“Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia,
fa' che ciò avvenga non sotto il peso dei doni,
ma per un impulso di misericordia”
(Miguel de Cervantes)
"LA TUTELA AMMINISTRATIVA: DAL SINDACATO INCIDENTALE DEL GIUDICE PENALE ALLA POSSIBILE ESTENSIONE DEL SINDACATO DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO"
Convegno in presenza a Bergamo:
Venerdì 15 novembre 2024 ore 15.00
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L’angolo dell’attualità

Con la richiesta di ritorno alla vecchia immunità parlamentare originariamente prevista dall'art. 68 della Costituzione [1] , si chiude idealmente un cerchio che è stato ultimamente tratteggiato da alcune componenti partitiche partendo dall'asserita necessità della politica di riprendere il suo primato. È una lunga marcia che ha preso le sue mosse proprio dall'anno (1993) in cui il Parlamento, scosso dal clamore delle numerose indagini penali su corruzione e tangenti che coinvolgevano importanti esponenti politici, e dalla necessità di tenere a freno un'opinione pubblica esasperata dall'emergere di scandali e privilegi ritenuti inaccettabili, oltre che dalle numerose autorizzazioni a procedere negate nei confronti degli onorevoli , fu costretto ad eliminare parzialmente l'immunità originariamente prevista dall’ art. 68 della Costituzione . Mentre fino a quel momento il singolo parlamentare non poteva essere sottoposto neanche a procedimento penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza, né tanto meno privato della libertà sulla base di una sentenza di condanna penale divenuta irrevocabile, dopo la riforma costituzionale restò in piedi la necessità di chiedere tale autorizzazione solo per intercettazioni, perquisizioni e applicazione di misure cautelari personali. È passata molta acqua sotto i ponti da allora, gli italiani sono sempre ben divisi tra ultragarantisti e giustizialisti, eppure il crollo della fiducia del cittadino medio nella magistratura e il forte indebolimento delle componenti politiche più disposte a rispettare senza se e senza ma le inchieste giudiziarie (o addirittura a trarne vantaggio competitivo) ha determinato la messa in discussione anche di alcuni istituti giuridici che tendevano a sottrarre il legislatore e l’amministratore da una piena libertà di agire, potenzialmente confinante con il mero arbitrio. Conseguentemente, è tornato in discussione il reale punto di confine (e di contatto) tra ius singulare giustificato da obiettive e specifiche esigenze da salvaguardare, e privilegio tout court . È un sacrosanto diritto a tutela del parlamentare e della sua importantissima e delicatissima funzione godere di particolari garanzie e restare immune da ogni iniziativa giudiziaria o è più forte il principio di eguaglianza di tutti dinanzi alla legge? E quanto è grande lo spazio di libertà e specialità di chi rappresenta la funzione legislativa ed esecutiva rispetto alle regole ordinarie che valgono per il comune cittadino? Oltre alla problematica sempre “calda” delle inchieste giudiziarie – ciò che va più sul versante dell’astratta e ideale contrapposizione tra stabilità dell’azione politica e doverosità delle iniziative della magistratura –, esiste anche un non irrilevante tema “patrimoniale” dei privilegi (veri o presunti tali) di categoria. Si pensi ad esempio ai vitalizi dei parlamentari e alle “retribuzioni” dei ministri. Sul primo fronte, nel corso dell’attuale legislatura il Consiglio di Garanzia del Senato dimissionario ha deciso di ripristinare il calcolo con il sistema retributivo (più favorevole), in luogo di quello con il sistema contributivo (meno favorevole), dell’importo dei vitalizi dovuti ai senatori eletti prima del 2012, aumentandone conseguentemente, in via retroattiva, il valore. Si pensi al riguardo, e in termini di ipotetico confronto, che per tutti i comuni cittadini che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995 la pensione è ormai calcolata soltanto con il sistema contributivo. Sul secondo fronte, invece, caduta “a furor di popolo” la norma che avrebbe parificato tutti gli “stipendi” di ministri e sottosegretari di Stato non parlamentari a quelli dei loro colleghi di governo anche parlamentari (alcune migliaia di euro in più al mese), è stata comunque introdotta a beneficio dei primi, qualora aventi residenza o domicilio diversi da Roma, una sorta di rimborso spese tratto da un fondo speciale di 500 mila euro annui. In particolare, il comma 854 dell’art. 1 della L. n. 207 del 2024 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2025 e bilancio pluriennale per il triennio 2025-2027) ha riconosciuto in modo “secco” il diritto al rimborso delle spese di trasferta da e per il domicilio o la residenza per l'espletamento delle proprie funzioni agli attuali Ministri e sottosegretari non parlamentari, collegando tale diritto alla “dotazione” di 500.000 euro annui del nuovo fondo istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. In assenza di ulteriori indicazioni nella norma primaria, e sulla base di un mero calcolo aritmetico di natura divisoria, dal primo gennaio del 2025 i potenziali beneficiari della norma (circa quindici persone) potrebbero avere un aumento di “stipendio”, seppure sotto forma rimborsuale, di più di duemila euro al mese. In questo caso, a colpire non è tanto l’individuazione di un principio “speciale” a favore di pochi, ma che di tale principio, fino ad allora non previsto, ne beneficino in termini economici, e immediatamente, gli appartenenti allo stesso Governo dalla cui maggioranza politica proviene la norma. D’altra parte, accanto alle rafforzate garanzie di natura economica e procedurale (queste ultime, nel caso di guai con la giustizia penale), chi esercita la funzione legislativa gode anche della c.d. insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni (art. 68, comma 1, Cost.). Si tratta di un’immunità preventiva e sostanziale da ogni tipo di sindacato giurisdizionale (“ I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere… ”), che elimina in radice l’antigiuridicità del fatto. Anche in questo caso, il confine tra diritto comune e ius singulare è molto labile, e non è facile stabilire fin dove la protezione dell’insindacabilità può spingersi, senza deragliare in un inaccettabile privilegio. Il libero esercizio delle funzioni parlamentari deve essere senz’altro protetto dalla paura di ritorsioni ingiustificate e intimidatorie, ma è ancora esercizio delle funzioni parlamentari l’insulto libero e la delegittimazione pretestuosa di un avversario politico o di un giudice o di un giornalista considerato ostile? Il punto di caduta delle esigenze che qui si vengono a contrapporre è stato a più riprese disegnato dalla Corte costituzionale, la quale ha anche recentemente precisato che “ è pur sempre necessario – affinché l’immunità non si trasformi illegittimamente in privilegio personale, con il correlato e ingiustificato sacrificio dei diritti e degli interessi dei terzi – che essa sia funzionalmente delimitata (…) e che, pertanto, le opinioni espresse siano caratterizzate dalla esistenza di un nesso stretto con l’esercizio delle funzioni ”. Occorre, in altri termini, stabilire di volta in volta se in concreto le opinioni espresse da un parlamentare siano riconducibili all’esercizio delle funzioni ex art. 68, primo comma, della Costituzione, e siano come tali insindacabili, o se invece vadano ricondotte all’esercizio della libertà di libera manifestazione del proprio pensiero di cui tutti godono ai sensi dell’art. 21 della Costituzione. Invero, nella normalità dei casi, profilandosi l’assenza di tale nesso funzionale, è il giudice comune a dovere decidere, nel singolo caso, da quale parte della bilancia pende il rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero politico e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritiene leso dall’opinione espressa. Passando poi dalle prerogative del Legislatore a quelle di chi rappresenta il potere esecutivo e l’amministrazione pubblica tutta, negli ultimi anni si è cercato di rendere meno alto lo scalino tra le forti garanzie concesse ai primi e la “debole” protezione riservata ai secondi. Ma quali speciali garanzie possono attenuare le importanti responsabilità derivanti dal maneggiare denaro pubblico o dal prendere decisioni che mettono in pericolo potenziale le casse pubbliche? Anche qui, le ordinarie regole di responsabilità hanno ceduto da qualche tempo il passo a un diritto speciale che ha parzialmente eliminato anche le condotte gravemente colpose da quelle sulla cui base scatta la responsabilità del funzionario pubblico. Il c.d. scudo erariale è stato introdotto per la prima volta con il d.l. n. 76 del 2020 , in piena pandemia, con effetti temporali inizialmente limitati alla scadenza del 31 luglio 2021, e successivamente prorogato, a più riprese, fino al 30 aprile 2025. L'ultima proroga risale al d.l. n. 202 del 2024 , convertito dalla L. 21 febbraio 2025, n. 15 (art. 1, comma 9). La norma prevede che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, per il periodo di sua applicazione, non si estende alle ipotesi di colpa grave , ma solo alle ipotesi di dolo, qualora vengano in rilievo condotte commissive. Si tratta di una disciplina provvisoria - ma è una provvisorietà che ormai dura da quasi cinque anni - che è stata recentemente ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale, in quanto avrebbe limitato al dolo l'elemento soggettivo della responsabilità amministrativa in un contesto storico del tutto particolare. [2] Invero, pur indebolendo la funzione deterrente delle ipotesi di responsabilità previste a carico dei funzionari pubblici, la norma "incriminata" avrebbe il merito radicarsi in " uno specifico contesto in cui la tutela di fondamentali interessi di rilievo costituzionale richiede che l'attività amministrativa si svolga in modo tempestivo e senza alcun tipo di ostacoli, neppure di quelli che derivano dal timore di incorrere (al di fuori delle ipotesi dolose) nella responsabilità amministrativa ". E non importa se nel frattempo gli effetti della pandemia siano cessati (adesso però c'è la necessità di raggiungere gli obiettivi del PNRR) o se appare quantomeno discutibile e foriero di possibili disparità di trattamento il diverso regime di responsabilità attualmente esistente tra condotte attive (rispetto alle quali lo scudo erariale si applica) e condotte omissive (rispetto alle quali lo scudo erariale non si applica), posto che proprio nel caso dal quale è partita la Corte dei Conti, per rilevare la sospetta incostituzionalità della norma, era evidente la curiosa frammentazione del tipo di responsabilità accertabile pur con riguardo alla medesima, unitaria vicenda sottostante. Tuttavia, a fronte della tendenza alla c.d. burocrazia difensiva , è stato ritenuto prevalente, sia dal legislatore che dalla Corte costituzionale, "l'obiettivo di stimolare l'attività degli agenti pubblici in un contesto specifico e provvisorio", con la creazione di un "complessivo clima di fiducia" che favorisse "la spinta dell'intera macchina amministrativa". Bisogna a questo punto chiedersi, onde evitare che la macchina di cui sopra vada fuori giri , fino a che punto una disciplina salvata dalla dichiarazione di incostituzionalità soltanto per il suo carattere contingente, possa diventare di fatto strutturale, posto che l'ultima proroga si legherebbe all’obiettivo di consentire al Parlamento di completare la riforma organica della Corte dei conti. Senza contare che adesso l’abuso di ufficio – salvo eccezionali ipotesi ritagliate sul suo paradigma originario – non è più reato. [3] Che poi, se neanche lo scudo erariale riesce a salvare dalla condanna per spreco di denaro dei contribuenti un importante amministratore pubblico come il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca [4] , ci sono pur sempre le fattispecie giuridiche costruite ad hoc a “congelare” le posizioni di potere divenute “cedevoli”. Qui non siamo tanto nello ius speciale o singulare che dir si voglia, ma in un’ipotesi di confine che potremmo definire, invertendo i termini, singolarità giuridica . E’ una tendenza, questa, molto diffusa anche negli apparati pubblici – ivi compresi quelli di più alto livello, come gli organi di autogoverno – dove la necessità di favorire un determinato risultato (buono o cattivo che sia) crea una nuova fattispecie normativa o regolamentare fortemente disallineata rispetto alla normale coerenza del tessuto ordinamentale, anche se non in diretto contrasto con una disposizione specifica. Nel caso di specie, il Presidente De Luca, alla fine del corrente mandato, seguendo la linea tracciata dal disegno costituzionale e legislativo in materia di disciplina delle elezioni regionali, non potrebbe concorrere nuovamente e immediatamente per la carica di Presidente della Regione, perché, nel caso di elezione, si tratterebbe del terzo mandato consecutivo . Tuttavia, l’Assemblea legislativa regionale campana – sostenuta dalla maggioranza eletta con De Luca – ha costruito una fattispecie giuridica apparentemente ineccepibile ma sostanzialmente volta a permettere all’attuale Governatore di restare ancora una volta in sella alla Presidenza della Regione, se eletto per la terza volta. Come emerge infatti dal ricorso per questione di legittimità costituzionale depositato alla Corte il 10 gennaio 2025 dal Presidente del Consiglio dei ministri [5] , la legge della Regione Campania 11 novembre 2024, n. 16 , composta di un unico articolo, ha sì stabilito, in tardiva applicazione e recepimento dell' art. 2, comma 1, lettera f) della legge 2 luglio 2004, n. 165 , che “ non è immediatamente rieleggibile alla carica di Presidente della Giunta regionale chi, allo scadere del secondo mandato, ha già ricoperto ininterrottamente tale carica per due mandati consecutivi ”, ma ha altresì contemporaneamente statuito che “ ai fini dell'applicazione della presente disposizione, il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”. Si tratta dunque di una norma apparentemente legittima e coerente con il tessuto ordinamentale di riferimento – la legge statale, attuativa dell’ art. 122 della Costituzione , prevede infatti, in via di principio, la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto –, tuttavia subordinata nella sua decorrenza temporale ad un’altra norma di natura transitoria che di fatto è da considerarsi “ad personam”, perché consente solo e soltanto a De Luca (e non a coloro che verranno dopo di lui) di fare un terzo mandato (“… il computo dei mandati decorre da quello in corso di espletamento alla data di entrata in vigore della presente legge ”). La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dunque giustamente impugnato dinanzi alla Corte costituzionale la norma ad hoc votata dal Consiglio regionale campano, per possibile violazione degli artt. 122, 3 e 51 della Costituzione , ciò che deporrebbe per il tentativo di conservare un corretto equilibrio nelle attribuzioni tra diversi livelli di governo, fatte salve le malevoli interpretazioni giornalistiche sulla scarsa simpatia e non appartenenza politica tra gli attori in gioco. E adesso l’ultima parola spetta alla Corte costituzionale, troppo spesso ultimamente “costretta” a prendere posizione su questioni che in un ordinamento coerente con se stesso e interpretato con spirito di leale collaborazione da tutte le parti istituzionali e politiche neanche si dovrebbero porre. Tuttavia, sembra che in Italia la tentazione di ritagliare per sé delle condizioni di privilegio che stridono con il comune sentire di chi fa quotidianamente fatica a “tirare avanti” continui a trovare terreno fertile nella concezione amorale di un certo tipo di approccio umano, che trova adesso un pericoloso alleato nel definitivo sdoganamento del principio del “risultato ad ogni costo”. [1] Per approfondimenti sulla notizia, si rinvia, tra gli altri, al seguente link: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2025/02/03/balboni-non-vedo-ragioni-di-rivedere-limmunita-parlamentare_f144fb4a-d026-45d8-8157-4a8a98df06f2.html [2] Per una lettura della sentenza: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:132 [3] Per alcune considerazioni critiche sull'abolizione del reato di abuso di ufficio, si rinvia ad altro contributo apparso sul sito e reperibile al seguente link: https://www.primogrado.com/il-buco-nero-della-legalita [4] Si veda Sentenza n. 600/2024 emessa dalla Sezione giurisdizionale per la Regione Campania della Corte dei Conti

