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Autore: dalla Redazione 6 dicembre 2025
Tribunale di Milano, Sezione lavoro, sentenza n. 2919/2025 pubblicata il 07/08/2025 IL CASO Un’avvocata ex dipendente comunale per venti anni, nel corso dei quali è stata assegnata all’Avvocatura comunale previa iscrizione nell’Elenco speciale allegato all’Albo degli Avvocati, ha chiesto dinanzi al Giudice del lavoro l’accertamento del suo diritto ad ottenere i compensi professionali che ancora le spettano senza che sugli stessi sia operata la decurtazione economica corrispondente alle somme dovute a titolo di IRAP dall’ente datore di lavoro. Contestualmente, ha chiesto altresì, una volta accertato il suo diritto al compenso “depurato” dell’onere fiscale in questione, il riconoscimento degli arretrati dovuti dal Comune per l’attività professionale già liquidata e la relativa condanna dell’amministrazione locale alla corresponsione in suo favore di oltre 35.000 euro a tale titolo. La ricorrente ha rappresentato di avere sempre percepito, nel corso del rapporto di lavoro quale avvocata comunale, un trattamento retributivo composto da una parte fissa e una parte variabile costituita dai compensi professionali derivanti dall’attività giudiziale svolta, ma che su tale parte variabile il Comune suo datore di lavoro avrebbe illegittimamente trattenuto una quota del dovuto a copertura dell’imposta regionale IRAP, traslando così a suo carico il relativo onere. Invero, dal confronto tra i prospetti di riparto e i cedolini paga prodotti in giudizio, emergeva che, per un lungo periodo – nonostante non vi fosse evidenza alcuna della trattenuta IRAP –, le somme liquidate a titolo di compensi professionali erano inferiori all’importo di cui alle relative determine dirigenziali, con una differenza superiore alla mera incidenza degli oneri riflessi propriamente intesi, mentre, a partire dal 2014, le determine di liquidazione dei compensi professionali esplicitavano lo scomputo – dall’ammontare complessivo dei compensi professionali, calcolati già al netto delle spese – dell’importo relativo agli oneri riflessi (ovvero i contributi previdenziali), da un lato, e dell’importo relativo all’IRAP, dall’altro. L’amministrazione convenuta, pur non negando l’allegata traslazione, si è difesa sostenendo che i compensi professionali costituirebbero emolumenti a carico delle finanze pubbliche , sia quelli conseguenti alle pronunce di compensazione delle spese legali, sia quelli derivanti dal rimborso delle spese legali, preventivamente accertati in entrata nel bilancio del Comune. Tali compensi, costituendo parte integrante del trattamento economico dell’avvocato pubblico dipendente, soggiacerebbero di conseguenza alle regole della spesa pubblica per il personale e, segnatamente, al principio secondo cui le risorse destinate alla contrattazione decentrata integrativa non possono causare aggravio di spesa per l’Amministrazione. In altri termini, nella prospettazione difensiva del Comune resistente, lo stesso Comune, in quanto tenuto a operare nel pieno rispetto della disciplina sulla copertura dei fondi e della regola della copertura finanziaria di cui all’ art. 81, comma 4, Costituzione , dovrebbe procedere a un preventivo accantonamento delle somme dovute per l’imposta in questione, con semplice collocamento delle necessarie risorse, a monte, nel fondo di incentivazione . Tale fondo costituisce un fondo collettivo in cui confluiscono tanto le spese legali versate dalle controparti del Comune quanto i compensi quantificati nelle note spese dell’Avvocatura, al fine di finanziare i compensi professionali degli avvocati dell’Avvocatura comunale, con le modalità e nei limiti fissati dal Regolamento comunale e dalle norme di legge e di contratto. D’altra parte, seguendo l'impostazione della resistente, una volta individuato l’importo complessivamente introitato e quanto indicato nelle note spese di un determinato periodo, verrebbe poi operata la ripartizione della somma complessiva indicata con specificazione degli importi e dei relativi capitoli di spesa del “compenso netto”, con liquidazione individuale da farsi dopo l’approvazione della spesa complessiva . Secondo il Comune convenuto, pertanto, pur essendo pacifica la traslazione dell’onere IRAP a carico degli avvocati dell’ente, avrebbe dovuto valorizzarsi nel caso di specie la peculiarità di un sistema di finanza pubblica in cui detta traslazione era effettuata sul monte complessivo dei compensi da ripartire e non, pro quota , sul compenso erogato al singolo dipendente. LA DECISIONE E LE CONSEGUENZE SULL’ERARIO DEL PAGAMENTO DI IMPOSTA Il Tribunale ha accolto integralmente le domande proposte dalla ricorrente, dopo avere ricostruito la specifica disciplina applicabile al caso esaminato (riconducibile, in particolare, a quanto disposto dall' Appendice 5 del Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi di cui alla Deliberazione 788/2014, poi modificata dalla Deliberazione 1751/2019 ) e, prima ancora, dopo avere individuato, sulla base del dato legislativo, il soggetto passivo dell'imposta . Invero, ai sensi dell’ art. 2, co. 1, D. Lgs. 446/1997 , presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive è “ l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta ”. Secondo poi il successivo art. 3, co. 1, e-bis, D. Lgs. 446/1997 , tra i soggetti passivi dell’imposta vi sono anche le amministrazioni pubbliche di cui all’ articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 . Al riguardo, le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione hanno chiarito che “ il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’“id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente, che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta, dare la prova dell’assenza delle predette condizioni ” (Cass. Civ., SS.UU., 26 maggio 2009, n. 12108). Sulla base di questi principi, il Giudice adito ha dunque concluso che soggetto passivo dell’imposta in discorso sia il Comune convenuto, quale datore di lavoro dotato di un’autonoma organizzazione di cui è direttamente responsabile. Nel merito, il Tribunale ha preliminarmente evidenziato che fosse del tutto irrilevante il fatto che l'accertata traslazione operata dal Comune sia effettuata sul monte complessivo dei compensi da ripartire e non, pro quota , sul compenso erogato al singolo dipendente, in quanto il “compenso netto” ripartito restava in ogni caso quello risultante dalla