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Autore: dalla Redazione 17 ottobre 2025
Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, sentenza n. 6494 pubblicata il 9 agosto 2025 IL CASO E LA DECISIONE Un cittadino albanese, giunto in Italia da quasi venti anni per ricongiungersi alla sorella, unico suo punto di riferimento in vita, veniva a sua volta raggiunto dalla moglie nel corso dell'anno 2011. D’altra parte, tra il 2010 e il 2013 erano nati i due figli della coppia, uno dei quali aveva fin da subito manifestato problemi respiratori ed era stato sottoposto a molteplici accertamenti medici, con diagnosi di disturbo evolutivo specifico misto e un disturbo del funzionamento sociale con esordio specifico nell'infanzia. Conseguito il permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti , nel febbraio del 2021, alla richiesta di aggiornamento di tale permesso, la Questura procedente si opponeva all’aggiornamento medesimo e revocava contestualmente il permesso UE, a causa di due precedenti penali dell’interessato per il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. Impugnata la revoca dinanzi al Tar, il Giudice amministrativo accoglieva parzialmente la domanda cautelare, nella parte in cui era stato negato al cittadino straniero altro titolo di soggiorno ai sensi del comma 9 dell’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 , e la Questura di Milano convocava l'interessato per la formalizzazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale di cui all'articolo 19 comma 1.2 del d.lgs. n. 286 del 1998 , in quanto fondata sull'esigenza di tutelare il rispetto della vita familiare del ricorrente. Tuttavia, a distanza di oltre un anno, l’amministrazione notificava al ricorrente il provvedimento di diniego della domanda di protezione speciale e il contestuale decreto di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera, sulla base del parere negativo della Commissione territoriale competente al rilascio del permesso richiesto. In particolare, la Commissione aveva richiamato in via analogica la sentenza della Corte Edu, in cui era stata esclusa la sussistenza di una violazione dell'articolo 8 della Convenzione nel caso di rimpatrio di un trentanovenne cittadino marocchino pluripregiudicato che pure aveva vissuto in Italia per vent'anni e aveva in Italia madre, sorella e fratello, in considerazione della preminenza dell'interesse alla salvaguardia dell'ordine pubblico. In senso contrario a tale riferimento giurisprudenziale, tuttavia, il Tribunale di Milano ha ravvisato, nel caso dallo stesso esaminato, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, evidenziando che dalla documentazione prodotta risultava che l’interessato si fosse radicato in Italia insieme al nucleo familiare e avesse raggiunto un buon livello di integrazione sotto tutti i profili (sociale, lavorativo e linguistico). A fronte di tale apprezzabile livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia, il rimpatrio, secondo il Giudice adito, avrebbe violato il suo diritto alla vita privata e familiare , che egli aveva progressivamente sviluppato e poi radicato nel nostro Paese insieme al nucleo familiare. Inoltre, in punto di effettivo inserimento sociale nel Paese ospitante, l’interessato risultava avere acquisito conoscenze professionali nonché una propria autonomia abitativa e una stabile vita di relazione. Infine, la situazione medica del figlio minore rendeva ancora più pregnante la necessità di tutelare la vita privata e familiare del padre. D’altra parte, sempre secondo il Giudice adito, le ragioni in forza delle quali la Commissione territoriale aveva emesso parere negativo al riconoscimento del permesso per protezione speciale non avrebbero potuto considerarsi rilevanti, in quanto le condanne penali alle quali l’amministrazione aveva fatto riferimento dovevano necessariamente essere bilanciate con la vita vissuta dal ricorrente nel corso dei lunghi anni di permanenza sul territorio dello Stato italiano. In particolare, le valutazioni della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo valorizzate dalla Commissione territoriale sarebbero più pregnanti nel diverso contesto del bilanciamento tra il diritto dello Stato di espellere persone ritenute effettivamente pericolose per l’ordine pubblico e diritto dell’espellendo di tutelare la propria vita privata e/o familiare, mentre nel più specifico ambito della protezione internazionale , nel cui alveo si collocano le domande di protezione speciale , ex art. 10 della Costituzione, deve senz’altro prevalere, a dire del Tribunale di Milano, il diritto alla tutela della vita privata e familiare di un soggetto condannato nel tempo soltanto per due reati “lievi”, nell’arco di una permanenza ventennale nel Paese ospitante, permanenza nel corso della quale, a fronte dello scarso profilo di pericolosità sociale derivante dalle condotte illecite accertate, era stato accertato che l’interessato avesse sostenuto un apprezzabile sforzo di integrazione sociale . LA SOLUZIONE IN DIRITTO L’ art. 7 comma 1 del D.L. 20/23 (conv. dalla l. 50/23) , entrato in vigore l’11 marzo 2023, ha tra l’altro abrogato la seconda parte (terzo e quarto periodo) dell’ art. 19 comma 1.1 del Testo Unico Immigrazione . I periodi abrogati prevedevano un espresso divieto di respingimento o di espulsione tutte le volte in cui l’allontanamento potesse comportare una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del richiedente , salvo che l’allontanamento stesso non fosse necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, o di protezione della salute (da qui la definizione di questa forma di protezione speciale come “relativa”, in quanto il diritto in questione era bilanciabile con tali ragioni). La norma indicava poi, con elencazione da ritenersi non tassativa, ma solo esemplificativa, i quattro indici alla cui presenza sorgeva il diritto alla tutela della vita privata e familiare: natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato, suo effettivo inserimento sociale in Italia, durata del suo soggiorno nel territorio nazionale ed esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine. Prima della modifica normativa, tra l’altro, si riteneva che, nella particolare fattispecie della protezione speciale per integrazione sociale , non fosse più necessaria la valutazione