Il 23 febbraio 2020 il Governo emana un decreto-legge in cui autorizza il Presidente del Consiglio ad adottare misure di contenimento per evitare la diffusione del COVID-19 . Lo stesso giorno, il Presidente del Consiglio chiude nella famigerata zona rossa Vò Euganeo, Codogno e dintorni, mentre il Ministro della Salute, d’intesa con il Presidente della Regione Lombardia, chiude in Lombardia scuole, musei e cinema, ma non i ristoranti. Restano aperti al pubblico anche i bar e tutti gli altri locali, ma soltanto dalle sei del mattino alle sei del pomeriggio. Il 27 febbraio 2020, il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti corre a Milano per fare un aperitivo anti-panico, raccogliendo l’appello del Sindaco Sala “a non fermarsi”. Il 10 marzo successivo tutta l’Italia diventa zona rossa con un DPCM. Il resto è storia, anche se ancora non sono condivise e accettate da tutti le ragioni di quella “storia”, e forse non lo saranno mai. Di certo, un virus ci ha tenuti in ostaggio per un paio di anni, tra restrizioni alla libertà personale, obblighi di vaccinazione, mascherine e divieti vari. Parimenti, alcuni soggetti istituzionali hanno tentato o stanno tentando di fare luce su quello che è realmente accaduto. L’indagine penale avviata dalla Procura della Repubblica di Bergamo per il reato di epidemia colposa è finita con una doppia archiviazione, sia da parte del Tribunale dei Ministri che da parte del Gip, mentre il 18 settembre 2024 si è costituita in Parlamento la Commissione bicamerale d'inchiesta sulla gestione dell'emergenza sanitaria SARS-COV-2 . Questa Commissione ha il compito di accertare le misure adottate per prevenire, contrastare e contenere l'emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2 nel territorio nazionale e di valutarne la prontezza, l'efficacia e la resilienza, anche al fine di fare fronte a una possibile futura nuova pandemia di analoga portata e gravità. Da notare che la Commissione “ procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria ”, ai sensi dell’ art. 82 della Costituzione , così come richiamato dagli artt. 1 e 4 della legge istitutiva (L. n. 22 del 2024) . Vedremo che cosa ne uscirà. Nel frattempo, però, un primo colpo è stato battuto dal Governo su alcune delle conseguenze giuridiche (multe per inadempimento degli obblighi vaccinali) ancora attuali della pandemia. L’art. 21, comma 5, del d.l. n. 202 del 2024 (“Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”, anche noto come “decreto milleproroghe”), decreto in corso di conversione, ha infatti così disposto: “ I procedimenti sanzionatori di cui all'articolo 4-sexies del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio, n. 76, non ancora conclusi sono definitivamente interrotti, mentre le sanzioni pecuniarie già irrogate sono annullate. Ai fini del conseguente discarico delle sanzioni pecuniarie già irrogate, senza oneri amministrativi a carico dell'ente creditore, l'Agenzia delle entrate-Riscossione trasmette in via telematica al Ministero della salute l'elenco dei provvedimenti sanzionatori annullati. I giudizi pendenti, aventi ad oggetto tali provvedimenti, sono estinti di diritto a spese compensate. Restano acquisite al bilancio dello Stato le somme già versate, per sanzioni pecuniarie, alla data di entrata in vigore del presente decreto ”. Tradotto: la sanzione amministrativa pecuniaria di cento euro che era stata prevista nel 2021 per l’inosservanza dell'obbligo vaccinale è stata cancellata dal nostro ordinamento, salvo che la relativa somma non sia stata già versata all’erario. Conseguentemente, solo chi ha già pagato resta effettivamente e definitivamente colpito dalla “multa”. Nel commentare questa decisione, Ferruccio de Bortoli – che non può di certo essere annoverato tra gli “estremisti” del nostro giornalismo – si è così espresso: “ Con la scandalosa idea di cancellare le multe a carico di chi non ottemperò l’obbligo di vaccinazione siamo entrati definitivamente nell’era in cui la sanzione, quando c’è, è ormai solamente la trappola degli allocchi. Tra ripetuti condoni, rottamazioni generose, stralci di varia natura, è ormai appurato che chi non rispetta un obbligo di legge, specialmente in materia fiscale, ha sempre una via d’uscita ”. [1] Amen per i legalitari. Sotto altro fronte, uno dei più fervidi sostenitori delle misure di contenimento anti-covid, il Pres. della Regione Campania Vincenzo De Luca, è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire il danno erariale causato alla stessa Regione da lui presieduta con riferimento all’istituzione del green pass “ante litteram”. La vicenda risale al 2021. Il buon De Luca si era mosso prima del legislatore nazionale e aveva creato la c.d. smart card regionale , al fine di consentire l’attestazione, da parte dei cittadini campani, della loro avvenuta vaccinazione. In seguito, una volta introdotte in tutta Italia, con il d.l. n. 52 del 21 aprile 2021 , le c.d. certificazioni verdi covid-19 (poi divenute green pass base e green pass rafforzato), lo stesso Presidente della Giunta regionale della Campania, con ordinanza del 6 maggio 2021, si “era affrettato” ad attribuire alla sua smart card caratteristiche sostanzialmente “corrispondenti” al green pass, al fine di giustificare la successiva adozione di particolari linee guida e direttive per disciplinarne l’uso e la circolazione. Tuttavia, pare che la Sezione Giurisdizionale Campania della Corte dei Conti che si è pronunciata sul caso abbia ritenuto che, a partire da una certa data in poi, la produzione di separate certificazioni regionali, in quanto inutile duplicato del green pass nazionale, avrebbe causato un danno erariale rilevante alla Regione Campania, con conseguente condanna del governatore a risarcire tale danno, per una somma quantificata in circa 600 mila euro. [2] D’altra parte, a fronte di un green pass ormai a pieno regime, il 6 agosto 2021 il Presidente De Luca aveva emesso un’ulteriore ordinanza per dare mandato alle Aziende sanitarie campane di “ accelerare la consegna ai cittadini vaccinati con seconda dose della smart card di Regione Campania, per l’accesso alla attestazione di effettuata e valida vaccinazione, in formato digitale, e la relativa esibizione, anche in sostituzione della certificazione verde COVID-19 del Ministero della Salute, laddove non ancora rilasciata per problematiche tecniche ”. Con la conseguenza che non è bastato al Presidente De Luca, per esimersi da responsabilità, nemmeno il cosiddetto “scudo erariale”, come introdotto dal governo Conte con l’ art. 21, comma 2 del d.l. n. 76 del 2020 , secondo cui “ la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta “, dal momento che la sua insistenza e pervicacia nel dare seguito alla fornitura di smart card – anche quando queste ormai andavano a giacere inutilizzate nelle singole strutture sanitarie – avrebbe connotato la sua condotta come intenzionale. Amen per i cultori dell’efficienza a tutti i costi. [3] Ultimo ma certamente non meno importante fronte è quello della regolazione giuridica delle conseguenze economiche della pandemia. Dopo il c.d. decreto rilancio ( d.l. n. 34 del 2020 ), che tanti problemi ha provocato introducendo i bonus edilizi all’italiana [4] , e l’avvio del Piano nazionale di ripresa e resilienza – che pure alcune tensioni ordinamentali ha creato nel rapporto tra tutela dei diritti e obiettivi da raggiungere [5] -, ecco che spunta una proposta di legge interpretativa in materia urbanistico-edilizia . In realtà questa proposta nulla avrebbe a che fare con gli “strascichi” della pandemia, se non fosse che nasce dalla necessità di salvare quella città, Milano, che più di ogni altra era stata colpita duramente dalla diffusione del virus e che più di ogni altra, come da tradizione, aveva reagito prontamente e fattivamente alla crisi economica derivata dalle restrizioni adottate per il contenimento della propagazione del contagio. E infatti il disegno di legge è noto ufficiosamente con il nome di “ salva Milano ” [6] . Ma per quale motivo deve essere salvata Milano? Le ragioni sono due, una è più tecnica ed è contenuta espressamente nella proposta di legge, l’altra è più politica e attiene al capitolo di alcune inchieste giudiziarie nate intorno a paventati abusi edilizi. Dal punto di vista normativo, la questione posta al centro della nuova norma da adottare – al momento il disegno di legge è fermo al Senato dopo l’approvazione della Camera – è l’interpretazione del primo comma dell’ articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e del decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 . Tali disposizioni, secondo il disegno di legge in corso di esame, dovrebbero essere interpretate “ nel senso che l'approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione, previa demolizione, di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, che determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti ” (ovvero volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, e altezze superiori a metri 25). E ciò, sempre che non vi sia “ un interesse pubblico concreto e attuale al rispetto dei predetti limiti di altezza, accertato dall'amministrazione competente con provvedimento motivato ”, oppure una previsione espressa di previa adozione di piano attuativo negli strumenti urbanistici. Dal punto di vista politico, l’urgenza del provvedere nasce dalla necessità di favorire un’applicazione retroattiva e riduttiva delle citate norme – ipotizzando che sia davvero in atto quel contrasto giurisprudenziale posto alla base dell’intervento del legislatore –, in modo da depotenziare le indagini della Procura della Repubblica di Milano (e i relativi esiti dibattimentali) sui presunti abusi commessi in città con l’assenso del Comune ad opere edilizie imponenti (edifici oltre i 25 metri di altezza) e del tutto difformi dalle costruzioni preesistenti – grattacieli al posto di fabbricati di uno o due piani, per intenderci -, avviate senza approvazione di piano attuativo e senza il rilascio del prescritto permesso di soggiorno. [7] Amen per l'equilibrio del " carico urbanistico " nelle nostre città? Vedremo. Nel frattempo, resta l’amara sensazione di essere passati sotto le forche caudine della pandemia senza avere eliminato nessuno dei nostri proverbiali (ed endemici) difetti, e avendone forse aggiunti di nuovi. [1] Questo è il link da cui è possibile accedere all'articolo integrale di De Bortoli, dal titolo " Le parole di Ruffini e il premio fiscale ai "fessi" che pagano tutto ": https://www.corriere.it/frammenti-ferruccio-de-bortoli/24_dicembre_13/le-parole-di-ruffini-e-il-premio-fiscale-ai-fessi-che-pagano-tutto-b218e939-26c9-4a13-8964-69e8b8564xlk.shtml [2] E' quanto si è appreso da vari organi di stampa, pur in assenza, allo stato, della disponibilità di un testo ufficiale della sentenza cui si fa riferimento. Vedi sul punto, ad es.: https://www.ansa.it/campania/notizie/2024/12/20/card-anti-covid-la-corte-dei-conti-condanna-de-luca_2550f6c8-5280-4edf-88ae-8cf9c5401064.html [3] Non a caso, il Presidente De Luca ha parlato di "reato di efficienza" [4] Si può trovare un approfondimento sul tema dei bonus in questo sito al seguente link: https://www.primogrado.com/panzerotti-e-boosterine [5] Si veda, a mero titolo di esempio, il contributo apparso al seguente link: https://www.ildirittoamministrativo.it/Pnrr-risvolti-sul-processo-amministrativo-aspetti-problematici/ted903 [6] Si riporta di seguito un link su cui è reperibile il disegno di legge in questione: https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2024/12/dl-interpretazione-autentica-ateria-urbanistica-testo-a-fronte-versioni-commissione-ambiente-leg.19.pdl_.camera.1987_A.19PDL0116030.pdf [7] Per un approfondimento sulle contestazioni penali afferenti ai paventati abusi edilizi commessi recentemente nella città di Milano con la "complicità" dell'amministrazione comunale si rinvia al seguente contributo apparso su questo sito: https://www.primogrado.com/abuso-edilizio-e-interpretazione-della-normativa-vigente-ad-opera-del-comune

