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Autore: a cura di Federico Smerchinich 18 apr, 2024
TAR Lombardia, Milano, 28.02.2024, n. 536 IL CASO E LA DECISIONE La decisione in commento è nata da un ricorso, seguito dai motivi aggiunti, con cui una società mista che gestisce i rifiuti ha agito per l’annullamento di una delibera comunale con la quale era stata approvata la revisione del modulo della gestione del servizio rifiuti, con la trasformazione della società partecipata dal Comune da società mista a società in house . Questa trasformazione ha comportato la prosecuzione del servizio, senza incidere sull’affidamento del servizio stesso. Si è trattato, per dirla diversamente, di una riorganizzazione societaria (in riduzione, da società mista a società in house ). Tuttavia, per la società ricorrente, tale trasformazione avrebbe leso i propri interessi ad ottenere l’affidamento, tramite gara, del servizio. Nel ricorso sono stati fatti valere dei vizi di mancanza di istruttoria e dei requisiti legittimanti il modello in house , nonché l’assenza dei presupposti per l’individuazione del modello gestorio in house . La società controinteressata ha invece eccepito che il ricorso fosse inammissibile per carenza di interesse ed ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sull’annullamento delle delibere assembleari e degli atti associativi. A fronte di tali deduzioni, Il TAR, innanzitutto, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo in quanto la partecipazione degli enti pubblici nelle società è, ai sensi dell’ art. 7 d.lgs. n. 175/2016 , decisa con deliberazione del consiglio comunale prodromica alle scelte assembleari. Ne consegue che i soggetti che si ritengono lesi da dette delibere sono titolari di un interesse legittimo, il che radica la giurisdizione presso il giudice amministrativo. Ritenuta la sua giurisdizione, il TAR ha valutato come improcedibile il ricorso principale per sopravvenuta carenza di interesse, mentre ha ritenuto inammissibile il ricorso per motivi aggiunti per preesistente carenza di interesse all’impugnazione. Per arrivare a tale soluzione, il TAR ha svolto una interessante ricostruzione del quadro normativo, che è da tenere presente, perché utile alle amministrazioni pubbliche e alle società private che si trovano a gestire affidamenti in house sia in sede procedimentale, sia processuale. Il TAR ha premesso che, in passato, la legislazione e la giurisprudenza avevano riconosciuto che la costituzione di una società per la gestione del servizio pubblico assorbiva anche la fase dell’affidamento del servizio medesimo, per cui una volta deliberata la costituzione della società partecipata dal comune per la gestione di un certo servizio, non era necessario un ulteriore atto di affidamento della gestione in concessione. Il d.lgs. n. 201/2022 , ora, ha procedimentalizzato l’intera procedura di affidamento, costituendo una fattispecie a formazione progressiva , dove la costituzione della società deve essere preceduta dalla scelta della forma di gestione. Quindi, un atto è la scelta della tipologia di gestione (art. 14 d.lgs. n. 201/2022); altro atto è l’affidamento (art. 17 d.lgs. n. 201/2022) del servizio che completa il procedimento. Diversità di atti confermata dalla necessità di loro pubblicazione sul sito dell’ente e comunicazione all’ANAC ai sensi dell’ art. 31 d.lgs. n. 201/2022 . La sentenza ha evidenziato allora una ricostruzione della differenza tra motivazione nel caso di affidamento in house sopra soglia di cui all’art. 17 d.lgs. n. 201/2022 e altre forme di gestione la cui motivazione (unica) è da rinvenire nell’art. 14 d.lgs. n. 201/2022. La dicotomia tra gli atti, delibera sulla scelta di gestione e delibera di affidamento , ha riflessi anche sul fronte processuale. Infatti, la lesività e l’impugnabilità deve essere valutata con riferimento a ciascuno dei due atti. Secondo il TAR, la scelta del modello di gestione ( in house piuttosto che società mista o gara verso terzi) sarebbe sindacabile solo nel momento in cui la società mista è posta in grado di operare sul mercato con l’atto di affidamento del servizio, in quanto solo in quel momento si andrebbe a creare un danno concorrenziale per gli altri operatori economici del settore. I giudici hanno ritenuto che sia l’ art. 17 comma 2 d.lgs. n. 201/2022 a confermare questa lettura. Interessante, poi, il riferimento della sentenza al ruolo della Corte dei Conti a cui (solamente) spetta il controllo sulla correttezza degli atti di acquisizione di partecipazione o costituzione delle società, a conferma che la lesività di tali atti deve essere mediata da un atto quale è l’affidamento del servizio che li fa incidere sull’interesse legittimo degli operatori economici del settore. Infine, il TAR ha precisato che, in sede di impugnazione dell’atto di affidamento del servizio, potranno essere poi sollevati motivi di impugnazione anche nei confronti degli atti costitutivi della società in house . Infatti, la dicotomia temporale tra la fase di scelta del modello di gestione e quella di affidamento non può essere utilizzata per evitare il controllo giurisdizionale sull’intera procedura pubblicistica di affidamento. Quindi, il TAR ha ritenuto inammissibile il ricorso, perché orientato ad impugnare gli atti relativi alla costituzione (o meglio alla riorganizzazione) della società in house , ma senza che siano stati seguiti dall’affidamento della concessione, invero già in essere a favore della società trasformata. In altre parole, non vi sarebbe stata alcuna lesione per l’impresa ricorrente, perché non vi è stata nuovo affidamento della prestazione e, quindi, non vi è stata alcuna lesione. IL MOMENTO DELL'IMPUGNAZIONE DEGLI ATTI E LA FATTISPECIE A FORMAZIONE PROGRESSIVA Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 201/2022, in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, e del d.lgs. n.36/2023, cioè il nuovo Codice dei Contratti Pubblici, la materia degli affidamenti in house sta vivendo una nuova stagione. Difatti, il d.lgs. n. 201/2022 ha procedimentalizzato l’affidamento in house nei servizi pubblici di rilevanza economica , prevedendo tutti gli atti necessari a perseguire l’affidamento in autoproduzione come modello ammesso, benché residuale rispetto alla gara pubblica per la selezione dell’affidatario o alla gara a doppio oggetto per la costituzione di una società mista. Dall’altra parte, l’ art. 7 d.lgs. n. 36/2023 prevede che l’affidamento in house sia una modalità alternativa di affidamento della commessa pubblica. Il tema maggiormente discusso in giurisprudenza attiene alla presenza dei requisiti per procedere con l’affidamento in house , alla legittimazione processuale per contestare detta tipologia di affidamento, nonché all’individuazione del primo atto lesivo ai fini della procedibilità del ricorso. Interessante in materia la sentenza di primo grado in commento, perché, partendo dal dato normativo, parrebbe precisare un aspetto non sempre chiaro agli interpreti e agli utenti. La sentenza del TAR Lombardia costituisce un precedente da esaminare soprattutto perché sviluppa un argomento rilevante in materia di ammissibilità dell’impugnazione degli atti di un affidamento in house . Come visto, il TAR parte dal disposto normativo di cui al d.lgs. n. 201/2022 e afferma che esistono due momenti del procedimento di affidamento in house . Il primo, regolato dall’art. 14 d.lgs. n. 201/2022, è quello della scelta della forma di gestione da perseguire, sia essa in house , società mista o affidamento a terzi tramite gara. Il secondo è quello dell’affidamento vero e proprio disciplinato dall’ art. 17 d.lgs. n. 201/2022 . La tesi del TAR è che senza l’atto di affidamento previsto dall’art. 17 non vi può essere lesione, perché la società in house non è, in concreto, divenuta ancora affidataria del servizio e, quindi, non vi è stato affidamento in via diretta e la sottrazione della prestazione dal mercato senza gara. Una tesi che si