Giurisdizioni speciali e società

Giurisdizioni speciali e società:

riflessioni e commenti


Autore: Vittorio Russo, Avvocato 01 gen, 2023
Michel Platini è stato assolto dall'accusa di truffa a danno della Fifa. Il Tribunale penale federale di Bellinzona non ha accolto le richieste della pubblica accusa che, lo scorso 15 giugno, aveva chiesto per lui un anno e otto mesi di reclusione (con la sospensione della pena). All'imputato, dichiaratosi sempre innocente, ora verrà riconosciuto un cospicuo risarcimento. Lo abbiamo lasciato cosi lo scorso luglio, con i suoi iconici capelli mai pettinati e con questo scarno quanto desolante comunicato diramato a tutte le Agenzie Stampa del Pianeta. Poi il desio. Il silenzio mediatico più cupo nei confronti di una sentenza che ha lasciato tutti gli operatori del Diritto a dir poco perplessi. Non c'è stato alcun reato, alcuna volontà delittuosa, alcuna condotta illecita, alcuna responsabilità penale né alcuna colpa. Semplicemente, pare che un uomo potentissimo, stimato da almeno 4 generazioni in tutto il mondo per la sua irripetibile capacità di calciare un pallone (ma soprattutto per la sua sagacia, la sua classe e la sua intelligenza prima in campo, poi dietro la scrivania), amato da molti, probabilmente invidiato da troppi, sia stato sacrificato sull'altare dello scandalo inesistente. Il pubblico ministero della Confederazione elvetica aveva chiesto una condanna di un anno e otto mesi con la condizionale e due anni di libertà vigilata per frode nei confronti della FIFA. A finire sotto la lente d'ingrandimento giudiziario era stato un pagamento (una consulenza) di 2 milioni di franchi intascato nel 2011, che la Fifa aveva destinato all'ex presidente e plenipotenziario della Uefa (eletto nel 2007, rieletto nel 2011 e nel marzo 2015), prima ritenuto ingiustificato, quindi sospetto, poi illegale. A Roi Michel erano stati contestati i reati di truffa, eventuale concorso in appropriazione indebita, e in subordine, di concorso in amministrazione infedele, sotto forma di complicità con altri soggetti, nonché di falso in documenti. Il p.m. aveva adombrato che si trattasse del possibile compenso per il sostegno di Platini al quarto mandato di Sepp Blatter (anch'egli assolto nello stesso processo), allora da 17 anni alla guida della Fifa. Accuse sostenute per anni dal procuratore federale Thomas Hildbrand, respinte per insufficienza di prove. Tesi accusatoria confermata nella lunga requisitoria finale, dove lo stesso si era impegnato a smontare l'argomento difensivo secondo cui i 2 milioni sarebbero stati versati in virtù di un "contratto orale", concluso tra i due imputati per un lavoro di consulenza svolto da Platini tra il 1998 e il 2002. Blatter e Platini avevano firmato un rituale accordo scritto nell'agosto 1999, il quale prevedeva un emolumento di 300.000 franchi svizzeri all'anno interamente versati dalla Fifa, ma con una clausola che prometteva un sostanzioso aumento non quantificato nel caso in cui le finanze dell'organizzazione lo avessero permesso. Platini, nel frattempo diventato presidente dell'Uefa, presentò nel 2011 una fattura da 2 milioni di franchi svizzeri, firmata da Sepp Blatter e presentata alla Fifa come saldo dello "stipendio". Secondo Hildbrand, questo era da considerarsi alquanto "strano", come è strano e "contrario alle normali pratiche commerciali" che una somma di due milioni sia stata trasferita senza traccia scritta, senza testimoni e senza mai elencarla nella contabilità. Ma veniamo ai fatti antecedenti che sono degni di un'avvincente cine spy story . Platini nel 2014 era uno degli uomini più "solidi nel consenso" d'Europa, se non del Mondo. Era nel pieno dei suoi anni migliori e non aveva sbagliato mai una partita importante nel corso della sua sfolgorante carriera da massimo politico del calcio. Ma la sua aurea travalicava lo sport e arrivava a lambire addirittura i confini della realpolitique , quella dell'Eliseo. Per un noto sondaggista televisivo francese dell'epoca, Michel nel momento dell'assegnazione degli Europei di calcio del 2016 alla Francia era di gran lunga l'uomo più amato d'Oltralpe e quello a cui ogni francese si sarebbe affidato in caso di necessità. Molti addetti ai lavori in giro per il globo, anche in Italia, congetturarono neppur tanto velatamente: se lui si candida per il dopo Hollande non c'è storia per nessuno. A corollario di questa ipotesi, i suoi biografi raccontano che già agli albori del suo esilio forzato, cominciato nel dicembre 2015 con la squalifica da dirigente (8 anni, poi ridotti a 6 e poi ancora a 4 dal Tas di Losanna ) e finito appunto l'8 luglio 2022 dopo quasi 7 anni, non si dava pace non tanto per la verità che prima o poi era sicuro sarebbe venuta a galla, ma per la sua carriera spezzata di acclamato politico in pectore , quasi altrettanto notevole quanto quella di fuoriclasse dei Bleus e della Juve. Poco prima dello stop forzato pare avesse esternato agli intimi il suo progetto per il futuro: un nuovo governo del calcio mondiale con Emmanuel Macron, allora Ministro dell'Economia e delle Finanze ed enfant prodige della politica transalpina, al vertice. Immaginava proprio una nuova Fifa, riveduta e corretta, con una figura a lui legata, autorevole e super partes , al comando. Quando il rieletto Macron esaurirà il secondo mandato nel 2027 e lui sarà pienamente scagionato dalle accuse, appello permettendo, a quel punto il 70enne Platini potrebbe spostare l'asticella molto in alto e rilanciare. Riabilitato dalla sentenza della magistratura svizzera insieme all'illustre coimputato Sepp Blatter, le Roi rincoronato, potrebbe accarezzare l'idea di un ritorno sulla scena da protagonista assoluto. Assicura chi non lo ha mai abbandonato nei tempi bui, che il primo step potrebbe essere tra qualche mese la corsa alla piena riabilitazione attraverso un ruolo che gli permetta di rientrare dalla porta principale: la presidenza della Fff, la federazione calcistica francese, oggi in mano al bretone Noël Le Graët, 80 anni, principale sostenitore europeo di Infantino. Ma per ora sta unicamente optando per la rivincita sul campo giudiziario. Lo scomodo ex che ex non si sente affatto la persegue con la stessa spavalderia che aveva prima di battere una punizione dal limite dell'area; si ritiene vittima di un complotto di Infantino e vuole fargliela pagare. Nel novembre 2021 lo ha denunciato penalmente presso la procura di Parigi per traffico di influenze illecite e la "causa" è in corso. La tesi dei legali di Platini è che l'inchiesta della magistratura svizzera sia stata appunto influenzata da Infantino, per fare deragliare il loro assistito nella gara per il vertice della Fifa. Tecnicamente Platini punta innanzitutto al "risarcimento politico" per la carriera falciata, come dimostrò con il gesto di indice e pollice chiusi in cerchio all'indomani della sentenza ("zero, ecco i soldi che ho avuto dal Qatar"), e per respingere definitivamente l'altra accusa mediatica, quella di avere favorito da presidente Uefa l'assegnazione del Mondiale 2022 al Qatar. Perché, a suo sostegno, nel frattempo sembra essersi totalmente ribaltato lo scenario rispetto alle inchieste sul pranzo all'Eliseo del novembre 2010 tra l'allora presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, Platini e l'allora principe ereditario del Qatar, oggi emiro, Tamin bin Hamad al-Thani, dopo che due eventi "particolari" successivi scatenarono le illazioni dei media: l'acquisizione del Paris Saint-Germain da parte del fondo sovrano qatariota, che l'ha trasformata nella squadra più ricca del mondo, e l'assunzione del figlio di Platini, Laurent, di professione avvocato, da parte di Qatar Sports Investments, società organizzatrice del Mondiale arabo. Per quello del 2018, assegnato alla Russia, ci si spinse addirittura a ipotizzare che Platini avesse accettato in dono dall'oligarca Alisher Usmanov una litografia di Picasso. Oggi le inchieste e i retroscena, giornalistici e non, stanno spostando l'obiettivo. E' Infantino, che nel frattempo si è trasferito a Doha, a doversi difendere dalle pesanti accuse rivoltegli sull'inquietante "vicenda Lauber". È emerso infatti nella ricostruzione processuale dei legali di Michel che Rinaldo Arnold, un avvocato elvetico ex compagno di scuola dell'attuale presidente della Fifa, nel luglio 2015 organizzò e presenziò ad almeno tre incontri tra Infantino e il capo della procura federale, Michael Lauber, nel frattempo dimessosi dall'incarico proprio per aver negato che quegli incontri fossero avvenuti. Le prossime elezioni per la presidenza della Fifa sono vicine e si svolgeranno il 16 marzo 2023 a Kigali in Ruanda. Non appare oggi in discussione la conferma di Infantino, che nel 2016 a Zurigo dopo la destituzione anticipata di Blatter per il cosiddetto Fifagate e l'annessa e suddetta sospensione del favorito Platini, sconfisse grazie alla spaccatura del fronte africano e arabo lo sceicco del Bahrain Salman Al Khalifa. L'attuale numero uno della Fifa, confermato