapporto tributario (Cost., artt. 23 e 53);

- nell’esistenza di un interesse personale alla contestazione della pretesa tributaria per la rilevanza che quest’ultima potrebbe avere in sede penale e comunque ex art. 33 l.fall.;

- nell’ulteriore interesse a contenere l’entità del passivo in vista dell’esdebitazione (anche ai fini Iva) dopo la chiusura della procedura;

- nella divergenza di questi obiettivi rispetto al disinteresse del curatore nei confronti di crediti concorsuali destinati a non trovare capienza nell’attivo fallimentare.

Ma quando può dirsi che vi sia inerzia del curatore?

Il concetto di inerzia - per quanto etimologicamente e semanticamente chiaro ed univoco nell’indicare una condizione di assenza di azione, cioè di staticità, di immobilità e di quiete obiettivamente rilevabile - si prest[a] in realtà ad importanti distinguo se trasposto nel mondo giuridico e processuale”.

Si trovano quindi pronunce che hanno riconosciuto la legittimazione del fallito per il solo fatto, obiettivamente rilevato, che il curatore si era astenuto dall’agire; si tratta di decisioni che hanno dato per scontato che la capacità processuale del fallito discenda da una condizione di inerzia pura e semplice del curatore, senza necessità di indagarne le cause, le giustificazioni o gli scopi. All’opposto, altre pronunce hanno invece ritenuto di arricchire la fattispecie dell’inerzia di un elemento ulteriore, implicante sempre una più o meno approfondita indagine sulle ragioni che hanno indotto il curatore ad astenersi dal giudizio; per queste sentenze il fallito poteva agire personalmente solo se l’inerzia del curatore non era consapevole e voluta, cioè frutto di una mirata ponderazione e di una specifica valutazione di opportunità e convenienza per la massa.

Per dirimere tale contrasto di indirizzi è intervenuta la sentenza qui segnalata, che ha previamente specificato che parte della giurisprudenza era pervenuta a “una progressiva definizione della fattispecie legittimante dell’inerzia mediante l’introduzione in essa di un quid pluris”, per cui si era passati “da una nozione di inerzia semplice o essenziale ad una nozione di inerzia consapevole o qualificata o vestita che dir si voglia. La prima libera la capacità sostitutiva del fallito, la seconda la preclude”.

Ebbene, il carattere pubblicistico dell’obbligazione tributaria; il fatto che il rapporto giuridico d’imposta basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura; l’ulteriore fatto che il rapporto giuridico d’imposta inadempiuto ha effetti sulle future prospettive di esdebitazione e di ripresa una volta che il debitore torni in bonis; gli aspetti sanzionatori di natura non penale ma amministrativa ma che rispondono comunque, “in ogni caso, a uno stampo di tipo penalistico” per le evidenti finalità afflittivo-deterrenti (v. Cass. civ., Sez. Unite, 27.4.2022, n. 13145), sono fattori tutti che complessivamente considerati hanno indotto la Corte a concludere, sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata della l.fall., art. 43 e della Cost., art. 24, che occorre ammettere il contribuente fallito ad impugnare in proprio l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore.

La Corte ha così formulato il seguente principio di diritto: “in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex l.fall., art. 43 in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato”.

Con l’occasione la Corte ha esaminato anche la questione se l’eventuale difetto di legittimazione del fallito ha natura relativa o assoluta, così pervenendo alla formulazione del seguente principio di diritto: “l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo”.

E questo correlato corollario, perché quella in esame è questione che attiene non alla titolarità del diritto ma a “una carenza di capacità o legittimazione attinente ai presupposti processuali e il cui verificarsi è subordinato alla attivazione del curatore”, per cui “il relativo vizio ha carattere assoluto, così da poter e dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite. In presenza di questo palesato interesse (vale a dire, del difetto di un’inerzia obiettivamente intesa), il rapporto litigioso deve ritenersi ex lege acquisito al fallimento, così da rendere inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, e il difetto di capacità processuale di quest’ultimo non rientra più nella sola disponibilità del curatore, assumendo piuttosto uno spessore ordinamentale, cioè assoluto”.


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