colloca bene nell’ambito della vicenda decisa, dove una società, già affidataria del servizio perché società mista, si trasforma in società in house , rimanendo pur sempre affidataria del servizio originario fino alla sua naturale scadenza, ma che legittima alcuni interrogativi, se posta a livello assoluto. Secondo il TAR, da tale successione di fatti non vi sarebbe alcuna lesione per le imprese operative sul mercato, perché, già prima della trasformazione societaria, quella prestazione era stata “sottratta” al mercato tramite la procedura ad evidenza pubblica a doppio oggetto propedeutica ad individuare il socio privato della società mista. Sul punto, però, si ritiene di fare un chiarimento. Nel caso di specie, se, per ipotesi, agli atti impugnati, relativi all’organizzazione della società in house , fosse seguito un nuovo atto di affidamento del servizio (art. 17 d.lgs. n. 201/2022), tale atto avrebbe potuto essere impugnato con motivi aggiunti. In questo caso, l’interesse al ricorso sarebbe esistito e il TAR avrebbe dovuto sindacare l’atto di affidamento, così come gli atti costitutivi della società in house . In questa ipotesi, l’impugnazione degli atti di affidamento in house avrebbe dovuto essere preceduta dalla contestazione degli atti che avevano portato l’ente a scegliere la modalità di affidamento in house stesso (art. 14 d.lgs. n. 201/2022), perché presupposto necessario dell’affidamento del contratto. Altrimenti ragionando, non avrebbe senso il disposto dell’art. 14 d.lgs. n. 201/2022 (in passato art. 34 comma 20 d.l. n. 179/2012) che richiede una relazione sulle ragioni della scelta . Infatti, questa relazione serve proprio per verificare se la scelta del tipo di gestione sia conforme alla situazione ed al contesto di riferimento. E dovrebbe ritenersi subito impugnabile. In tal senso, anche la richiesta di sua pubblicazione sembrerebbe volta a farne verificare immediatamente la legittimità. In merito alla serie di atti da impugnare, prima del d.lgs. n. 201/2022, il Consiglio di Stato aveva avuto modo di affermare che: “ La lesione della sfera giuridica del gestore uscente si è avuta non appena il comune (sia con la delibera giuntale n. 111 del 22 luglio 2020 che con quella consiliare n. 40 del 10 settembre 2020) si è univocamente e chiaramente determinato nel senso di affidare il servizio di igiene urbana alla società in house, acquistando le relative azioni. Ebbene, in quel preciso istante il gestore uscente ha avuto la piena e immediata percezione della capacità lesiva offerta dei provvedimenti assunti dal Comune, univocamente indirizzati alla precipua finalità di procedere per l'affidamento in house del servizio, abbandonando ogni volontà di procedere mediante gara ad evidenza pubblica. In altri termini, una volta adottate le delibere in questione, agli originari ricorrenti (gestore uscente) era ormai preclusa ogni possibilità di aspirare a partecipare ad una gara, atteso che la scelta del Comune era ormai già chiara, precisa, univoca e concordante nel senso di non ricorrere al mercato bensì di procedere in house. ” (Cons. Stato, Sez. IV, 19/10/2021, n. 7022). Con questa sentenza era stata riformata la sentenza del TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.03.2021, n. 281 che aveva a sua volta affermato: “ Costituisce, invero, condizione dell'azione nell'ambito del processo amministrativo l'interesse a ricorrere, ovverosia l'utilità, anche di natura morale o residuale, che il ricorrente aspira a ottenere attraverso l'esercizio della azione giudiziaria. Detto interesse sorge nel momento in cui la lesione arrecata al bene della vita protetto dall'ordinamento si manifesta come diretta e attuale (cfr., ex plurimis, T.A.R. Piemonte, Sez. I, sentenza n. 765/2020; C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 6489/2020). Nel caso di specie, il bene della vita cui le società odierne ricorrenti aspirano è lo svolgimento di una gara per l'individuazione del contraente privato a cui appaltare il servizio di gestione dei rifiuti, e rispetto a tale interesse la lesione si è concretizzata solamente con l'adozione della deliberazione consiliare di affidamento del servizio medesimo alla società S.C. S.p.A.. Dunque, è da tale momento che decorreva il termine decadenziale di esercizio dell'azione di annullamento .” Quindi, per la sezione staccata di Brescia, era da considerarsi tempestivo un ricorso che impugnava solo la delibera di affidamento del servizio, mentre per il Consiglio di Stato tale ricorso era da ritenersi tardivo perché non aveva contestato la scelta a monte verso il modello in house . Ciò, per dire che in materia non è presente un orientamento effettivamente dominante e che quanto si afferma sono solo delle constatazioni di ordine pratico. Eppure, come ben spiegato nella sentenza del TAR Lombardia in commento, esistono due momenti del procedimento a formazione progressiva di affidamento in house che dovrebbero essere considerati ai fini dell’impugnazione. Ma se così effettivamente è, allo stesso modo si dovrebbe considerare a “formazione progressiva” anche l’attività processuale del ricorrente. Laddove, infatti, venisse impugnato l’affidamento (atto dell’art. 17 d.lgs. n. 201/2022), ma non la scelta a monte dell’ente (art. 14 d.lgs. n. 201/2022), potrebbe eccepirsi che il ricorso sia inammissibile, perché l’atto a monte, che determinava la scelta dell’ente, si è consolidato senza essere stato impugnato e la scelta di non ricorrere alla gara sarebbe ormai preclusa, salvo cambio di indirizzo espresso dell’ente pubblico. Quando, invece, venisse impugnato l’atto a monte che orienta l’ente verso la gestione in house , senza che sia contestato l’atto di affidamento del servizio, si potrebbe eccepire una mancanza originaria di interesse (laddove, come nel caso di specie, non vi è nessun nuovo affidamento), o una sopravvenuta carenza di interesse (laddove l’atto di affidamento sia intervenuto ma non è stato censurato). Ma in entrambi in casi ci si porrebbe il problema di capire quando effettivamente è stato leso in concreto l’interesse dell’impresa. Tornando al caso in commento, per fare un ragionamento in termini concreti, ci si dovrebbe chiedere se c’è un modo per contestare la scelta dell’ente pubblico di consentire la prosecuzione del servizio tramite una gestione in house da parte di un soggetto che era una società mista. In altre parole, può avvenire una prosecuzione in via diretta in house della gestione del servizio affidato inizialmente tramite gara pubblica, senza che le imprese di quel mercato possano fare niente? Alla luce di questa sentenza parrebbe darsi risposta affermativa. Ma, allora, se viene preclusa la possibilità di sindacare gli atti al TAR, perché non c’è interesse dell’impresa, l’unico modo di verificare la tenuta della società in house potrebbe essere quella del giudizio davanti alla Corte dei Conti, che dovrebbe verificare la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 16 d.lgs. n. 175/2016. Tuttavia, si nutrono dei dubbi sull’impossibilità per l’impresa di tentare di dimostrare davanti al TAR la non legittimità della scelta sulla prosecuzione del servizio in house , invece che con società mista. D’altronde, il Consiglio di Stato, recentemente, sebbene in un caso diverso, ha ravvisato l’interesse al ricorso (in maniera ampia) sul fatto che il ricorrente “ potrebbe comunque confidare anche in un parallelo cambio di indirizzo politico-amministrativo da parte degli organi preposti i quali, data la complessità dell’operazione legata alla costituzione di un soggetto in house, potrebbero a quel punto ritenere maggiormente conveniente, in termini tecnici ed economici, rivolgersi al mercato di riferimento settoriale piuttosto che riavviare l’impresa di costituire un nuovo e diverso soggetto in house. ” (Cons. Stato, Sez. V, 27.07.2023, n. 7348). Solo il consolidarsi degli orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul punto ci potrà fornire delle risposte definitive.