previa detrazione. Tanto premesso, è stata richiamata la deliberazione del 7 giugno 2010, n. 33 delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti , nella quale è stato chiarito che l’IRAP non può rientrare nel novero dei cosiddetti “oneri riflessi” – ossia degli oneri che ricadono sulla Pubblica Amministrazione in ragione della corresponsione di emolumenti ai propri dipendenti – in quanto costituisce, al contrario, un "onere diretto” dell’amministrazione e, come tale, resta a pieno titolo a carico di quest'ultima. Invero, diversamente ragionando, l'IRAP, da imposta che colpisce non i redditi personali, ma il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, si trasformerebbe in un’imposta sul reddito. Successivamente, sempre la Corte dei Conti , interpellata all'epoca proprio dal Comune resistente, con Deliberazione dell’11 settembre 2018, n. 267 , ha ritenuto che il pagamento dell’IRAP dovuta dal Comune sui compensi professionali dei propri avvocati non avrebbe dovuto comportare una corrispondente decurtazione della somma finale corrisposta al singolo avvocato a titolo di compenso professionale, in conseguenza dell’individuazione dell’Amministrazione quale soggetto passivo dell’obbligazione tributaria. D'altra parte, anche il Consiglio di Stato, Sezione quinta, n. 4970 del 5 ottobre 2017 , aveva confermato tale orientamento, annullando un regolamento comunale nel quale si disponeva che i compensi dell’avvocatura fossero comprensivi degli oneri riflessi e dell’IRAP. Sotto altro profilo, il Giudice adito - anche in considerazione delle difese proposte dall'ente convenuto - ha evidenziato che l'amministrazione, quale debitrice d’imposta, sarebbe stata in ogni caso tenuta a costituire, nel rispetto dell’ordinamento contabile, la provvista necessaria al pagamento della medesima. Sul punto, sono stati richiamati i principi espressi dalla Corte Suprema di Cassazione proprio nell’ambito di una controversia avente per oggetto la traslazione dell’IRAP operata sui compensi erogati agli avvocati, pubblici dipendenti, dell’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale. Il Giudice di Legittimità, in particolare, ha chiarito che “ i compensi dovuti all’avvocatura interna dell’INPS, ai sensi delle pertinenti disposizioni di legge, regolamentari interne e della contrattazione collettiva, in relazione all’attività giudiziale svolta, sono una componente della retribuzione di tali dipendenti e pertanto spettano al netto dell’IRAP, che resta a carico del datore di lavoro, il quale non può farla gravare su di essi né in via diretta (applicando una ritenuta) né in via indiretta (riducendo a monte e in proporzione le risorse che, in base alle fonti anzidette, sono specificamente destinate a titolo di compensi professionali), e neanche opponendo la prevalenza, sul diritto di credito del lavoratore, degli obblighi derivanti dalla normativa in tema di contabilità pubblica e di redazione dei bilanci, la cui violazione non può paralizzare l’azione contrattuale di adempimento esercitata dal lavoratore medesimo, in relazione alla quale quest’ultimo deve solo provare la fonte del proprio diritto e dedurre l’inadempimento del datore di lavoro ” (Cass. Civ., Sez. Lav., 21 aprile 2025, n. 10404). Il Supremo Collegio ha precisato, altresì, che “ l’accantonamento della menzionata imposta sul fondo destinato alla retribuzione accessoria in esame è consentito solo se le risorse complessive ivi allocate superino o i limiti massimi di spesa eventualmente fissati da norme inderogabili di legge o, qualora siffatti limiti non esistano o non siano stati allegati o dimostrati, l’ammontare complessivo di tale credito, come riconosciuto dalla contrattazione collettiva e dai regolamenti interni dell’ente ” Ne consegue che il fatto che l'amministrazione sia obbligata al rispetto della disciplina sulla copertura dei fondi e, quindi, della regola della copertura finanziaria imposta dall’art. 81 Cost., comma 4 - e debba dunque quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti accantonando le somme necessarie per fronteggiare l’onere IRAP - non implica che il predetto onere possa essere detratto dal monte complessivo dei compensi spettanti ai dipendenti pubblici. D'altra parte, le disposizioni del d.Lgs. n. 165/2001 hanno sempre perseguito l’obiettivo di armonizzare l’avvenuta contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico con l’esigenza primaria di garantire il controllo ed il contenimento della spesa, esigenza dalla quale derivano, da un lato, il divieto per il datore di corrispondere trattamenti economici che non trovino fondamento nella contrattazione collettiva o nella legge (ciò, perché entrambe dette fonti presuppongono la previa valutazione della sostenibilità finanziaria), e, dall’altro, la previsione di nullità delle clausole della contrattazione integrativa non compatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni. Tuttavia, il necessario preventivo accantonamento, nell’ambito del fondo di incentivazione, delle somme dovute dall’ente datore di lavoro per far fronte agli obblighi tributari (ivi compresa l’IRAP) relativi ai compensi professionali spettanti agli avvocati interni, porta con sé anche il divieto di farne conseguire qualsiasi trattenuta (per la quota dovuta dall’ente a titolo di IRAP o di altri tributi) in sede di liquidazione dei compensi medesimi , avendo l’ente già garantito adeguata copertura finanziaria agli obblighi in questione, che pertanto gravano definitivamente sul bilancio dell’ente (Cass. Civ., Sez. Lav., 21 febbraio 2024, n. 4681). Pieno riconoscimento del diritto patrimoniale fatto valere in giudizio dall'ex dipendente, dunque. Con la paradossale aggiunta di un'ulteriore condanna in suo favore al pagamento di somme indebitamente trattenute a titolo stipendiale e di cui però il Comune resistente non ha saputo fornire il giustificativo. Rimane da chiedersi, a questo punto, se l'ente pubblico in questione - unitamente a qualche altra amministrazione sparsa in giro per l'Italia - trarrà i dovuti insegnamenti da questa pronuncia, la cui linearità e correttezza sembra fuori discussione, o persisterà a seguire una regola di condotta che potrebbe non solo risultare ingiustificatamente vessatoria nei confronti del dipendente ma anche dare adito a contestazioni di natura contabile, posto che le somme non erogate vanno poi restituite con gli interessi a tutti i soggetti che versano nell'identica posizione della ricorrente.