comparativa con la condizione del richiedente nel Paese di origine, secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per il riconoscimento della protezione umanitaria, nemmeno nella forma della comparazione attenuata con proporzionalità inversa . La comparazione attenuata con proporzionalità inversa, a sua volta, presupponeva che la condizione di vulnerabilità venisse verificata di volta in volta all’esito di una valutazione individuale della vita privata e familiare del richiedente, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza alla stregua di un più generale principio di comparazione attenuata, concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, nel senso che quanto più fosse risultata accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità, se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficiassero la motivazione, conducendola al di sotto del minimo costituzionale), una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più era consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis , costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri rappresentati dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale . D’altra parte, l’art. 19 comma 1.1 sopra citato non ha subito alcuna modifica nel suo primo periodo; dunque, resta fermo il divieto di respingimento o di espulsione o di estradizione “ di una persona verso uno Stato […] qualora ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5 co. 6. […] ”. A sua volta, resta immutato il sesto comma dell’art. 5 cui tale norma fa rinvio, che dispone che nell’adottare una decisione di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno allo straniero occorre fare “ salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano ”. Pertanto, continuerebbero a trovare tutela nell’alveo della prima parte dell’art. 19 comma 1.1. TUI tutte le situazioni di vulnerabilità ed i diritti che trovavano tutela in precedenza, in quanto rientranti o nel divieto di refoulement (pericolo di tortura, di trattamenti inumani o degradanti, violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di origine), ovvero più in generale nel rispetto degli obblighi costituzionali (diritto di asilo, art. 10; alla salute art. 32; alla parità, art. 3; alle relazioni familiari, artt. 29-31, ecc.) ed internazionali , con particolare riferimento al necessario rispetto dei diritti alla vita privata ed alla vita familiare, che trovano ampia tutela non solo nell’ art. 8 CEDU ma altresì nell’ art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea . Ed è questa la posizione assunta dal Giudice adito nel caso di specie. In particolare, il Tribunale di Milano ha tenuto conto, nel decidere, dei principi elaborati, anche in materia di protezione umanitaria , dalla giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione, che hanno aperto non solo a una concezione allargata della vulnerabilità del cittadino straniero, ma hanno, altresì, introdotto la necessità di una valutazione individuale , caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. Sotto questo profilo, pertanto, i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un' effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa. Sempre sulla base dei principi costituzionali o di diritto unionale o internazionale, è stato ritenuto che ai fini della verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria deve tenersi conto: delle violenze subite nel Paese di transito, degli eventi calamitosi, causa dell’emigrazione, verificatisi nel paese di origine, del rischio di una lesione del diritto alla salute, ivi compreso un accertato disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite, della situazione oggettiva del Paese di origine (ai fini del giudizio di ‘comparazione attenuata’), del diritto alla vita privata e familiare e, a tali fini, dell'esistenza e della consistenza dei legami familiari e affettivi del richiedente in Italia e del suo percorso di integrazione in Italia, non solo sotto il profilo lavorativo, ma anche culturale e sociale (ad es., con riferimento alla conoscenza della lingua italiana ed alle attività di volontariato svolte con continuità) e valutando il livello di integrazione raggiunto non come necessità di un pieno, irreversibile eradicale inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma come ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale di riferimento. Quanto poi alla tutela dei legami famigliari instaurati nel Paese di accoglienza, il Giudice che ha esaminato il caso in commento, decidendolo favorevolmente al ricorrente, ha ricordato che “ la situazione di radicamento familiare, ove sussistente, […], deve essere esaminata e valutata in modo autonomo come fattore di per sé espressivo e sintomatico del diritto al riconoscimento della vita familiare ex art. 8 CEDU, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio del richiedente nel Paese d’origine renda probabile un significativo peggioramento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare tale da pregiudicare il diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU. "
Autore: Alma Chiettini 17 ottobre 2025
In questi giorni è allo studio del legislatore pro tempore la c.d. “ rottamazione-quinquies ” delle cartelle di pagamento , che presumibilmente sarà inserita nella prossima legge di bilancio 2026. Nell’ultimo decennio si sono succedute numerose operazioni c.d. di “rottamazione” delle cartelle di pagamento. Questi i provvedimenti legislativi che hanno disciplinato le varie “rottamazioni” con le successive proroghe dei termini: 1) la “definizione agevolata dei carichi”, c.d. “rottamazione delle cartelle”, disposta dall’ art. 6 del d.l. n.163 del 2016 (convertito dalla l. n. 225 del 2016) che ha interessato “ i carichi affidati agli agenti della riscossione dal 2000 al 2016”, i quali si potevano estinguere senza corrispondere le sanzioni e gli interessi di mora, con il contestuale impegno a rinunciare ad eventuali giudizi pendenti aventi per oggetto quegli stessi carichi ; 2) l’ art. 1 del d.l. n. 140 del 2017 (convertito dalla l. n. 172 del 2017) che ha esteso la “definizione agevolata dei carichi” affidati all’agente della riscossione fino al 30 settembre 2017 nonché i termini per i pagamenti rateali; 3) gli artt. 3 e 5 del d.l. n. 119 del 2018 (convertito dalla l. n. 136 del 2018) , c.d. “rottamazione-ter”, che ha esteso la possibilità di saldare i debiti risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione fino al 31 dicembre 2017; 4) il c.d. “saldo e stralcio” disciplinato dall’ art. 1, commi da 184 a 198, della l. n. 145 del 2018 che, solo per le persone fisiche in situazione di grave e comprovata difficoltà economica, ha previsto la sanatoria dei ruoli derivanti da tributi dichiarati e non versati emergenti dalla liquidazione automatica della dichiarazione (ex artt. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis del d.P.R. n. 633 del 1972); 5) l’a rt. 68 del d.l. n. 18 del 2020 (convertito dalla l. n. 27 del 2020) e l’art. 13 septies del d.l. n. 137 del 2020 (convertito dalla l. n. 176 del 2020) che hanno prorogato i termini per il versamento delle rate previste per le precedenti definizioni agevolate; 6) l’ art. 4 del d.l. n. 41 del 2021 che ha prorogato (fino al massimo del 30.11.2021) le rate della rottamazione-ter di cui al d.l. 119/2018 e quelle del saldo e stralcio di cui alla l. 145/2018; 7) l’ art. 1, commi 231 e ss., della l. n. 197 del 2022 , c.d. “rottamazione-quater”, che ha previsto l’estinzione dei debiti risultanti dai carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022 versando solo le somme dovute a titolo di capitale e quelle maturate a titolo di rimborso delle spese per le procedure esecutive e di notificazione delle cartelle di pagamento; 8) l’ art. 3 bis del d.l. n. 202 del 2024 (introdotto dalla l. di conversione n. 15 del 2025) che ha ri-ammesso alla procedura di definizione agevolata i soggetti decaduti dalla rottamazione-quater con l’onere a loro carico di presentare una nuova domanda e di rispettare un nuovo piano dei pagamenti. Ora, non è infrequente che un contribuente, dopo aver presentato una, ma anche più, istanza/e di definizione agevolata/rottamazione delle cartelle, non versi l’importo dovuto (in unica soluzione o a rate) e che, di conseguenza, decada dal beneficio e quindi riceva la notifica di un’intimazione di pagamento indicante i suoi debiti fiscali contenuti in cartelle di pagamento non evase. Debiti fiscali talora risalenti, per cui il contribuente ricorre al giudice tributario per l’accertamento della loro prescrizione. In questi casi la giurisprudenza ritiene che un’ istanza di rateizzazione e, quindi, stante l’identità di funzione, anche l’adesione a una delle ipotesi di “definizione / rottamazione agevolata delle cartelle” introdotte dal legislatore integrino un riconoscimento del debito idoneo a interrompere la prescrizione ai sensi dell’ art. 2944 c.c. . La richiesta di adesione alla definizione /rottamazione agevolata è un atto volontario, un atto giuridico in senso stretto , di carattere non recettizio, espressione della consapevolezza dell’esistenza del debito. Difatti, il riconoscimento del diritto, idoneo ad interrompere il corso della prescrizione, non ha natura negoziale e va inquadrato nella categoria degli atti giuridici in senso stretto, sicché, da un lato, non deve necessariamente concretarsi in uno strumento negoziale (cioè in una dichiarazione di volontà con specifica intenzione riconoscitiva) e, dall’altro, può consistere anche in un comportamento volontario che, quale manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito, risulti obiettivamente incompatibile col disconoscimento della pretesa del creditore. Per cui il ricorso alla procedura di definizione agevolata costituisce un’ implicita ma inequivocabile rinuncia ad avvalersi della prescrizione , e anche di quella eventualmente già maturata. Tale atto è dunque incompatibile, in punto di fatto prima ancora che di diritto, con l’asserzione di non aver ricevuto le notificazioni delle cartelle di pagamento, e ovviamente anche con l’asserzione di non aver mai conosciuto l’esistenza dei relativi debiti tributari. La richiesta di adesione alla definizione agevolata ha pertanto come imprescindibile presupposto logico-giuridico la piena conoscenza (intesa con la percezione dell’esistenza di un atto e dei profili che lo rendono lesivo alla propria sfera giuridica) e l’intenzionale riconoscimento dei debiti per i quali si chiede la dilazione. E ciò perché è possibile richiedere la rateizzazione del pagamento delle somme iscritte a ruolo soltanto dopo aver avuto conoscenza di tale ruolo e dei relativi carichi e, dunque, anche delle relative cartelle di pagamento. Più precisamente, la Corte di legittimità afferma che “ l’istanza di rateizzazione del debito tributario portato da cartelle esattoriali, pur essendo vero che la relativa domanda non costituisce acquiescenza da parte del contribuente in ordine all’an della pretesa, tuttavia la stessa richiesta integra un riconoscimento del debito tale da interrompe la prescrizione, ex art. 2944 c.c., ed è totalmente incompatibile con l’allegazione del contribuente di non avere ricevuto la notificazione delle cartelle di pagamento … essa fa ritenere conosciute le cartelle di pagamento cui si riferiscono le somme di cui si è chiesta la rateizzazione. … Deve, dunque, ribadirsi, in linea con l’orientamento più recente, che il riconoscimento dell’altrui diritto, al quale l’art. 2944 c.c. ricollega l’effetto interruttivo della prescrizione, si configura senz’altro nella domanda di rateizzazione del debito proposta dal debitore, … e se è vero che, di per sé, non può costituire acquiescenza l’avere chiesto e ottenuto, senza riserva alcuna, la rateizzazione degli importi indicati nelle cartelle di pagamento, nondimeno il riconoscimento del debito comporta in ogni caso l’interruzione del decorso del termine di prescrizione ” ( Cass. civ., sez. V, 12.12.2024, n. 32030; id., 16.12.2024, n. 32679 ). Ed è stato pure soggiunto in tema di rateizzazione del debito , istituto tipico del diritto tributario e oggetto specifica regolamentazione, che “ sintanto che la richiesta di rateizzazione ha avuto seguito (con versamenti eseguiti alle previste scadenze) la prescrizione - già interrotta dalla richiesta del contribuente - subisce uno spostamento in avanti del suo decorso in ragione di ciascun adempimento parziale, esso stesso costituendo (a sua volta) ulteriore riconoscimento del debito ”, e che la prescrizione riprende il suo decorso, ex art. 2935 c.c. , nel momento in cui può essere contestato l’inadempimento del contribuente ( Cass. civ., sez. V, 23.6.2025, n. 16797 ).