Autore: Alma Chiettini 02 apr, 2024
Cass. Civile, Sezioni Unite, 12 febbraio 2024, n. 3737 La quota annuale dovuta per l’iscrizione agli albi professionali , indipendentemente dal termine utilizzato per la sua individuazione: “quota”, “contributo”, … (posto che la denominazione è irrilevante al fine di determinare, o di escludere, la natura tributaria di una prestazione) è una “tassa annuale” finalizzata alla necessità di fornire la provvista dei mezzi finanziari necessari al funzionamento dell’Ente delegato dall’ordinamento per il controllo dell’albo professionale. Il sistema normativo riconosce all’ente “Ordine professionale” la potestà impositiva rispetto a una prestazione che l’iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcuna possibilità di scegliere se versare o meno la relativa tassa (sia di iscrizione all’albo sia l’annuale), al pagamento della quale è condizionata l’appartenenza a quell’Ordine. Siffatta “tassa” si configura come una “quota associativa” rispetto a un Ente ad appartenenza necessaria, in quanto l’iscrizione all’albo è conditio sine qua non per il legittimo esercizio della professione. Sussiste in tal modo il primo degli elementi che caratterizzano il “tributo”: la doverosità della prestazione . Chi intende esercitare una delle professioni per le quali è prevista l’iscrizione a uno specifico albo deve provvedere a iscriversi sopportandone il relativo costo (la tassa di iscrizione e la tassa annuale), il cui importo non è commisurato al costo del servizio o al valore della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’Ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto. Ed ecco il secondo elemento che identifica la sua “natura tributaria”: il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante . Presupposto che è costituito dal legittimo esercizio della professione per il quale è condizione l’iscrizione in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all’Ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico, nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di quest’ultimi alle predette prestazioni. Ne consegue, ai sensi dell’ art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 - come modificato dall’art. 12 della l. n. 448 del 2001 che ha esteso la giurisdizione tributaria a tutte le cause aventi per oggetto tributi di ogni genere - che le controversie relative alla riscossione della quota annuale d’iscrizione all’albo professionale sono devolute alla giurisdizione del giudice tributario . La Corte della giurisdizione ha da tempo affermato tale principio con riferimento alla quota annuale dovuta per l’iscrizione all’albo degli Avvocati (Sez. Unite, 26.1.2011, n. 1782) e, prima ancora, per le controversie concernenti il pagamento del diritto annuale di iscrizione in albi e registri delle Camere di commercio, il c.d. diritto camerale (Sez. Unite, 24.6.2005, n. 13549). Più di recente, lo ha confermato con riferimento al contributo annuale a carico degli avvocati e a favore del Consiglio Nazionale Forense (Sez. Unite, 18.6.2019, n. 16340). Con la pronuncia qui segnalata ha ribadito il principio con riferimento alla quota annuale per l’ iscrizione all’albo delle professioni infermieristiche , “ ove sono individuabili i medesimi caratteri della prestazione già indicati [nelle precedenti pronunce], tanto più che l’evoluzione in materia della disciplina, approdata nella legge 11 gennaio 2018, n. 3, di riordino della disciplina degli Ordini professionali sanitari, tra i quali l’Ordine delle professioni infermieristiche (art. 4), nell’individuazione dei compiti dell’organo del Consiglio direttivo (art. 3, lett. f), conferma la suddetta qualificazione come ‘tassa annuale’, in relazione alla medesima finalità di copertura della spese di gestione dell’Ente ”.
Autore: a cura di Roberto Lombardi 31 mar, 2024
Le nostre coscienze sono state scosse non poco dall’ennesima tragedia sul lavoro, compiutasi nel caso di specie a Firenze lo scorso febbraio. Fa sempre un certo effetto pensare che qualcuno, ancora oggi, nel 2024, esca di casa la mattina salutando i suoi cari per andare a lavorare, e poi non torni più. All’interno di un cantiere aperto da tempo per la costruzione di un supermercato con marchio Esselunga è crollata una delle grandi travi portanti del tetto con sopra il solaio, e le macerie hanno investito una squadra di otto operai, di cui tre sono morti sul colpo e un altro è stato trovato, sempre senza vita, dopo lunghe e strazianti ricerche. Subito l’attenzione dell’opinione pubblica si è soffermata sul fatto che la costruzione del nuovo supermercato stesse interessando un notevole numero di imprese in subappalto ; i sindacati hanno inoltre suggerito l’ipotesi dell’applicazione, ad alcuni dei lavoratori coinvolti, del contratto di lavoro sbagliato, ovvero del contratto metalmeccanico al posto del contratto edile. Un dettaglio di non poco contro, in quanto così si “salta” la formazione obbligatoria e specifica e si utilizza un contratto che ha un costo minore per garantire la possibilità di risparmio. Ci sono poi i non rari casi in cui il contratto applicato neanche c’è, perché le prestazioni, specie quelle in subappalto, sono effettuate “in nero”. La polemica sull’abuso di questo istituto giuridico, strumento che rende in teoria più flessibile la realizzazione di opere complesse, ha ovviamente lambito anche la materia dei contratti pubblici , ovvero di quei contratti in cui la stazione appaltante non è un privato ma un’amministrazione statale, regionale o locale. Si potrebbe pensare che la presenza di un ente pubblico e la necessaria intermediazione di una previa gara di appalto con regole rigorose renda in questo caso impermeabile, rispetto ai rischi del settore privato, il ricorso al subappalto, ma purtroppo non è così. In un Paese come il nostro, dove le infiltrazioni malavitose nell’economia sono tutt’altro che infrequenti, dove le imprese sane sono spesso “strozzate” da fisco e burocrazia e la macchina pubblica è lenta e farraginosa nei controlli, l’istituto del subappalto costituisce da sempre un “crocevia” caldo e controverso del dibattito teorico sui massimi sistemi. A tale dibattito corrisponde un legislatore oscillante, che spesso e volentieri non riesce a fare buona sintesi della realtà del Paese, delle esigenze delle stazioni appaltanti e delle richieste che ci provengono dall’Unione europea. E’ accaduto così, senza risalire ancora più indietro, che il codice degli appalti del 2016 – oggi non più vigente, se non per le procedure già in corso di esecuzione al momento della sua abrogazione – aveva originariamente disciplinato il subappalto all’ art. 105 con un semplicissimo precetto: “ E’ ammesso il subappalto secondo le disposizioni del presente articolo ”. Dopo di che, l’articolo di riferimento è cambiato più e più volte. Ma quali erano le principali regole a cui aveva pensato il legislatore del 2016? Innanzitutto, una percentuale massima di prestazioni affidabili in subappalto: l'eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture . In secondo luogo, la necessaria preventiva comunicazione, già in sede di gara, di alcuni elementi del subappalto, ai fini della successiva autorizzazione: i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture; l'assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 . In terzo luogo, l’indicazione obbligatoria della terna di subappaltatori, qualora gli appalti di lavori, servizi o forniture siano di importo pari o superiore alle soglie di cui all'articolo 35 . In quarto luogo, la responsabilità in solido i n capo all'affidatario dell’appalto dell’osservanza integrale, da parte del subappaltatore, del trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionali e territoriali in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni . Infine, il divieto di subappalto a cascata : l'esecuzione delle prestazioni affidate in subappalto non può formare oggetto di ulteriore subappalto . In principio, con il d.lgs. n. 56 del 2017 , a correzione dell’iniziale formulazione, è stato previsto il divieto di affidamento del subappalto anche a chi avesse partecipato alla procedura per l'affidamento dell'appalto stesso. Ma il 24 gennaio 2019, la Commissione europea ha trasmesso al Governo italiano una lettera di costituzione in mora nell'ambito della procedura di infrazione n. 2018/2273 , con la quale ha contestato all'Italia l'incompatibilità di alcune disposizioni dell'ordinamento interno (in larga parte contenute nel decreto legislativo n. 50 del 2016) in materia di contratti pubblici, rispetto a quanto disposto dalle direttive europee relative alle concessioni (direttiva 2014/23), agli appalti pubblici nei settori ordinari (direttiva 2014/24) e agli appalti pubblici nei settori speciali (direttiva 2014/25). Successivamente, il 27 novembre 2019, la Commissione europea ha indirizzato all'esecutivo una lettera di costituzione in mora complementare, rilevando che i problemi di conformità sollevati in precedenza non erano ancora stati risolti, e individuando ulteriori disposizioni della legislazione italiana non conformi alle citate direttive. Il Governo italiano ha allora comunicato l'intenzione di apportare modificazioni alla legislazione vigente, al fine di adeguare la disciplina nazionale a quella europea, fornendo elementi di informazione e di chiarimento rispetto a taluni profili di incompatibilità che a suo giudizio non avrebbero necessitato di ulteriori interventi normativi. Nello specifico, all’incompatibilità con la normativa europea eccepita dalla Commissione europea del divieto di subappaltare più del 30 per cento di un contratto pubblico, il legislatore ha risposto con il decreto legge n. 32/2019 (cosiddetto " sbloccacantieri "), che ha innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40% fino al 30 giugno 2021, nelle more di una complessiva revisione del codice dei contratti pubblici. Si era previsto, in particolare, che il subappalto dovesse essere indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non potesse superare la quota del 40 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tali disposizioni hanno operato in deroga all'articolo 105, comma 2, del codice medesimo, il quale pure prescriveva la necessità di indicare il subappalto nel bando di gara, ma fissava, come visto, la soglia massima del subappalto nella misura del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. Tuttavia, nella messa in mora complementare, la Commissione europea ha osservato che tale modifica non sarebbe stata sufficiente a rendere l'ordinamento nazionale conforme a quello europeo, sia perché si trattava di una modifica solo temporanea, sia perché un limite al subappalto del 40%, pur essendo meno restrittivo, era da considerarsi comunque incompatibile con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. In effetti, su questo specifico aspetto erano già intervenuti i Giudici europei in sede di pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata dal TAR Lombardia, con la sentenza del 26 settembre 2019 nella causa C-63/18 (Vitali SpA contro Autostrade per l'Italia SpA), per chiarire la portata del diritto dell'UE in materia di appalti pubblici, con particolare riferimento al regime del subappalto. Il Tribunale meneghino aveva chiesto alla Corte se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del TFUE , l' articolo 71 della direttiva 2014/24 , il quale non contempla limitazioni quantitative al subappalto, e il principio di diritto dell'Unione europea di proporzionalità , ostino all'applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell'articolo 105, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 50/2016, secondo la quale il subappalto non poteva superare la quota del 30 per cento dell'importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha rilevato che la criticità del limite quantitativo del ricorso al subappalto (come regolato dall'ordinamento italiano) si ricollegava alla sua applicazione indipendentemente dal settore economico interessato, dall'appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall'identità dei subappaltatori, e al fatto che la disciplina italiana non lasciava spazi a valutazioni caso per caso da parte della stazione appaltante, e ciò anche qualora questa fosse in grado di verificare l'identità dei subappaltatori interessati. D’altra parte, anche se il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti, e anche supponendo che una limitazione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare tale fenomeno, una restrizione come quella prevista dal codice dei contratti pubblici del 2016 era da considerarsi, secondo i Giudici europei, “eccedente” rispetto a quanto necessario al raggiungimento dell’obiettivo. Con il decreto legge n. 32 del 2019 il legislatore nazionale ha disposto anche la sospensione transitoria (originariamente fino al 31 dicembre 2020) dell'applicazione del comma 6 dell’art. 105 del codice dei contratti pubblici, ovvero delle disposizioni che stabiliscono l'obbligatorietà della indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo pari o superiore alle soglie comunitarie di cui all'articolo 35 del codice dei contratti pubblici o, indipendentemente dall'importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa. La Commissione europea ha in ogni caso osservato che tale sospensione non avrebbe potuto essere considerata una soluzione alla questione sollevata nella lettera di costituzione in mora, in quanto tale sospensione era solo temporanea. Sulla materia è intervenuta infine anche l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) la quale, il 4 novembre 2020, ha inviato una segnalazione sui limiti di utilizzo del subappalto in cui riteneva opportuna una modifica normativa volta a: - eliminare la previsione generale e astratta di una soglia massima di affidamento subappaltabile; - prevedere l'obbligo in capo agli offerenti, che intendano ricorrere al subappalto, di indicare in sede di gara la tipologia e la quota parte di lavori in subappalto, oltre all'identità dei subappaltatori; - consentire alle stazioni appaltanti di introdurre, tenuto conto dello specifico contesto di gara, eventuali limiti all'utilizzo del subappalto che siano proporzionati rispetto agli obiettivi di interesse generale da perseguire e adeguatamente motivati in considerazione della struttura del mercato interessato, della natura delle prestazioni o dell'identità dei subappaltatori. Nelle more dell’approvazione della legge di delegazione europea 2019-2020, il d.l. n. 77/2021 , entrato in vigore il primo giugno 2021 - in occasione della traduzione in norme dei processi di realizzazione dei progetti PNRR e PNC -, ha colto l’occasione per ottemperare ai diktat della Commissione europea e della Corte di Giustizia, prevedendo modifiche importanti all’intera disciplina del subappalto, e sopprimendo la norma del d.l. n. 32 del 2019 che aveva innalzato la soglia massima del subappalto dal 30% al 40%. Successivamente, nella cosiddetta Legge europea 2019-2020 ( L. n. 238 del 2021 ) il comma 6 dell’art. 105 – contenente il principio dell’indicazione della terna di subappaltatori – è stato definitivamente abrogato; contemporaneamente, è venuto meno il divieto di affidamento del subappalto a chi avesse partecipato alla procedura per l'affidamento dell'appalto in questione e si è stabilito che i motivi di esclusione di cui all'articolo 80 a carico del futuro subappaltatore non avrebbero più dovuti essere dimostrati dal concorrente. E’ arrivato infine il nuovo codice degli appalti . Qualche illustre giurista ha detto che si rifiuta di chiamarlo codice, perché i codici un tempo resistevano molto più di soli sette