Autore: dalla Redazione 5 dicembre 2025
Corte di Giustizia dell'Unione europea (Settima Sezione), sentenza del 16 ottobre 2025 nella causa C-218/24 IL CASO E LA DECISIONE Due donne, madre e figlia, in partenza dall'Argentina e dirette a Barcellona con volo Iberia, imbarcavano il loro animale di compagnia, un cane femmina, in stiva, per via delle sue dimensioni e peso. Tuttavia, al momento dell'imbarco, il cane usciva dal trasportino in cui avrebbe dovuto viaggiare e non veniva recuperato prima della partenza dell'aereo. Conseguentemente, non veniva "recapitato" a destinazione. A fronte dell'accaduto, la proprietaria dell'animale chiedeva il ristoro del danno morale subito , ma la compagnia aerea le opponeva il limite risarcitorio di cui all' art. 22, paragrafo 2, della Convenzione per l'unificazione di alcune regole relative al trasporto aereo internazionale, firmata a Montreal il 28 maggio 1999 . Ne scaturiva un contenzioso presso il Tribunale di commercio di Madrid, in merito al quale il Giudice sollevava dei dubbi sul fatto che la nozione di «bagagli» , ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, ricomprendesse anche gli animali da compagnia che viaggiano con i passeggeri. In particolare, secondo il Tribunale di Madrid, sarebbe stato lecito chiedersi se il limite di risarcimento previsto all’articolo 22, paragrafo 2, di tale convenzione si applichi a detti animali, dal momento che la perdita degli stessi, in quanto esseri senzienti, ai sensi dell’ articolo 13 TFUE , o esseri viventi dotati di sensibilità, conformemente al diritto spagnolo, legati ai loro proprietari da legami affettivi, comporterebbe un danno psicologico non paragonabile, in generale, a quello causato dalla perdita di un semplice insieme di cose corrispondente alla nozione di «bagagli». La convenzione di Montreal, suggeriva il Giudice del rinvio, avrebbe dovuto essere interpretata nel senso di escludere, dalla sua applicazione, l'assimilazione tra bagagli e animali domestici e/o da compagnia. L'impostazione del Tribunale di Madrid viene tuttavia "respinta" dalla Corte di Giustizia, sostanzialmente per due ragioni tra di loro concorrenti. La prima, afferisce alla circostanza secondo cui l’ articolo 1 della Convenzione di Montreal si riferisce distintamente alle persone e ai bagagli, di modo che la nozione di «persone» comprenderebbe soltanto quella dei «passeggeri», e un animale da compagnia non potrebbe essere assimilato a un «passeggero», nonostante il significato comune del termine «bagagli» rinvii a oggetti. Tale interpretazione sarebbe confermata sia dai lavori preparatori che hanno portato all’adozione della Convenzione di Montreal, da cui non risulta che gli Stati contraenti abbiano inteso equiparare un animale da compagnia a un passeggero o assoggettare un tale animale al regime di responsabilità applicabile ai passeggeri, sia dagli obiettivi che hanno condotto all’adozione della suddetta Convenzione di Montreal, ovvero la previsione di un regime di responsabilità oggettiva dei vettori aerei , a cui avrebbe dovuto affiancarsi, al fine di preservare un «giusto equilibrio degli interessi» dei vettori aerei stessi e dei passeggeri, una limitazione di risarcimento applicata «per passeggero» , di modo da consentire da un lato un ristoro agevole e rapido, dall'altro una minore gravosità complessiva dell'onere di riparazione, che, laddove non calcolabile preventivamente, potrebbe arrivare a paralizzare l'attività economica degli operatori coinvolti. In secondo luogo, nel caso esaminato, la proprietaria del cane non aveva effettuato la dichiarazione speciale di interesse alla consegna a destinazione, dietro pagamento di un’eventuale tassa supplementare, e dunque non poteva giovarsi dell'innalzamento dell'ordinario limite di responsabilità del vettore aereo per il danno derivante dalla perdita di bagagli. La Corte di Giustizia dell'Unione europea ha risposto dunque, rispetto alla questione interpretativa sollevata, che l’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, in combinato disposto con l’articolo 22, paragrafo 2, di quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che gli animali da compagnia non sono esclusi dalla nozione di «bagagli» ai sensi di tali disposizioni. BENESSERE DEGLI ANIMALI TRASPORTATI, DANNO MORALE E LIMITE RISARCITORIO In forza dell’ articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 2027/97 , la responsabilità di un vettore aereo dell’Unione in relazione ai passeggeri e ai loro bagagli è disciplinata da tutte le pertinenti disposizioni della Convenzione di Montreal . Tuttavia, la nozione di «bagagli» di cui a tale disposizione non è definita né nella Convenzione di Montreal né nel regolamento n. 2027/97, il cui articolo 2, paragrafo 1, lettera d), rinvia a tale convenzione enunciando che tale nozione corrisponde, in mancanza di altra definizione, a qualsiasi bagaglio consegnato o meno, ai sensi dell’ articolo 17, paragrafo 4 , della convenzione stessa. Passaggio importante, sotto un profilo giuridico, è peraltro quello secondo cui la nozione di bagaglio deve ricevere un’ interpretazione uniforme e autonoma per l’Unione e i suoi Stati membri , tenuto conto, in particolare, dell’oggetto della Convenzione di Montreal, che è quello di unificare alcune norme relative al trasporto aereo internazionale. Ciò esclude a priori che si debbano considerare, a tali fini, i diversi significati che possono essere attribuiti alla stesso nozione nel diritto interno degli Stati membri, e non invece le regole di interpretazione del diritto internazionale generale che sono vincolanti per l’Unione Ne consegue che si applicano in questo caso l’ articolo 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 , sul diritto dei trattati, che riflette il diritto internazionale consuetudinario e le cui disposizioni fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione, che precisa che un trattato deve essere interpretato in buona fede, secondo il senso comune da attribuire ai suoi termini nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo, e l'art. 32 dello stesso testo, che prevede che si possa ricorrere a mezzi complementari d’interpretazione, in particolare ai lavori preparatori del trattato in questione e alle circostanze in cui esso è stato concluso. Utilizzando tali coordinate ermeneutiche, la Corte di Giustizia, nel cercare il contesto in cui è menzionato il termine «bagagli» di cui all’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, si sofferma in particolare sull’ articolo 1 di tale convenzione, che determina l’ambito di applicazione della medesima, evidenziando che tale disposizione elenca, in modo tassativo, tre categorie di trasporto internazionale effettuato a titolo oneroso mediante aeromobile, vale a dire il trasporto internazionale di persone, di bagagli e di merci . Il riferimento distinto alle persone e ai bagagli, contenuto in tale disposizione, esclude, secondo il Giudice adito, che un animale da compagnia possa essere assimilato a un «passeggero». Sul piano interpretativo, dunque, il passaggio operato dalla Corte di Giustizia sembra lineare e corrispondente all'intenzione dei sottoscrittori della Convenzione di Montreal. Più problematica, tuttavia, è la contemperazione tra la tutela del benessere degli animali (trasportati), e la limitazione risarcitoria del danno morale da perdita eventualmente spettante al beneficiario della compagnia di tali animali, ovvero il proprietario degli stessi. Al riguardo, secondo il Giudice adito, non inficia il suo approdo interpretativo l’ articolo 13 TFUE , ai sensi del quale, nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti , rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale. Pur essendo infatti la tutela del benessere degli animali un riconosciuto obiettivo - anche in chiave di orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia - di interesse generale dell’Unione, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’articolo 13 TFUE non vieta che gli animali stessi siano trasportati come «bagagli», ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, e che siano considerati tali nell’ambito del sistema di responsabilità istituito da tale convenzione, " a condizione che le esigenze in materia di benessere degli animali siano pienamente prese in considerazione al momento del loro trasporto" . Resta il dubbio sul fatto che tali esigenze possano congruamente confluire in un documento asettico e comunque parametrato al valore di beni materiali come è quello rappresentato dalla speciale dichiarazione di interesse di cui all'art. 22, comma 2 della Convenzione, in un contesto dichiaratamente volto alla regolamentazione del risarcimento dovuto - quale limite assoluto che comprende tanto il danno morale quanto il danno patrimoniale -per la perdita o distruzione di un insieme di cose, posto che, tra l'altro, per ciò che concerne gli animali da compagnia, il termine "distruzione" dovrebbe ormai lasciare il passo a quello più umanamente accettabile di morte.