(Viaggio in uno scontro tra poteri tipicamente italico) La moderna questione dei migranti evoca tempi antichi e storie che si ripetono. [1] Tecnicamente, la parola migrazione può significare sia emigrazione che immigrazione, ma il suo significato si definisce meglio con riferimento a quei “processi di mobilità internazionale” dei gruppi umani che incidono strutturalmente sulle società dei Paesi di destinazione. Negli ultimi due secoli, l’Europa è passata ad essere da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La chiusura delle frontiere agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, anziché realizzare un sostanziale blocco dell’immigrazione, ha prodotto un’alterazione qualitativa dei movimenti migratori, determinando da un lato l’aumento delle domande di ricongiungimento familiare degli immigrati già presenti sul territorio, delle richieste di asilo e degli ingressi clandestini e irregolari, dall’altro, l’implementazione di programmi di inserimento sociale degli immigrati nelle comunità nazionali. L’ integrazione , intesa come un percorso che coinvolge ogni istante della vita dell’immigrato, è ormai ritenuta una necessità, anche se l’approccio istituzionale varia considerevolmente a seconda di quali siano gli Stati di accoglienza, secondo i due fondamentali modelli assimilazionista e multiculturalista . Tuttavia, il processo di integrazione registra una sensibile quota di insuccessi nei Paesi in cui si accompagna, accanto alla sostanziale preclusione agli immigrati della sfera politica delle società di accoglienza, un difficile accesso alla cittadinanza. Per altri versi, il dispiegamento massiccio delle azioni negative di contrasto dell’immigrazione , mirate non già a un razionale controllo quantitativo e qualitativo dei flussi, quanto al proposito di conseguire un azzeramento tendenziale della mobilità internazionale, costituisce un obiettivo anacronistico e probabilmente non realizzabile, in relazione al fatto che le migrazioni continueranno a rivestire nel tempo un ruolo centrale, coerentemente con tendenze di lungo periodo quali gli squilibri tra il tasso di sviluppo economico e l’andamento demografico nei Paesi c.d. poveri, da un lato, e l’invecchiamento delle popolazioni dei Paesi c.d. ricchi, dall’altro. Di certo, oggi, a fronte di un flusso migratorio scarsamente regolamentato nelle sue “regole di ingaggio” di base, la visione “centralizzata” dell’Unione europea sul concreto esercizio dei diritti di asilo ha creato più di un problema ai singoli Paesi maggiormente esposti alle ondate dei nuovi arrivi, limitandone le capacità operative di “blocco”. Quanto all’Italia, è ormai molto tempo che la questione dei migranti è stata inserita nell'agenda politica dei partiti e dei Governi di turno. E ciò non tanto perché l'afflusso massiccio di cittadini extracomunitari abbia messo per davvero in sistematica crisi la sicurezza del Paese o tolto occasioni di lavoro agli italiani, quanto invece perché la caoticità del fenomeno e l'incapacità delle istituzioni di gestirlo efficacemente ha profondamente turbato la percezione della situazione di "protezione" individuale e collettiva che ciascuno di noi ha in ordine al suo territorio di nascita o di appartenenza. L'effetto più rilevante che ha prodotto questo intenso fenomeno di "spaesamento" delle nostre individualità geografiche e lato sensu nazionalistiche è stato senz'altro il consenso di un elevato numero di elettori a iniziative politiche di forte impatto bloccante o comunque ridimensionante verso i flussi migratori, iniziative che si sono però a volte poste, per essere realmente efficaci e concretamente percepite dalla collettività, in netta tensione con l'ordinamento giuridico vigente, cosi come modellato dalla Carta costituzionale e dal diritto sovranazionale. Corollario principale di questa strategia di contrasto è stato, inevitabilmente, il conflitto con chi regole e norme deve farle rispettare: i giudici. In linea teorica non sbaglia chi ritiene che il principio di separazione dei poteri e di primato della Politica - con la P maiuscola - debbano tendenzialmente impedire alla magistratura di orientare nel merito le scelte del legislatore, ma in concreto l'espansione giuridica e normativa del controllo giudiziario sui cd. diritti umani (ivi compreso il diritto di asilo) - favorita anche dal nostro inserimento “a pieno titolo" nell'Unione europea - prevale ad oggi su qualsivoglia scelta politico-amministrativa che prescinda dal rispetto di tali diritti, anche laddove tale scelta sia fatta per perseguire fini strategicamente corretti (sicurezza e controllo dei confini) e sicuramente graditi a una grande fetta di elettorato. Prendiamo ad esempio di quanto appena detto due vicende di scottante attualità: il rimpatrio dall'Albania dei migranti "distaccati" dai nostri confini di ingresso e la vicenda del sequestro di persona contestato all'ex Ministro dell'Interno Salvini nel caso Open Arms . La “ questione albanese " è in realtà più semplice di quanto possa apparire. Il governo italiano ha stipulato un protocollo con il governo albanese per trasferire su territorio estero fino a 3.000 migranti. Condizione per rendere legale e aderente al protocollo stesso tale trasferimento, è l'adozione di una procedura accelerata per decidere sull'eventuale diritto di asilo del migrante richiedente; condizione per accedere a tale procedura è che il migrante provenga da un Paese sicuro, ai sensi della lett. b-bis, comma 2 dell’art. 28-bis del d.lgs. n. 25/2008 . Orbene, la definizione di “Paese sicuro” - che derivi da atti amministrativi o da disposizioni di legge - deve rispettare, a sua volta, secondo la direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 , alcune essenziali condizioni, tra cui l’ assenza di minacce alla vita ed alla libertà dello straniero per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale e la possibilità di dimostrare che non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’art. 9 della direttiva 2011/95. Secondo il Giudice del Tribunale di Roma che ha applicato tale normativa in sede di convalida del trattenimento di un cittadino egiziano – e la cui decisione tanto scalpore ha destato nell’opinione pubblica più vicina al Governo in carica -, una recente sentenza della Corte di Giustizia interpretativa della suddetta direttiva (le sentenze della CGUE definiscono pacificamente principi direttamente applicabili alle controversie nazionali) avrebbe chiarito che il concetto di Paese sicuro dovrebbe valere per l’intero Stato considerato e non potrebbe essere limitato né a determinate regioni interne allo Stato né a determinate categorie di persone. Di conseguenza, non potendosi considerare del tutto e per tutti sicuro l'Egitto, nessuna procedura accelerata, nessun trattenimento in Albania, e rientro immediato in Italia degli stranieri richiedenti protezione internazionale. Il Governo è subito corso ai ripari emanando un decreto legge ( d.l. n. 158 del 2024 del 23 ottobre 2024 ) in cui ha iscritto di ufficio tra i Paesi sicuri lo stesso Egitto che i giudici avevano ritenuto, alla luce della giurisprudenza eurounitaria, non sicuro; contestualmente, è stato precisato, all’ art. 2-bis, comma 2 del d.lgs. n. 25 del 2008 (che regola, come visto, la materia) che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta anche con l' eccezione di categorie di person e , ma non più, com’era prima, con l'eccezione di parti del territorio. Partita conclusa? Neanche per sogno. L’appartenenza all’ordinamento UE ci impone di disapplicare normative anche primarie (come leggi e decreti leggi), qualora siano in contrasto con le regole eurounitarie direttamente applicabili, e così hanno fatto negli ultimi giorni altri Tribunali. [2] Nel frattempo, il processo Open Arms si avvia al suo epilogo, con i Giudici che devono decidere se condannare o meno per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio il Senatore Salvini: la Procura della Repubblica di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione. [3] Qui la questione giuridica si intreccia ancora di più con le priorità della politica ed è un tantino più complicata. Nell'agosto del 2019, un'imbarcazione battente bandiera straniera e noleggiata da un’associazione non governativa soccorreva diversi migranti che viaggiavano su natanti in distress nelle acque internazionali di competenza SAR libiche e maltesi. Nonostante la nave con a bordo i migranti fosse stata autorizzata, sulla base di un decreto cautelare del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ad entrare in acque territoriali italiane, fino al 20 agosto non le fu consentito lo sbarco nel porto di Lampedusa. All'imputato ex Ministro dell'Interno (e ora Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti) è stato contestato, pertanto, di avere privato della libertà, per alcuni giorni, 107 migranti di varie nazionalità (tra cui minori di età) giunti in prossimità delle coste di Lampedusa, trattenendoli, in violazione di convenzioni internazionali e di norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani, sulla nave che li aveva salvati da un naufragio, e omettendo, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le reiterate richieste di indicare il POS ( place of safety ) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dalla competente autorità marittima di coordinamento, nonostante ciò dovesse essere fatto senza ritardo per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità. Uno dei problemi fondamentali da risolvere per i Giudici, in questo caso, una volta individuato un chiaro obbligo a carico delle Autorità italiane, è se l'indicazione di un POS (luogo di sbarco sicuro) sia da qualificarsi come un atto amministrativo o un atto politico libero nei fini. Qualora si tratti di un atto amministrativo , ovvero di un atto esecutivo di una complessa procedura stabilita a monte, adottato in coerenza con la pari dignità costituzionale delle norme internazionali convenzionali che stabiliscono il principio secondo cui la garanzia di incolumità e di rispetto dei diritti umani dei soggetti soccorsi in mare costituisce un obbligo non derogabile dall’autorità politica, il Ministro non avrebbe dovuto impedire che ai soggetti soccorsi in mare fosse offerto un luogo sicuro in cui avere riparo e in cui avvalersi immediatamente delle facoltà che il diritto internazionale loro consente (come ad esempio, la richiesta e l’ottenimento del diritto di asilo ). Quid iuris ? Non resta che aspettare la decisione finale dei Giudici aditi, perché soltanto a costoro, in un ordinamento democratico, spetta interpretare il dato giuridico decisivo, posto che in Italia il principio di indipendenza da ogni altro potere dei singoli giudici e della Magistratura nel suo complesso è stato sancito espressamente dalla Costituzione agli artt. 101, 104 e 111 . Comunque la si voglia vedere, si tratta, in ogni caso, di due vicende che hanno posto e pongono in grave tensione due poteri dello Stato, e che alimentano ulteriormente un caos istituzionale che deriva da troppi anni di diffidenza e reciproco sospetto, dall'incapacità di qualcuno di restare negli argini del rispetto delle regole e dall'insofferenza di qualche altro verso quelle stesse regole. Di certo, e al di là dei casi di mala giustizia - da punire senza se e senza ma, con il massimo rigore -, non può "tenere" a lungo un sistema in cui a pagare siano sempre gli ultimi, unici non beneficiari di un ombrello del potere troppo ampio, costruito appositamente per ridurre drasticamente le capacità operative della magistratura. Così come appare fin troppo ovvio che la politica non dovrebbe farsi (anche) sulla pelle di alcuni poveri disgraziati che fuggono dai loro Paesi per una vita migliore, sfidando umiliazioni, torture, discriminazioni e infine la morte. Ecco, forse questo non bisognerebbe dimenticarlo mai, quando si disegnano azioni di contrasto all'immigrazione, né bisogna essere talmente arroganti e stupidi da pensare che noi non potremmo mai essere come loro, nelle loro stesse condizioni: i recenti disastri climatici ci consigliano prudenza nel disegnare lo scenario del nostro futuro e dei nostri figli, in un contesto in cui basta un'alluvione per sconvolgere la quotidianità. E se mai dovessimo un giorno raccogliere in uno zaino le poche cose che ci sono rimaste e andare lontano alla ricerca di un nuovo inizio, una cosa che senz'altro ci augureremmo è quella di trovarvi un Giudice indipendente e terzo dinanzi al quale esporre le nostre ragioni umanitarie . [1] In alcuni significativi passaggi contenuti nei volumi della " Storia della civiltà europea " a cura di Umberto Eco sono spiegate molto accuratamente le dinamiche correlate al fenomeno dell'immigrazione, di cui si dà sintetico conto nel presente articolo. Lo stesso Eco faceva una sottile distinzione tra migrazione e immigrazione , affermando che soltanto le prima è paragonabile ai fenomeni naturali, in quanto avviene in misura statisticamente rilevante rispetto al proprio gruppo d’origine: violente o pacifiche che esse siano, le migrazioni avvengono e nessuno le può controllare. [2] Si legga, tra le altre, l'interessante motivazione del Tribunale di Catania, Sezione Immigrazione, del 4 novembre 2024 . [3] Per una ricostruzione più accurata della vicenda giuridica e fattuale da cui è scaturito il processo si veda anche il seguente contributo apparso su questo sito: https://www.primogrado.com/il-caso-open-arms-quando-la-politica-si-fa-processo
*Il riferimento alle riviste ha il solo scopo di segnalazione dei contenuti, e il lavoro dell'autore carattere meramente compilativo
Il Codice del Processo Amministrativo
Giustizia Amministrativa
Diritto e società

La diplomazia onoraria si configura quale istituto peculiare nell’ambito delle relazioni internazionali, assumendo un ruolo di supporto complementare alla diplomazia di carriera e contribuendo significativamente alla rappresentanza, all’assistenza consolare e alla promozione degli interessi strategici di uno Stato all’estero. Essa si colloca in una dimensione ibrida, a metà strada tra la rappresentanza ufficiale e la funzione di collegamento con le realtà locali, risultando di cruciale importanza soprattutto in contesti geopolitici caratterizzati da una presenza consolare frammentata o limitata. La regolamentazione della diplomazia onoraria si inscrive nell’alveo del diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, trovando il proprio fondamento nella Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 , che disciplina con precisione l’assetto normativo e giuridico delle funzioni consolari, attribuendo ai consoli onorari prerogative e immunità significativamente ridotte rispetto ai diplomatici di carriera. Nella sua storicità, continua a rappresentare un ambito molto peculiare e di grande rilievo nel panorama delle relazioni internazionali , posizionandosi tra la diplomazia ufficiale e le esigenze pragmatiche dei rapporti bilaterali fra Stati. Sebbene la disciplina giuridica e normativa di tale istituto risieda principalmente nella Convenzione di Vienna sopra citata, numerosi aspetti sollevano questioni di particolare importanza in termini di legittimità, praticabilità e necessità di aggiornamento normativo. L’istituto della diplomazia onoraria si radica in una lunga tradizione storica che risale a tempi in cui la diplomazia ufficiale era limitata nella sua capacità di proiettarsi oltre i confini nazionali. I consoli onorari, originariamente figura di rappresentanza limitata a funzioni di natura commerciale o amministrativa, si sono evoluti nel tempo in attori con un ruolo che va oltre la mera assistenza ai propri connazionali. La funzione di rappresentanza, che inizialmente era circoscritta a contesti commerciali, ha progressivamente abbracciato anche la diplomazia culturale, il rafforzamento delle relazioni economiche e, negli ultimi decenni, il soft power come strumento di proiezione della politica estera. Storicamente, la diplomazia onoraria è nata come risposta alle esigenze pratiche degli Stati di mantenere