Autore: a cura di Federico Smerchinich 6 ottobre 2025
TAR Lazio, Roma, Sezione Terza, sentenza n. 15284 pubblicata il 4 agosto 2025 IL CASO E LA DECISIONE L’articolata sentenza che si commenta prende posizione su un'importante tematica che riguarda il servizio di trasporto: cioè la modalità di tenuta del foglio di servizio elettronico nell’ambito del noleggio con conducente . Il giudizio ha origine da un’impugnativa di ANITRAV – Associazione Nazionale Imprese Trasporto Viaggiatori (di seguito solo “ANITRAV”) avverso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per l’annullamento in principalità del decreto interministeriale n. 226 del 16.10.2024 , che disciplina le modalità di tenuta e compilazione del foglio di servizio elettronico di cui all'' articolo 11, comma 4, della legge n. 21 del 15.1.1992 ai fini dello svolgimento del servizio di noleggio con conducente. La ricorrente, in qualità di associazione di categoria tra le più rappresentative nel settore del trasporto di linea mediante noleggio con conducente (NCC), contesta l’atto impugnato in quanto non sarebbe stato sottoposto al controllo preventivo della Corte dei Conti; avrebbe illegittimamente reintrodotto l’obbligo di rientro in rimessa e alcune esenzioni dallo stesso che sono stati già dichiarati incostituzionali dalla sentenza n. 56/2020 della Corte costituzionale (c.d. regime dei 20 minuti e servizio nell’ambito dei contratti di durata); consentirebbe il trattamento dei dati personali tramite un’applicazione di esclusivo utilizzo del Ministero che esporrebbe i dati stessi a grandi rischi sotto il profilo della tutela alla privacy , oltre ad apparire sproporzionato quanto a modalità, finalità e durata; realizzerebbe un’invasione delle competente della potestà normativa e regolamentare delle Regioni in materia di NCC, violando, altresì, la libertà di iniziativa economica; sarebbe una violazione della direttiva servizi che impone di notificare alla Commissione Europea gli atti limitativi delle libertà in materia di servizi. Nell’ambito del giudizio, la tesi dell’associazione ricorrente è stata sostenuta dalla Regione Puglia e opposta da alcune Associazioni e Cooperative di Taxi. Nello scrutinare il giudizio, innanzitutto, il TAR respinge l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, valorizzando il fatto che ANITRAV persegue in maniera stabile e non occasionale il fine di rappresentare e tutelare le imprese piccole e medie che svolgono attività di trasporto viaggiatori su strada nonché servizi pubblici non di linea, categoria ben individuata e delimitata, della quale mira a promuovere e favorire l’attività imprenditoriale. Gli interessi dei soggetti rappresentati sarebbero dunque lesi dagli atti impugnati. Per sostenere la legittimazione attiva e l' interesse dell’associazione ricorrente, il TAR richiama alcuni indirizzi giurisprudenziali (Cons. St., n. 3932/2011 e Cons. St., V, 7.11.2014, n. 5480) che affermano la possibilità di impugnare gli atti che, anche in maniera generale e astratta, sono in grado di incidere sugli interessi, comportamenti e scelte dei destinatari senza necessità di postergare la tutela giurisdizionale a momenti futuri o a ulteriori provvedimenti attuativi. Ebbene, nel caso di specie, l’atto impugnato inciderebbe direttamente sull’attività dei vettori NCC, anche perché, spiegano i Giudici, " non v’è alcun dubbio che tale incidenza vi sia, in quanto il contenuto dispositivo del decreto impugnato e dei relativi allegati esaurisce i profili di conformazione dell’attività dei vettori NCC connessi all’introduzione del foglio di servizio elettronico, residuando esclusivamente la definizione di aspetti meramente tecnici legati all’accesso all’applicazione informatica, e ha diretta incidenza sul comportamento dei destinatari della disciplina, nonché sulla convenienza economica dei rapporti instaurati con i terzi" . Sempre in rito, il TAR ritiene non estensibile il giudizio ai rappresentanti della categoria dei taxi e inammissibile l’intervento della Regione Puglia, ritenuta un controinteressato che ha prestato acquiescenza al provvedimento lesivo. Passando al merito, viene dichiarato inammissibile il motivo di ricorso relativo al trattamento dei dati personali , dato che la posizione fatta valere con tale doglianza è, infatti, la tutela della vita privata e familiare di soggetti terzi ai conducenti, bene di cui, tuttavia, l’associazione ricorrente non può in alcun modo reputarsi titolare, né la ricorrente ha addotto la sussistenza di profili di rilevanza alla doglianza immediatamente attinenti alla propria sfera giuridica (Cons. Stato, II, 23.4.2025, n. 3496). In questo senso non potrebbe neanche ritenersi che gli operatori NCC assumerebbero la qualità di titolari del trattamento di dati personali. Il TAR ritiene, poi, infondato il motivo di ricorso secondo cui l’atto impugnato sarebbe stato assoggettabile al controllo della Corte dei Conti. Difatti, non si tratta di atto normativo, bensì di atto amministrativo assunto da un’Autorità Amministrativa alla luce dell’art. 11, co. 4, della legge 15.1.1992, n. 21, come sostituito dall’art. 10-bis del decreto-legge 14.12.2018, n. 135 (convertito con legge 12/2019). Risulta, invece, fondato il motivo di ricorso che censura la sovrapposizione di competenze e lo sconfinamento della delega legislativa , laddove consente a un organo centrale dello Stato di conservare le informazioni relative al foglio elettronico con accesso consentito a un’ampia platea di soggetti, inclusi i dipendenti comunali, gli appartenenti ad organi militari e di polizia e i dipendenti delle motorizzazioni civili, nonché per un periodo di tempo (3 anni) significativamente superiore a quello di 15 giorni previsto dalla legge per il foglio di servizio cartaceo. Per suffragare la fondatezza del motivo, il TAR ricostruisce il quadro normativo in materia, evidenziando che con il decreto-legge 14.12.2018, n. 135 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11.2.2019, n. 12) modificativo della legge 15.1.1992, n. 21, il legislatore ha operato un complessivo riassetto del regime afferente all’esercizio dell’attività di NCC, introducendo le seguenti modifiche alla previgente disciplina contenuta nella: - possibilità di effettuare la prenotazione del servizio, oltre che presso la rimessa, anche presso la sede, e altresì mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici (nuovo art. 3, co. 1, l. n. 21/1992); - possibilità di disporre, oltre che della rimessa situata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, di ulteriori rimesse nel territorio di altri comuni della medesima provincia o area metropolitana (art. 3, co. 3, l. n. 21/1992); - possibilità, anche per i titolari di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente di autovettura ovvero di natante, in caso di malattia, invalidità o sospensione della patente, intervenute successivamente al rilascio della licenza o dell'autorizzazione, di mantenere la titolarità della licenza o dell'autorizzazione a condizione che siano sostituiti alla guida dei veicoli o alla conduzione dei natanti, per l'intero periodo di durata della malattia, dell'invalidità o della sospensione della patente, da persone in possesso dei requisiti professionali e morali previsti dalla normativa vigente (art. 10, co. 2-bis, l. n. 21/1992); - previsione dell’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un foglio di servizio in formato elettronico, le cui specifiche sono stabilite dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministero dell'interno, in sostituzione del foglio di servizio cartaceo già previsto dalla previgente normativa (art. 11, co. 4, l. n. 21/1992); - previsione dell’obbligo di rientro in rimessa al termine di ogni servizio (già precedentemente introdotto ma successivamente sospeso dall’art. 7-bis, co. 1, del D.L. n. 5/2009, con disposizione reiterata di anno in anno sino all’intervento del D.L. n. 135/2018) e delle relative deroghe, che consentivano di iniziare un nuovo servizio senza il rientro in rimessa quando: i) sul foglio di