Autore: a cura di Federico Smerchinich 30 novembre 2025
TAR Lazio, Roma, Sez. II, 23.07.2025, n. 14631 IL CASO E LA DECISIONE Una società operatrice del mercato della produzione di armi ha impugnato gli atti della gara per l’affidamento della fornitura di pistole semiautomatiche (in numero di 3.800) complete di caricatore, oltre un caricatore di riserva per arma e di fondine, per il Corpo di Polizia Roma Capitale. In particolare, sono stati impugnati il bando, il capitolato e i provvedimenti che hanno avviato la suddetta procedura. La società ricorrente ha contestato, principalmente, che la fornitura potesse riguardare unicamente pistole prodotte dalla casa Heckler & Koch (di seguito anche “H.K.”) mod. SFP9 cal. 9x19 Luger, senza clausole di equivalenza, e la violazione dell’art. 79 del Codice dei contratti pubblici, e con esso della parte 2.A dell’all. II.5 del Codice citato, che pone il divieto di introdurre specifiche tecniche con l’effetto di limitare in modo ingiustificato la concorrenza nel sistema degli appalti pubblici. Da parte sua, la stazione appaltante si è difesa, rilevando come la gara di cui sono stati impugnati gli atti avrebbe fatto seguito ad una precedente procedura ristretta, conclusa nel 2023, che ha condotto l’Amministrazione a definire delle modalità di equipaggiamento del tutto confacenti alle esigenze degli agenti di polizia (allorché fu prescelta la pistola H.K. e invece il modello Beretta APX A1 fu ritenuto non idoneo). In altre parole, la scelta sarebbe frutto di precedenti analisi di mercato e della necessità di offrire continuità agli agenti dal punto di vista dell’attività manutentiva e di addestramento rispetto ai prodotti forniti in passato. Nella tesi dell’amministrazione le qualità della pistola H.K. sono individuate nella sicurezza dell’arma, nelle esigenze di addestramento degli agenti e nella facilità manutentiva, mentre sul tema dell’infungibilità viene opposto che la stazione appaltante avrebbe ampia discrezionalità nella scelta del prodotto. All’esito dell’udienza cautelare, il TAR adito ha deciso di trattenere la causa in vista di una sentenza semplificata, con la quale è stato accolto il ricorso. Nel dettaglio, il ragionamento del Giudice amministrativo è partito dalla relazione tecnica che la stazione appaltante ha posto alla base della gara. Nella stessa è riportato che la pistola HECKLER & KOCH mod. SFP9 cal. 9x19 Luger rappresenterebbe l’unica soluzione possibile, attese le caratteristiche uniche ed intrinseche del prodotto stesso, in grado di garantire il pieno soddisfacimento delle esigenze rilevate. Dalla stessa relazione si evincerebbe che non vi sarebbero alternative di prodotti adeguati alle esigenze della stazione appaltante. Tuttavia, ad avviso del TAR, le motivazioni esternate dall’Amministrazione nella lex specialis non avrebbero giustificato la scelta di mettere a gara un prodotto a marchio specifico , senza peraltro l’ammissione di prodotti con soluzioni equipollenti (cd. clausola di equivalenza ). Evidenzia il TAR che per sostenere l’infungibilità di un prodotto, la pubblica amministrazione dovrebbe fornire una motivazione rigorosa , stante la deroga al principio di concorrenzialità. Quindi, in assenza di detta motivazione e in presenza di richiesta di prodotti specifici, è risultata limitata la concorrenza. Il Giudice di primo grado cita, poi, il dato normativo dell’allegato II.5 del Codice, richiamato dall’art. 79, che prevede, alla parte II A n. 4, che “l e specifiche tecniche consentono pari accesso degli operatori economici e non devono comportare ostacoli ingiustificati all'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza ” e, al n. 6, che “S alvo che siano giustificate dall'oggetto dell'appalto, le specifiche tecniche non possono menzionare una fabbricazione o provenienza determinata o un procedimento particolare caratteristico dei prodotti o dei servizi forniti da un operatore economico specifico, né far riferimento a un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un'origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti. Tale menzione o riferimento sono tuttavia consentiti, in via eccezionale, nel caso in cui una descrizione sufficientemente precisa e intelligibile dell'oggetto dell'appalto non sia possibile applicando il punto 5. In tal caso la menzione o il riferimento sono accompagnati dall'espressione < > ”. Quindi, l’unicità del prodotto richiesta nella lex specialis di gara è possibile solo ove non esistano altre soluzioni sul mercato. Anche l’ Anac, nelle Linee Guida n. 8/2017 , ha confermato gli assunti che precedono, chiarendo, fra l’altro, anche in applicazione della giurisprudenza comunitaria (C. Giust. UE 8 aprile 2008, causa C-337/05), che “ la stazione appaltante non può accontentarsi al riguardo delle dichiarazioni presentate dal fornitore, ma deve verificare l’impossibilità a ricorrere a fornitori o soluzioni alternative attraverso consultazioni di mercato, rivolte anche ad analizzare i mercati comunitari e/o, se del caso, extraeuropei. Neppure un presunto più alto livello qualitativo del servizio ovvero la sua rispondenza a parametri di maggior efficienza può considerarsi sufficiente a giustificare l’infungibilità ”. Alla luce di questi riferimenti normativi e della prassi ANAC, il TAR conclude che la stazione appaltante non ha dimostrato l’unicità del prodotto pistola H.K. sul mercato, né che solo questo soddisfacesse l’interesse della stazione appaltante o che prodotti di altri marchi non avrebbero consentito di soddisfare l’interesse pubblico o sarebbero costati molto di più. Secondo il Tribunale adito, la stazione appaltante avrebbe dovuto usare altre tecniche di elaborazione della lex specialis , ad esempio utilizzando sistemi premiali, o criteri di valutazione per le caratteristiche tecniche dei prodotti, o fornendo indagini di mercato che potessero dimostrare l’univocità del prodotto da scegliere o l’impossibilità di altri marchi (Beretta, Colt, ecc.) di raggiungere il medesimo risultato. Alla luce di quanto ricostruito, secondo il TAR, se la stazione appaltante avesse correttamente istruito la procedura di gara e creato atti di gara specifici, il prodotto migliore sarebbe comunque risultato all’esito delle valutazioni delle offerte. In ragione di tutte queste motivazioni, il ricorso è stato dunque accolto e la procedura annullata. PRODOTTI SPECIFICI, CONCORRENZA ED ESIGENZE DELL'AMMINISTRAZIONE Il mercato è per sua natura composto da prodotti diversi che servono per soddisfare esigenze similari. Quale sia il migliore prodotto dipende dal mercato stesso e da come lo stesso viene recepito dall’utenza: buoni prodotti vengono acquistati da più soggetti, con un costo che si incrementa nel tempo. Prodotti nuovi o meno specifici, solitamente, hanno costi meno elevati per trovare una posizione di mercato sfruttando la concorrenzialità del prezzo offerto. Questo principio si riflette anche nel mondo delle commesse pubbliche, dove le amministrazioni individuano l’esigenza e l’interesse pubblico che possono essere soddisfatti sia tramite prodotti specifici, che tramite i loro equivalenti. In merito al concetto di “equivalenza” la giurisprudenza ha dato varie interpretazioni. Quanto poi alla discrezionalità nella scelta della stazione appaltante di indicare un prodotto specifico, senza offrire la possibilità di proporre prodotti equivalenti, l a soluzione operata dal TAR nella sentenza in commento pare oltremodo condivisibile, soprattutto alla luce dei principi fondamentali del nuovo codice dei contratti pubblici: risultato, fiducia, accesso al mercato. Difatti, la scelta del d.lgs. n. 36/2023 di porre la concorrenza non come fine, ma come mezzo per raggiungere l’interesse pubblico, dovrebbe imporre alle pubbliche amministrazioni di far sì che sia il mercato a decidere quale è il prodotto migliore per ogni esigenza, di modo che la discrezionalità amministrativa volta a individuare i prodotti migliori tra diverse soluzioni offerte, si correli infine proprio alla scelta già operata dal mercato. D'altra parte, solo attraverso il confronto concorrenziale può essere garantito il risultato finale auspicato nel caso concreto, ovvero di fornire agli agenti prodotti utili, funzionanti, facili da manutenere e coerenti con le attività da