a Parigi nel 2019 da candidato unico, punta con solide basi al terzo mandato consecutivo, che peraltro lui ritiene il secondo, perché il Blatter V non si completò a causa delle dimissioni nel 2015 e il suo primo ciclo (2016-2019) non è durato il canonico quadriennio. Infantino può contare su un consistente blocco di voti, certamente alimentato dall'allargamento a 48 squadre del Mondiale a partire dalla prossima edizione di Usa-Canada-Messico 202. Un'estensione particolarmente gradita alle confederazioni asiatica e africana, perché la prima raddoppierà il contingente (da 4 a 8 Nazionali) e la seconda da 5 a 9. Difficile che voltino le spalle a chi le ha premiate. Un ruolo determinante lo giocherà ovviamente l'Europa con l'Uefa di Ceferin, e ad oggi nessun altro candidato è uscito allo scoperto, tranne il solito guascone Michel, che nel gennaio scorso rivelò a Europe 1 il suo progetto più immediato: "Fare entrare il calcio nel patrimonio immateriale dell'Unesco è qualcosa di formidabile". Facile dedurre che il duello con Infantino sia appena cominciato. E non è più soltanto una questione di meriti. Di certo ci sono tanti lati oscuri e non illuminati ancora a sufficienza. Da una parte e dall'altra. I troppi soldi guadagnati da Platini (senza traccia contrattuale) per una consulenza in un momento fondamentale per le sorti della Fifa. Dall'altra tante ombre. E se non ombre, lampi e tuoni cattivi all'orizzonte delle presidenze Infantino e Ceferin di FIFA E UEFA. La stessa FIFA nell'occhio del ciclone per i mondiali qatarioti dei diritti negati e dei morti senza nome, la stessa UEFA della faida Superlega, delle "palline sbagliate" nei sorteggi ripetuti in Champions League, del VAR che funziona "a intermittenza". La riflessione giuridica che si impone al riguardo, allo stato della diatriba giudiziaria, è di tipo teoretico-dottrinale, al di là delle valutazioni tecnico-processuali. La Giustizia Sportiva, nazionale o internazionale che sia, può permettersi di fare "Giustizia" prima di quella Ordinaria in casi come questi? Può esistere una Giustizia che recide i più elementari diritti della difesa facendosi beffe delle più basilari forme di garantismo? Può coesistere una Giustizia "a priori" che sottrae diritti, schiaccia i destini professionali altrui, emette condanne preventive senza valutare la consistenza delle prove su cui si basa l'accusa, permette linciaggi mediatici frutto di tifo o nella migliore delle ipotesi di approssimazione, nell'attesa che si pronunci un'altra "di lignaggio diverso"in uno Stato di Diritto? Stavolta la Giustizia Sportiva pare che abbia superato i confini della "norma" e sia entrata nel campo minato delle vendette, delle rappresaglie, delle rivalità. L'ultima impronta pubblica di Platini è eloquente: " I veri colpevoli non sono in aula, ci rivedremo. " Quell'ultima volta caustico, non sarcastico come amava essere l'asso transalpino. Mai banale, però, il suo ghigno inconfondibile. Chi ne conosce l'arguzia sa che è stato volutamente rivelatore il commento a caldo rilasciato a L'Équipe subito dopo l'assoluzione. " Mi hanno trattato come un corrotto, riciclatore di denaro, falsificatore... Non lascerò passare. Cosa devo dire a Infantino? Nulla. Ma sono certo che contro di me c’è stata una cospirazione. Tornare non so, ma sono giovane: ho più capelli di lui…" . Secondo la tesi difensiva, dunque, si è trattato unicamente di una macchinazione orchestrata dall'interno del gotha delle istituzioni sportive continentali con l'appoggio e la connivenza dei vertici delle massime procure elvetiche per spodestarlo e prenderne trono e scettro. Sicuramente l'aspetto di questa faccenda che rammarica di più l'osservatore obiettivo è che il passato sportivo "dell'ultimo Re di Francia" da 7 anni sembra essere stato inghiottito dall'oblio mediatico. Senza dubbio trai più grandi di sempre nell'arte del pallone, lui non figura mai nell'olimpo degli dei del calcio nelle classifiche dei presunti esperti. Le sue gesta calcistiche inimitabili sembrano essere state divorate dalla negazione storiografica. E' il frutto della damnatio memoriae che si riserva a chi probabilmente è stato troppo scomodo, personalista, ambizioso e sfrontato. Giudiziariamente sono previste altre partite risolutive e ci sarà solo un vincitore. Ad oggi il risultato è 1 pari. Circa un mese fa il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha presentato ricorso contro l'assoluzione avvenuta la scorsa estate. La richiesta presentata alla Corte d'appello del Tribunale penale federale (TPF) mira "all'annullamento totale della sentenza di primo grado". Chi farà il gol decisivo? In un regime pallonaro come quello attuale, senza "quadri devozionali" tanto riconoscibili, di un istrione controcorrente come Monsieur Michel ne abbiamo tutti dannatamente bisogno. C'era una volta un Re. Les jeux sont faits, rien ne va plus . Sarà ancora Michel?
13 lug, 2021
Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546/92 (come modificato dall’art. 12 legge 448 del 2001 e dall’art. 3 bis della legge 2-12-2005, n. 248 di conversione del D.L. 30-9-2005, n. 203) “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie…comunque denominati...”. La delimitazione della giurisdizione tributaria deriva, dunque, dall’appartenenza della prestazione non ad un elenco nominativamente prefissato di tributi, ma alla materia genericamente indicata dei “tributi di ogni genere e specie“. L’espressione riprende quella, sostanzialmente equivalente, di “imposte e tasse”, anch’essa generica, contenuta nel comma 2 dell’art. 9 c.p.c.. L’evoluzione della giustizia tributaria è stata segnata, a partire dal riconoscimento delle Commissioni tributarie quali organi sicuramente giurisdizionali, da due direttrici di fondo: la prima, costituita dal progressivo adeguamento del processo tributario al processo civile; la seconda, consistente nel continuo ampliamento della cognizione della giurisdizione tributaria. La Corte costituzionale, posta di fronte al problema della estensione della giurisdizione delle Commissioni tributarie a seguito della riforma del 1992, con riferimento a una possibile violazione dell’art. 102 della Costituzione, dichiarò manifestamente infondata la questione, basata sull’assunto secondo cui il potere di revisione di cui alla VI disposizione transitoria della Costituzione sarebbe già stato esercitato per effetto della delega di cui all’art. 10, numero 14 della legge 9 ottobre 1971, n. 825 e sfociato nella disciplina prevista dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, di modo che tale potere non sarebbe più suscettibile di ulteriore esercizio, non essendo consentita la revisione di una normativa già revisionata. La Corte ha rilevato che era privo di fondamento il presupposto da cui partiva il giudice a quo , secondo cui la normativa censurata avrebbe disciplinato, anziché il riordino del contenzioso tributario, l’ istituzione di nuovi giudici speciali, mediante la revisione dell’ambito della competenza e della cognizione, nonché dell’ordinamento, dei gradi di giudizio e dei poteri conferiti alle Commissioni tributarie. Invero, la modifica a mezzo ampliamento della competenza delle Commissioni tributarie non era di per sé tale da trasformare il giudice tributario esistente in un diverso giudice speciale, in quanto era rimasto non snaturato né il sistema di estrazione dei giudici (anzi, migliorato, dal punto di vista dei requisiti di idoneità e di qualificazione professionale e delle incompatibilità), né la giurisdizione nell’ambito delle controversie tributarie, anche se riconfigurata mediante una soluzione unitaria ed aggiornata, con la previsione di imposte locali in aggiunta a quelle statali, e con l’adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile. D’altra parte, l’art. 102, secondo comma, della Costituzione, in ordine al divieto di istituzione di giudici speciali, avrebbe dovuto essere interpretato, secondo la Corte, in relazione alla VI disposizione transitoria, nel senso di escludere l’introduzione di altri giudici (creati ex novo ), diversi da quelli espressamente nominati in Costituzione (Consiglio di Stato, Corte dei conti e Tribunali militari, esclusi testualmente dalla VI disposizione transitoria della Costituzione e come tali non soggetti ad obbligo di revisione, oltre agli organi di giustizia amministrativa di primo grado) e con una ulteriore possibilità di diverso trattamento per le giurisdizioni speciali preesistenti, oggetto tuttavia di obbligo di revisione. In altri termini, la Costituzione ha voluto che le (altre) giurisdizioni speciali preesistenti avrebbero dovuto essere sottoposte a revisione, revisione che, comportando una scelta delicata tra soppressione pura e semplice e trasformazione, è stata affidata esclusivamente al Parlamento. Invero, l’obbligo di procedere alla revisione delle anzidette giurisdizioni speciali preesistenti, ha consentito l’intervento del legislatore con leggi posteriori alla Costituzione attraverso mutamenti