servizio sono registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d’attracco, più prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all’interno della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione (art. 11, co. 4-bis, l. n. 21/1992); ii) in via transitoria, quando il servizio è svolto in esecuzione di un contratto in essere tra cliente e vettore, stipulato in forma scritta con data certa sino a quindici giorni antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto e regolarmente registrato (art. 10-bis, co. 9, d.l n. 135/2018); - possibilità di fermata su suolo pubblico durante l’attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell'effettiva prestazione del servizio stesso (art. 11, co. 4-ter, l. n. 21/1992); - istituzione, presso il Centro elaborazione dati del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, di un registro informatico pubblico nazionale delle imprese titolari di licenza per il servizio taxi effettuato con autovettura, motocarrozzetta e natante e di quelle di autorizzazione per il servizio di noleggio con conducente effettuato con autovettura, motocarrozzetta e natante (c.d. RENT, art. 10-bis, co. 3, d.l. n. 135/2018); - disciplina, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministro dello sviluppo economico, da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dell’attività delle piattaforme tecnologiche di intermediazione che intermediano tra domanda e offerta di autoservizi pubblici non di linea (art. 10-bis, co. 8, d.l. n. 135/2018). Per quanto di interesse, poi, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 56/2020 ha ritenuto ragionevoli e non sproporzionati l’obbligo di ricevere le richieste di prestazioni e le prenotazioni presso la rimessa o la sede, anche con l’utilizzo di strumenti tecnologici, l’obbligo di compilare e tenere un “foglio di servizio”, nonché la temporanea moratoria al rilascio di nuove autorizzazioni NCC fino alla completa operatività del RENT. Secondo il TAR, con l' architettura data dal decreto contestato, l’Amministrazione ha precostituito i presupposti per realizzare un controllo generalizzato dell’intera attività dei vettori NCC, per un periodo di tempo particolarmente lungo (3 anni), tramite la diretta disponibilità, accentrata in mano pubblica, di tutti i dati concernenti i servizi di tutti gli operatori attivi sull’intero territorio nazionale, con acquisizione anche delle informazioni riguardanti gli spostamenti degli utenti. Ciò considerato, il TAR ha valutato illegittime le previsioni del decreto ministeriali, in quanto la normativa primaria non consentirebbe un assetto di questo tipo e il Ministero avrebbe travalicato le proprie competenze. Ulteriormente, il TAR, analizzando la tematica del foglio di servizio elettronico che, per espressa previsione normativa sovraordinata, deve essere non solo compilato ma anche tenuto dal conducente , ha evidenziato che la normativa non prevede la possibilità di conservazione di questo foglio fino a creare un archivio digitalizzato , con un meccanismo particolarmente pervasivo che non era nelle intenzioni del legislatore, un meccanismo che reca un pregiudizio ancora maggiore, considerata la durata triennale della tenuta dello stesso. Dunque, il Ministero avrebbe superato i limiti posti dal legislatore nazionale. Da ultimo, il TAR accoglie anche i motivi relativi al “ regime dei 20 minuti ”, affermando che l’introduzione di un vincolo temporale tra la prenotazione e l’inizio del servizio non può in alcun modo essere riguardato come una specifica del foglio di servizio, costituendo a tutti gli effetti un vincolo conformativo dell’attività dei vettori NCC e, quindi, un profilo di regolazione della relativa attività. La circostanza che il suddetto vincolo sia introdotto sotto forma di un blocco dell’applicazione informatica, che consente la registrazione della bozza del foglio di servizio solo fino a 20 minuti prima dell’inizio del servizio stesso, costituisce un mero espediente finalizzato a ricondurre all’oggetto della delega un (nuovo) limite all’esercizio dell’attività non previsto, né consentito, dalla legge. Uguale considerazione viene fatta dal TAR in merito alla necessità di coincidenza tra partenza e arrivo del servizio nella medesima data. RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA POTERE LEGISLATIVO E POTERE AMMINISTRATIVO Come spesso accade, l’Amministrazione, con un’attività di gold plating , ha disciplinato la materia dello strumentario di servizio di un operatore professionale privato superando il dato legislativo e arrivando a porre delle condizioni che rischiano di gravare sia sulla privacy dei clienti, sia sulla libertà d’iniziativa economica dei gestori del noleggio con conducente, richiedendo oneri eccessivi e non proporzionati, né giustificati. L’importanza di rispettare il principio di separazione dei poteri emerge tutte quelle volte in cui il confine tra potestà legislativa e potere amministrativo si assottiglia, da un lato perché la materia richiede plurimi atti attuativi, dall'altro perché le competenze tecniche dei due plessi – legislativo e amministrativo – non sono ben amalgamate. E, così, come in questo caso, si concretizza il rischio che l’amministrazione pubblica interferisca o si sovrapponga al potere legislativo andando a iper regolare una materia o a porre condizioni più gravose di quelle ammesse dalla legge. Nel caso di specie, il Giudice amministrativo evidenzia che il Ministero pare avere sbagliato in due direzioni. Da una parte, ha strumentalizzato l’attività dei NCC di tenuta dei dati, trasformandola in un controllo generalizzato della durata di ben 3 anni, a differenza dei 15 giorni ammessi dalla legge. Dall’altra, ha vincolato in maniera troppo stringente i vettori NCC al regime dei 20 minuti (da rispettare tra una corsa e l’altra). Il tutto, "fingendo" di operare sulle specifiche tecniche del foglio di servizio, m effettivamente andando a conformare l'attività di servizio, in eccedenza rispetto a quanto richiesto dal Legislatore. La sentenza in commento prova a riportare a regime il sistema partendo da due fili conduttori: la tutela della privacy (peraltro soltanto "evocata", in quanto secondo i Giudici la legittimazione a preservarla non sarebbe degli operatori) e il rispetto della libertà di iniziativa economica dei vettori. Difatti, non bisogna dimenticare che, nella ripartizione delle competenze tra potere legislativo e potere esecutivo, è il primo a porre le basi normative, mentre al secondo competono gli aspetti attuativi. Perciò, quando l’amministrazione pone dei vincoli contrastando o superando il dato normativo, ecco che allora si pone in antitesi con il potere legislativo, introducendo una norma in maniera non consentita. E, soprattutto, in un settore come quello dei trasporti – dove la tematica dei NCC è particolarmente sensibile e spinosa – l’importanza di coordinamento tra potere legislativo e potere esecutivo è un aspetto imprescindibile, considerando la portata nazionale che lo stesso ha. Tuttavia, questo non è solo un tema di antinomie di stretto diritto, bensì anche una questione pratica di rilievo. Perché se si consente un controllo generalizzato dell’attività dei vettori NCC attraverso la disponibilità accentrata in mano pubblica di tutti i dati di servizio degli operatori, si crea certamente un problema di privacy e di concorrenza, potendosi anche profilare le attività dei singoli NCC, con controllo pervasivo di un’attività imprenditoriale che per Costituzione dovrebbe essere libera. Problemi che rischiano di aggravare gli oneri dei conducenti NCC, svantaggiandoli sul mercato rispetto ad operatori di altri servizi. Peccato soltanto che il TAR adito non abbia indagato a fondo, rilevando preliminarmente un'inammissibilità del ricorso sul punto, la questione dell' aggressione alla riservatezza dei dati personali dei trasportati , quando probabilmente il preservare tale riservatezza costituisce anch'esso un diretto interesse dei conducenti, al fine di rendere più appetibile la loro offerta di trasporto.