svolgere. Tanto più che, a differenza di altre situazioni, la stazione appaltante poteva contare su precedenti indagini di mercato e gare che avevano restituito degli output in grado di individuare quel “risultato” che tante volte rimane evanescente e astratto nelle scelte amministrative, risultando anche difficilmente sindacabile dai giudici amministrativi. Leggendo la sentenza, invero, pare chiaro l’obiettivo che la stazione appaltante voleva raggiungere, così come gli strumenti che aveva a disposizione. Semplicemente, è stata scelta una via errata – o meglio “prudenziale” nell’ottica dell’amministrazione, che voleva contare su un prodotto “sicuro”, perché già usato –, ovvero quella di scegliere a priori il marchio specifico da utilizzare per le esigenze da soddisfare. Nonostante quanto detto, si può comunque osservare che la scelta della stazione appaltante non era totalmente da stigmatizzare almeno nelle sue finalità (la sicurezza), dato che riflette una volontà di cautela verso il prodotto specifico e, forse, di poca fiducia per i marchi differenti. Ma, proprio su questo occorre ragionare. La fiducia, principio cardine del nuovo sistema di rapporti tra pubblica amministrazione e privati, avrebbe dovuto guidare la stazione appaltante ad affidarsi al mercato (e ai suoi operatori economici) e attendere che fosse lo stesso a portare alla soluzione più confacente alle esigenze ravvisabili nel caso di specie. In conclusione, questo è uno dei tanti casi da cui risulta evidente che è necessario un cambio culturale delle stesse pubbliche amministrazioni, che porti a riempire di significato e funzione i principi alla base del codice dei contratti pubblici, che dovrebbero essere usati dalle stesse durante il procedimento amministrativo, invece che astrattamente richiamati solamente nelle difese in giudizio, quasi a formare orpelli alle scelte ormai già fatte secondo canoni non più codificati e legati alla sola prassi.
Autore: Alma Chiettini 26 novembre 2025
Cass. civ., sez. V, 12.11.2025, n. 29900 L ’art. 32, comma 1, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che “i dati e gli elementi” attinenti a rapporti e a operazioni acquisiti e rilevati presso banche , Poste italiane s.p.a., per le attività finanziarie e creditizie, società ed enti di assicurazione per le attività finanziarie, intermediari finanziari, imprese di investimento, organismi di investimento collettivo del risparmio, società di gestione del risparmio e società fiduciarie, e per qualsiasi rapporto intrattenuto o operazione effettuata, “ sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili ”. In senso conforme dispone l’ art. 51, comma 2, n. 2), del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA. Tali disposizioni comportano – per tutti i contribuenti (come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, il quale rinvia all’art. 32, comma 1, n. 2) – che i versamenti su di un conto corrente si presumono ricavi che rilevano ai fini delle imposte dirette, e anche eventualmente dell’IVA, a meno che il contribuente dimostri che di quei versamenti ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che essi non hanno rilevanza allo stesso fine (e che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni IVA o che non si riferiscono a operazioni imponibili). Per i prelevamenti , la presunzione si applica solo ai titolari di reddito d’impresa e non ai lavoratori autonomi o ai professionisti intellettuali, in quanto la Corte costituzionale (con la sentenza n. 228 del 2014) ha stabilito che tale presunzione per questi secondi soggetti era illegittima perché “ lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati a un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito ”. Tanto, sull’assunto che il fondamento economico-contabile della presunzione legale è congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi. All’opposto, “ l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo … marginalità che assume differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali ”. L’art. 32 e l’art. 51 qui in esame introducono, in favore del Fisco, una presunzione legale che muove dall’utilizzazione di dati ed elementi acquisiti a seguito di indagini finanziarie - essenzialmente quelle bancarie - per fondare (anche) su di essi (salve le disciplinate eccezioni per gli importi massimi giornalieri e mensili) le rettifiche delle dichiarazioni dei redditi. È una presunzione a carattere relativo (quindi iuris tantum ), e non già assoluto, perché opera solo se il contribuente non offre la prova contraria dimostrando, alternativamente: a) che di tali dati ed elementi ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta; b) o che essi non hanno rilevanza allo stesso fine; c) oppure che i prelevamenti e gli importi riscossi risultano dalle scritture contabili; d) o, infine, che gli stessi hanno un determinato soggetto beneficiario indicato puntualmente dallo stesso contribuente. È una presunzione che si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale. L’art. 32 e l’art. 51 trovano regolare applicazione nelle indagini finanziarie e quindi, sono sovente oggetto di lettura dalla giurisprudenza tributaria. Con la sentenza segnalata la Corte di legittimità ha posto l’attenzione sulla ratio delle due norme, osservando che la presunzione relativa ivi disciplinata “ è conforme all’id quod plerumque accidit, per la quale i versamenti sul conto corrente, salvo prova contraria del contribuente, ove non dichiarati o risultanti dalle scritture contabili, costituiscono ‘ricavi occulti’ sottratti alla tassazione ”, mentre “ i prelevamenti, se non risultanti dalle scritture contabili e salvo che non sia indicato il beneficiario, costituiscono, per un pari importo, ricavi ”. La Corte ha quindi affermato (richiamando la pronuncia della Corte costituzionale n. 10 del 2023 ) che “ il legislatore nell’intento di contrastare più efficacemente gravi fenomeni di evasione, ha introdotto una sorta di duplice meccanismo inferenziale in forza del quale se un imprenditore effettua un prelievo non risultante dalla contabilità lo stesso deve ritenersi compiuto per sostenere ‘costi occulti’ che a propria volta hanno prodotto pari ‘ricavi occulti’, salvo che il contribuente indichi il beneficiario del prelievo ”. Ha così confermato (anche con copiosi richiami a propri precedenti) che l’art. 32 e l’art. 51 prevedono una presunzione legale che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (richiesti invece dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici), e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica contraria basata sulla specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono a operazioni imponibili. La prova deve dunque dimostrare che ciascuna delle singole operazioni effettuate era estranea a fatti imponibili. Nondimeno, una “ così marcata accentuazione del favor per il Fisco ” richiede il bilanciamento con il regime della prova contraria da parte del contribuente, che è estesa a ogni presunzione semplice e integrata dalla deducibilità del fatto notorio. Ne deriva che il contribuente imprenditore può eccepire, non solo in caso di accertamento induttivo puro ma anche in caso di accertamento analitico-induttivo, la “ incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati ” affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva di cui all’ art. 53 della Costituzione (Corte cost. n. 10 del 2023), senza che al contribuente competa l’onere di indicare specificamente detti costi o di provarne l’effettivo sostenimento. A tutto ciò consegue l’obbligo del giudice di merito, a fronte di movimentazioni bancarie risultate irregolari e ingiustificate, di fare applicazione della presunzione legale (relativa) di disponibilità di maggior reddito di cui agli artt. 32 e 51 citati; di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione accertata e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze; se i costi non sono stati riconosciuti dall’Amministrazione finanziaria, di accertare il quantum dei costi sostenuti per la produzione del reddito, quantificandoli in via presuntiva anche con riferimento alle medie elaborate dall’Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, o, se del caso, anche a mezzo di CTU (Cassazione, sez. V, 25.6.2025, n. 17016).