graduali e con parziali adeguamenti, anche per colmare le molte deficienze del contenzioso tributario sottolineate dalla Corte, con invito a riordino legislativo dell’intera materia. Allo stesso modo, tuttavia, l’intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell’ordinamento e nel funzionamento le Commissioni tributarie come già revisionate, in quanto, per le preesistenti giurisdizioni speciali, una volta che siano state assoggettate a revisione, non si crea una sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento, né si consumano le potestà di intervento del legislatore ordinario, il quale conserva il normale potere di sopprimere ovvero di trasformare, di riordinare i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, o di ristrutturarli nuovamente anche nel funzionamento e nella procedura, con il duplice limite di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione. Quanto a ll'estensione effettiva del potere giurisdizionale delle Commissioni tributarie, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, sin dal 2000, h a affermato che deve essere sempre riconosciuta la giurisdizione del giudice tributario, in presenza di una controversia che riguardi uno specifico rapporto tributario. Il giudice tributario, secondo la Cassazione, ha competenza esclusiva e generale, non circoscritta ad alcuni aspetti, per tributi e tasse di ogni tipo, e tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti. D’altra parte, la Corte costituzionale ha ribadito che non appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie che conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria, abbattendo la propria scure sull’articolo 2 del d.lgs. n. 546/1992, nelle parti in cui devolveva alle Commissioni tributarie le controversie relative al canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Cosap) e alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non tributarie. In quell’occasione, la Consulta ha stabilito che il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l'attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un nuovo giudice speciale. Problemi non facilmente risolvibili attengono poi alla natura del processo tributario . Teoricamente, il d.lgs. n. 546 del 1992 elenca un catalogo tassativo di atti autonomamente impugnabili (tra cui avviso di accertamento, avviso di liquidazione, ruolo e cartella di pagamento), di modo che gli atti non compresi in tale elenco sono impugnabili – in via differita – con il primo atto successivo, che deve essere a sua volta compreso nell’elenco degli atti espressamente previsti come impugnabili. Atti ad impugnazione differita sono ad esempio le risposte negative agli interpelli disapplicativi di norme antielusive e i provvedimenti di autorizzazione della perquisizione domiciliare e personale da parte del fisco emessi dal Procuratore della Repubblica, che sono impugnabili con il successivo atto impositivo. Anche se l’art. 19, comma 3 del d.lgs. n. 546 del 1992 dispone espressamente che “ gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente ”, una parte della giurisprudenza considera impugnabili tutti gli atti che risultino comunque idonei a portare a conoscenza i presupposti di fatto e le ragioni in diritto della pretesa impositiva o del diniego del diritto vantato dal contribuente (tra cui gli inviti al pagamento o le fatture emesse per la riscossione della tariffa sui rifiuti). Secondo questo filone interpretativo, si tratterebbe di atti ad impugnazione facoltativa, la cui ammissibilità equivale di fatto ad ammettere l’azione di mero accertamento nel processo tributario. D’altra parte, l’impugnazione di un atto non compreso nell’elenco di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 non impedisce di affermare la natura tributaria della controversia, essendo le questioni relative alla impugnabilità questioni che attengono alla proponibilità della domanda e non alla giurisdizione, né ha rilievo se la posizione lesa sia un diritto soggettivo o un interesse legittimo, in quanto l’art. 103 della Costituzione, pur attribuendo al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nel confronti della pubblica amministrazione, non esclude che una giurisdizione amministrativa – tra cui deve essere compresa anche quella delle Commissioni tributarie – possa, in determinati casi, essere organo di tutela anche dei diritti soggettivi (si pensi alle cause tributarie di rimborso). Se peraltro l’azione ordinariamente esperibile nel processo tributario è un’azione di impugnazione – con correlativo esito di annullamento dell’atto impugnato -, la Corte di cassazione non ha mancato di affermare, anche recentemente, che il processo tributario non è un processo sull’atto (la cui mancata analitica descrizione, relativamente alle pretese impositive e sanzionatorie, infirmerebbe l’essenza stessa del processo), né un processo diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, bensì un processo che converge verso una pronuncia di merito , sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, come anche della dichiarazione del contribuente. In questa prospettiva, pertanto, sarebbe il rapporto sostanziale posto a base dell’atto impositivo a costituire il petitum sostanziale del procedimento tributario e a dovere essere compiutamente descritto dal giudice del merito, al fine di operare una motivata valutazione sostitutiva. Sotto questo profilo, dunque, il tipo di potere giurisdizionale esercitato dalle Commissioni tributarie viene ad avere più punti di contatto con quello del giudice ordinario che con quello del giudice amministrativo di legittimità. In realtà, bisognerebbe distinguere tra casi in cui l’impugnazione verte su vizi formali dell’atto particolarmente gravi (ad esempio, difetto assoluto di motivazione e incompetenza dell’ufficio), rispetto ai quali il giudice si limita ad annullare l’atto impugnato, e casi il cui il giudizio verte sull’ an e/o sul quantum dell’imposta, rispetto ai quali la sentenza sostituirebbe l’atto impugnato, sia quando respinge, che quando accoglie il ricorso. Diversamente dall’esito processuale appena visto – che sfocia in un annullamento dell’atto o in un accertamento “sostitutivo” della pretesa tributaria – le sentenze che accolgono le domande di rimborso sono sentenze di condanna , il cui contenuto è da considerarsi complesso, perché deve contenere, in primo luogo, l’annullamento del diniego di rimborso, e, in secondo luogo, l’accertamento del credito dell’interessato e la condanna dell’amministrazione a rimborsare. Diverso ancora, è il tipo di accertamento che viene operato dal giudice sul rifiuto di autotutela , che è da considerarsi non impugnabile – con conseguente inammissibilità dell’azione a tale fine proposta – perché atto discrezionale, non compreso nell’elenco degli atti impugnabili, e perché, in caso contrario, qualora non vi sia stata una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria, si darebbe ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo. Ad ogni modo, posto che la natura tributaria della controversia risulta dirimente nella fase di accertamento del diritto, il discrimine tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria in ordine all’ attuazione della pretesa tributaria manifestata con un atto esecutivo è stato così fissato dalla giurisprudenza: - alla giurisdizione ordinaria spetta la cognizione delle questioni inerenti alla legittimità dell’atto esecutivo come tale, nonché dei fatti incidenti sulla pretesa sostanziale tributaria azionata in executivis successivi alla valida notifica della cartella o della intimazione, ivi compresa l’opposizione all’esecuzione per far valere l’illegittimità della riscossione tributaria per inesistenza del diritto di procedere alla riscossione stessa; - alla giurisdizione tributaria spetta la cognizione di ogni questione relativa a fatti incidenti sulla pretesa tributaria che si assumano verificati fino alla notificazione della cartella o dell’intimazione di pagamento, sia che si tratti di fatti inerenti ai profili di forma e di contenuto degli atti in cui è espressa la pretesa, sia che si tratti di fatti costitutivi, modificativi o impeditivi di essa. Quanto invece al rapporto tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione tributaria, gli atti amministrativi e i regolamenti , anche quando contengono norme tributarie, devono necessariamente essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo, qualora risulti concreta e attuale la lesione dell’interesse protetto dalla norma. Gli stessi atti possono peraltro essere anche disapplicati di ufficio dal giudice tributario, in vista dell’annullamento dell’atto applicativo. Sono infine impugnabili dinanzi al giudice amministrativo gli atti tributari individuali non impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie, come gli atti istruttori che hanno destinatari soggetti diversi dal contribuente, il diniego di accesso agli atti del procedimento e i provvedimenti di fissazione del domicilio fiscale.