una presenza minima ma efficace nei territori esteri, laddove le risorse per inviare diplomatici di carriera o aprire consolati permanenti erano limitate. In un contesto geopolitico di costante mutamento, la figura del console onorario ha quindi cominciato a ricoprire funzioni più ampie, espandendosi verso la tutela degli interessi nazionali e la promozione di iniziative culturali e commerciali. Il fondamento normativo della diplomazia onoraria, come detto, si trova principalmente nella Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, che stabilisce i diritti e i doveri dei consoli e definisce le prerogative dei consoli onorari, e fissa i principi generali che guidano le loro attività, stabilendo una netta distinzione tra costoro e i consoli di carriera. In particolare, l' articolo 71 della Convenzione di Vienna stabilisce che i consoli onorari godono di una limitata immunità rispetto alle funzioni svolte, esclusivamente nelle operazioni ufficiali legate alla funzione consolare, ma non per le attività personali. Ciò implica che i consoli onorari, sebbene godano di una certa protezione diplomatica in caso di conflitti legali derivanti dalle loro funzioni, non sono soggetti agli stessi privilegi e immunità di un diplomatico di carriera. Nonostante le limitazioni, essi sono tutelati nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali e non possono essere arrestati o sottoposti a procedimenti giuridici senza il consenso del Governo che li ha designati, se non in circostanze eccezionali. Tuttavia, il trattamento giuridico dei consoli onorari presenta delle differenze significative da Stato a Stato. La mancanza di un quadro normativo globale vincolante ha dato luogo a una molteplicità di prassi applicative che variano in funzione della legislazione nazionale, creando così disparità e incertezze giuridiche. Mentre alcuni Stati conferiscono ai consoli onorari un ampio ventaglio di prerogative, altri sono più restrittivi e limitano l’estensione delle loro funzioni. Pertanto, il diritto internazionale convenzionale e consuetudinario, pur avendo definito il quadro generale delle relazioni consolari, non ha mai fornito una codifica completa della diplomazia onoraria, lasciando ampio margine di discrezionalità agli Stati nel suo esercizio. Tra le prerogative giuridiche dei consoli onorari rientrano la protezione dei propri connazionali e l’assistenza consolare, ma vi sono in linea generale limitazioni evidenti, come detto, sia nell’immunità giuridica che nell’esenzione da imposte o da altre obbligazioni fiscali, che generalmente non si applicano ai consoli onorari. Inoltre, la possibilità per i consoli onorari di esercitare funzioni ufficiali, come l'emissione di visti o la stipula di trattati, è strettamente limitata dalle leggi dello Stato ospitante e dalla prassi internazionale. Un altro aspetto cruciale riguarda la nomina e l’accreditamento dei consoli onorari . Sebbene gli Stati godano di una piena libertà nella scelta dei propri rappresentanti onorari, tale nomina è soggetta a controllo e approvazione da parte dello Stato ospitante, che può rifiutare la designazione di un console onorario se lo ritiene inadeguato o incompatibile con gli interessi locali. E' pacifico il diritto sovrano degli Stati di stabilire le proprie politiche in materia di rappresentanza diplomatica, a condizione che queste non violino i principi fondamentali del diritto internazionale, come il principio di non ingerenza e la protezione dei diritti dei cittadini. Il concetto di soft power ha trovato una straordinaria applicazione nel contesto della diplomazia onoraria. A differenza dell' hard power , che si basa su strumenti coercitivi come il potere militare o economico, il soft power fa leva su risorse non coercitive, come la cultura, i valori, l’immagine internazionale e la diplomazia pubblica. In questo scenario, i consoli onorari svolgono un ruolo cruciale come ambasciatori della cultura e della politica del loro paese. Essi facilitano la costruzione di reti internazionali di influenze che si traducono in vantaggi economici, culturali e politici per il paese che rappresentano. I consoli onorari, infatti, agiscono come moltiplicatori di relazioni, creando un ambiente favorevole per le esportazioni, per l’attrazione di investimenti stranieri e per la promozione delle relazioni culturali. Il loro ruolo si estende a settori che spaziano dall'arte e dalla scienza, fino alle politiche commerciali ed economiche. In questo contesto, l’attività consolare onoraria diventa un importante strumento per l’esercizio del soft power , in quanto il console onorario non è solo un intermediario, ma spesso un leader di opinione che aiuta a consolidare la proiezione dell’immagine di un paese. Il soft power si esplica in una molteplicità di forme, tra cui: -diplomazia culturale, che si realizza attraverso scambi culturali, mostre, eventi artistici e accademici; -diplomazia economica, che mira alla promozione di investimenti, scambi commerciali e partenariati strategici tra Paesi; -diplomazia scientifica e tecnologica, che promuove la cooperazione internazionale in ambiti di ricerca e sviluppo; -diplomazia pubblica, che coinvolge il rafforzamento della comunicazione tra Paesi e tra cittadini dei vari Stati. In tale contesto, i consoli onorari, pur operando in una posizione non ufficiale, si trovano ad essere attori chiave nel facilitare le relazioni internazionali. Grazie alla loro conoscenza delle realtà locali e alla loro capacità di costruire ponti tra le istituzioni del loro Paese d'origine e quelle del Paese ospitante, i consoli onorari sono tra i principali promotori di politiche di soft diplomacy . Il concetto di soft diplomacy diventa cruciale per i consoli onorari, che, pur non godendo dello status ufficiale di diplomatici di carriera, svolgono una funzione che si inserisce perfettamente in questo ambito. La diplomazia onoraria, infatti, è frequentemente orientata alla promozione pacifica degli interessi nazionali, all'intensificazione delle relazioni bilaterali, e al rafforzamento della proiezione culturale di uno Stato all’estero. I consoli onorari, pur operando in un contesto informale, sono i rappresentanti ideali per la diffusione dei valori e degli interessi del loro Stato, in quanto inseriti nel tessuto sociale ed economico del Paese ospitante. La loro posizione, che li pone tra il mondo istituzionale e quello economico e culturale, consente loro di svolgere un ruolo fondamentale nel migliorare l’immagine e la reputazione del Paese che rappresentano, facendo leva su una serie di strumenti tipici della soft diplomacy , quali, le iniziative culturali, la facilitazione dei legami economici e commerciali, la promozione delle relazioni scientifiche e accademiche. Poiché la soft diplomacy si fonda su una serie di strumenti e approcci che richiedono una gestione sensibile e articolata delle relazioni internazionali, è di cruciale importanza che i consoli onorari siano adeguatamente formati sulle regole basilari che governano questa particolare forma di diplomazia. Alcuni degli aspetti essenziali che i consoli onorari devono padroneggiare includono l'etica della diplomazia culturale, la capacità di comunicazione strategica, la costruzione e il mantenimento di reti solide di alleanze locali e la p romozione di politiche di cooperazione Internazionale Ma ci può essere soft power senza adeguata conoscenza dell’attività di lobbyng ? In effetti, grazie alla loro conoscenza profonda delle dinamiche politiche ed economiche del paese ospitante, i consoli onorari possono svolgere un ruolo decisivo nella promozione degli interessi economici, commerciali e politici del loro paese. Essi, infatti, agiscono da mediatori tra il settore pubblico e privato, facilitando accordi, negoziati e la creazione di politiche favorevoli agli scambi internazionali. Tuttavia, però, l’attività di lobbying non è regolamentata in maniera uniforme a livello internazionale, il che può generare conflitti di interesse e preoccupazioni circa la trasparenza dell’attività dei consoli onorari. In alcuni casi, i consoli onorari possono essere visti come agenti privilegiati di specifici interessi economici, soprattutto quando provengono da settori strategici o da aziende di rilevanza internazionale. La regolamentazione di queste attività, con l'introduzione di norme etiche e di trasparenza , potrebbe contribuire a evitare il rischio di conflitti di interesse, garantendo che le azioni dei consoli onorari siano sempre orientate al bene pubblico. La frammentazione normativa e l’assenza di un corpus giuridico uniforme che regoli la diplomazia onoraria sollevano interrogativi circa la necessità di un approccio più strutturato e coordinato a livello internazionale. Seppur la Convenzione di Vienna del 1963 rimanga il riferimento principale per la regolamentazione delle funzioni consolari, compresa quella onoraria, la realtà delle pratiche internazionali ha evidenziato l’esigenza di un aggiornamento delle norme, in particolare per quanto riguarda le nuove dinamiche del soft power e della diplomazia pubblica. In quest’ottica, la creazione di linee guida internazionali , sotto l'egida di organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea o altri Organismi internazionali, potrebbe rappresentare un passo importante per garantire una maggiore coerenza e uniformità nell’applicazione delle norme riguardanti la diplomazia onoraria. L’introduzione di standard comuni potrebbe contribuire a rafforzare la trasparenza, la responsabilità e l’affidabilità dei consoli onorari, evitando situazioni di opacità che possano minare la loro legittimità. In sintesi, la diplomazia onoraria non può più essere considerata una funzione accessoria, ma deve essere riconosciuta come un elemento fondamentale e complementare alla diplomazia di carriera. La sua importanza cresce in un contesto globale in cui la proiezione di soft power e la promozione di relazioni economiche e culturali sono sempre più determinanti per il successo delle politiche estere degli Stati. L’adozione di un quadro normativo più strutturato a livello internazionale, unitamente a una maggiore regolamentazione delle attività di lobbying e dei public affairs , rappresenta la chiave per rafforzare l’efficacia della diplomazia onoraria e per garantire il rispetto delle norme di buona condotta internazionale. Solo con una normazione adeguata e con una chiara definizione delle sue funzioni, la diplomazia onoraria potrà continuare a contribuire in modo significativo alla costruzione di relazioni internazionali stabili e produttive. Nell'attuale scenario geopolitico globale, caratterizzato da una crescente interconnessione tra Stati, organizzazioni internazionali, enti privati e attori non statali, la capacità di gestire efficacemente le attività di public affairs e di relazioni internazionali istituzionali assume un'importanza strategica fondamentale per il successo delle politiche estere di un paese. Le sfide moderne richiedono non solo competenze diplomatiche tradizionali, ma anche una solida preparazione nella gestione delle relazioni con i diversi attori locali e globali, nell'ambito di un sistema sempre più complesso e multidimensionale. In questo contesto, emerge la necessità di figure professionali altamente qualificate, capaci di interpretare al meglio le dinamiche globali e le specifiche necessità interne degli Stati, integrando i principi di diplomazia tradizionale con le sfide legate al contesto socio-politico ed economico contemporaneo. Le attività di advocacy e lobbying , in particolare, sono centrali nell’interazione con gli altri Stati e con le organizzazioni internazionali, e sono essenziali per la gestione di crisi diplomatiche, l’apertura di nuovi mercati o la promozione di iniziative culturali, politiche e commerciali. In questo contesto, è fondamentale disporre di esperti capaci non solo di rappresentare un Paese nelle sedi internazionali, ma anche di interpretare e mediare tra le esigenze politiche interne e le dinamiche globali. Le figure chiamate a svolgere questa funzione devono essere in grado di analizzare la complessità del contesto, costruire reti di alleanze strategiche e, al contempo, promuovere una visione coerente delle politiche pubbliche estere. La gestione dei public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali richiede competenze specialistiche che vanno oltre la semplice conoscenza della politica internazionale. Le figure coinvolte devono possedere una vasta gamma di abilità, tra cui la negotiation skills , la capacità di analisi geopolitica, e un approccio multidisciplinare che le consenta di interagire con una varietà di interlocutori, tra cui governi, imprese, ONG, enti sovranazionali e la società civile. In particolare, risultano fondamentali la conoscenza approfondita delle dinamiche internazionali e il costante aggiornamento sulle evoluzioni delle relazioni internazionali, sullo scenario geopolitico globale e sulle politiche estere dei Paesi con cui sono chiamati a interagire. D'altra parte, la mediazione diplomatica richiede l'abilità di comprendere le esigenze di tutte le parti coinvolte e di trovare soluzioni che tutelino gli interessi dello Stato, ma anche quelli degli altri attori coinvolti nel processo negoziale. Il fatto poi che le attività di public affairs si svolgano in contesti multiculturali implica la conoscenza delle differenze culturali e la capacità di operare in ambienti diversi, con costruzione di reti di alleanze politiche, economiche e culturali che consente di ampliare l’influenza di un Paese e di promuovere le proprie politiche all'interno di contesti internazionali complessi. La capacità di interpretare il ruolo di mediatore in contesti internazionali è cruciale per il successo della diplomazia moderna. In situazioni di interazione tra Stati, organizzazioni internazionali e altri attori non statali, il professionista di public affairs deve possedere la capacità di conciliare posizioni diverse, trovare punti di incontro e ottenere risultati tangibili attraverso negoziati efficaci. Questo processo richiede una profonda comprensione delle priorità strategiche, politiche ed economiche degli altri attori, così come la capacità di adattare le proprie posizioni in modo flessibile, pur mantenendo la coerenza con gli interessi nazionali. Vista la crescente complessità e l’importanza delle attività di public affairs e delle relazioni internazionali istituzionali, la formazione delle figure professionali che operano in questo campo è cruciale, di modo che università e istituzioni accademiche, così come enti di formazione specializzati, sono chiamati a sviluppare curricula che rispondano alle esigenze di un mondo globale sempre più interconnesso e dinamico, in cui alla preparazione in discipline giuridiche, politiche ed economiche si accompagni anche una solida base culturale.