anni, un po’ come le relazioni sentimentali. Forse sarebbe stato meglio chiamarlo testo unico . All’interno delle nuove norme, l’art. 105 è stato integralmente riscritto, e oggi le nuove disposizioni sono contenute nell’ art. 119 del d.lgs. n. 36 del 2023 . Nel nuovo sistema, posta la nullità della cessione del contratto di appalto, il subappalto è sempre ammesso, salvo che specifiche caratteristiche dell'appalto determinino l’amministrazione contraente ad escluderlo, “ in ragione dell'esigenza di rafforzare, tenuto conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare, il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro o di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori ovvero di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali ”. E’ altresì sempre ammesso il subappalto del subappalto (cd. subappalto a cascata , in precedenza vietatissimo), salvo diversa indicazione da parte delle stazioni appaltanti nei documenti di gara, e sempre per motivazioni connesse a controlli della sicurezza del cantiere o alla prevenzione “mafiosa”. Se però si è iscritti nell’apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa tenuto dalla prefettura, oppure nell’anagrafe antimafia, si presume l’assenza di rischio, e non è possibile esprimere, per l’amministrazione, alcuna correlativa valutazione di esclusione dal subappalto (e dal subappalto a cascata) per tale motivo. Ma quali sono gli effettivi rischi del subappalto a cascata? Secondo alcuni, il subappalto a cascata non fa altro che moltiplicare i rischi connaturati al subappalto, con la perdita del controllo non solo da parte del committente e del direttore dei lavori ma anche della stessa impresa principale, la difficoltà per l’impresa principale di coordinare le attività tra tutte le imprese subappaltatrici e sub-sub-subappaltatrici e la diluizione delle responsabilità sia nei confronti del committente sia della stessa impresa principale. Un rimedio potrebbe essere allora quello di spostare risorse dai controlli documentali ai controlli sostanziali su tutti gli operatori economici coinvolti nella catena del “cantiere”, verificando che dispongano delle risorse umane e dei mezzi d’opera dichiarati nelle autocertificazioni, che i bilanci siano veritieri e che le eventuali perdite siano ripianate con capitali di provenienza lecita. Resta inoltre la necessitò di accertare incontrovertibilmente che non vi siano opacità nella compagine sociale, per rapporti di quest’ultima con ambienti criminali. La liberalizzazione spinta ci è chiesta dall'Europa. Ma l'Europa ha in mente ben altro sistema di controlli sul rispetto delle norme a tutela dei lavoratori e sulla trasparenza aziendale. Dopo i fatti di Firenze, Bruno Giordano, magistrato di cassazione che è stato per un paio di anni a capo dell 'Ispettorato nazionale sul lavoro , ha denunciato l'attuale sistema di macrosorveglianza del rispetto delle regole nei cantieri. Ci sono da un lato le carenze di organico e gli squilibri regionali di efficienza tra le Asl in giro per l’Italia, dall'altro il limitato numero di ispettori in rapporto alla forza lavoro da tutelare, con un rapporto tra ispettori e lavoratori molto lontano, in senso peggiorativo, rispetto a quello indicato dall’Unione europea (uno ogni diecimila, dice Giordano). La parcellizzazione tra tante esecutrici dei progetti, in un sistema di controlli inefficiente e prevalentemente cartolare , non può che favorire, secondo questa prospettiva, piuttosto che la concorrenza dei "piccoli", la giungla delle prestazioni in nero o, peggio ancora, del clientelismo locale, familiare e criminale. In questo contesto, lasciare semplicemente il cerino in mano alla stazione appaltante, che deve individuare motivatamente i limiti al subappalto del subappalto, può rivelarsi un precetto inutile, a causa del possibile immobilismo dell’amministrazione, a fronte di un rischio da contenzioso altissimo. Occorrerebbe allora necessariamente coniugare l'adozione di rigorosi protocolli di legalità interni all’appalto con l'efficacia del controllo “dal vivo”, anche solo per scongiurare, tra le altre cose, il rischio di un’economia che cresce sulla pelle di chi muore.
Autore: a cura di Silvana Bini 18 mar, 2024
PREMESSA (a cura di Roberto Lombardi) Si potrebbe dire che il Comune di Milano cerca disperatamente di contenere i danni derivanti dalla modernità, di cui pure rappresenta un avamposto, difendendosi con uno strumentario giuridico tutto da definire. La morte nell’agosto dello scorso anno di una giovane di 28 anni colpita da un camion, mentre percorreva in bicicletta una strada centrale in città, ha scosso la collettività e si è incasellata in coda ad altre tragedie simili e recenti. La bicicletta è finita sotto le ruote del Tir e nonostante i rapidi soccorsi le lesioni subite dalla ciclista sono risultate fatali. Inevitabile l’aumento della polemica per l’assenza di sicurezza in città, anche per ciò che riguarda la circolazione stradale. Prima ancora, nel 2023, le cronache ci raccontano di altri quattro episodi mortali che hanno coinvolto ciclisti: una mamma di 38 anni falciata in Piazzale Loreto, una sua coetanea schiacciata sotto un mezzo pesante davanti alla centralissima biblioteca Sormani, un operaio di origini cinesi trascinato per centinaia di metri da un camion mentre si recava a lavoro e una signora più in là con gli anni investita da una betoniera. A fronte di questi accadimenti oggettivi, uno studio del Politecnico di Milano ha indicato, in via generale, un preoccupante incremento del tasso di incidentalità ciclistica nella città negli ultimi anni. E il Comune come ha deciso di arginare questa scia abbastanza impressionante di morti? Tanto per cominciare, un tavolo tecnico con invito “allargato” sul tema della sicurezza stradale e della visibilità limitata dei conducenti dei veicoli pesanti. Successivamente, un’istruttoria che ha portato a una deliberazione di Giunta comunale e a un’ordinanza sindacale nel luglio del 2023. Risultato: divieto di circolazione in città dal lunedì al venerdì (nei confini della cosiddetta area B) e dalle 7.30 alle 19.30 per i veicoli di categoria M2, M3, N2 e N3 (mezzi pesanti e pesantissimi) che non siano muniti di adesivi di segnalazione dell’ angolo cieco (cioè la porzione del campo visivo nascosta al guidatore) e di sistemi avanzati capaci di rilevare la presenza di pedoni e ciclisti e di emettere un segnale sonoro di allerta. Lo strumento giuridico utilizzato, posta l’esistenza di un Regolamento UE che ha già reso obbligatorio per un certo tipo di veicoli “pericolosi” l’equipaggiamento con sistemi avanzati di sicurezza alla guida, è stato quello del sempre verde codice della strada , in particolare l’ art. 7, comma 9 di tale complesso normativo. Secondo questa disposizione, i Comuni, con deliberazione della Giunta, provvedono a “delimitare” le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto, tra l’altro, degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione. E’ lo strumento giusto? Lo hanno chiesto alcune imprese di trasporti con un ricorso al TAR. Secondo i Giudici di primo grado non lo è, secondo il Giudice di appello lo è. Resta però una considerazione amara. Dall’istruttoria effettuata dall’amministrazione comunale meneghina l’incidenza causale dell’aumento delle morti di ciclisti sarebbe da attribuire essenzialmente a due fattori: la diffusione senza precedenti dell’uso, in ambito urbano, di mezzi di trasporto più agili e meno inquinanti, ma anche meno sicuri per il conducente, di quelli tradizionali ( biciclette e monopattini ), come conseguenza delle politiche per il contrasto all’inquinamento atmosferico e per favorire il distanziamento sociale da pandemia; il rilevante incremento in ambito urbano della circolazione di mezzi d’opera diretti ai diversi cantieri aperti nei condomini a