26 giu, 2021
Il CNF (Consiglio nazionale forense) è un organo che ha giurisdizionale speciale in determinate materie (come la tenuta degli albi) ed esercita un potere dello Stato. Le pronunce, infatti, sono emesse “in nome del popolo italiano”. Tale giurisdizione speciale è attualmente esistente, nonostante la sesta disposizione transitoria della Costituzione avesse imposto, entro 5 anni dalla sua entrata in vigore, la revisione di tutti gli organi di giurisdizione speciale. L’eccezione di incostituzionalità, più volte sollevata, è stata respinta, sull’assunto, tra le altre argomentazioni, che sussistano le garanzie per il corretto esercizio della funzione giurisdizionale stante l’indipendenza dei giudici e imparzialità dei giudizi. Secondo giurisprudenza consolidata, le norme che disciplinano la nomina dei suoi componenti ed il procedimento che si svolge davanti ad esso, assicurano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all'indipendenza del giudice ed all'imparzialità dei giudizi. Da un lato, la nomina dei componenti è elettiva, dall’altro, il procedimento seguito per arrivare alla decisione avviene nel rispetto delle comuni regole processuali e con l'intervento del P.M.. Né rileva la circostanza che al CNF spettino anche funzioni amministrative, in quanto si dice non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l'indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all'organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell'organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali: l'indipendenza del giudice consiste infatti nella autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza. Recentemente, si è riproposta la questione della legittimità costituzionale dell’art. 21 del d.lgs. 23 novembre 1944, n. 382, art. 21, nella parte in cui, al fine di garantire, quanto meno nelle specifiche materie dell'accesso e dell'espulsione dall'esercizio della professione, l'imparzialità del giudice, non prevede che la composizione del Consiglio nazionale forense, in funzione di organo giudicante, sia integrata da membri non appartenenti alla categoria dell'Avvocatura. La questione è nata a seguito del contenzioso che ha visto il Consiglio nazionale forense respingere il ricorso di un avvocato contro la decisione del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di appartenenza, che aveva ordinato la sua cancellazione dall'albo degli Avvocati in ragione della accertata sussistenza della causa di incompatibilità tra l'iscrizione all'Albo e il rapporto di impiego pubblico part-time. Oltre a enunciare nuovamente principi già in precedenza espressi sulle garanzie di indipendenza assicurate come Giudice speciale dal CNF, la Corte di Cassazione ha dovuto confrontarsi anche con la compatibilità della composizione dell’organo con una serie di principi di salvaguardia stabiliti dalla Corte di giustizia UE. In primo luogo, viene in rilievo il diritto ad un equo processo, quale deriva, in particolare, dall'art. 6, n. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e che costituisce un diritto fondamentale anche per l'Unione europea. Tale diritto comporta necessariamente l'accesso da parte di chiunque ad un giudice indipendente e imparziale. Pertanto, l'esistenza di garanzie in materia di composizione dell'organo giurisdizionale rappresenta la pietra angolare del diritto all'equo processo, il cui rispetto il giudice comunitario deve verificare in particolare qualora ne venga lamentata una violazione, e la contestazione su tale punto non appaia a prima vista manifestamente priva di serietà. A tale riguardo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE ha sostenuto che il fatto che alcuni giudici chiamati a conoscere una prima volta di una vicenda, siedano poi in un altro collegio chiamato a conoscere nuovamente della stessa vicenda, non può essere considerato di per sé incompatibile con i requisiti imposti dal diritto ad un equo processo, se non vi è totale coincidenza soggettiva tra i due collegi, o se si tratta di due controversie formalmente distinte, anche se tra di loro connesse. In particolare, secondo la Corte, il dovere di imparzialità riveste due aspetti: in primo luogo, è indispensabile che il tribunale sia imparziale sotto il profilo soggettivo, cioè che nessuno dei suoi membri manifesti opinioni preconcette o pregiudizi personali, dovendosi presumere l'imparzialità personale fino a prova contraria; in secondo luogo, il tribunale deve essere imparziale sotto il profilo oggettivo, nel senso di dovere offrire garanzie sufficienti per escludere al riguardo qualsiasi legittimo dubbio. Altro corollario indispensabile dell’effettività della tutela giurisdizionale dinanzi ad un giudice imparziale è che l’organo chiamato a decidere i ricorsi contro decisioni amministrative (come è la decisione di diniego dell’iscrizione ad un albo o di cancellazione dallo stesso) deve corrispondere alla nozione di giudice come definita dal diritto comunitario. Tale nozione è stata definita mediante enunciazione di una serie di requisiti che l’organo in questione deve presentare, quali la sua origine legale, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche, nonché l’indipendenza e, appunto, l’imparzialità. La nozione di indipendenza, intrinseca alla funzione giurisdizionale, implica innanzi tutto che l’organo interessato si trovi in posizione di terzietà rispetto all’autorità che ha adottato la decisione oggetto del ricorso e presenta inoltre due aspetti, il primo, avente carattere esterno, che presuppone che l’organo sia tutelato da pressioni o da interventi dall’esterno idonei a mettere a repentaglio l’indipendenza di giudizio dei suoi membri per quanto riguarda le controversie loro sottoposte (e che può essere salvaguardato tramite talune garanzie idonee a tutelare la persona che svolge la funzione giurisdizionale, come, ad esempio, l’inamovibilità); il secondo, avente carattere interno, che si ricollega alla nozione di imparzialità e riguarda l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi concernenti l’oggetto di quest’ultima, tramite il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione da dare alla controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica. Tali garanzie di indipendenza e di imparzialità implicano l’esistenza di disposizioni, relative, in particolare, alla composizione dell’organo e alla nomina, durata delle funzioni, cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità del detto organo rispetto a elementi esterni ed alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti. Nel caso di decisione di diniego dell’iscrizione di un avvocato europeo ad un albo nazionale diverso da quello della nazionalità di provenienza, ad esempio, la Corte di Giustizia UE ha evidenziato che è illegittima la composizione di un organo giudicante formata dalla esclusiva presenza di avvocati della nazionalità di destinazione, in quanto vi è motivo fondato di temere che, a seconda dei casi, la totalità o la maggior parte dei membri di tale organo abbiano un comune interesse contrario a quello del richiedente, ossia di confermare una decisione che esclude dal mercato un concorrente che ha acquisito la sua qualifica professionale in un altro Stato membro, con possibile venir meno dell’equidistanza dagli interessi in causa. Né i timori suscitati da tale composizione dell’organo giudicante possono essere fugati dalla possibilità di esperire un ricorso in cassazione, qualora la competenza dell’ultimo giudice da adire sia limitata alle questioni di diritto, per cui lo stesso non dispone di una piena giurisdizione. La Corte di Cassazione ha peraltro ribadito il consolidato orientamento sulla piena legittimità della giurisdizione esercitata dal CNF, rilevando, innanzitutto, che nel caso di ricorso di un Avvocato avente la stessa nazionalità rispetto ai suoi Colleghi che decidono sulla sua iscrizione o permanenza di iscrizione all’albo, non vengono in rilievo questioni di terzietà in assoluto dell’organo giudicante, non sussistendo neppure la possibilità astratta di una discriminazione connessa alla diversa nazionalità di ricorrente e organo giudicante, che sola potrebbe innestare un meccanismo di difesa “corporativa” dei propri interessi da parte dell’organo giudicante stesso. Quanto poi all’esigenza che il diritto ad un equo processo comporti necessariamente l'accesso da parte di chiunque ad un giudice indipendente ed imparziale, sia sotto il profilo soggettivo (nel senso cioè che nessuno dei membri dell'organo giudicante manifesti opinioni preconcette o pregiudizi personali) sia sotto quello oggettivo (essendo il giudice tenuto ad offrire garanzie sufficienti per escludere al riguardo qualsiasi legittimo dubbio), la Corte ha osservato che la giurisdizione professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e che la Corte Europea dei diritti dell'uomo, chiamata ad esaminare il medesimo problema (rispetto all'art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), ha riconosciuto, con riguardo ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei medici belgi, la sussistenza del requisito dell'indipendenza degli organi della giurisdizione professionale, sottolineando che i membri dei collegi professionali partecipano al giudizio non già come rappresentanti dell'ordine professionale, e quindi in una posizione incompatibile con l'esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a titolo personale e perciò in una posizione di "terzietà", analogamente a tutte le magistrature.
19 mag, 2021
L'esercizio della giurisdizione implica ed impone indipendenza e imparzialità, che costituiscono presidio di legalità, giustizia ed eguaglianza a garanzia dei cittadini. Indipendenza e imparzialità rappresentano connotato e condizione essenziale per l'esercizio della funzione giurisdizionale. E' questo il modello delineato dalla Costituzione, la quale vuole giudici "soggetti soltanto alla legge" (art. 101 Cost., comma 2), definisce la magistratura ordinaria, nell'architettura dei poteri dello Stato, "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" (art. 104 Cost.), demanda alla legge (art. 108 Cost., comma 2) il compito di assicurare l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali e individua tra le caratteristiche del "giusto processo" lo svolgersi "davanti a giudice terzo e imparziale" (art. 111 Cost., commi 1 e 2). Questo è anche il modello europeo di giudice, con indipendenza e imparzialità garantite dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (art. 6, par. 1) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 47). Per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie - sono fattori suscettibili, in astratto, di incidere sulla loro indipendenza e imparzialità: sia in quanto può esservi una interferenza diretta tra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato (Corte Cost., sentenza n. 224 del 1999). La commistione di ruoli, derivante ad esempio dalla partecipazione di un magistrato amministrativo in servizio alla funzione lato sensu legislativa, è potenzialmente suscettibile di appannare l'immagine di terzietà del giudice, per il conflitto di interesse che potrebbe realizzarsi ogniqualvolta il magistrato stesso si trovasse a dover decidere in sede giurisdizionale in ordine ad atti normativi alla cui redazione abbia contributo in maniera fondamentale, con una partecipazione che eccede quella che normalmente si esprime in una commissione di studio o di esperti mediante un apporto esclusivamente tecnico. La potenziale lesività connessa a siffatta compresenza di funzioni è, di volta in volta, neutralizzabile attraverso gli istituti dell'astensione e della ricusazione, applicabili, tra l'altro, anche al processo amministrativo in base al rinvio operato dagli artt. 17 e 18 del codice del processo amministrativo alle corrispondenti disposizioni (artt. 51 e 52 c.p.c.), se del caso interpretate in modo conforme al significato assunto dell'art. 6 della Convenzione nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Ma - a prescindere dall'eventuale ricusabilità del componente "sospetto" -, quella commistione può non determinare, di per sé, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, abnormità nella composizione del collegio giudicante e neppure vizio di legittimità in un grado di gravità tale da alterare la stessa struttura dell'organo giurisdizionale. Al riguardo, i Giudici di legittimità, investiti della questione sul se integri un motivo inerente alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, art. 362 c.p.c. e art. 110 cod. proc. amm., la deduzione con cui si denunci il difetto di terzietà-imparzialità di un collegio giudicante per la sua illegittima composizione, in ragione del cumulo, in capo al giudice estensore della sentenza impugnata, di funzioni giurisdizionali e di funzioni normative, hanno stabilito che occorre valutare caso per caso. In particolare, le Sezioni Unite hanno costantemente ricondotto nell'ambito del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l' illegittima composizione dell'organo giurisdizionale , ma soltanto a condizione che il vizio di costituzione del collegio giudicante sia di particolare gravità . La carenza di giurisdizione, in relazione all'illegittima composizione del giudice speciale, è ad esempio ravvisabile quando è imputabile a illegittimità costituzionale della norma sulla composizione del collegio, o nei casi di alterazione strutturale dell'organo giudicante, per vizi di numero o di qualità dei suoi membri, che ne precludono l'identificazione con quello delineato dalla legge; diversamente, si verte in tema di violazione di norme processuali, esorbitante dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite stesse. Si è così stabilito che è viziata da difetto di giurisdizione, per irregolare composizione del collegio giudicante derivante da assoluta inidoneità di un suo membro a svolgere le relative funzioni, la decisione adottata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con un componente nominato in applicazione del d.lgs. 6 maggio 1948, n. 654, art. 3, comma 2, norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza della Corte costituzionale n. 25 del 1976, in quanto prevedente la possibilità di riconferma dell'incarico per i membri del medesimo Consiglio designati dalla Giunta regionale, vertendosi in tema di vizio che si ricollega alla mancata assicurazione dell'indipendenza del giudice per effetto di un'investitura originariamente invalida (Cass., Sez. U., 19 ottobre 1983, n. 6125; Cass., Sez. U., 23 maggio 1984, n. 3168). In questa stessa prospettiva, è stato ritenuto ammissibile il ricorso alle Sezioni Unite proposto per difetto di giurisdizione avverso la decisione pronunciata dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria che si assuma composta con un numero di giudicanti diverso da quello prescritto dalla norma organica che ne stabilisce la composizione (Cass., Sez. U., 11 ottobre 1952, n. 3008, cit.). Al contrario, la Cassazione ha escluso che integri carenza di giurisdizione del collegio giudicante: - la partecipazione alla decisione della controversia di un magistrato che avrebbe dovuto astenersi (Cass., Sez. U., 1 giugno 2006, n. 13034; Cass., Sez. U., 7 settembre 2018, n. 21926); - la prosecuzione e la decisione del giudizio a seguito della proposizione di istanza di ricusazione, ai sensi dell'art. 18 cod. proc. amm. (Cass., Sez. Un., 20 luglio 2012, n. 12607; Cass., Sez. U., 12 dicembre 2013, n. 27847); - la sostituzione del presidente o l'integrazione del collegio con altro consigliere di Stato senza le prescritte autorizzazioni (Cass., Sez. U., 11 dicembre 1992, n. 870); - la partecipazione al collegio dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, oltre al presidente dell'organo, anche di tre presidenti di sezione e non soltanto di consiglieri di Stato (Cass., Sez. U., 16 gennaio 2007, n. 753); - la circostanza che, in una causa promossa davanti al Consiglio di Stato, il consigliere relatore risultasse collocato fuori ruolo ed assegnato al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana con provvedimento di un giorno antecedente alla data dell'udienza e della camera di consiglio (Cass., Sez. U., 1 luglio 2009, n. 15383). Quanto al parallelo svolgimento del ruolo di giudice e di incarichi extraistituzionali, è decisivo verificare se il contemporaneo espletamento delle funzioni lato sensu normative non determini l'incardinamento nei ruoli dell'amministrazione de qua e quindi non dia luogo a vincoli derivanti da un collegamento organico o da un rapporto di dipendenza con l'amministrazione stessa, tali da implicare stati di soggezione o possibili forme di condizionamento suscettibili di menomare l'indipendenza e l'imparzialità di giudizio nei processi in cui sia parte quella medesima amministrazione. Occorre infine indagare anche la possibilità (davvero remota, nel nostro ordinamento) che sussista violazione del principio supremo di separazione dei poteri in ragione del cumulo, in capo allo stesso soggetto, di funzioni legislative e di funzioni giurisdizionali. Tale violazione è da escludere ogni qual volta il giudice interessato dal potenziale conflitto non sia incardinato in un organo direttamente titolare di una funzione legislativa.
30 mar, 2021
Allorché la domanda giudiziaria non è conoscibile da alcun giudice, il Tribunale adito è tenuto ad "arretrare" rispetto ad una materia che non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale. Si parla in questo caso di “ rifiuto di giurisdizione ”. Secondo la Corte Costituzionale, il rifiuto di giurisdizione sindacabile è solo quello “in astratto”, e giammai “in concreto”, pena l’invasione nella nomofilachia del giudice di vertice della giurisdizione speciale, cui solo è rimessa la cognizione degli errores in iudicando o in procedendo . Invero, a norma dell’art. 111 Cost., comma 8, quale supremo organo regolatore della giurisdizione, la Cassazione può soltanto vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione. Con la pronuncia n. 6 del 2018, la Corte costituzionale ha affermato che l'”eccesso di potere giudiziario”, denunziabile con il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, “va riferito… alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (c.d. invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (c. d. arretramento); nonchè a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”. “Il concetto di controllo della giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri – ha aggiunto la Corte costituzionale -, non ammette soluzioni intermedie come quella… secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento””. Ha infatti precisato il Giudice delle leggi che attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive. La Consulta ha, quindi, affermato che, “alla stregua del così precisato ambito di controllo sui “limiti esterni” alla giurisdizione, non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti un’interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”. L’ipotesi non ricorre, in particolare, quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa sia stata desunta non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico disvela. Tale operazione ermeneutica potrebbe dare luogo, eventualmente, ad un error in iudicando , ma non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale. Sono casi in cui il Consiglio di Stato non “crea” alcuna norma, ma si limita a svolgere un’attività di interpretazione normativa che rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e che non può, dunque, integrare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo. Una tale statuizione, basata sull’interpretazione della legge, potrebbe tutt’al più configurare un error in iudicando , escluso, tuttavia, dal sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, restando invece estraneo alla fattispecie de qua ogni profilo relativo ad un preteso eccesso di potere giurisdizionale. Altra ipotesi di rifiuto di giurisdizione si ha in materia di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, ipotesi che trova applicazione " a tutti gli appartenenti alle magistrature (...) che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni " (art. 1, comma 1 della L. n. 117 del 1988). Vi è, dunque, un duplice presupposto condizionante l'applicazione della citata L. n. 117: di status (appartenenza alla magistratura) ed oggettivo (esercizio di attività giudiziaria). Nella compresenza dei presupposti anzidetti, la proposizione di azione per il risarcimento del danno cagionato "nell'esercizio delle funzioni giudiziarie" direttamente nei confronti del magistrato è consentita soltanto nell'ipotesi di cui alla stessa L. n. 117 del 1988, art. 13, ossia da " chi ha subito un danno in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ". Diversamente, l'azione diretta di danno può essere proposta unicamente contro lo Stato. Ne consegue che, al di fuori dell'ipotesi disciplinata dal citato art. 13, la proposizione, in sede civile, di azione diretta contro il magistrato configura una fattispecie di improponibilità assoluta e definitiva della domanda, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall'ordinamento. Trattasi, dunque, di questione che, come tale, integra una deduzione di difetto assoluto di giurisdizione sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1), perchè attiene al perimetro, in astratto delimitato dall'ordinamento, della cognizione giurisdizionale, tale che nessun giudice può conoscere della domanda risarcitoria proposta in via diretta in sede civile per danni cagionati (con dolo o colpa grave) a seguito "di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni" (art. 6). Si è posto, al riguardo, il problema della corretta interpretazione ed estensione della clausola “ esercizio delle funzioni ”. La Cassazione sostiene che il concetto di cui all’art. 2 della L. n. 118 del 1988 non comprenda soltanto le attività che si esprimono nell'adozione di atti e provvedimenti giurisdizionali, nelle varie forme in cui la giurisdizione si estrinseca, ma comprende anche le attività che si esprimono con quegli atti che sono funzionali, in relazione al diverso ruolo ricoperto nell'organizzazione giudiziaria dal magistrato, al compimento dell'attività giurisdizionale. Si può trattare, dunque, anche di atti organizzatori inerenti l'esercizio dell'ufficio di cui il magistrato è investito e, quindi, di atti che non si collocano nell'ambito di un processo, cioè della sequenza procedimentale con cui si esercita la giurisdizione. Occorre, tuttavia, in ossequio al principio di legalità che deve contrassegnare l'esercizio delle funzioni giurisdizionali in questo senso, che l'atto in questione tragga origine o si collochi nell'ambito di un'attività normativamente prevista come giurisdizionale o come funzionale a quella giurisdizionale. La L. n. 117 del 1988, art. 2, quando fa riferimento all'esercizio delle funzioni del magistrato, usa il termine "funzioni" in modo generico, di modo che tale termine si presta a comprendere sia la funzione in senso soggettivo (e, quindi, senza pretesa di rispondenza ad atti tipici), sia la funzione in senso oggettivo (e, quindi, relativa ad atti tipici). Tuttavia, il generico riferimento va letto alla luce della precisazione fatta dalla L. n. 117 del 1988, art. 1 circa l'ambito di applicazione della legge stessa, che è limitato alla " attività giudiziaria "; tale concetto implica un contenuto oggettivo, dato che ci si riferisce all'attività, e questa non può che trovare legittimazione nelle norme. Ne deriva che il riferimento all’esercizio delle “funzioni” dev'essere inteso nel senso che si deve trattare di funzioni in senso oggettivo e, poiché tale oggettività, che giustifica che il cittadino agisca contro lo Stato e non contro il magistrato, non può che discendere, conformemente al principio di legalità, dal correlarsi del comportamento del magistrato ad un potere o ad una legittimazione previsti da una norma, occorre ritenere che l'art. 2, quando si riferisce alle funzioni, alluda ad un'attività prevista o consentita da una norma, con la sola particolarità che la norma può essere regolatrice dell'esercizio della giurisdizione od anche dell'attività organizzatoria strumentale all'esercizio della giurisdizione. Al di fuori dell’esercizio delle funzioni di magistrato è stata recentemente collocata dalla Cassazione l’attività svolta dal magistrato amministrativo in qualità di componente della commissione della L. n. 186 del 1982, ex art. 33 (commissione istruttoria in funzione dell’adozione di provvedimenti disciplinari). In questo caso, infatti, l’attività svolta dal magistrato (amministrativo) non costituisce esercizio di "attività giudiziaria", in virtù del carattere pacificamente amministrativo del relativo procedimento disciplinare, e non è tale, dunque, da integrare l'ulteriore, e imprescindibile, presupposto, di carattere oggettivo, che