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Il "pretium sceleris" - anche tra coniugi - costituisce reddito imponibile

aggiornamento a cura di Alma Chiettini • ott 12, 2021

Cassazione Civile, Sez. V, 22 settembre 2021, n. 25684


Una persona era stata condannata al risarcimento dei danni subiti dal coniuge a seguito dell’appropriazione indebita di una somma di denaro versata sul conto corrente cointestato ma appartenente in via esclusiva al coniuge. Nei confronti della persona condannata l’Agenzia delle Entrate ha accertato un maggior reddito IRPEF per la provata sussistenza di un provento illecito assoggettabile a tassazione.

Il contribuente ha impugnato il provvedimento di accertamento, anche affermando che la somma versata dal suo coniuge sul conto corrente cointestato presumeva una donazione indiretta della metà a suo favore.

Ma la Corte di Cassazione non ha condiviso le tesi del contribuente.

In termini generali, si rammenta che l’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993 - laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986 devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e che i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria - costituisce interpretazione autentica della normativa contenuta nel predetto testo unico delle imposte sui redditi. Con la decisione di considerare reddito imponibile l’arricchimento derivato dal prezzo del reato (c.d. pretium sceleris), il Legislatore ha inteso sottrarre all’autore dell’illecito parte dei vantaggi economici acquisiti.

In termini puntuali riferiti ai fatti di causa, la Corte di legittimità ha osservato che, sul piano civilistico, il versamento di una somma di danaro da parte di un coniuge su di un conto corrente cointestato all’altro coniuge non costituisce, di per sé, un atto di liberalità. Difatti l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito che risulti però essere appartenuta a uno solo dei contestatari, può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus donandi consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità. Per cui, in assenza di circostanze univocamente suffraganti l’immanenza di uno spirito liberale, il mero versamento da parte del coniuge di danaro personale sul conto corrente cointestato al contribuente non è idoneo a fondare una presunzione di appartenenza pro quota a quest’ultimo.

Sul piano fiscale, la Corte ha ribadito che anche i proventi derivanti da fatti illeciti rientrano nelle categorie reddituali e che, di conseguenza, devono essere assoggettati a tassazione pure se il contribuente - come nel caso di specie - è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento del danno. Infatti, la condanna al restituzione e al risarcimento è un fatto che, in linea di principio, non influisce sulla nascita dell’obbligazione tributaria perché, logicamente e cronologicamente, è successivo al verificarsi del presupposto d’imposta dal quale deriva l’obbligazione. Il risarcimento, inoltre, non è specificamente previsto tra i fatti impeditivi o estintivi dell’obbligazione tributaria. Ed ancora, il fatto che ci sia stata la condanna alla reintegrazione e al risarcimento non significa che la sentenza sia stata eseguita e, quindi, non vi è prova che l’incremento di ricchezza sia stato azzerato, ammesso che la regressione finanziaria possa incidere, retroattivamente, nell’anno di imposta oggetto di accertamento (cfr., in termini, Cass. civ., Sez. V, 5.6.2000, n. 7511; id., Sez. VI, 24.10.2019, n. 27357).




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