Autore: a cura di Corrado Pascucci, già Presidente di Tribunale e di Commissione tributaria 25 novembre 2025
E’ stato in via definitiva approvato al Senato il disegno di legge costituzionale, a firma del(la) Presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia, riguardante “ Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte Disciplinare… ” che prevede: 1) la c.d. “separazione delle carriere” tra magistrati giudicanti e requirenti; 2) l’istituzione di due CSM (rispettivamente per i magistrati requirenti e i giudicanti) ; 3) un’ Alta Corte Disciplinare. Poiché la legge non è stata approvata a maggioranza dei due terzi del Parlamento, occorrerà attendere tre mesi per l’eventuale (molto probabile) referendum “confermativo” o “oppositivo” (se ne dà opposta definizione a seconda che a qualificarlo sia la maggioranza parlamentare che ha scritto la riforma o la minoranza che l’ha contrastata), privo comunque di quorum (la circostanza avrà effetti sul risultato referendario). Separazione delle carriere. L’ art 104 della Costituzione , che stabiliva che “la magistratura costituisce un (unico) ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” è stato integrato con la dicitura “ ed è composto dalla carriera giudicante e da quella requirente ”. Non è azzardato sostenere che, più che la separazione delle carriere, è stata di fatto introdotta la separazione della magistratura, considerato che al posto dell’unico CSM vengono previsti due CSM: uno relativo ai magistrati giudicanti e l’altro ai magistrati requirenti, che avranno concorsi di accesso diversi, carriere diverse e in nessun modo intercambiabili, valutazione professionali diverse. Insomma, la Magistratura è stata di fatto scissa in due: Magistratura giudicante, con un proprio CSM e Magistratura requirente, con un proprio CSM. Rimane da chiedersi le ragioni che hanno portato a questa modifica costituzionale la quale sempre, e di sicuro questa volta, come è stato autorevolmente scritto, ha l’obiettivo di mutare gli equilibri istituzionali in favore di un potere a scapito di un altro. La Corte Costituzionale , nel giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum popolare sull’abrogazione di alcune disposizioni o parti di disposizioni dell’Ordinamento giudiziario in tema di passaggio dalle funzioni giudicanti alle requirenti o da queste a quelle, con la sentenza n. 37 del 2000 (in senso conforme la sentenza n. 58 del 2022) si esprimeva nei termini dell’ammissibilità giacché “ la Costituzione, pur considerando la Magistratura un unico Ordine, soggetto ai poteri dell’unico CSM, non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti o requirenti, o che impedisca limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dall’una all’altra funzione ”. Secondo i supremi giudici, dunque, nulla impediva che si potesse limitare o condizionare il passaggio dei magistrati da una funzione all’altra oppure dare luogo a carriere separate, purché all’interno dell’unità della Magistratura governata da un unico CSM. Coerentemente al sopradescritto dictum , con la legge Cartabia del 2022 (che ha portato a estreme conseguenze la legge Castelli del 2006) si sceglieva così di dettagliare le forme e i tempi del mutamento delle funzioni, e cioè del passaggio dei magistrati dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti o da quest’ultime alle prime. Si è così previsto che il magistrato che esercita la funzione requirente oppure quella giudicante può cambiarla in quella diversa una sola volta nel corso dei primi dieci anni della sua carriera ma alla condizione tassativa di traslocare in altra sede territoriale (ad es. dalla Lombardia al Piemonte o alla Liguria o ad altra regione; v ’è da dire incidentalmente come i passaggi di funzione interessino attualmente in via residuale meno del 4% dei magistrati e cioè 30/40 su un organico di circa 10.000). Magistrati distinti solo per funzione, giudicante e requirente, dunque, tutti e due governati dall’unico CSM. Senonché tale indicazione del supremo giudice si è voluta abbandonare in favore di una modifica della normativa costituzionale, il cui punto nevralgico è l’istituzione di un ulteriore, distinto (da quello dei magistrati giudicanti) CSM, chiamato a governare la diversa posizione e carriera dei PM. Nella lettura propagandistica che se ne fa, tale revisione costituzionale avrebbe la finalità di evitare la confusione e commistione dei ruoli tra magistrati requirenti e giudicanti, a garanzia - si dice - del diritto dell’imputato a essere giudicato da un magistrato organicamente diverso da quello che lo ha investigato ed accusato. Tale asserita preoccupazione in realtà non ha motivo di essere solo che si ponga mente al fatto che a legislazione vigente nell’ambito del processo l’imputato non corre in nessun momento il rischio di vedere il suo inquisitore (magistrato inquirente) sedere nel banco di chi successivamente sia chiamato ad esprimersi nei suoi confronti in termini di colpevolezza o innocenza (magistrato giudicante). Ma, si obietta da parte dei nuovi legislatori, la separazione delle carriere ( rectius : della Magistratura ) è imposta o comunque deriva o comunque è una conseguenza del riformato (con Legge costituzionale 23.11.1999, n. 2) art 111 della Costituzione che, come è noto, stabilisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo , nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. Il giudice terzo, secondo tale lettura della norma costituzionale, non può che essere un giudice separato anche da un punto di vista per così dire ordinamentale dal PM, un giudice che dunque sia inquadrato in un CSM diverso dall’altro, destinato a governare la carriera del magistrato inquirente, giacché solo con tale separazione si evita il rischio (o addirittura l’evenienza) che la collocazione comune nella stessa struttura giurisdizionale produca risultati decisori condizionati (a favore dell’accusa, si dice maliziosamente, sebbene solo a fior di labbra ). Orbene, non c’è dubbio che esistano ordinamenti giuridici in cui il magistrato giudicante anche sul piano della sua collocazione ordinamentale è distinto da quello requirente (e forse dovrebbe meglio dirsi inquirente). Ma non esiste un modello unico di PM e contano le tradizioni giuridiche diverse dei vari paesi. La nostra costituzione, caduto il fascismo e nata la Repubblica, ha deliberatamente scelto l’ unità della magistratura , formata da giudicanti ed inquirenti, con un unico CSM che ne tutela indistintamente l’indipendenza esterna da altri poteri. E dunque, a legislazione vigente, la terzietà del giudicante rispetto al requirente (il primo distinto dal secondo in ragione delle diverse funzioni in quel momento esercitate), indica solamente quella che è stata definita in maniera pertinente la sua neutralità processuale (meglio: neutralità