condiziona, nella specie, l'applicabilità della L. n. 117 del 1988. Né la natura di procedimento giustiziale e contenzioso, in base ad un paradigma predeterminato dalla legge, consente di immutare la natura soggettiva del CPGA e di elidere il carattere amministrativo del procedimento disciplinare a carico dei magistrati amministrativi, così da poter qualificare il relativo svolgimento come "attività giudiziaria". Il riferimento all' “attività giudiziaria", quale presupposto oggettivo di applicabilità della L. n. 117 del 1988, sebbene ampli lo spettro delle condotte del magistrato riconducibili nell'alveo della disciplina da essa recata, non recide il collegamento che deve comunque sussistere tra l'attività (comportamenti, atti e provvedimenti) del magistrato stesso e la funzione giurisdizionale, poiché la giustificazione di fondo di detta disciplina, speciale rispetto a quella comune, va pur sempre rinvenuta nelle disposizioni di cui agli artt. 101 Cost. e segg., che imprimono alla disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati un significato d'insieme univoco e coerente di difesa dei valori dell'autonomia ed indipendenza del giudice, i quali operano non già come privilegio personale del singolo appartenente all'ordine giudiziario o alle giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.), bensì come tassello indefettibile, al pari di altri, nella costruzione della forma repubblicana, che, ai sensi dell'art. 139 Cost., non può in nessun caso essere oggetto di revisione. Pertanto, l'estensione dell'ambito applicativo della L. n. 117 del 1988, oltre quello segnato dallo svolgimento della funzione giurisdizionale in senso stretto (e, tanto più, di quella eminentemente decisoria), va delineata in coerenza con il collegamento anzidetto, certamente operando la disciplina legale in riferimento alle "attività che si esprimono nell'adozione di atti e provvedimenti giurisdizionali, nelle varie forme in cui la giurisdizione si estrinseca", ma essendo capace di comprendere anche "attività" ulteriori, siccome strumentali a quella giurisdizionale, ossia le attività che si esprimono con quegli atti che sono funzionali, in relazione al diverso ruolo ricoperto nell'organizzazione giudiziaria dal magistrato, al compimento dell'attività giurisdizionale. In definitiva, dunque, ciò che caratterizza l’attività giudiziaria, ai sensi della L. n. 117 del 1988, è la sua inerenza all'esercizio dell'ufficio di cui l'appartenente alla magistratura è investito e che, pertanto, rientra, in base alla legge, nelle attribuzioni (giurisdizionali o non) dell'organo giudiziario in cui il magistrato stesso si immedesima.
19 mar, 2021
Il difetto assoluto di giurisdizione postula l’impossibilità per un giudice nazionale di pronunciarsi nel merito di una pretesa avanza da un soggetto. Il caso più “immediato” concerne la richiesta al potere giurisdizionale di accertamento di posizioni individuali che non costituiscono né diritti soggettivi né interessi legittimi (ad esempio, interessi diffusi o adespoti). Rientrerebbe in questa tipologia, più in generale, la “non giustiziabilità della pretesa dinanzi agli organi della giurisdizione statale”, ma la Corte di Cassazione ha precisato, in più occasioni – con particolare riferimento alle questioni rimesse agli organi di giustizia sportivi – che la questione della configurabilità, o meno, di una situazione giuridicamente rilevante e tutelabile non rientra tra le questioni di giurisdizione, costituendo, invece, questione di merito. Il secondo caso si verifica quando un giudice nega la propria giurisdizione perché ritiene che un atto rientri nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, e, quanto al potere esecutivo, nella misura in cui venga contestata l’opportunità delle scelte operate, non sussistano figure sintomatiche dell’eccesso di potere e non esistano norme – come, ad esempio, l’art. 134 c.p.a. – che estendano la cognizione al merito nelle controversie. Il terzo caso si verifica quanto un giudice nega la propria giurisdizione sul presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale. Nel nostro ordinamento, un primo esempio di difetto assoluto di giurisdizione è costituito dalle ipotesi di autodichia degli organi costituzionali. Per autodichia si intende, comunemente, la capacità di una istituzione - ed in particolar modo degli organi costituzionali che siano già muniti di autonomia organizzativa e contabile - di decidere direttamente, con giudizio dei propri organi, ogni controversia attinente all'esercizio delle proprie funzioni senza che istituzioni giurisdizionali esterne possano esercitare sui relativi atti controlli e sindacati di sorta, applicando la disciplina normativa che gli stessi organi si sono dati nelle materie trattate. Ci sono ipotesi di autodichia che trovano diretto fondamento nella Costituzione, cui si accompagna la speculare carenza assoluta di giurisdizione dei giudici ordinari ed amministrativi - come quella prevista dall'art. 66 della Carta in base al quale ciascuna Camera ha il potere di giudicare dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità - mentre per altre forme di autodichia il fondamento nella Costituzione è solo indiretto, come accade per la giurisdizione domestica nelle controversie di impiego dei dipendenti del Parlamento, della quale entrambe le Camere si sono munite nell'esercizio del potere regolamentare loro attribuito dall'art. 64 Cost., comma 1, adottando per il funzionamento di tale giurisdizione interna regolamenti minori. Ci sono inoltre altre ipotesi che rinvengono la loro disciplina – in termini di difetto assoluto di giurisdizione – dalla connessione con altri istituti sicuramente attratti nell’autodichìa. Ad esempio, le controversie relative all'entità del trattamento di reversibilità del vitalizio originariamente erogato ad un ex parlamentare defunto, spettano alla cognizione degli organi di autodichìa della Camera di appartenenza dell'ex parlamentare al pari di quelle concernenti gli assegni vitalizi, in quanto il suddetto trattamento ha pur sempre la sua fonte nell'indennità di carica goduta dal parlamentare in relazione all'esercizio del proprio mandato. I suddetti organi di autodichìa svolgono un'attività obiettivamente giurisdizionale, che, per un verso, li legittima a sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme di legge a cui le fonti di autonomia effettuino rinvio, mentre, per altro verso, comporta l'ammissibilità di uno strumento di carattere non impugnatorio qual è il regolamento preventivo di giurisdizione. Invero, gli assegni vitalizi per gli ex parlamentari derivano dall'indennità parlamentare, di modo che le controversie relative alle condizioni di attribuzione e alla misura di tali assegni vitalizi, al pari di quelle relative all'indennità parlamentare, non possono che essere decise dagli organi dell'autodichìa, la cui previsione risponde alla indicata finalità di garantire la particolare autonomia del Parlamento, e quindi rientra nell'ambito della normativa di "diritto singolare" costituita dalla L. n. 1261 del 1965, artt. 1 e 8 (Determinazione dell'indennità spettante ai membri del Parlamento), posta a presidio della peculiare posizione di autonomia riconosciuta dagli artt. 64, comma 1, 66 e 68 Cost., la cui applicazione consente il superamento anche del principio dell'unicità della giurisdizione, in base al quale il giudice ordinario è dotato della giurisdizione generale e i giudici speciali previsti dalla Costituzione operano in via meramente derogatoria e sulla base di previsioni legislative (si è pronunciata recentemente, in questi termini, la Corte di Cassazione). Non sussiste invece autodichia, con riguardo alle controversie originate dalla rimodulazione in riduzione dell'assegno vitalizio erogato a consiglieri regionali cessati dalla carica. Sempre afferente ad una ipotesi di autodichia è la questione se spetti o meno al giudice comune conoscere dell'impugnazione, da parte di un senatore della Repubblica, del provvedimento di espulsione dal gruppo parlamentare di appartenenza. Al riguardo, occorre premettere che l’attività dei gruppi parlamentari va collocata su una duplicità di piani: al profilo costituzionale-parlamentare, in relazione al quale i gruppi costituiscono gli strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie del Parlamento, come previsto e disciplinato dalle norme della Costituzione, dalle consuetudini costituzionali, dai regolamenti delle Camere e dai regolamenti interni dei gruppi medesimi, si affianca l'aspetto privatistico, che giustifica una assimilazione ai partiti politici. Su tali basi, si è riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla controversia originata dalla domanda di pagamento di somme a titolo di compenso per prestazioni professionali asseritamente eseguite per conto e su incarico di un gruppo parlamentare e costituite da attività di promozione e di sensibilizzazione in favore di aziende produttrici di latte, prevalentemente delle regioni settentrionali, in ordine alla concreta praticabilità di iniziative giudiziarie (ricorsi al TAR, al giudice di pace, eventualmente denunce penali) da intraprendere sulla questione delle quote-latte assegnate ai singoli allevatori dalle autorità comunitarie, trattandosi di ragione di credito pretesamente attinente, appunto, soltanto al versante strettamente politico della funzione e dell'attività del gruppo parlamentare. Allo stesso modo, si è statuito che la giurisdizione in ordine alle controversie concernenti il rapporto di lavoro dei dipendenti dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati spetta al giudice ordinario, e non alla Camera in sede di autodichia, non esistendo nell'ordinamento una norma avente fondamento costituzionale, sia pure indiretto attraverso il regolamento parlamentare, che autorizzi la deroga al principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni e non potendosi estendere, perché norma eccezionale di stretta interpretazione, l'art. 12 del regolamento della Camera riguardante i dipendenti della stessa Camera, anche in considerazione della natura politica, oltre che strettamente parlamentare, dell'attività svolta dai suddetti gruppi. In linea con questo medesimo indirizzo, si è risolto in favore del giudice ordinario, anziché dell'autodichia del Senato, il dubbio sulla giurisdizione in una controversia vertente sull'impugnazione proposta dal dipendente di un gruppo parlamentare del Senato contro una delibera del Consiglio di Presidenza incidente sul rapporto di lavoro, e ciò sul rilievo che il rapporto di lavoro fa capo esclusivamente al gruppo parlamentare, che, nei confronti del proprio dipendente, non si atteggia ad organo dell'istituzione, ma ad associazione non riconosciuta. Per quanto invece riguarda l'impugnazione del provvedimento di espulsione del parlamentare eletto dal gruppo senatoriale di appartenenza, viene in rilievo un rapporto che si svolge tutto all'interno del piano di attività parlamentare del gruppo stesso, nella sua configurazione di associazione necessaria di diritto pubblico strumentale all'esercizio della funzione legislativa e al funzionamento del Senato della Repubblica: si verte, pertanto, in una sfera che, attenendo ad una articolazione fondamentale dell'Assemblea parlamentare, non sfugge al cono d'ombra che gli interna corporis e il diritto parlamentare frappongono alla giustiziabilità delle situazioni giuridiche individuali dinanzi al giudice comune dei diritti soggettivi. La tutela "reintegratoria" richiesta da un senatore che aziona la domanda di nullità o di annullamento del provvedimento espulsivo dinanzi al giudice ordinario, è infatti idonea ad incidere sulla compagine numerica del Gruppo parlamentare a cui tale senatore apparteneva e, quindi, sulla sua attività di organismo politico del Senato e di soggetto necessario al funzionamento dell'Assemblea parlamentare. L'esclusione, in siffatta evenienza, dell'ammissibilità del ricorso alla giurisdizione del giudice comune, è in linea con le indicazioni che emergono dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha evidenziato (sentenza n. 379 del 1996) l'esistenza di limiti all'intervento della giurisdizione su attività e procedure interamente riconducibili all'ordinamento parlamentare, sottolineando che l'autonomia degli organi costituzionali " non si esaurisce nella normazione, bensì comprende - coerentemente - il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza ".