(Le falle della giustizia sportiva e il cortocircuito mediatico) Partiamo dall’inizio. Jannick Sinner, giocatore di tennis italiano che non ha bisogno di molte presentazioni (è l’attuale n. 1 del mondo) risulta positivo a un controllo antidoping il 10 marzo 2024, durante il Master 1000 di Indian Wells. Il secondo controllo positivo è del 18 marzo, dopo la semifinale persa nello stesso torneo contro Carlos Alcaraz. In entrambi i casi vengono trovati livelli simili di metaboliti di c lostebol , con una concentrazione nelle urine nel primo caso di 86 picogrammi per millilitro, e nel secondo di 76 picogrammi per millilitro: cioè una concentrazione inferiore a 1 miliardesimo di grammo per litro. Per questo tipo di positività un giocatore che viene ritenuto colpevole è solito incorrere in quattro anni di squalifica (così, ad esempio, è accaduto al tennista Stefano Battaglino, anche lui vittima "a sua insaputa" di massaggi al clostebol ). [1] Il 4-5 aprile e il 17-20 aprile sono arrivate le due sospensioni provvisorie di Sinner, a cui Jannik però - avendone diritto - ha fatto appello urgente immediato, rivolgendosi a un c.d. Tribunale indipendente. In entrambi i casi Sinner ha ottenuto la revoca immediata delle due sospensioni e ha potuto continuare a giocare (in attesa di chiarire la sua posizione) per tutti i mesi primaverili ed estivi. La decisione del Giudice sportivo viene depositata il 19 agosto 2024, poco prima degli Us Open (stravinti da Sinner), e assolve il numero 1 del mondo, spiegando che la concentrazione di clostebol trovata nelle sue urine è da definirsi "bassa". Per il collegio decidente, inoltre, Jannik non avrebbe avuto "alcuna colpa o negligenza" nell'assunzione del farmaco. L'assoluzione piena ha consentito a Sinner di evitare squalifiche, fatti salvi la rinuncia a 400 punti in classifica (il punteggio di Indian Wells, torneo durante il quale è stato accertato il doping) e il pagamento di una multa pari a 300 mila euro. Inoltre, dopo il rumore mediatico della vicenda, Sinner ha licenziato sia il preparatore atletico che il fisioterapista del suo team coinvolti. Successivamente, però, la WADA (Agenzia mondiale Antidoping) ha fatto ricorso al CAS (Tribunale arbitrale dello Sport di Losanna) chiedendo una squalifica da uno a due anni ed è notorio come è andata a finire. Sospensione “patteggiata“ per una durata di tre mesi. Fin qui i fatti certi. Veniamo alle domande senza risposta, adesso. Chiediamoci innanzitutto questo: se vostro figlio fosse tornato a casa alle due di notte sbandando e puzzando di cannabis, avreste creduto ad una spiegazione del tipo: “ l’ascensore è stato bloccato due ore e ci avevano appena fumato dentro marijuana ”? Nel caso dell’attuale numero uno del mondo del tennis, il nostro Jannik Sinner, l’Agenzia Internazionale per l’Integrità del Tennis (ITIA), per mezzo del suo c.d. Tribunale indipendente, gli ha creduto, per quanto la spiegazione sulle origini del suo doping “involontario” sembrasse un tantino inverosimile. Concentrando al massimo lo sforzo ricostruttivo – come emerge dalle pagine della pronuncia di primo grado che ha assolto il giocatore [2] -, la sostanza proibita sarebbe entrata nel corpo di Sinner a seguito di una sessione di massaggi del suo fisioterapista, che a sua volta avrebbe contestualmente usato una pomata contenente clostebol per curare una sua personale ferita alla mano. Il medicinale "incriminato" sarebbe stato consegnato al fisioterapista dal preparatore atletico del team di Sinner per uso medico individuale, comprato a suo tempo in una farmacia di Bologna e poi portato negli Stati Uniti. Secondo la decisione del tribunale istituito da ITIA, come detto, al giocatore italiano non sarebbe stata imputabile nessuna colpa o negligenza in relazione alla commissione degli articoli 2.1. e/o 2.2. del TADP (T ennis Anti-doping programme ), che inibiscono l’uso di sostanze considerate dopanti ai giocatori professionisti. Il clostebol sarebbe una di queste, perché si tratta di uno steroide anabolizzante simile al testosterone, che ha il potere di aumentare le prestazioni fisiche. Favorisce infatti l'aumento della massa muscolare e può aiutare a ridurre i tempi necessari ai muscoli per recuperare pienamente dopo un'intensa sessione di allenamento. Di più, permette di ossigenare i muscoli stessi con l’aumento della produzione di globuli rossi e il conseguente miglioramento nell’affrontare sforzi prolungati. E’ tristemente passato alla storia per lo scandalo del “doping di Stato” degli atleti della Germania dell’Est. Ora, questa è la sequenza. Sostanza dopante, tracce minime di questa sostanza nel campione di analisi, spiegazione sulla contaminazione fornita dal team di Sinner. La giustificazione è stata ritenuta ragionevole e provata da un cosiddetto Tribunale indipendente e tanto basta, da un punto di vista della verità “processuale”. Ma sembra un tantino esagerato – in un Paese abituato a mettere in discussione pronunce di ben più autorevoli e indipendenti giuristi – scagliarsi contro chi ha osato criticare prima l’assoluzione e poi il “patteggiamento” a tre soli mesi di sospensione. Se infatti la Giustizia sportiva nell’ultimo periodo probabilmente attraversa la crisi di credibilità più profonda di sempre, il circo mediatico che ne commenta gli atti, che ne critica le gesta, che ne spiega le evoluzioni, è a sua volta crollato in un buco nero che TON 618, il più grosso mai conosciuto, è un pallino da biliardo al confronto. Non fa un buon servizio allo stesso Sinner chi in Italia - ma non nel resto del mondo civilizzato -, da più di una settimana, cerca di far passare la sua spiacevole vicenda come un piccolo incidente di percorso. Una sventura del tutto accidentale, fortuita, che l’atleta di San Candido è stato costretto a subire onde non incappare in una giustizia sbilenca, raffazzonata, beffarda e crudele verso gli eroi . Eppure non parliamo di qualche sparuto gruppo di cronisti di fede altoatesina, ma della quasi totalità della stampa nazionale, sportiva e non. Perbacco. L’Italia, il Paese che notoriamente è spaccato pure su come debba bersi un bicchiere d’acqua in questo caso è stato praticamente unanime nella sentenza di assoluzione “assoluta”. Per coloro che non avessero abitato tra i confini italici negli ultimi decenni potrebbe sembrare tutto abbastanza ordinario, soprattutto se si analizza il caso Sinner con gli occhi di chi, come i nostri cugini d’oltralpe, adora affrontare le sfide giudiziarie, anche internazionali, con lo stile patriottico della grandeur nazionale, senza se e senza ma. Ma, ahinoi, siamo vissuti qui, e sappiamo benissimo che in nessun altro caso è stato cosi. Anzi. Ci viene voglia di raccontare come in altri sport, in altre vicende molto meno definite processualmente e in altri contesti giudiziari sportivi la canea mediatica, sciarpa di calcio al collo , è stata ben più tambureggiante e famelica verso la “ghigliottina giustizialistica”, alla prima avventurosa avvisaglia di agenzia stampa. Ma non lo facciamo perché abbiamo rispetto delle sentenze. E della storia che ne hanno sancito. Ecco, già. Il rispetto delle sentenze. Non siamo più il Paese “ delle sentenze della Giustizia sportiva che si rispettano sempre ”? Motto tanto caro ai vertici istituzionali dello sport italiano. Evidentemente non più. Almeno col tennis. D’altra parte, la WADA, ovvero l’Agenzia mondiale Antidoping istituita per volontà del Comitato Olimpico Internazionale e in parte da esso finanziata, non ha condiviso la ricostruzione giuridica del Tribunale di primo grado, in punto di responsabilità, e aveva inizialmente chiesto la sospensione dall'atleta da uno a due anni. Secondo la WADA, vi sarebbe stata negligenza di Sinner – responsabile anche per il suo team – per avere permesso l’introduzione nel suo corpo della sostanza proibita, tramite la superficialità dei collaboratori da lui stesso scelti, o comunque per l’assenza di adeguati controlli. E allora. O la ricostruzione della difesa di Sinner è stata costruita a tavolino e l’uso della sostanza dopante è stato quindi addirittura premeditato oppure il fisioterapista di Sinner – di certo un professionista non sprovveduto (e in effetti lavorava con il futuro numero uno del mondo del tennis) – avrebbe dimostrato nel caso di specie una pericolosa incompetenza o comunque superficialità, nel mettere a rischio la carriera del più forte giocatore italiano di tutti i tempi con massaggi al clostebol . Con la premessa lunare di essersi servito di un farmaco per uso topico su se stesso (per curare una ferita) senza avere prima verificato di cosa si trattasse e proprio su quella parte del suo corpo (le mani) che più di ogni altra sarebbe venuta a contatto con l’atleta, sulla base del loro rapporto contrattuale. E cosa c’entra poi il preparatore atletico del team? Perché è stato allontanato pure lui da Sinner? In fondo si sarebbe limitato semplicemente a fornire la medicina per uso privato ad altra persona, seppure facente parte dello stesso team sportivo. Tanto non c’entrerebbe nulla, il preparatore atletico, che è ben presto tornato nel circuito tennistico e adesso lavora niente poco di meno che con Matteo Berrettini, tra lo stupore di professionisti del tennis come l’ex numero uno del mondo Djokovic. Non vi sono inoltre notizie su eventuali squalifiche chieste e ottenute per il fisioterapista individuato processualmente come responsabile del “fattaccio”. Come la si gira e rigira, la storia non torna. E sembra più che giustificato il mugugno che proviene da una parte importante del mondo del tennis sulla poca trasparenza di tutta la vicenda, ivi compreso l’accordo finale tra WADA e Sinner sulla sospensione per tre mesi, accordo che, seppure autorizzato da espresse previsioni regolamentari, lascia l’amaro in bocca sia ai supporters che ai detrattori di Sinner, per la banale considerazione che, se uno è colpevole, tre mesi sono una sanzione ridicola, e, se uno non è colpevole, sospenderlo anche un solo giorno è profondamente sbagliato. L’Agenzia mondiale antidoping ha tuttavia spiegato le motivazioni per cui Jannik Sinner ha ricevuto una squalifica per doping molto più breve rispetto, ad esempio, alla sospensione di sei anni inflitta a una pattinatrice spagnola in un caso simile di doping. Secondo i media spagnoli, alla pattinatrice Laura Barquero è stata ingiustamente inflitta una lunga squalifica dopo essere risultata positiva al c lostebol nelle stesse minime quantità rilevate nel caso di Sinner, il quale però, al confronto, ha avuto soltanto tre mesi di stop. Tuttavia, pare che, sebbene entrambi i casi riguardassero la stessa sostanza, i fatti specifici relativi al caso di Barquero erano "molto diversi" da quelli di Sinner. " La differenza fondamentale tra i due casi è che la versione della signora Barquero su come la sostanza è entrata nel suo sistema non era convincente alla luce delle prove, tanto che le circostanze sono rimaste sconosciute per quanto riguarda la Wada; al contrario, nel caso Sinner, le prove hanno chiaramente confermato la spiegazione dell'atleta, come delineato nella decisione di primo grado " (così la WADA). La pattinatrice era risultata positiva al Clostebol per la prima volta durante le Olimpiadi invernali del 2022, poi di nuovo nel gennaio 2023. Tra la Wada e l'atleta spagnola era stato, quindi, stipulato e accettato un "accordo di risoluzione del caso" con una sospensione di sei anni. Se la signora Barquero non fosse stata d'accordo con la sanzione proposta, dunque, nessuno l’avrebbe potuta obbligare a firmare l'accordo di risoluzione del caso e sarebbe stata libera di portare avanti il caso per l'udienza presso il Tribunale di Losanna (così si è difesa ancora la WADA). Di certo, è del tutto fuori luogo insultare, come sta accadendo in Italia da parte di alcuni professionisti della difesa senza se e senza ma del proprio connazionale, chi nella vicenda sente puzza di bruciato, additandolo come “invidioso”, “frustrato” o “clown” [3] . Così come è abbastanza assurdo anche gridare all’ingiustizia della sospensione e poi dire che Sinner ha fatto bene ad accordarsi così si è tolto il pensiero, anche se questo è il tipico ragionamento del qualunquista italico (e ce ne sono tanti a tutti i livelli). Restano sullo sfondo alcune riflessioni sul rapporto tra doping e sport e sulla trasparenza delle decisioni degli organi internazionali deputati a garantire che la competizione ai massimi livelli sia “pulita” oltre ogni ragionevole limite. Non deve esistere neanche l’ombra del doping nello sport e il giocatore ai massimi livelli deve non solo circondarsi di collaboratori adeguati ma anche avvalersi di un risk manager , ovvero di un professionista non coinvolto nella gestione, assistenza e training dell’atleta, pagato per pretendere il rispetto alla lettera delle rigorose procedure da seguire al fine di evitare anche solo la contaminazione