nel processo ). Sulla indipendenza e neutralità del giudice, Carlo Mezzanotte in un libro a più voci (“ Magistratura, CSM e principi costituzionali ”) non a caso scriveva “..il giudice deve essere indipendente proprio nella misura in cui la funzione a cui è chiamato deve essere oggettiva e neutrale, e viceversa se la funzione del giudice perde oggettività e neutralità…..resta incerto il fondamento giustificativo" (della indipendenza). Tale neutralità indica quindi esclusivamente la necessità che il giudicante, nel decidere una questione sottoposta per la prima volta alla sua attenzione, con una postura neutrale (cioè indifferente agli interessi in causa e non pregiudicata – in applicazione del regime tassativo ed insuperabile delle incompatibilità - da precedenti sue prese di posizioni sulla medesima res judicanda ), deve scrupolosamente osservare le regole che presidiano il processo in modo da indirizzarlo verso l’esito di una corretta (ma, ove non accada, contrastabile attraverso i mezzi ordinari di impugnazione) ed imparziale (in modo assoluto) applicazione del diritto al caso in oggetto. La neutralità di cui qui si discute si può definire nei termini di un vero e proprio percorso processuale che si snoda attraverso le varie stazioni che via via presidiano l’ effettivo contraddittorio paritario tra le parti , la cui violazione comporta la nullità dell’atto e/o la inutilizzabilità della prova. Tale percorso approda da ultimo a una decisione che, sulla base del materiale probatorio legittimamente raccolto, motivi esplicitamente, tramite argomentazioni convincenti e soprattutto aderenti alla realtà dei fatti emersi in causa, le ragioni poste alla base del giudizio di colpevolezza o di innocenza. Questo è ciò che ci si aspetta dal giudizio, che sia l’esito di una verifica imparziale delle ragioni delle parti, non altro, certamente non che il giudicante sia necessariamente terzo in sede ordinamentale, materia indifferente alle aspettative del giudicando. Insomma, non è l’appartenenza alla stessa carriera dei magistrati requirenti e giudicanti ciò che è in discussione, non il (pre)giudizio che deriverebbe all’imputato dall’appartenenza (vicinanza: secondo gli interessati detrattori) del suo giudice allo stessa carriera di chi lo ha inquisito. Questa sospettata vicinanza è meno che un’opinione, è solo un’ inutile ed infondata maldicenza, smentita, oltre che da ragioni deontologiche afferenti al dovere di integrità e lealtà di chi è preposto alla funzione giudicante, dalla realtà dei fatti, che vedono percentuali pressoché equivalenti del numero delle sentenze di condanna (semplificando: che vedono accolte le richieste dei PM) e di quelle di assoluzione (con la stessa semplificazione: che rigettano le richieste di condanna dei PM). Per non dire che, a seguire tale logica, si imporrebbe che i giudici di primo grado appartengano ad una struttura ordinamentale diversa da quelli dei giudici dell’impugnazione e quest’ultimi ad un’altra diversa dai giudici di legittimità; tutti, anche nella riforma in oggetto, invece inalterabilmente stretti in una immodificata (almeno fino ad ora) colleganza. Istituzione di due CSM. Ma se l’attuale quadro normativo già prevede la distinzione dei magistrati per funzione e non vi sono elementi sistematici per ritenere obbligata la strada della separazione anche ordinamentale delle carriere, perché mai è stato istituito un secondo CSM riguardante quella, che sarà del tutto diversa, dei magistrati inquirenti? E, soprattutto, quali le conseguenze di tale modifica costituzionale? Intanto il magistrato inquirente, voluto e configurato dal costituente con le stesse garanzie di indipendenza dei giudici, viene sottratto alla comune cultura della giurisdizione , che non è una “vuota astrazione”, ma una delle ragioni (di certo la principale, data la natura di parte pubblica imparziale vincolata solamente alla legge, all’osservanza della quale egli “veglia” come “alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello stato, delle persone giuridiche e degli incapaci”) che gli impongono, nell’investigare, di “svolge(re) altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (è l’ art 358 c.p.p. che, nel disciplinare l’attività di indagine del PM, gli impone anche quest’obbligo investigativo) e, all’esito del processo, ove verifichi l’assenza di prove a carico dell’imputato, di chiederne l’assoluzione. Il sopracitato art 358 c.p.p. in effetti non è stato modificato o abrogato, ma è facile prevedere che chi ne lamenta oggi la sostanziale disapplicazione (ingiustamente, occorre dire, ove si considerino tutte le numerosissime volte in cui il PM chiede l’archiviazione della posizione dell’indagato) si troverà nella condizione di vedere realizzato, a riforma costituzionale eventualmente confermata dal referendum, per davvero il tono marcatamente e unidirezionalmente inquisitorio delle investigazioni. Insomma l’eterogenesi dei fini: un Pm oggi accusato di avere troppi poteri declinati in senso accusatorio che ne assommerebbe, nella sua solitudine ordinamentale, tutti gli altri derivanti da una funzione inevitabilmente destinata ad essere esercitata con l’obiettivo prevalente della condanna dell’imputato (l’abito fa sempre il monaco e quello che vestirà il nuovo PM sarà del tutto diverso da quello finora indossato). Ma l’esondare di un tale potere solitario, sottratto alla contaminazione derivante dalla comune cultura giurisdizionale che fino ad oggi lo caratterizzava, non è sostenibile da quella parte del potere politico già oggi incline a contestarne l’eccedenza, cosicché è inevitabile che esso sia destinato ad essere fortemente imbrigliato (non a caso l’attuale Ministro della Giustizia così si è espresso: “la riforma fa recuperare alla politica il suo primato costituzionale”). E la strada che si riesce ad intravvedere in favore di tale reclamato recupero della primazia della politica (che vi sono fondati timori che possa essere percorsa in modo squilibrato) è quella che porta al drastico ridimensionamento dei poteri del PM attraverso la sua sottoposizione al potere esecutivo. Il ministro della Giustizia non per caso ha detto: “ Il PM deve essere garante della legalità delle indagini della polizia giudiziaria, come accade in Gran Bretagna, dove è nata la democrazia ”. La conseguenza logica (comunque lasciata intravvedere come direzione di marcia) di tale asserzione è quella sopra paventata, giacché le indagini in tale prospettiva non le dirigerebbe più il PM (secondo quanto attualmente recita l’ art 327 c.p.p. , che può però essere modificato con legge solo ordinaria) ma la polizia, con il risultato che alla stessa potranno essere dati ordini esecutivi di muoversi in una direzione investigativa piuttosto che nell’altra, come pure di astenersi da indagini che si vuole che non si compiano. Il