Autore: Dal sito Diritto e Conti 19 mar, 2021
* Si pubblica articolo apparso sul sito e rivista giuridica Diritto e Conti - Bilancio Comunità Persona , su autorizzazione dei responsabili del sito stesso La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, con l’ordinanza n. 37/2021, nell’ambito di un giudizio sul piano di riequilibrio, concernente il comune di Camerota, ha sollevato questione pregiudiziale adendo la Corte di giustizia Ue, affinché questa si pronunci sul dubbio di violazione del principio generale dello Stato diritto e delle norme comunitarie sulla trasparenza dei quadri di bilancio. L’ordinanza chiede lumi sulla compatibilità col diritto comunitario della art. 53 del D.L. n. 104/2020. La pronuncia si rivela interessante per i seguenti tre punti: 1) la legittimazione della Sezione quale “giurisdizione pleno iure“, nell’ambito di un giudizio che si svolge in “unico grado” in due fasi, una contenziosa, dinanzi alla Sezione di controllo , e una non contenziosa, dinanzi alle Sezioni riunite in speciale composizione; 2) la costruzione del parametro comunitario mediante la combinazione del principio generale dello “Stato di diritto” e il regolamento n. 2092/2020, dal quale sarebbe ricavabile un divieto che ne costituirebbe un contenuto essenziale. Tale contenuto essenziale sarebbe direttamente applicabile e impedirebbe una limitazione anche per via processuale e temporanea del sindacato giurisdizionale del diritto eurounitario; 3) l’affermazione che il principio dell’effetto utile del diritto comunitario fonderebbe un divieto di retrocessione dall’attuazione delle direttive nelle parti in cui non sono direttamente applicabili. Le questioni comunitarie sono sostanzialmente due e riguardano: a) la violazione dei regolamenti sul patto di stabilità e sul SEC 2010, nonché delle direttive sui quadri di bilancio, norme che impongono trasparenza sulla contabilità comune europea, anche per le varie pubbliche amministrazioni interne dello Stato membro (i cc.dd. sotto-settori); b) la violazione della direttiva sulla tempestività dei pagamenti, poiché la sospensione dell’istruttoria determina la sospensione delle azioni esecutive dei creditori oltre i tempi della direttiva citata. La sospensione delle azioni esecutive è infatti collegata, nel diritto interno, alla pendente omologazione del piano di riequilibrio da parte della Sezione di controllo. LINK: https://dirittoeconti.it/sollevata-questione-pregiudiziale-comunitaria-sulla-sospensione-dei-poteri-istruttori-della-corte-dei-conti-per-violazione-dello-stato-di-diritto/
18 gen, 2021
La Costituzione vieta l’istituzione di giudici straordinari o giudici speciali, fatta eccezione per le sezioni specializzate per determinate materie costituite presso gli organi giudiziari ordinari, che possono avvalersi anche della partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. Nel disegno del legislatore costituente, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si sarebbe dovuto procedere alla revisione di tutti gli organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti, ad esclusione delle giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari. Quanto alle Sezioni specializzate, la Corte costituzionale ha precisato che le stesse, per corrispondere all'intento che mosse il Costituente nel consentirne l'istituzione, devono essere configurate non già come un istituto intermedio fra le soppresse giurisdizioni speciali e la giurisdizione ordinaria, bensì quale sottospecie di quest'ultima, con la conseguente esigenza di strutturarle adottando le modalità meglio idonee ad accostarle, per quanto possibile, ad essa. Esiste cioè l'esigenza che, nell'istituire le Sezioni specializzate, la legge non eluda una precisa e puntuale determinazione tanto dei requisiti dai quali possa presumersi il possesso da parte dei cittadini estranei all'ordine giudiziario di quella idoneità richiesta dall'art. 102 della Costituzione (competenza e specializzazione), quanto di un minimo almeno di garanzie necessarie a conferire agli esperti medesimi quella posizione super partes, che è attributo connaturale all'esercizio della funzione giurisdizionale e che si concreta, appunto, nel requisito dell'indipendenza dal potere esecutivo, richiesto testualmente per tutti i giudici (anche quelli delle giurisdizioni speciali), dall'art. 108. Ma chi sono invece i Giudici speciali? La Costituzione distingue tra “organi speciali di giurisdizione” ad essa preesistenti, che non devono essere soggetti a revisione (Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Tribunali militari), e “organi speciali di giurisdizione” ad essa preesistenti, che devono essere soggetti a revisione. Il divieto di esercizio della funzione giurisdizionale da parte di soggetti diversi dai “magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (fatta eccezione, come visto, per i giudici delle sezioni specializzate) vale dunque soltanto dall’approvazione della Costituzione in poi. Si potrebbe dunque sostenere con qualche argomento che la legge fondamentale dello Stato stabilisca implicitamente che tutti i giudici che non fanno parte della magistratura ordinaria sono giudici speciali. Tuttavia, è la stessa Costituzione a prevedere, all’art. 103, che Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa (ovvero i Tribunale amministrativi regionali) “hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. Si può dunque anche affermare che un Giudice come quello amministrativo, capace secondo la stessa Costituzione di conoscere e decidere su diritti soggettivi, seppure in particolari materie in cui gli stessi risultano “intrecciati” con posizioni condizionate dall’esercizio di un potere pubblico discrezionale, è un Giudice che condivide con il Giudice ordinario il pieno esercizio delle funzioni giurisdizionali, e quindi a “specialità” fortemente attenuata. La Corte costituzionale ha parlato di “principio della unità della giurisdizione”, seppure temperato e non retroattivo, riconoscendo implicitamente che i Costituenti non avrebbero optato per una soluzione “rigida”, ma per un bilanciamento tra la regola generale dell’unità e le eccezioni dettate da esigenze di specializzazione. In altri termini, nel dettato costituzionale avrebbero trovato spazio sia il principio dell’unicità sia l’opposto principio della pluralità delle giurisdizioni, da considerarsi come un correttivo alle possibili inefficienze della giurisdizione ordinaria nell’affrontare adeguatamente materie tra di loro molto eterogenee; sotto altro profilo, l’esistenza del principio di unità potrebbe essere rinvenuta nella posizione istituzionale rivestita dalla Corte di Cassazione all’interno dell’ordinamento, in ragione delle competenze ad essa attribuite. Invero, attraverso il ruolo e le funzioni della Cassazione tutte le giurisdizioni (ordinarie e speciali) verrebbero ad essere ricomprese nel genus di quella ordinaria, seppure entro i limiti stabiliti dall’art. 111 della Costituzione. Per altro verso, l’unico principio incontrovertibile in materia, anche secondo la Corte costituzionale, è che il secondo comma dell’art. 102 Cost. deve considerarsi violato nel caso di introduzione ex novo di ulteriori giurisdizioni speciali.