involontaria. D’altra parte, si tratta di un rischio del mestiere. E la severità delle regole sul doping – tali da connotare quasi come oggettiva la responsabilità dell’atleta e da valorizzare anche il ritrovamento nel corpo di tracce assolutamente minime di sostanze vietate, come nel caso di Sinner - non può essere messa seriamente in discussione, da un lato perché tutti gli altri giocatori devono poter confidare sul fatto che i loro avversari non sono dopati, e dall’altro perché è impossibile controllare tutti i giorni tutti gli atleti professionisti, ivi compresi i campioni. Senza arrivare alla drasticità di Michael Phelps – ex nuotatore con alle spalle un palmarès di 23 medaglie d’oro vinte alle Olimpiadi – secondo cui “ se vieni trovato positivo, poi, non devi più gareggiare ”, sarebbe stato interessante e giusto, anche per il protagonista, assistere a un vero processo sull’affare Sinner, e non a questo fluire di decisioni in parte discutibili e in parte opache. E non sembra niente affatto sconclusionato, con buona pace dei nostri opinionisti “schieratissimi”, il manifesto che ha pubblicato in risposta all’accordo tra Sinner e la WADA la Professional Tennis Players Association , ovvero l’associazione autonoma di giocatori fondata da Novak Djokovic, manifesto di cui si riportano un paio di significativi stralci: “ (…) Il "sistema" non è un sistema, è un club. (…) Non sono solo le differenti decisioni per i differenti giocatori. È la mancanza di trasparenza. La mancanza di un processo. La mancanza di una coerenza. La mancanza di credibilità delle agenzie governative incaricate della regolamentazione del nostro sport e degli atleti. La mancanza di impegno da parte dell'Atp, Wta, Grande Slam, ITIA e Wada nel riformare e creare un giusto e trasparente sistema nel futuro ”. Sullo sfondo, ma neanche tanto, il sospetto di accordi su misura mascherati da decisioni case by case che producono trattamenti ingiusti e sentenze incoerenti. Una deriva che sposta pericolosamente anche nello sport l’ago della bilancia dal rigore della giustizia e del merito all’opacità della politica e del favoritismo nei confronti del più forte o potente di turno. [1] Per una sintesi della vicenda occorsa a Battaglino si rinvia al seguente link: https://www.repubblica.it/sport/tennis/2024/09/19/news/stefano_battaglino_squalifica_clostebol_sinner-423508955/ Quanto alla sanzione normalmente comminata per casi simili a quello di Sinner, si rinvia all'interessante analisi di un esperto apparsa sulla pagina: https://www.tuttosport.com/news/tennis/2024/08/21-131726288/_caso_sinner_puzza_di_bruciato_i_sospetti_dell_esperto_di_doping_e_la_wada_ [2] Cliccare qui per scaricare la sentenza [3] A mero titolo di esempio, si cita l'articolo apparso sul seguente link: Corriere.it Sinner squalificato, perché la Wada (che è l'Onu dell'antidoping) ha giudicato colpevole un imputato innocente
Sistema giustizia

[NDR: la dott.ssa Papaccio, che ha già collaborato con questo sito quando svolgeva l'attività di tirocinio presso il Tribunale amministrativo regionale, è in procinto di assumere adesso le funzioni di MOT presso la Corte di appello di Napoli, dopo avere superato brillantemente le prove (e per ben due volte gli scritti) del concorso in magistratura ordinaria] PREMESSA La riforma Cartabia ha introdotto nel corpo del codice di procedura civile un istituto inedito nel nostro ordinamento, ossia il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione, per la risoluzione di una questione di diritto nuova e controversa, prima della decisione del giudice del merito . Fino alla recente modifica, invero, la Suprema Corte quale giudice di legittimità interveniva sulle questioni di diritto, al fine di enunciare il principio da applicare da parte del giudice del merito al caso concreto, solo in via successiva in sede di impugnazione, avverso una pronuncia in grado unico o di appello, censurata dal ricorrente sulla base dei motivi tassativi di cui all’ art 360 c.p.c. . In disparte la ipotesi del regolamento preventivo di giurisdizione, in tutti gli altri casi, la Corte di cassazione si è sempre pronunciata su un provvedimento già adottato da parte del giudice del merito, in funzione di giudizio di pura legittimità ed in veste nomofilattica, come previsto dalla legge sull’ordinamento giudiziario. L’ art 65 del Regio decreto numero 12 del 1941 , in proposito, statuisce che la Corte di cassazione “ assicura l’esatta osservanza e la uniforme interpretazione ed applicazione della legge, garantisce la unità del diritto oggettivo, vigila sul rispetto dei limiti delle giurisdizioni e regola i conflitti di competenza ”, così indentificando i tratti caratteristici del giudice di legittimità, garante della corretta applicazione del diritto oggettivo e della uniformità della sua applicazione nell’ordinamento da parte dei giudici di merito. In tale ottica dispone anche l’ art 111 Costituzione , che proietta il singolo giudizio di legittimità verso una funzione più ampia della risoluzione del caso concreto in punto di diritto, e più precisamente nella dimensione di un processo avente come scopo l’unità del sistema giuridico e la osservanza della legge. In analoga ottica nomofilattica si inscrive anche la norma di recente introduzione di cui all’ art 363 bis c.p.c. , significativamente collocata subito dopo l’ articolo 363 c.p.c. che disciplina le ipotesi in cui, su richiesta del Procuratore generale, o di ufficio, viene enunciato il principio di diritto nell’interesse della legge. L’inedito istituto del rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione accentua la funzione di cui all’art 65 della legge sull’ordinamento giudiziario, e precisamente ciò si realizza mediante la sottoposizione della questione giuridica controversa alla Suprema Corte, prima che il giudice del merito si pronunci, al fine di fornire allo stesso il principio di diritto da applicare, vincolante nel caso in esame. Lo scopo dell’istituto è quello di fornire al giudice del merito, in via anticipata rispetto alla decisione, la corretta interpretazione della legge da applicare al caso concreto, su una questione di diritto nuova e controversa. In tal modo si consente di realizzare, da un lato, un risparmio di energie processuali , e dall’altro di potenziare la funzione nomofilattica, fornendo ex ante al giudice a quo una pronuncia della Corte di cassazione, che dirima una controversia, in punto di diritto, suscettibile di dar luogo a orientamenti differenti e non uniformi davanti a più giudici di merito. Infatti i presupposti e requisiti, per la attivazione della richiesta alla Suprema Corte, sono: 1-che la questione, “esclusivamente di diritto ”, sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio, ponendosi come passaggio logico indispensabile da compiere per addivenire alla decisione. 2-che la stessa non sia ancora stata risolta dalla Corte di cassazione, ovvero che sia inedita perché non si è ancora posta all’attenzione del giudice di legittimità. 3-che la questione presenti gravi difficoltà interpretative , richiedendo un impegno ermeneutico apprezzabile , per individuare la soluzione adeguata al caso concreto tra una pluralità di potenziali interpretazioni. 4-la serialità , ossia la circostanza che la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi, non predeterminati a priori e appunto molteplici. Ciò significa che, se non risolta una tantum in sede di rinvio pregiudiziale, la medesima questione potrebbe riproporsi davanti a giudici diversi, producendo una proliferazione di differenti interpretazioni e - come il delta di un fiume - moltiplicando le decisioni a scapito della armonia e uniformità tra i decisioni. La norma appena descritta, che ha già trovato applicazioni nel processo civile, sebbene in un numero limitato di casi, ha consentito alla Suprema Corte di risolvere questioni interpretative, prevenendo contrasti giurisprudenziali in materie che presentano oggettive difficoltà ermeneutiche, ovvero riguardanti questioni inedite. LA NORMA E LE SUE APPLICAZIONI “EXTRA VAGANTI” La disposizione sembrava posta per rimanere circoscritta al processo civile , considerata la sua funzione endoprocessuale e dunque focalizzata sulla risoluzione di questioni suscettibili di concretizzarsi, se non preventivamente risolte, in una impugnativa afferente al vizio ex art 360 numero 3), ovvero cd. error in iudicando . Tuttavia si è già riscontrata la prima richiesta di “esportazione” dell’istituto al processo tributario , con l’ordinanza di rinvio della Corte di Giustizia tributaria di Agrigento, che ha dato origine alle recenti Sezioni Unite del dicembre 2023. Con tale rinvio è stata sottoposta alla Suprema Corte una questione di giurisdizione, cui era sotteso il controverso inquadramento della fattispecie sostanziale oggetto di lite: in una controversia inerente al diniego di contributo a fondo perduto ex d.l. 34 del 2020, ha assunto carattere pregiudiziale ai fini della determinazione della giurisdizione, l’esatto inquadramento della natura giuridica della posizione soggettiva sottesa. Le Sezioni Unite – con sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851 -, in tale occasione, hanno ritenuto utilizzabile il nuovo strumento ermeneutico anche da parte del giudice tributario, rilevando che “ è proprio la funzione nomofilattico-deflattiva assegnata al rinvio pregiudiziale ad avvalorarne … l’utilità .. in una materia come quella tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti. ” La stessa relazione di accompagnamento alla riforma, osservano le Sezioni Unite, menziona la esigenza, particolarmente avvertita in materia tributaria, di « rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge, quale strumento di diretta attuazione dell’art. 3 della Costituzione, prevedibilità delle decisioni e deflazione del contenzioso ». Aggiunge la Suprema Corte che « una interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali ». Una volta ammessa - con la pronuncia del 2023 - la esportazione dell’istituto al di fuori dei confini del processo civile, il TAR Liguria, con la ordinanza del 28 febbraio 2025, n. 230 ha attivato per la prima volta il rinvio nel giudizio amministrativo . Anche in questa fattispecie il rinvio è stato operato al fine di risolvere una questione di giurisdizione. Il ricorso è originato dall’impugnativa degli atti di una procedura concorsuale per il conferimento dell’incarico quinquennale di Direzione della Struttura Complessa “Chirurgia Generale ad Alta Complessità” - disciplina di Chirurgia Generale - Area di Chirurgia e delle Specialità Chirurgiche, dell’Azienda Sociosanitaria Ligure 5. Si tratta di procedure di conferimento di incarichi direttivi di strutture caratterizzate da maggiore autonomia nella gestione, in base a quanto previsto dall’atto organizzativo adottato dalla ASL ( cfr. ex art 15, comma 6, del d.lgs. 502/1992 ). Sul conferimento di tali incarichi dirigenziali è divenuta controversa la giurisdizione , a seguito di una recente modifica normativa, che ha riformato l’art. 15, comma 7 bis del d.lgs 502/92, sostituito dall’ art. 20, comma 1, l. 5 agosto 2022 n. 118 . Per effetto della richiamata novella legislativa, l’art 15 sopra citato ora prevede una maggiore procedimentalizzazione della procedura di scelta del dirigente. Precedentemente, infatti, la procedura era basata su un’analisi comparativa dei titoli, posseduti dai candidati “ai fini della predisposizione di una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attributi”; poi si passava alla “individuazione da parte del direttore generale, del candidato da nominare, tra i due che avessero ottenuto il punteggio più elevato”. In tale contesto la giurisdizione ordinaria era fondata – cfr. ex multis Cass., SU, n. 13491/2021- sulle stesse modalità della selezione, articolate in “uno schema che non prevede lo svolgimento di prove selettive, con la formazione di graduatoria finale e l’individuazione del candidato vincitore, ma soltanto la scelta, di carattere essenzialmente fiduciario”. Di qui, in applicazione dell’ art 63 del TU del pubblico impiego , le controversie si ritenevano devolute al giudice ordinario, escludendo la natura concorsuale della procedura e ritenendo la stessa integrata da atti adottati con i poteri del privato datore di lavoro. Infatti è pacifico ormai che , in tema di impiego pubblico privatizzato, il g.a. mantiene una riserva ex art 63 del TU pubblico impiego, solo per le procedure concorsuali finalizzate alla assunzione, o anche alla progressione in un’area o fascia superiore quella di appartenenza. Per contro, il conferimento di un incarico dirigenziale , ivi compresa la dirigenza sanitaria, non costituisce un concorso avendo come destinatari personale già in servizio ed in possesso della relativa qualifica, e rappresentando una scelta tra curricula e non una valutazione comparativa. Con la recente