Autore: dalla Redazione 1 ottobre 2025
Tribunale sez. uff. indagini preliminari - Roma, ordinanza del 31/01/2025 IL CASO Alcuni soggetti venivano imputati dinanzi al Tribunale penale di Roma ai sensi dell' art. 346-bis c.p. , per avere pianificato, in concorso tra di loro, lo sfruttamento di relazioni personali e occulte con il Commissario per l'emergenza sanitaria nazionale Covid, al fine di indurre tale soggetto - pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni - a compiere atti contrari ai doveri di ufficio (atti integranti l'abrogato reato di abuso di ufficio). Così facendo, avrebbero ottenuto, in favore di specifici imprenditori anch'essi concorrenti nel reato, una esclusiva di fatto nell'intermediazione delle forniture di maschere chirurgiche e dispositivi di protezione individuale, in violazione dei doveri di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, così come richiamati anche dall'art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27. L'accreditamento in tal modo operato presso il Commissario produceva, secondo l'accusa, da un lato la garanzia della possibilità di selezionare "in solitaria" le società cinesi a cui commissionare la fornitura di un numero rilevante di mascherine protettive, per un importo pari a oltre a un miliardo di euro, dall'altro l'ottenimento per l'accreditatore di quasi 12 milioni quale prezzo per l'illecita mediazione. Nel corso dell'udienza preliminare, il Pubblico ministero sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera e) della legge n. 114 del 2024, nella parte in cui tale norma aveva modificato in "riduzione" lo spettro di azione dell'art. 346 bis c.p., sul presupposto che, consistendo la principale condotta criminosa contestata agli imputati in una mediazione onerosa teleologicamente orientata alla commissione di fatti che, nella legislazione all'epoca vigente, costituivano ipotesi di abuso di ufficio a vantaggio indebito di privati, l'intervenuta modifica normativa avrebbe privato di rilevanza penale un fatto non solo di estrema gravità ma anche in relazione al quale era stato disposto il sequestro del profitto e del prezzo del reato. Il Giudice penale adito accoglieva l'impostazione accusatoria, ritenendo non manifestamente infondata la questione sollevata, oltre che rilevante ai fini del decidere, e conseguentemente rimetteva con ordinanza gli atti alla Corte costituzionale. TRAFFICO DI INFLUENZE E NUOVA FORMULAZIONE Il reato previsto e punito dall'art. 346-bis c.p. prevedeva, originariamente, la reclusione da uno a tre anni, per la condotta di colui che, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente si faceva dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. La stessa pena si applicava anche a chi indebitamente dava o prometteva denaro o altro vantaggio patrimoniale. Successivamente, la L. n. 3 del 2019 , in attuazione dell'obbligo internazionale derivante dalla Convenzione di Strasburgo sulla corruzione, ha riformulato la struttura della fattispecie, ampliando l'area di applicabilità della norma, con particolare riferimento - ma non solo - alla natura della utilità erogata o promessa, ed elevato i limiti edittali della pena. Tuttavia, con un ulteriore intervento normativo, l' art. 1 lett. e) della L. n. 114 del 2024 ha ridotto in misura consistente il possibile parametro applicativo della fattispecie, introducendo le seguenti specificità della condotta: - il profilo della mediazione illecita deve consistere nell'utilizzazione intenzionale intenzionale di relazioni realmente esistenti, e non anche meramente asserite, con l'agente pubblico; - l'utilità data o promessa per la mediazione illecita viene limitata ai casi di denaro o altra utilità economica; - la predetta mediazione deve essere finalizzata alla commissione di un reato da parte dell'agente pubblico, dal quale possa derivare un vantaggio indebito. Secondo il Tribunale di Roma, nel caso in commento, la contestuale abrogazione del reato di abuso di ufficio ad opera della stessa legge n. 114 del 2024 ha reso, di fatto, la norma di cui all'art. 346-bis c.p., nell'ipotesi di mediazione onerosa , di difficilissima applicazione, anche e soprattutto perché uno dei reati-obiettivo era proprio l'abuso di ufficio. Sempre secondo il Giudice penale di primo grado, in punto di ammissibilità della questione di costituzionalità prospettata nel caso concreto, l'eventuale declaratoria di illegittimità della norma che da ultimo ha riformulato l'art. 346-bis del codice penale, restringendone sensibilmente, come detto, la portata, avrebbe sì come effetto in malam partem quello di far rivivere la previgente e più ampia formulazione della condotta sanzionabile (effetto ordinariamente inammissibile, in quanto sussiste in materia incriminatrice riserva assoluta in favore del legislatore), ma sarebbe giustificata in via eccezionale - secondo quanto statuito in recenti arresti dalla stessa Corte costituzionale - dalla asserita contrarietà della modifica legislativa del 2024 a specifici obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell' art. 117 della Costituzione . In particolare, nell'ipotesi del reato di traffico di influenze , sussisterebbe con portata cogente, e necessità di incriminazione delle fattispecie oggetto di parziale depenalizzazione, la Convenzione di Strasburgo (Convenzione penale sulla corruzione adottata dal Consiglio d'Europa), la quale, all’ art. 12 , con riguardo al traffico di influenze, avrebbe posto per gli Stati aderenti, un vero e proprio obbligo di incriminazione, e non una “raccomandazione”, ovvero un “obbligo a prendere in considerazione”. Inoltre, la convenzione di Strasburgo ha individuato un contenuto minimo di condotte che devono essere necessariamente oggetto d'incriminazione, e ha dato rilievo, contrariamente alla normativa introdotta con la L. n. 114 del 2024, allo sfruttamento, da parte del mediatore, di relazioni non solo esistenti ma anche millantate, oltre che, quale contropartita della condotta illecita, a qualsiasi vantaggio indebito, e non solo a utilità economiche. Dubita il Tribunale di Roma anche della legittimità, in rapporto alla citata convenzione, della limitazione del concetto di mediazione illecita a quella diretta a far commettere al funzionario pubblico un atto contrario ai doveri d'ufficio costituente reato . D’altra parte, prosegue il Giudice penale di primo grado, il contenuto precettivo dell'art. 12 della Convenzione di Strasburgo, nel delineare in maniera dettagliata le condotte che devono essere previste come reato dagli Stati membri (quale “contenuto minimo”), non si porrebbe in contrasto con l' art. 25, comma 2 della Costituzione e con il principio di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice ovvero con altri principi fondamentali della Carta costituzionale; in altri termini, la norma pattizia internazionale apparirebbe conforme a Costituzione e ben potrebbe essere considerata come parametro di valutazione delle leggi ordinarie interne. Inoltre, quanto al rilievo per cui, a differenza di altre fattispecie di reato delineate nella Convenzione di Strasburgo, il traffico di influenze non avrebbe analoga portata cogente in virtù della possibilità di formulare sul punto “riserve” da parte degli Stati aderenti, il Tribunale di Roma fa rilevare che il dispositivo pattizio è ormai divenuto vincolante per lo Stato Italiano, posto che all'atto dell'approvazione della legge 3/2019 non erano state confermate ulteriormente le riserve apposte al momento del deposito della ratifica. In conclusione, il Giudice penale di primo grado dubita della legittimità dell'art. 1, comma 1, lett. e) della L. n. 114/2024, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri di ufficio costituente reato non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti della ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio. La disposizione della Costituzione violata sarebbe, nel caso di specie, l'art. 117 Cost., non avendo gli organi legislativi dell'ordinamento rispettato il vincolo discendente dagli obblighi internazionali, tra i quali rientrano anche quelli di incriminazione. Conclude il Tribunale di Roma, dunque, nel senso che una legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato internazionale, si pone in diretto contrasto con l'art. 117 Cost.. La parola, adesso, passa al Giudice delle leggi.
Autore: Gregorio Tagliapietra, già funzionario dell'Ufficio del Processo 22 settembre 2025
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, 06/02/2025 (Ricorsi n. 36617/18 e altri 12) IL CASO La controversia in commento origina dai ricorsi proposti innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo da tredici aziende italiane avverso le autorizzazioni e gli ordini di servizio esibiti dai verificatori (appartenenti alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate) in sede di accesso presso i loro locali commerciali o professionali . I ricorrenti hanno sostenuto che tali accessi, nonché la consultazione, la copia o il sequestro dei loro documenti contabili, dei libri sociali e di altri documenti fiscali, erano illegittimi in quanto effettuati in violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione . Tale disposizione, infatti, prescrive il divieto di ingerenza da parte dell’autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare, a meno che la stessa sia conforme alla legge. Nello specifico, i ricorrenti hanno sostenuto che la normativa nazionale in materia di accessi presso i locali commerciali e professionali conferisce all’autorità pubblica un potere discrezionale illimitato atteso che, da una parte, l’autorizzazione all’attuazione delle misure non è sottoposta ad un controllo giurisdizionale, né ex ante né ex post , dall’altra, che non sono disciplinate le condizioni che giustificano l’accesso, in quanto l’autorizzazione non deve contenere una motivazione specifica. Il Governo ha sostenuto che le misure impugnate hanno una base nel diritto interno e che tale base è conforme a quanto richiesto dall’art. 8 della Convenzione. In particolare, ha sottolineato che: a) le norme nazionali richiedono l’autorizzazione dell’organo di gestione competente; b) ai sensi dell’ art. 12 della l. n. 212/2000 (“Statuto dei diritti del contribuente”), gli accessi sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo; c) la stessa disposizione prescrive il diritto del contribuente di essere informato sulle ragioni che hanno giustificato la verifica e sull’oggetto che la riguarda; d) esistono delle linee guida emanate ogni anno dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, liberamente accessibili, che forniscono istruzioni in merito alla selezione dei contribuenti da sottoporre a verifica e agli specifici profili di rischio da considerare; e) l’autorizzazione all’accesso può essere impugnata innanzi ai giudici tributari unitamente all’avviso di accertamento emesso all’esito del controllo; se, per contro, le misure non portano all’emissione di un avviso di accertamento, le stesse possono essere impugnate dinanzi ai giudici civili. LA SOLUZIONE La Corte, ribadito che nella nozione di domicilio di cui all’ art. 8 della Convenzione rientrano la sede legale e i locali commerciali e professionali del contribuente, ha indagato sulla natura dell’ingerenza esercitata dall’autorità pubblica nei casi sottoposti al suo esame, al fine di valutare se la stessa possa essere giustificata. Il secondo comma dell’art. 8 della Cedu, come anticipato, prescrive che l’ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata e familiare del contribuente sia conforme alla legge se: a) prevista da una norma di legge; b) persegua uno degli scopi legittimi ivi elencati; c) sia necessaria, in una società democratica, per il raggiungimento di tali scopi. Innanzitutto, la Corte ha ritenuto pacifico tra le parti che le misure avessero un fondamento nel diritto interno, ossia, per quanto riguarda l’Agenzia delle Entrate, l’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972 e l’art. 33 del d.p.r. n. 600/1973 che disciplinano gli accessi, le ispezioni e le verifiche , rispettivamente in materia di iva e di imposte dirette, per quanto riguarda la Guardia di Finanza, l’ art. 35 della l. n. 4/1929 . Inoltre, l’art. 12 della l. n. 212/2000, fornisce una serie di garanzie e tutele a favore del contribuente sottoposto a verifica fiscale. L’indagine dei giudici ha avuto ad oggetto la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali , in particolare se il quadro giuridico interno indicasse in modo chiaro e prevedibile le circostanze e le condizioni in cui le stesse sono autorizzate ad attuare le misure contestate, e se delimitasse l’oggetto e la portata di tali misure. Con riferimento al primo profilo, la Corte, rilevata la distinzione tra gli accessi presso le abitazioni , per i quali l’autorizzazione può essere rilasciata solo in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie e deve essere emessa dall’autorità giudiziaria, e gli accessi presso i locali commerciali e professionali , per i quali sono invece sufficienti “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e l’autorizzazione viene emessa dal responsabile dell’ufficio, ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui in questo secondo caso l’autorizzazione rappresenta “un mero adempimento procedimentale, la cui ratio è individuabile nell’opportunità che la perquisizione trovi l'avallo di