seguito dell’introduzione dei bonus edilizi . In altri termini, i mezzi di contrasto alla crisi sociale ed economica determinata da alcuni importanti mali moderni (in particolare, pandemie e inquinamento) avrebbero generato un conflitto mortale sulle sedi stradali. L’angolo cieco della modernità, verrebbe da dire sorridendo, se non fosse per la realtà delle singole tragedie umane. IL TIR E L'ELEFANTE (a cura di SIlvana Bini) Il Comune di Milano, con la nobile finalità di prevenire incidenti spesso mortali, in cui sono coinvolti i c.d. utenti deboli della strada, ha adottato una serie di disposizioni, in base alle quali alcune categorie di veicoli (che in questa sede chiameremo, per semplificare, TIR) devono dotarsi di un sistema di rilevazione, che sia in grado di segnalare la presenza di pedoni e ciclisti in coincidenza con il cd. angolo cieco , cioè la fascia spaziale che sfugge alla visibilità da parte del guidatore. In assenza di detti dispositivi i veicoli ingombranti di categoria M2, M3, N2 e N3 non possono circolare nelle aree B e C, istituite dal Comune ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 285 del 1992, ai fini di limitare la circolazione nel centro abitato. Il divieto è circoscritto a determinate fasce ore dei giorni feriali e oggetto di parziali deroghe. Quasi contemporaneamente, nella gestione concreta di una vicenda certamente più “leggera”, l’amministrazione comunale meneghina si è dovuta occupare, nell’ambito del rilascio dell’autorizzazione a detenere animali al fine di potere svolgere una manifestazione circense, della rimozione di alcune criticità connesse alla detenzione e alla custodia degli animali, e in particolare della necessità, per lo svolgimento della manifestazione circense, che non fosse detenuto “in solitaria” un singolo elefante. La vicenda giudiziaria conseguente a quest'ultima fattispecie viene approfondita in altro articolo di questo sito. L’elemento comune dei due casi sembra essere, a una prima superficiale analisi, quello del divieto sia per l’elefante che per i Tir di entrare nel territorio comunale o in alcune parti di esso, ma in realtà, anche ad osservare le vicende giudiziarie che si sono sviluppate in seguito, il vero trait d’union è rappresentato dal fatto che in ambo i casi si pone un problema di potere normativo/regolamentare del Comune. Quanto alla questione della circolazione dei TIR in città, Il Tar ha accolto il ricorso, riconoscendo l’incompetenza del Comune ad adottare gli atti adottati, e ritenendo al contrario che vi fosse la competenza degli organi statali, trattandosi di circolazione stradale. Il Tribunale ha premesso che “ la disciplina della circolazione stradale corrisponde ad una pluralità di competenze legislative esclusive dello Stato, tra le quali primeggia l’ordine pubblico e la sicurezza (art. 117, secondo comma, lett. h Cost.), in ragione della finalità di prevenire reati colposi afferenti all’impiego dei veicoli. In aggiunta, e a seconda degli scopi dell’intervento di volta in volta spiegato, si profilano le competenze legislative esclusive statali in tema di ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lett. l Cost.) e di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lett. s Cost.). come da giurisprudenza costituzionale costante a partire dalla sentenza n. 428 del 2004 (in seguito, sentenze n. 223 del 2010; n. 77 del 2013; n. 129 del 2021; n. 69 del 2023). Ne consegue che compete alla fonte primaria statale non soltanto disciplinare la materia, ma anche allocare le relative funzioni amministrative al più idoneo livello di governo, secondo i criteri di cui all’art. 118 Cost. ”. Il Tribunale ha ricordato poi che è il codice della strada che ha demandato agli organi centrali l’omologazione e l’approvazione sia dei dispositivi di controllo e regolazione del traffico (artt. 45 del d.lgs. n. 285 del 1992; art. 192 del regolamento di esecuzione n. 495 del 1992), sia dei dispositivi ulteriori di marcia, che la normativa dello Stato elenca in modo non tassativo, posto che compete al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti imporne di “supplementari” (art. 72, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992). Proprio questa norma introdurrebbe una clausola generale di chiusura che non prevede alcuna competenza regolatoria in capo ai Comuni, così come non vi sarebbe alcuna previsione statale che consente ai Comuni l’esercizio di una potestà amministrativa in materia di circolazione stradale. Da sottolineare come nella sentenza siano ben definite le competenze di Stato, Regioni e Comune. Lo Stato ha competenza esclusiva in materia di circolazione stradale, in cui rientra l’omologazione e l’approvazione dei dispositivi di controllo e regolazione del traffico (artt. 45 del d.lgs. n. 285 del 1992; art. 192 del regolamento di esecuzione n. 495 del 1992). “ Ove anche possa profilarsi uno spazio di intervento per il legislatore regionale nell’ambito della tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.), esso non può spingersi fino all’approvazione di strumenti di regolazione e marcia che non siano stati oggetto di intesa con i competenti organi statali (Corte costituzionale, sentenza n. 69 del 2023, in relazione alla legge lombarda n. 8 del 2022) ”. L’art. 7, comma 1, lett. b) del d. lgs. n. 285 del 1995, sul quale si è basata l’azione del Comune di Milano, permette invece all’ente locale di istituire aree a traffico limitato nei centri abitati (aree B e C di Milano nel caso di specie) per “ esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale ”. Non può essere quindi questa norma, sulla quale secondo i Giudici di primo grado si sarebbe basata l’azione del Comune di Milano, ad abilitare un potere di intervento in materia di sicurezza pubblica e privata. Infatti un dispositivo volto a scongiurare incidenti in danno di pedoni e ciclisti risponde ad un’esigenza di ordine pubblico e sicurezza, del tutto estranea a componenti incidenti sull’ambiente e i beni culturali. Il TAR ha poi escluso che la competenza del Comune possa fondarsi sul regolamento n. 2019/2144/UE , il cui art. 4, paragrafo 5, prescrive che i veicoli di categoria M, N e O (art. 2) possano essere immatricolati solo se dotati, a partire dal 7 luglio 2024 (data rinvenibile nell’Allegato II), di dispositivi a tutela degli “utenti vulnerabili della strada”, tra i quali “ciclisti e pedoni” (art. 3, n. 1). L’attuazione del diritto dell’Unione spetta, infatti, al livello di governo individuato dagli Stati membri, salvo casi peculiari estranei alla presente questione (Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 1996). Pertanto, non potrà che essere la normativa statale a determinare gli organi deputati ad assicurare l’effettività delle prescrizioni unionali recate dal regolamento prima citato, e dal regolamento delegato della Commissione n. 2022/1398/UE. Il Giudice d’appello non ha però condiviso la linea interpretativa del TAR; e ha riformato la sentenza di primo grado, con una decisione che ha preliminarmente individuato un'altra fonte normativa del potere esercitato dal Comune di Milano. Non l'art. 7, comma 1, ma l’ art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 , espressamente richiamato nella deliberazione n. 971 del 2023. Mentre infatti con la lett. b) del comma 1 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992 si permette all’ente locale di istituire aree a traffico limitato nei centri abitati per “esigenze di prevenzione degli inquinamenti e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale” (conformemente alle direttive impartite dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e sentiti il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e il Ministro per i beni culturali e ambientali), ai sensi dell’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 "i comuni, con