modifica normativa, gli incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa sono ora attribuiti sulla base dell’ analisi comparativa dei curricula e dei titoli professionali posseduti dai candidati “secondo criteri prefissati preventivamente”, in modo tale da far prescegliere il candidato con il punteggio migliore. Le interpretazioni di queste novità procedurali, in giurisprudenza, hanno dato origine a due opposte soluzioni in punto di giurisdizione. Secondo un primo orientamento sussiste tuttora la giurisdizione del giudice ordinario, anche dopo la modifica normativa. Infatti la procedura attiene al “conferimento degli incarichi di direzione” , le cui controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario per espressa previsione ex art. 63, comma 1, del d.lgs n. 165/01 ( come ha già affermato ex multis Cass., SU, nn. 13491/2021) e le modifiche del 2022 nulla mutano in ordine alla natura dell’incarico, essendo la procedura selettiva finalizzata all’attribuzione di un incarico dirigenziale e non avendo natura concorsuale. La giurisdizione del giudice amministrativo è per contro configurabile solo nelle ipotesi di concorsi finalizzati alla “assunzione” del dipendente, mentre l’incarico di direttore di struttura complessa è conferibile a chi sia già stato assunto nel ruolo della dirigenza medica mediante concorso pubblico ai sensi dell’art. 15, comma 7, primo periodo del d.lgs n. 502/92 e s.m.i.. In tali termini la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che “ la riserva stabilita in favore del giudice amministrativo concerne soltanto le procedure concorsuali strumentali all’assunzione o alla progressione in un’area o fascia superiore a quella di appartenenza, laddove gli atti di conferimento d’incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali ed hanno come destinatari persone già in servizio nonché in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro ” (Cass., SU, nn. 13491/2021). In sintesi, secondo tale tesi, la novella legislativa, pur incrementando la procedimentalizzazione della selezione, nulla innoverebbe sul riparto di giurisdizione. (Consiglio di Stato sezione III, 4 giugno 2024, n. 5017; C. S. III, 19 luglio 2024, n. 6534). Secondo un secondo orientamento , più recente, del Consiglio di Stato, tali controversie sarebbero attratte alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, per effetto della riforma, sarebbe venuto meno il carattere fiduciario del conferimento dell’incarico e la procedura sarebbe ora inscritta nel modello concorsuale. Ciò si desumerebbe dal fatto che la selezione non è limitata ai medici in servizio presso l’Asl interessata, ma “aperta e pubblica” e quindi assume i connotati di una procedura per l’immissione in servizio di un sanitario, in posto qualificato: la stessa sarebbe finalizzata all’assunzione del sanitario sub specie di “progressione in un'area o fascia superiore a quella di appartenenza” ovvero all’acquisizione di uno “status” professionale più elevato (Consiglio di Stato sentenza 18 ottobre 2024 n. 8344). In ordine alla questione così inquadrata, il TAR Liguria ha ravvisato la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art 363 bis c.p.c., ovvero la natura esclusivamente di diritto del quesito, la possibilità che la questione si ponga in molteplici giudizi, come dimostra la giurisprudenza in materia, la novità della questione e il contrasto giurisprudenziale ancora irrisolto, sia in seno alla giurisprudenza amministrativa sia da parte della Suprema Corte in sede di regolamento della giurisdizione. Trattandosi di una questione che indubbiamente condiziona la risoluzione della controversia, in particolare in quanto la scelta tra le diverse opzioni ermeneutiche viene a riflettersi sulla sussistenza in radice della potestas decidendi del g.a., il Collegio, ha operato il rinvio di interpretazione alla Corte di cassazione, rilevando che occorre in limine risolvere una questione da cui dipende la sussistenza della propria giurisdizione. OSSERVAZIONI FINALI La circostanza centrale nel caso in esame è proprio inerente alla utilizzabilità dello strumento del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo , e quindi alla possibilità, anche in tali casi, di sua esportazione al di fuori del contesto del codice di procedura civile. Quanto alla possibilità di operare il rinvio ex art 363 bis c.p.c. da parte dei giudici speciali , occorre rifarsi alla sopra richiamata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che ha risolto il problema favorevolmente, rispetto al rinvio operato dal giudice tributario ( SSUU sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851). Nell’ottica della estensibilità dell’istituto anche al processo amministrativo, il Tar Liguria rileva come la questione che intende sottoporre alla Cassazione sia relativa alla giurisdizione sulla controversia, la quale ex art. 111, comma 7 Cost. e art. 110 c.p.a. è scrutinabile dalla Suprema Corte, quale organo regolatore della giurisdizione, anche rispetto alle decisioni dei giudici speciali. Ancora, argomenta il TAR Liguria come il rinvio esterno contenuto nell’ art. 39 comma 1, c.p.a. – secondo cui “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”- consenta l’opzione ermeneutica prescelta. In ciò giova richiamare la similitudine con il processo tributario, ove è presente analogo rinvio esterno al codice di procedura civile, e precisamente all’ art. 1, comma 2, d.lgs. 546/92, norma che è stata adoperata per ritenere consentito il rinvio pregiudiziale da parte del giudice tributario, come affermato dalla Cassazione nel precedente sopra citato ( SSUU sentenza del 13 dicembre 2023 n. 34851). La circostanza che il Tribunale amministrativo regionale appartenga a una giurisdizione speciale non sarebbe ostativa ex se alla facoltà per i giudici amministrativi di sollevare rinvio pregiudiziale ex art 363 bis c.p.c., atteso che il rinvio è operato proprio ai fini della determinazione della giurisdizione, ambito in cui “la Cassazione costituisce l’organo di vertice, con il compito di assicurare l'esatta osservanza, l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo”. Inoltre tale istituto - “ essendo volto a sollecitare un responso anticipato della Corte in ordine ad una questione di diritto, non ancora risolta dalla giurisprudenza di legittimità ed avente carattere seriale, che presenti gravi difficoltà interpretative ed appaia rilevante ai fini della decisione della controversia ” - sembra specialmente adeguato laddove la questione di giurisdizione sottenda una delicata e complessa questione di diritto afferente l’inquadramento sistematico dell’istituto di diritto sostanziale su cui si fonda l’attribuzione della giurisdizione. A favore della possibilità di applicare l’istituto anche al processo amministrativo, va rilevato l’inquadramento dato allo stesso dalle Sezioni Unite nella richiamata pronuncia 34851/2023, e precisamente le rilevanti differenze che “lo strumento ex art 363 bis c.p.c. presenta” rispetto al regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto opera ad iniziativa del giudice, che può utilizzarlo non solo nel giudizio primo grado ma anche in quello di appello. In tal sede è significativa la definizione del rinvio pregiudiziale quale “strumento complementare” di definizione delle questioni di giurisdizione, rispetto a quelli già disciplinati dal c.p.c., il regolamento preventivo ad istanza di parte ex art 41 c.p.c. , e il regolamento di ufficio che è solo successivo. Questo inquadramento consente quindi di dare maggiore spazio ad un rinvio pregiudiziale anche in un’ottica di definizione della giurisdizione, proprio per evitare un inutile dispendio di energie processuali, deflazionando il contenzioso, mediante la enunciazione di un principio suscettibile di essere applicato in controversie seriali. Tuttavia le apprezzabili ragioni favorevoli alla ammissibilità dell’istituto vanno confrontate con le possibili obiezioni, specifiche per il processo amministrativo, che non sembrano essere state ancora vagliate nella fattispecie già esaminata dalla Cassazione, relativa al processo tributario. Può osservarsi che il rapporto tra giudice amministrativo e Corte di cassazione è delineato all’art 111 Costituzione , secondo cui le decisioni del Consiglio di Stato sono sindacabili dalla Suprema Corte solo per “motivi di giurisdizione”, con esclusione dei vizi costituenti errores in procedendo o in iudicando compiuti dal giudice speciale. Di qui occorre porre una particolare cautela alla estensibilità dell’istituto al processo amministrativo, onde evitare che venga piegato ad un surrettizio ampliamento delle cosiddette questioni di giurisdizione conoscibili dalla Cassazione. Il riferimento è alle posizioni espresse dalla Corte costituzionale, in riguardo alla diversa problematica del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale, che focalizzano la necessità di intendere in senso stretto le questioni di giurisdizione (Corte costituzionale n. 6 del 2018), preservando una autonomia di decisione e procedura del giudice speciale. In tal sede la Consulta ha quindi ridimensionato un'eccessiva dilatazione del concetto di eccesso di potere giurisdizionale , che avrebbe consentito un sindacato sugli errores in iudicando o in procedendo , con una torsione del vizio di cui all’art 360 numero 1 c.p.c. inerente ai motivi di giurisdizione. Nel caso del rinvio pregiudiziale per motivi di giurisdizione questa torsione sembra escludersi, dal momento che la Corte di cassazione è chiamata ad una sorta di actio finium regundorum , che ha lo stesso contenuto del sindacato svolto in sede di regolamento di giurisdizione, o ex post in sede di ricorso per motivi di giurisdizione; può dunque condividersi la tesi per cui l’istituto si pone in linea con l’esigenza del giusto processo , in quanto finalizzato ad ottenere pronunce orientate a garantire la certezza e prevedibilità del diritto. In ultima analisi va condivisa l’osservazione secondo cui il rinvio pregiudiziale, più che destabilizzare le garanzie di autonomia riconosciute ad ogni giudice dall’ art 101, secondo comma Costituzione , rappresenta un’opportunità in più offerta al giudice di merito per rivolgersi alla Corte regolatrice della giurisdizione. Non sembra di ostacolo la osservazione, formulata da una parte della dottrina, secondo cui il rinvio pregiudiziale, anche se limitato ai fini di una questione di giurisdizione, troverebbe una barriera nella circostanza che in tale questione i profili di diritto sono inscindibilmente connessi a quelli di fatto . Al riguardo la Suprema Corte, nella citata sentenza concernente il Giudice tributario, ha osservato che tale inscindibilità contraddistingue tutte le questioni di carattere processuale, ove la Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto. In ogni caso, in tali questioni è ben possibile distinguere l’aspetto riguardante la interpretazione della norma giuridica astrattamente applicabile, dalla ricostruzione della concreta vicenda processuale, che rimane “ affidata al giudice di merito, sia in via preventiva , ai fini della motivazione in ordine alla rilevanza della questione, che in via successiva, ai fini della applicazione del principio di diritto enunciato da questa Corte ”. In altri termini si è rilevato che, fermo che i profili fattuali sono riservati in via esclusiva al giudice di merito, a quello di legittimità può demandarsi il profilo giuridico consistente non già nell’individuare il giudice a cui spetta la giurisdizione, ma nella “interpretazione delle norme sostanziali e processuali dalle quali dipende il riparto di giurisdizione”(cfr. sempre Cassazione, Sezioni Unite numero 34851/2023). Vale sottolineare che in ogni caso la Suprema Corte ha già chiarito nella citata sentenza che la sua pronuncia non sarà mai nel senso di statuire in via diretta a chi spetti la giurisdizione, bensì di qualificare la posizione giuridica sottesa alla questione di giurisdizione , rimanendo nel campo del giudice del merito il compito di trarne le conseguenze, benché entro il vincolo del principio di diritto. In attesa di conoscere la decisione della Suprema Corte in ordine all’estensibilità del rinvio sollevato al processo amministrativo, si rileva come l'ordinanza del giudice di primo grado , nel solco della giurisprudenza di altri giudici speciali, abbia colto la possibilità, offerta dal codice di rito in virtù del rinvio esterno, di dialogo anticipato con la Corte regolatrice della giurisdizione. In tal modo, il giudice amministrativo contribuirebbe a realizzare lo scopo della norma di recente introduzione, ossia una previa risoluzione di questioni di diritto rispetto alla decisione di merito, nell’ottica di economia processuale, ragionevole durata del processo e dell’armonia tra decisioni di diversi giudizi, al fine di assicurare l’uniformità del diritto oggettivo.