PM mero garante della legalità delle indagini di polizia diverrebbe una figura evanescente, direttamente condizionata da un organo sulla cui autonoma individuazione della “notitia criminis” come pure sulle successive investigazioni egli non ha potere o quantomeno poteri residui. Insomma, lo scenario alternativo che si prospetta è: a) un PM autoreferenziale dotato di fortissimi poteri e sempre più curvato, in ragione della sua solitaria collocazione e della dismessa comune cultura giurisdizionale, verso investigazioni finalizzate alla condanna dell’indagato/imputato; b) un PM esautorato dei suoi poteri di iniziativa investigativa e disciplinante solamente il traffico della polizia giudiziaria, di cui è facile prevedere l’eterodirezione. Comunque li si consideri, esiti non solo assai insoddisfacenti ma allarmanti per lo squilibrio dei poteri che la Costituzione repubblicana volle invece assolutamente equilibrati. Si può, in definitiva, dire che la magistratura nel suo complesso ne esce assai indebolita quanto a autonomia e indipendenza. Ed infatti, oltre al vulnus prodotto in sé e per sé dalla creazione di un CSM dei PM separato da quello dei Giudici, si è scelta, ad aggravare irreparabilmente il quadro, la strada di sorteggiare i magistrati che di tali organi di autogoverno faranno parte nella quota prevista. Si è insomma sottratto ai magistrati inquirenti e giudicanti il potere di scegliere i propri rappresentanti presso l’organo di autogoverno (qualcosa di inaudito: un organo costituzionale in cui l’elettorato attivo non può scegliere l’elettorato passivo! ), con la conseguenza che sarà il caso (parola terribile ) a determinarne la composizione. E ciò, peraltro, mentre i laici che faranno parte dei due CSM, espressi dal mondo politico, saranno sì anch’essi sorteggiati ma all’interno di elenchi preventivamente compilati (senza potersi escludere che siano aggiustati) dal Parlamento stesso (teoricamente nel numero esattamente corrispondente a quanti - e quali - dovranno essere eletti). La giustificazione per il sorteggio “puro” previsto, come si è detto, per i magistrati sarebbe la necessità di debellare le “correnti” che attraversano il CSM. Le stesse, contro una vulgata corrente che ne ha sottolineato solamente le pratiche lottizzatorie - che ci sono state e che vanno decisamente condannate -, hanno contribuito nel corso dei decennio ad un ampio dibattito sull’organizzazione (più o meno verticistica; più o meno aderente al principio del giudice naturale precostituito secondo criteri oggettivi non manipolabili dai vertici dell’ufficio; più o meno intransigente nella difesa dell’indipendenza esterna dell’istituzione e di quella interna dei singoli magistrati, ecc.) degli uffici giudiziari e su tutti i complessi temi della giurisdizione. Il sorteggio in ogni caso, a tutto concedere, non eliminerà che interessi opachi della stessa natura di quelli oggi giustamente stigmatizzati - in primis le nomine talora spartitorie alle cariche dirigenziali degli uffici giudiziari - possono coagularsi intorno ai nuovi centri di potere, e questa volta in modo che si può temere addirittura ancor meno trasparente perché fondati esclusivamente su prossimità strettamente personali, al di fuori di qualsiasi dibattito ideale, quale è quello che ha animato ed attraversato nobilmente il CSM fin dal suo insediamento. ALTA CORTE DISCIPLINARE. I due CSM sono spogliati dell’attribuzione disciplinare che viene, ex novo , assegnata all’Alta Corte Disciplinare, un organo estraneo all’organizzazione, composta da 15 giudici: a) sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettiva categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità; b) tre professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati di indicazione parlamentare estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso di tali requisiti ; c) tre nominati dal Presidente della Repubblica tra quelli aventi i requisiti sub b). Il presidente di tale Alta Corte Disciplinare viene eletto tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica o estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento. Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione soltanto dinanzi alla stessa Corte senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata. E dunque, la materia disciplinare viene attribuita a un organo estraneo all’organizzazione giudiziaria, come se quest’ultima non fosse in grado di esercitarla, come avviene nelle altre magistrature (amministrativa, contabile, militare) così come nella PA e in tutti gli ordinamenti professionali. E ciò nonostante la Corte Costituzione con la sent. n. 100 del 1981 , pur respingendo l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 18 del r.d.l 31.5.1946, n. 511 (responsabilità disciplinare dei magistrati) avanzata con ordinanze dalla sezione disciplinare del CSM, abbia avuto a precisare che l’applicazione delle sanzioni disciplinari, volte ad assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, non va ricercata, come per gli impiegati pubblici, nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti, essendo fondata direttamente sulla legge E dunque l’istituzione della nuova autorità disciplinare fuori del perimetro giurisdizionale finisce oggettivamente per snaturarne la natura. L’obiettivo non è chiaro, un indizio potendo ricavarsi dalla circostanza che i magistrati che ne faranno parte dovranno essere sorteggiati a sorte da quelli che svolgano o abbiano svolto funzione di legittimità (“cassazionisti”), quasi a ribaltare il principio secondo cui i magistrati si distinguono solo per funzioni e non per collocazione gerarchica. Ma la norma che lascia addirittura basiti è quella relativa alla circostanza che contro le sentenze emesse dalla Corte Disciplinare in prima istanza si potrà fare appello solo alla stessa Corte, pur senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a deliberare la decisione impugnata. Si sarebbe così inteso escludere il ricorso alla Corte di Cassazione, che invece deve potere essere percorribile giacché non è stato modificato l’ art 111 della Cost. nella parte in cui assume che contro le sentenze (e quelle dell’Alta Corte sono sentenze) è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge. Altri sostengono che il ricorso potrà svolgersi solo nei limiti e con i limiti inerenti alla giurisdizione, come per le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti. Insomma, come è stato scritto, anche la riforma disciplinare, espressione, in uno con le altre modifiche sopra descritte, di una ingiustificata (ma che si comprende benissimo, solo che si considerino i ripetuti attacchi proveniente da una precisa parte politica) volontà punitiva nei confronti della magistratura, produrrà “ più incertezze di quanti nodi problematici, veri o presunti, saprà sciogliere ”.