deliberazione della Giunta, provvedono a delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio”. Secondo il Giudice d’appello il divieto imposto dal Comune con i provvedimenti gravati, riguardanti l’accesso e la circolazione in una zona della città, in determinati orari e giorni della settimana e per determinati veicoli, costituisce una modalità di istituzione di una zona a traffico limitato ai sensi dell’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992. Esso è infatti introdotto al fine di “fare tutto il possibile per ridurre considerevolmente l’incidentalità”, atteso che si “ si registrano sinistri, anche mortali, che vedono coinvolti utenti deboli della strada e mezzi ingombranti, anche articolati, riconducibili all’assenza di sistemi avanzati in grado di rilevare la presenza di pedoni e ciclisti situati in prossimità immediata del veicolo stesso ”. Il tema della sicurezza della circolazione e conseguentemente dell’ incolumità personale è quindi centrale nel giustificare l’adozione dei provvedimenti gravati. Sicché il Comune ha esercitato il potere allo stesso conferito dal comma 9 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992 e non il potere di limitare la circolazione per motivi di inquinamento e di tutela del patrimonio artistico, ambientale e naturale conferito con il comma 1 lett. b) dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992. Il Giudice d’appello ha riconosciuto al Comune il potere “ non solo di delimitare le zone a traffico limitato ma anche di conformare il contenuto di detta limitazione, che altrimenti dovrebbe sussistere una disciplina (uniforme) delle zone a traffico limitato, laddove invece proprio la normativa richiamata intesta agli enti di maggior prossimità al cittadino di conformarle in base alle esigenze locali, al fine di perseguire una pluralità di interessi (sicurezza della circolazione, salute, ordine pubblico, patrimonio ambientale e culturale e territorio), la cui tutela richiede di per sé una diversa modulazione della limitazione stradale", non rinvenendosi i presupposti per confinare il potere comunale "alla sola delimitazione delle zone a traffico limitato, il cui ordinamento sarebbe altrove stabilito, dovendosi invece riconoscere agli enti locali il potere di conformarle. Detto potere è un potere avente un contenuto discrezionale, potendo essere attuato attraverso plurime e diverse prescrizioni, dettate non solo da necessità tecniche o comunque dall’esercizio di una discrezionalità tecnica, ma anche da scelte amministrative: i provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di scelte latamente discrezionali, che coprono un arco esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, che vanno contemperati secondo criteri di ragionevolezza la cui scelta è rimessa all’autorità competente” (Cons. St., sez. V, 9 gennaio 2024 n. 282) ”. Pertanto è “legittima la diversità del regime circolatorio in base al tipo, alla funzione e alla provenienza dei mezzi di trasporto, sicché la tipologia dei limiti (divieti, diversità temporali o di utilizzazioni, subordinazione a certe condizioni) viene articolata dalla pubblica autorità tenendo conto di vari elementi (diversità dei mezzi impiegati, impatto ambientale, situazione topografica o dei servizi pubblici, conseguenze pregiudizievoli) ”. A sostegno di questa soluzione è stata richiamata la giurisprudenza formatasi sull’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992, che ha riconosciuto che “tale previsione attribuisce espressamente alla giunta comunale un potere generale di regolazione delle limitazioni del traffico veicolare urbano e d’individuazione di specifiche aree da pedonalizzare, in considerazione del generale impatto sul territorio, corrispondendo ad un obiettivo programmatorio generale del traffico veicolare. La giunta comunale può, dunque, imporre specifici divieti, integrali e non, di circolazione e sosta, contestualmente a una considerazione di sistema delle esigenze di regolamentazione del traffico e della distribuzione di ragione urbanistica delle funzioni (residenziale, commerciale, ecc.) e di salvaguardia dei centri storici o comunque delle zone da opportunamente pedonalizzare o semipedonalizzare” (Cons. St., sez. II, 27 ottobre 2021 n. 7185 e sez. V, 21 ottobre 2019 n. 7129). In applicazione a questo orientamento, è stato riconosciuto legittimo il provvedimento del Comune di Milano, che “ ha determinato la creazione di una zona a traffico limitato, non introducendo invece un divieto “totale” di circolazione (...), che comunque avrebbe potuto introdurre: la circostanza che il Comune di Milano abbia circoscritto l’ambito temporale di applicazione del divieto (istituto dal lunedì al venerdì, in una determinata fascia oraria) costituisce un’ulteriore declinazione del potere di limitare, e non di escludere, l’accesso alla zona di riferimento. Pertanto, declinando in tal modo il divieto (e prevedendo delle deroghe, su cui infra) con i provvedimenti gravati è stata regolamentata la zona a traffico limitato denominata “Area B”, istituita con deliberazione n. 1366 del 2018, che già richiama l’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992, e le cui limitazioni sono fatte salve nella delibera n. 971 del 2023 (“ferme le limitazioni previste dall’Allegato n. 3 della deliberazione di Giunta Comunale n. 1366/2018”), mentre con deliberazione di giunta comunale n. 1617 del 2018 la disciplina dell’”Area C” è stata “resa coerente con la disciplina viabilistica della Zona a Traffico Limitato (ZTL) denominata “Area B” .” D'altra parte, sempre secondo il Consiglio di Stato, l’amministrazione avrebbe così esercitato i “ poteri conferiti ai comuni in quanto enti locali di maggiore prossimità al cittadino ”, in applicazione all’art 118 Cost., iscrivendosi il potere intestato ai Comuni dall’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 nell’ambito delle potestà in ordine alle prerogative di viabilità, sicurezza e incolumità pubblica di cui il Comune può fare uso in quanto si riverberino sul territorio di riferimento. Ed è un fatto pacifico che la sicurezza urbana “ può venire esercitata a livello decentrato, se tale da potere essere collegata, nel rispetto della legge dello Stato, a funzioni di interesse regionale o locale ” (Corte cost. 13 aprile 2023 n. 69). Laddove quindi emergano, nell’ambito del territorio comunale, esigenze di regolazione del traffico veicolare e di contenimento delle ricadute negative sulla sicurezza e incolumità pubblica, il Comune è dotato del potere di soddisfarle con gli strumenti allo stesso offerti dal codice della strada. La sentenza di appello si sofferma poi ad esaminare tutti i rapporti tra la potestà comunale di regolamentare la circolazione stradale e le diverse e fondamentali libertà personali (in particolare, la libertà di circolazione e le libertà economiche, escludendo qualsiasi profilo di incostituzionalità del divieto sia con l’art. 16 Cost. che “non preclude alla legge di adottare, per ragioni di pubblico interesse, misure che influiscano sul movimento della popolazione” (Corte cost. 29 gennaio 2005 n. 66), sia con le libertà economiche, che non “soverchiano le ragioni dell’incolumità e della sicurezza e ciò non solo in ragione del principio di tutela della persona umana che connota la Costituzione italiana ma anche in una prospettiva eurounitaria”. Assume inoltre rilievo sulla competenza legittima del Comune l’ultima parte dello stesso comma 9 dell’art. 7 del d. lgs. n. 285 del 1992, che si occupa espressamente della facoltà comunale di prevedere una specifica tipologia di deroga ai divieti nascenti dall'istituzione di zone a traffico limitato, subordinata al pagamento di una somma di denaro. In tal caso è lo stesso legislatore a stabilire che le tipologie dei comuni che possono avvalersi di tale facoltà, le modalità