Ci sono alcuni curiosi e interessanti cortocircuiti su istituti giuridici importanti (processuali e non) tra Giudici di primo grado e Giudici di secondo grado della magistratura amministrativa, che a intervalli più o meno regolari ritornano a galla. Un conflitto attuale di portata fortemente impattante sulle prossime generazioni di giovani avvocati – di coloro cioè che si accingono a partecipare (per possibilmente superarle) alle prove dell’esame di abilitazione – nasce dalle norme che disciplinano lo specifico tema nell’ambito della professione forense . La disciplina in materia, prima di essere novellata con la L. n. 247 del 2012, era dettata dal r.d.l. n. 1578 del 1933 , come modificato e integrato nel 2003. In linea generale, l’art. 22, comma 9, del r.d.l. n. 1578/1933 attribuisce alla Commissione centrale istituita presso il Ministero della Giustizia il potere di fissare i criteri di giudizio delle prove scritte, mentre l’art. 17-bis, r.d. n. 37 del 1934 prevede che le stesse consistano in tre elaborati, per la valutazione dei quali ognuno dei cinque componenti delle commissioni dispone di dieci punti di merito. La commissione assegna il punteggio a ciascuno dei tre lavori, con annotazione immediata del voto deliberato in calce all’elaborato. Con la nuova disciplina introdotta dalla L. n. 247 del 2012 , il legislatore ha riformato in toto l’ordinamento della professione forense, novellando anche la disciplina dell’esame di abilitazione. L’ art. 46, comma 5 , della legge del 2012 pone in capo alla commissione uno specifico onere motivazionale , innovando in tal senso il precedente assetto normativo e stabilendo che la commissione medesima annoti “ le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti ”. Tuttavia, l’applicabilità della nuova disciplina, ivi compreso, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, il disposto rafforzamento dell’obbligo motivazionale, è stata differita dal successivo art. 49 fino al corrente anno. Nelle more, il Legislatore, oltre ad avere rinviato anno dopo anno l’applicabilità delle nuove modalità d’esame, ha introdotto disposizioni ad hoc per lo svolgimento delle differenti sessioni annuali, ma il problema della consistenza da dare alla motivazione è rimasto e anzi si è aggravato. E’ sufficiente o meno il voto numerico nei giudizi espressi dalla commissione esaminatrice? Il tema è stato vagliato negli anni sia dalla giurisprudenza amministrativa che da quella costituzionale. Il Giudice delle leggi, in un primo tempo, con la sentenza n. 28/2006 , ha dichiarato inammissibili le questioni di illegittimità delle norme del vecchio ordinamento forense, nella parte in cui avrebbero consentito la formulazione di una motivazione solo numerica per l’attribuzione del voto alle prove di esame per l’abilitazione alla professione forense. La Corte ha ritenuto che all’epoca la giurisprudenza amministrativa fornisse un panorama articolato di possibili soluzioni interpretative (tra cui anche la tesi dell’apprezzabilità caso per caso della sufficienza e idoneità del punteggio numerico), e che dunque non sarebbe stato corretto, da parte sua, dare l’avallo “a favore di una determinata interpretazione della norma”. Pochi anni dopo, con la sentenza n. 20/2009 , la Corte costituzionale ha preso atto dell’evoluzione della giurisprudenza amministrativa ed ha riconosciuto che la tesi della sufficienza del voto solo numerico si era consolidata, costituendo ormai un vero e proprio “diritto vivente”. La questione, pur ritenuta ammissibile, venne però respinta nel merito, in quanto i parametri di costituzionalità denunciati afferivano all’aspetto processuale della tutela, non preclusa di per sé dalla ritenuta sufficienza del voto numerico. Successivamente, la Consulta ha anche precisato che dall’art. 17-bis, comma 2, del r.d. n. 37 del 1934, coordinato con i successivi artt. 23, comma quinto, e 24, primo comma, sarebbe emerso che “il criterio prescelto dal legislatore” per la valutazione delle prove scritte nell'esame di avvocato era in ogni caso quello del punteggio numerico, costituente la modalità di formulazione del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su ciascuna prova, e che sarebbe bastata ai fini della legittimità e della congruità della valutazione espressa la mera graduazione del dato numerico stesso. In un passaggio importante, però, la Corte ha altresì evidenziato che la ritenuta adeguatezza motivazionale del solo punteggio numerico risponderebbe alle esigenze di buon andamento dell'azione amministrativa di cui all’ art. 97, primo comma, della Costituzione , le quali rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni che hanno condotto ad un giudizio di non idoneità, avuto riguardo sia ai tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia al numero dei partecipanti alle prove. In altri termini, i criteri di economicità e di efficacia che regolano il procedimento amministrativo in genere giustificherebbero in questo caso la scelta del modulo valutativo adottato dal legislatore. Quando però è sopravvenuta la legge 2012 n. 247, che, come visto, ha imposto l’apposizione di osservazioni positive o negative nei vari punti dell’elaborato a motivazione del voto, è stato subito evidente che il Legislatore aveva adottato un’impostazione innovativa rispetto a quella salvaguardata dalla Corte costituzionale, imponendo un obbligo motivazionale ulteriore rispetto al solo voto numerico. Di tale innovazione non ha evidentemente preso atto l’ Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sent. n. 7 del 2017 ), la quale, nelle more dell’entrata in vigore della nuova disciplina, ha ribadito l’inapplicabilità dell’art. 46, comma 5, della l. n. 247/2012, a fronte di una disposizione che ne differisce l’applicazione, con scelta, quella del differimento, ritenuta non irragionevole perché non producente effetti distorsivi sul piano della tutela. E’ stata così ancora una volta confermata la capacità e l’idoneità del voto numerico, attribuito in base a criteri predeterminati, ad esprimere e sintetizzare il giudizio tecnico-discrezionale della commissione senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, atteso che il voto medesimo garantirebbe la trasparenza del giudizio. Sono trascorse le stagioni, e con esse le alterne vicende dell’esame di avvocato (la cui struttura ha ovviamente risentito anche degli effetti della pandemia), fino a quando la sessione dell’anno 2023 , disciplinata da una norma ad hoc ( art. 4-quater del d.l. n. 51 del 2023 ), ha addirittura previsto lo svolgimento di una sola prova scritta (oltre ad un esame orale in caso di superamento della prima), per la cui valutazione ognuno dei tre componenti della sottocommissione avrebbe avuto a disposizione dieci punti di merito, senza ovviamente specificare alcun particolare onere motivazionale in capo agli esaminatori. E’ stato lecito a questo punto chiedersi – e così hanno cominciato a fare alcuni Tribunali, sulla spinta dei ricorsi giurisdizionali proposti dai candidati “bocciati” con un semplice numerino – se la particolare situazione di fatto su cui si era basata la Corte costituzionale nel ritenere sufficiente la motivazione meramente numerica sia adesso cambiata. Tanto per dirne una, la contrazione nel tempo del numero dei candidati e delle prove da correggere ha determinato il necessario contenimento dei tempi di correzione. Ad esempio, proprio nella sessione dell’anno 2023 hanno partecipato un numero di candidati molto minore rispetto alle precedenti (9.703 aspiranti avvocati a fronte di 27.451 partecipanti alla sessione del 2016, a cui si riferiva la decisione assunta dall’Adunanza Plenaria nel 2017), e questi stessi candidati hanno dovuto redigere un solo elaborato scritto, a fronte delle tre prove previste dalle sessioni svoltesi sino al 2019. E’ dunque ancora possibile sostenere, nell’attuale contesto, che la finalità di garantire il buon andamento dell’azione amministrativa renda inesigibile la formulazione da parte della Commissione di una motivazione ulteriore rispetto al solo punteggio ? Altra domanda che è lecito porsi è se la scelta operata dal Legislatore con l’art. 46 della legge n. 47 del 2012 (c.d. motivazione rafforzata), pur non sostanziandosi attualmente nell’obbligo di apposizione di specifiche annotazioni – in conseguenza del reiterato rinvio sull’applicabilità di tale norma – abbia comunque un valore precettivo “indiretto”, orientando le commissioni ad apporre quanto meno dei segni grafici idonei a palesare le parti dell’elaborato ritenute insufficienti o particolarmente meritevoli in relazione ai criteri valutativi dettati dalla normativa di riferimento per ciascuna sessione. Una diversa interpretazione potrebbe invero porre un problema di irragionevolezza della disciplina legislativa che ha imposto il differimento delle nuove norme, anno dopo anno, specie se si considera che, con il passare del tempo, si possono attenuare le ragioni, di regola legate alla necessità di approntare una disciplina attuativa, che suggeriscono di rinviare l’efficacia di una riforma legislativa. Il netto cambiamento del contesto di base in cui è maturata l’esigenza di differimento dell’introduzione della motivazione rafforzata (eccessivo numero di domande dei candidati all’esame) potrebbe infatti indubbiamente fare sorgere un problema di coerenza della disciplina stessa con la ratio che la ispira e con la nuova situazione di fatto. Si potrebbe dunque ipotizzare che l’ulteriore differimento dell’applicabilità della riforma dell’esame di avvocato riguardi soltanto le modalità di correzione degli elaborati scritti indicate dal legislatore del 2012, e non già il più generale obbligo di motivazione rinforzata, che deve oramai ritenersi introdotto nell’ordinamento. L’alternativa sarebbe quella di sollevare questione di legittimità costituzionale, una volta realizzata l’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina di rango primario. Sotto questo profilo, il Tribunale amministrativo per la Lombardia, con una recentissima pronuncia, ha ritenuto di potere fornire, rispetto all’ultima legge di proroga, un’interpretazione compatibile con il principio di ragionevolezza desumibile dall’ art. 3 della Costituzione , e ha ritenuto necessario che fin da subito i giudizi espressi dalla commissione d’esame siano supportati da una motivazione ulteriore rispetto a quella solo numerica, motivazione che, seppure non debba necessariamente consistere nell’apposizione di annotazioni, consenta di percepire, secondo modalità rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, le ragioni del giudizio espresso, in modo ulteriore e più specifico rispetto a quanto si realizza con il voto numerico. [1] Con la conseguenza che dovrebbe andare “in soffitta”, nel caso di specie, anche la tesi secondo cui la rigida parametrazione dei criteri di valutazione costituirebbe un sufficiente presupposto per l’adeguatezza della motivazione numerica. E il Consiglio di Stato? Cosa ne pensa il Giudice di appello e insieme di cassazione dei TAR? Proprio in uno dei ricorsi “gemelli” che ha poi portato alla decisione innovativa – si direbbe quasi “rivoluzionaria” - del Tar Milano, l’ordinanza cautelare che ha riformato quella di primo grado ha così scolpito il suo giudizio sul tema: “ (…) contrariamente a quanto assume il Tar, la censura relativa all’attribuzione del solo voto numerico non può ritenersi condivisibile alla luce del costante orientamento del Consiglio di Stato che sulla sufficienza del voto numerico ad esternare adeguatamente le ragioni del giudizio della Commissione di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato si è espressa in senso affermativo (cfr. ex multis, sez. III, ord., 28 giugno 2024, n. 2452; id., ord., 29 settembre 2023, n. 3994; id. 12 aprile 2023, n. 3712; id., sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 56) ”. [2] E adesso? Adesso non resta che aspettare che il Consiglio di Stato si pronunci nuovamente sul motivatissimo, ulteriore provvedimento (stavolta non un’ordinanza cautelare, bensì una sentenza) del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia. Staremo a vedere. Nel frattempo, la professione di avvocato, che è già diventata una difficile sfida per i giovani laureati che non vogliono o non possono fare altro, si arricchisce di un ulteriore punto interrogativo proprio ai blocchi di partenza , quando servirebbero più che mai regole chiare, trasparenti e uguali per tutti. [1] TAR per la Lombardia, Milano, sez. III, sent. n. 1170/2025, depositata il 4 aprile 2025. [2] Consiglio di Stato, sez. III, ordinanza n. 2965/2024.