18 gen, 2021
A differenza di quanto ordinariamente previsto dall’art. 360 c.p.c. e dal comma 7 dell’art. 111 della Costituzione (secondo cui è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge), l’art. 111, comma 8 della Costituzione prevede che contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Si tratta di una delimitazione soggettiva di quei “giudici speciali” le cui decisioni in grado d'appello o in unico grado, già secondo il codice civile (approvato precedentemente all’introduzione della Carta costituzionale), non potevano essere impugnate con ricorso per cassazione se non per motivi inerenti alla giurisdizione del giudice stesso che le aveva emesse. A sua volta, il codice del processo amministrativo, all’art. 110, ha previsto che la Corte di cassazione non possa sindacare le sentenze del giudice amministrativo per violazione della legge processuale o sostanziale, ma per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Tuttavia, accanto ad un orientamento consolidato e per così dire maggioritario, secondo cui il sindacato esercitato dalla Corte di Cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 362 c.p.c., comma 1, e art. 110 c.p.a., è consentito soltanto ove si richieda l’accertamento dell’eventuale “sconfinamento” del Consiglio di Stato dai limiti esterni della propria giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, si è progressivamente affiancato un orientamento per così dire minoritario, secondo cui rientrerebbero nel controllo sulla giurisdizione anche le ipotesi in cui il giudice amministrativo o quello contabile rifiutino, se del caso tramite un’interpretazione abnorme delle norme di riferimento, una particolare forma di tutela astrattamente prevista dalla legge, ovvero adottino una interpretazione di una norma processuale o addirittura sostanziale che impedisca la piena conoscibilità della domanda, e cioè l’esame del merito della questione. Si è inserita di recente, in questo filone, l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 2020, che ha chiesto alla Corte di Giustizia, a mezzo rinvio pregiudiziale: - se è compatibile con il diritto europeo l’orientamento giurisprudenziale, avallato anche dalla Corte costituzionale, secondo cui non rientra nel “difetto di potere giurisdizionale” – e quindi non è sindacabile dalla Cassazione stessa – l’applicazione da parte del Consiglio di Stato di prassi interpretative elaborate in sede nazionale in contrasto con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell'Unione europea; - se è compatibile con il diritto europeo l’omissione immotivata di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione (da essa tassativamente indicate) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo. L’intento della Corte di Cassazione è dunque quello di evitare, tramite la disapplicazione parziale di una norma di rango costituzionale, una possibile usurpazione della competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, in modo da non favorire il consolidamento dell'eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell'Unione, così consentendo, contestualmente, tramite l’uniforme applicazione del diritto unionale, la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti da tale diritto. Un’approfondita analisi della questione e delle sue implicazioni è stata effettuata dal dott. Pier Luigi Tomaiuoli, con nota pubblicata sul periodico telematico “Consulta Online”, Fasc. III 2020, che si riporta di seguito, con il consenso dell’autore: ⬇️ Consulta online
18 gen, 2021
Un fronte di possibile criticità in ordine al rispetto del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale pare ravvisabile nel “nuovo” ordinamento della giustizia sportiva, in quanto l’art. 2, comma 1 del d.l. n. 220 del 2003, convertito, con modificazioni, nella L. n. 280 del 2003, stabilisce che sono “riservati all'ordinamento sportivo” la disciplina delle questioni aventi ad oggetto “l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive” e “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”. Secondo l’interpretazione ampiamente maggioritaria di questa norma - interpretazione che d’altra parte riceve la sua conferma pacifica ed esplicita dalla disposizione di cui al successivo art. 3 (“Esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2, è disciplinata dal codice del processo amministrativo”) -, la giurisdizione statuale non sussiste affatto, in caso di inosservanza di norme sul corretto svolgimento delle attività sportive e di sanzioni disciplinari sportive. Competenti a conoscere di tali questioni, a prescindere dalla posizione soggettiva sottostante, sono soltanto gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo. Un’interpretazione così netta, peraltro, per quanto letterale della norma, non può trovare accoglimento nel nostro sistema costituzionale. Posto che è da escludere che in tali casi non vengano mai in rilievo diritti soggettivi e/o interessi legittimi, gli stessi dovrebbero sempre potere ricevere adeguata tutela dinanzi al Giudice ordinario o agli organi di Giustizia amministrativa (artt. 24, 103 e 113 Cost.), pena la surrettizia introduzione di un nuovo, inammissibile, Giudice speciale. E così, la Corte costituzionale, sollecitata in due occasioni a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 1 del d.l. n. 203 del 2003, ha chiarito che la normativa contestata, nell’interpretazione offerta dal diritto vivente e fatta propria dalla Corte, mantiene intatta la possibilità, per chi ritenga di essere stato leso nei suoi diritti o interessi legittimi da atti di irrogazione di sanzioni disciplinari (o dalla mancata applicazione delle norme regolamentari e/o organizzative delle articolazioni dell'ordinamento sportivo nazionale), di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno, e che questa forma di tutela per equivalente, per quanto diversa rispetto a quella di annullamento in via generale assegnata al giudice amministrativo, risulta in ogni caso idonea, nella fattispecie, a corrispondere al vincolo costituzionale di necessaria protezione giurisdizionale dell’interesse legittimo (oltre che di eventuali diritti soggettivi patrimoniali connessi). Secondo la Corte, infatti, la scelta legislativa che ha stabilito la “riserva di giurisdizione”, è frutto del non irragionevole bilanciamento operato dal legislatore fra il principio costituzionale di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e le esigenze di salvaguardia dell’autonomia dell’ordinamento sportivo – che trova ampia tutela negli artt. 2 e 18 Cost. – «bilanciamento che lo ha indotto [...] ad escludere la possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente» su tale autonomia, mantenendo invece ferma la tutela per equivalente. La Corte delinea così, per il sistema dell’organizzazione sportiva, in quanto tale e nelle sue diverse articolazioni organizzative e funzionali, uno spazio di tutela costituzionale all’interno delle previsioni che riconoscono e garantiscono i diritti dell’individuo, non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali in cui si esprime la sua personalità (art. 2 Cost.), e che assicurano il diritto di associarsi liberamente per fini che non sono vietati al singolo dalla legge penale (art. 18). Con la conseguenza che eventuali collegamenti con l’ordinamento statale, allorché i due ordinamenti entrino reciprocamente in contatto per intervento del legislatore statale, devono essere disciplinati tenendo conto dell’autonomia di quello sportivo e delle previsioni costituzionali in cui essa trova radice. D’altra parte, la regolamentazione statale del sistema sportivo deve mantenersi nei limiti di quanto risulta necessario al bilanciamento dell’autonomia del suo ordinamento con il rispetto delle altre garanzie costituzionali che possono venire in rilievo, fra le quali vi sono – in tema di giustizia “sportiva” – il diritto di difesa e il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale presidiati dagli artt. 24, 103 e 113 Cost.. All’obiezione non peregrina del TAR Lazio (ordinanza n. 10171 del 2017) secondo cui il punto di equilibrio rinvenuto nell’interpretazione dell’art. 2, comma 1 del d.l. n. n. 203 del 2003 sacrifica integralmente la forma di tutela tipica del Giudice amministrativo (caducazione del provvedimento disciplinare), e che tale forma di tutela sarebbe anche l’unica effettiva, a fronte della qualificazione delle decisioni disciplinari sportive come provvedimenti amministrativi (espressione dei poteri pubblici attribuiti alle federazioni sportive nazionali e al CONI), la Corte ha risposto asserendo che la previsione di una «diversificata modalità di tutela giurisdizionale» dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi limitata al risarcimento del danno per equivalente non trova ostacolo nell’art. 113 Cost., poiché questo non è diretto ad assicurare in ogni caso e incondizionatamente una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando invece al legislatore ordinario un certo spazio di valutazione nel regolarne modi ed efficacia, sempre che il suo intervento sia improntato a ragionevolezza e adeguatezza. Inoltre, le suddette limitazioni alla tutela giurisdizionale non sono neanche ignote al sistema normativo, se solo si considera il disposto dell’art. 2058 del codice civile, richiamato dall’art. 30 del codice del processo amministrativo, e all’utilizzo della tecnica di tutela dell’esclusione della tutela costitutiva di annullamento e della limitazione della protezione giurisdizionale al risarcimento per equivalente in numerosi e delicati comparti, tra i quali l’ambito lavoristico. Parola “fine” sulla questione? Non è detto. Nella stessa sentenza in cui la Corte costituzionale “legittima” il sistema di “riserva temperata” a favore degli organi di giustizia sportiva, il Giudice delle leggi, non potendo negare radicalmente la possibilità di tutela cautelare, dà un piccolo suggerimento a chi ne abbia interesse: “L’esigenza di protezione provvisoria delle pretese fatte valere in giudizio, ricadente essa stessa nell’ambito di operatività delle garanzie offerte dagli artt. 24, 103 e 113 Cost., può trovare invero una risposta nei caratteri di atipicità e ampiezza delle misure cautelari a disposizione di tale giudice – che in base all’art. 55 cod. proc. amm. può adottare le «misure cautelari […] che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso» – e nella possibilità che in questo ambito vengano disposte anche ingiunzioni a pagare somme in via provvisoria”. A buon intenditore, poche parole.
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