di riscossione del pagamento, le categorie dei veicoli esentati, nonché, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'art. 8 del d. lgs. n. 281 del 1997, i massimali delle tariffe siano stabiliti “con decreto del Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili” (in base alla modifica apportata al comma 9 dall’art. 7 comma 1 lett. 0a) del d.l. n. 68 del 2022, modificato dalla legge n. 108 del 2022, in precedenza “con direttiva emanata dall'Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale”, introdotto con l’art. 5 comma 1 lett. e) del d. lgs. n. 360 del 1993). Al di fuori di questo caso, pertanto, è lo stesso Comune a definire le deroghe alle limitazioni di circolazione. Non è quindi richiesta una specifica base normativa che consenta al Comune di prevederle, poiché, secondo i giudici d’appello, basterebbe in tal senso il riconoscimento del potere conformativo dell’Amministrazione. I Giudici, infine, partendo dalla consapevolezza che “i provvedimenti impugnati non rappresentano un atto necessitato, né nell’ an , né nel contenuto, e che la scelta discrezionale del Comune si muove in una prospettiva non diffusa sul territorio nazionale e la cui implementazione porta con sé elementi di novità, anche di natura concreta”, hanno esaminato ulteriori profili di interesse generale. Una volta individuata la norma primaria di attribuzione della competenza, la decisione di utilizzare i poteri conformativi relativi alla configurazione delle zone a traffico limitato per il raggiungimento di obiettivi volti alla più ampia tutela della persona, nel solco del principio personalistico che informa l’ordinamento costituzionale, spetta esclusivamente al Comune. Così come resta affidata all'amministrazione comunale il potere di gestire, anche interagendo con gli organi istituzionali coinvolti, le eventuali problematiche relative all’integrazione delle deroghe e le ricadute sulla portata del divieto posto, " così potendo valutare la compatibilità del concreto atteggiarsi di quest’ultimo con gli obiettivi perseguiti, nell’ambito dei termini (sopra indicati) di esercizio del potere conformativo di cui all’art. 7 comma 9 del d. lgs. n. 285 del 1992 ". In altri termini, il Consiglio di Stato - a differenza della visione molto più ristrettiva del Giudice di primo grado - ha riconosciuto un potere fortissimo in capo ai Comuni, e ha contemporaneamente affidato loro il compito di dosare proporzionalmente tale potere, in una prospettiva che peraltro sembra prescindere da profili di automatica illegittimità ma che va semplicemente nella direzione della sussistenza di una responsabilità politica dell'ente. Con l'ulteriore conseguenza - per la verità poco rilevante per il diritto - che le modalità individuate per rispondere alle esigenze della collettività di riferimento costituiranno mero oggetto di valutazione di opportunità da parte dei cittadini, "nell’ambito dell’ordinaria dinamica democratica tipica degli organi elettivi".
Autore: Alma Chiettini 06 mar, 2024
Cass. Civile, sez. V, 5 febbraio 2024, n. 3292 In tema di accertamento delle imposte sui redditi di una società di capitali che presenta una ristretta base partecipativa, la Corte di cassazione afferma da tempo che è legittima la presunzione di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, e che rimane sempre salva la facoltà per la società e per il socio di provare che i maggiori ricavi societari non sono stati fatti oggetto di distribuzione ma sono stati, invece, accantonati oppure reinvestiti; e pure il singolo socio può dimostrare la propria estraneità alla gestione e alla conduzione societaria. Ciò vale sia nelle ipotesi di quote societarie di società familiari sia in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, e dunque la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio. Quello che rileva è solo la ristrettezza dell’assetto societario, la quale implica un vincolo di solidarietà e il reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria. Pertanto, tale peculiare forma partecipativa consente di riconoscere, ai fini della prova presuntiva, i requisiti richiesti dall’ art. 2729 c.c. (sulle presunzioni semplici), mentre non consente di ricondurne il fondamento nell’alveo dell’art. 5 (sulle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice) del d.P.R. n. 917 del 1986 , che è infatti applicabile alle sole società di persone. La Corte di legittimità ricorda che nella tassazione degli utili da partecipazione in società ed enti soggetti a IRES (art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 917 del 1986) si applicano i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci, secondo le diverse percentuali stabilite in funzione della natura del socio partecipante, così come stabilito dagli artt. 47 (per le persone fisiche) e 89 (per imprese e società) e seguenti dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986. Per esempio, per il socio persona fisica che detiene la partecipazione nell’esercizio di un’impresa è prevista l’esenzione limitata al 41,86% (con tassazione del 58,14%), fino ad arrivare all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% sugli utili deliberati per il socio che detiene la partecipazione fuori dall’esercizio di una impresa, sia che si tratti di partecipazione qualificata che non qualificata. Ma la Corte ha da tempo anche precisato che il beneficio dell’esenzione parziale dall’imposizione degli utili societari opera unicamente nel caso in cui si discuta di redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile , e non opera in caso di utili extra-bilancio che, una volta accertati per altra via, vanno imputati in misura intera e non ridotta. Tale conclusione non presenta “alcun intento para-sanzionatorio” ma è fondata sulla considerazione che i soci, come avviene in entità prive di personalità giuridica, abbiano agito ripartendosi sic et simpliciter l’utile societario presuntivamente accertato in capo alla società. Trattandosi dunque di utili ottenuti in evasione di imposta, mai pervenuti nella contabilità societaria in quanto non oggetto di registrazione nelle scritture né di indicazione in dichiarazione, trattandosi, in altre parole, di “utili ‘in nero’ (Cass. civ., sez. V, 23.12.2019, n. 34282), è chiaro che non c’è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione perché la stessa non c’è mai stata, dato che la società non aveva dichiarato quegli utili extracontabili che sono quindi sfuggiti all’imposizione a livello societario. In altri termini: “il beneficio dell’esenzione parziale nell’imposizione degli utili societari viene meno poiché la ripartizione del maggior utile sottratto a imposizione tra i soci giustifica la perdita del beneficio della più mite imposizione degli utili societari, la cui esistenza trova fondamento nel rispetto della normativa sulla loro determinazione in forza unicamente del bilancio di esercizio ” (Cass. civ., sez. VI - 5, 30.11.2022, n. 35293, e la giurisprudenza ivi citata). Tali principi oramai assodati, sono stati ri-affermanti dalla sentenza qui segnalata, la quale ha precisato che quando a una società a ristretta base partecipativa viene contestata la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extra-contabili accertati, “ non è in alcun modo applicabile (diversamente da quanto sostiene parte della dottrina) il disposto di cui all’art. 47 TUIR, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci con delibere formali dell’assemblea e, pertanto, non trova applicazione per i redditi extracontabili, che per definizione non risultano menzionati nella contabilità societaria, poiché trattandosi di utili ottenuti in evasione di imposta … è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione … non avendo la società dichiarato tali utili extracontabili ”.
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