un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata” (Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28563). Ad avviso dei giudici di legittimità, pertanto, in relazione ai locali adibiti a scopi commerciali e professionali, il quadro giuridico interno non richiede che l’autorizzazione all’accesso venga motivata. Allo stesso modo, la Corte ha ritenuto che le linee guida emanate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate sui criteri da adottare nella selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo non fossero sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità conferito all’autorità pubblica in quanto, alla luce delle giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, in assenza di un dovere di motivare le lettere di incarico, il rispetto di tali criteri non è monitorabile e non rappresenta una condizione per la legittimità dell’autorizzazione. Per tutte queste ragioni, è stato ritenuto che: “ la base giuridica delle misure impugnate non fosse in grado di delimitare in modo sufficiente l’ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di “qualità del diritto” di cui all’articolo 8 della Convenzione ”. Considerazioni simili valgono con riferimento alla delimitazione dell’oggetto e della portata delle autorizzazioni impugnate. Innanzitutto, la Corte ha rilevato l’ampiezza del potere di ispezione documentale disciplinato al comma 4 dell’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972, posto che la norma lo estende “a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l'accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali”. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la portata delle prove e dei documenti che possono essere acquisiti dalle autorità nazionali non è limitata a quelli relativi agli esercizi oggetto di accesso o a specifiche violazioni, ma può estendersi a qualsiasi altro documento che le autorità che attuano le misure possono ritenere pertinente (Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Nel caso delle ricorrenti, l’ambito di applicazione delle misure impugnate comprendeva tutti i documenti e le prove relativi al rispetto degli obblighi fiscali dei richiedenti per diversi anni, senza limitare in alcun modo la portata delle ispezioni effettuate nei loro locali. In tale contesto, la Corte ha quindi ritenuto che il quadro normativo non delimitasse in misura sufficiente l’oggetto dell’acquisizione documentale, consentendo all’autorità pubblica di esercitare un potere discrezionale illimitato. Per quanto riguarda, invece, l’esistenza di un controllo giurisdizionale ex post , la Corte ha rilevato che gli atti di autorizzazione all’accesso non rientrano tra quelli autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 546/1992 e che eventuali vizi potranno essere sollevati solo in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento che ne è derivato, in quanto l’autorizzazione costituisce un atto preparatorio la cui legittimità incide sulla validità dell’avviso di accertamento. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la liceità dell’autorizzazione all’accesso presso i locali commerciali non pregiudica la validità dell’avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova i documenti acquisiti con il provvedimento impugnato, salvo il caso in cui l’autorizzazione manchi del tutto (cfr. Cass. Civ. 29 aprile 2016, n. 8547; Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Tanto premesso, la Corte ha sostenuto che il ricorso al giudice tributario costituisce un rimedio meramente potenziale, nonché necessariamente differito e non può equivalere ad un ricorso giurisdizionale ex post . Parimenti, la prospettazione del Governo secondo cui, in tutti i casi in cui all’accesso non segue l’emissione di un avviso di accertamento, l’autorizzazione ad accedere ai locali potrebbe essere impugnata dinnanzi al giudice civile, non è stata ritenuta decisiva da parte della Corte. Vale, infatti, quanto già sopra rilevato in relazione alle linee guida: in assenza di un dovere di motivazione delle autorizzazioni, la Corte non vede come i giudici civili possano esercitare un controllo significativo sulle misure disposte dall’Amministrazione. Infine, con riferimento alla possibilità di ricorrere al Garante del Contribuente ai sensi dell’art. 13 della l. 212/2000 , la Corte ha evidenziato che, poiché questi non emette decisioni vincolanti, bensì semplici raccomandazioni, il reclamo non costituisce un rimedio effettivo contro possibili scelte arbitrarie dell’amministrazione finanziaria. Alla luce di tutto quanto evidenziato, la Corte ha concluso che, anche se le misure impugnate avevano un fondamento giuridico nel diritto interno, tale contesto ha conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato per quanto riguarda sia le condizioni di attuazione delle misure controverse sia l’ambito di applicazione di tali misure . Allo stesso modo, l’assenza di un adeguato controllo giurisdizionale sulle autorizzazioni dell’Amministrazione, non ha garantito al contribuente il livello minimo di protezione di cui ha diritto ai sensi della Convenzione. Di conseguenza, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. LE INDICAZIONI DEI GIUDICI Posto che la violazione accertata è stata ritenuta di carattere sistemico, ossia risultante dal contenuto del diritto interno, come interpretato e applicato dai giudici nazionali, il Giudice europeo ha ritenuto opportuno fornire allo Stato italiano alcune indicazioni al fine di evitare ulteriori violazioni in futuro. È stato innanzitutto premesso che la maggior parte delle misure ritenute necessarie sono già previste dalla normativa nazionale, in particolare dagli artt. 12 e 13 della l. n. 212/2000, ma i principi generali ivi enunciati “devono essere attuati mediante norme specifiche nel diritto interno, mentre la giurisprudenza dovrebbe essere allineata a tali principi e a quelli stabiliti dalla Corte”. Nello specifico, la Corte europea ha stabilito che il quadro giuridico interno dovrebbe: a) indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad eseguire gli accessi presso i locali commerciali e professionali; b) stabilire garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l’uso di documenti e oggetti non connessi con l’obiettivo della misura in questione; c) prevedere il diritto del contribuente, al più tardi al momento di inizio della verifica, di essere informato dei reali motivi che giustificano la verifica e della sua portata, del suo diritto di essere assistito da un professionista e delle conseguenze del rifiuto di autorizzare la verifica; d) prevedere un controllo giurisdizionale immediato ed effettivo sulla misura contestata, che non sia subordinato all’emissione dell’avviso di accertamento.