Diritto civile


Autore: dalla Redazione 17 ottobre 2025
Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, sentenza n. 6494 pubblicata il 9 agosto 2025 IL CASO E LA DECISIONE Un cittadino albanese, giunto in Italia da quasi venti anni per ricongiungersi alla sorella, unico suo punto di riferimento in vita, veniva a sua volta raggiunto dalla moglie nel corso dell'anno 2011. D’altra parte, tra il 2010 e il 2013 erano nati i due figli della coppia, uno dei quali aveva fin da subito manifestato problemi respiratori ed era stato sottoposto a molteplici accertamenti medici, con diagnosi di disturbo evolutivo specifico misto e un disturbo del funzionamento sociale con esordio specifico nell'infanzia. Conseguito il permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti , nel febbraio del 2021, alla richiesta di aggiornamento di tale permesso, la Questura procedente si opponeva all’aggiornamento medesimo e revocava contestualmente il permesso UE, a causa di due precedenti penali dell’interessato per il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti. Impugnata la revoca dinanzi al Tar, il Giudice amministrativo accoglieva parzialmente la domanda cautelare, nella parte in cui era stato negato al cittadino straniero altro titolo di soggiorno ai sensi del comma 9 dell’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 , e la Questura di Milano convocava l'interessato per la formalizzazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale di cui all'articolo 19 comma 1.2 del d.lgs. n. 286 del 1998 , in quanto fondata sull'esigenza di tutelare il rispetto della vita familiare del ricorrente. Tuttavia, a distanza di oltre un anno, l’amministrazione notificava al ricorrente il provvedimento di diniego della domanda di protezione speciale e il contestuale decreto di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera, sulla base del parere negativo della Commissione territoriale competente al rilascio del permesso richiesto. In particolare, la Commissione aveva richiamato in via analogica la sentenza della Corte Edu, in cui era stata esclusa la sussistenza di una violazione dell'articolo 8 della Convenzione nel caso di rimpatrio di un trentanovenne cittadino marocchino pluripregiudicato che pure aveva vissuto in Italia per vent'anni e aveva in Italia madre, sorella e fratello, in considerazione della preminenza dell'interesse alla salvaguardia dell'ordine pubblico. In senso contrario a tale riferimento giurisprudenziale, tuttavia, il Tribunale di Milano ha ravvisato, nel caso dallo stesso esaminato, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, evidenziando che dalla documentazione prodotta risultava che l’interessato si fosse radicato in Italia insieme al nucleo familiare e avesse raggiunto un buon livello di integrazione sotto tutti i profili (sociale, lavorativo e linguistico). A fronte di tale apprezzabile livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia, il rimpatrio, secondo il Giudice adito, avrebbe violato il suo diritto alla vita privata e familiare , che egli aveva progressivamente sviluppato e poi radicato nel nostro Paese insieme al nucleo familiare. Inoltre, in punto di effettivo inserimento sociale nel Paese ospitante, l’interessato risultava avere acquisito conoscenze professionali nonché una propria autonomia abitativa e una stabile vita di relazione. Infine, la situazione medica del figlio minore rendeva ancora più pregnante la necessità di tutelare la vita privata e familiare del padre. D’altra parte, sempre secondo il Giudice adito, le ragioni in forza delle quali la Commissione territoriale aveva emesso parere negativo al riconoscimento del permesso per protezione speciale non avrebbero potuto considerarsi rilevanti, in quanto le condanne penali alle quali l’amministrazione aveva fatto riferimento dovevano necessariamente essere bilanciate con la vita vissuta dal ricorrente nel corso dei lunghi anni di permanenza sul territorio dello Stato italiano. In particolare, le valutazioni della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo valorizzate dalla Commissione territoriale sarebbero più pregnanti nel diverso contesto del bilanciamento tra il diritto dello Stato di espellere persone ritenute effettivamente pericolose per l’ordine pubblico e diritto dell’espellendo di tutelare la propria vita privata e/o familiare, mentre nel più specifico ambito della protezione internazionale , nel cui alveo si collocano le domande di protezione speciale , ex art. 10 della Costituzione, deve senz’altro prevalere, a dire del Tribunale di Milano, il diritto alla tutela della vita privata e familiare di un soggetto condannato nel tempo soltanto per due reati “lievi”, nell’arco di una permanenza ventennale nel Paese ospitante, permanenza nel corso della quale, a fronte dello scarso profilo di pericolosità sociale derivante dalle condotte illecite accertate, era stato accertato che l’interessato avesse sostenuto un apprezzabile sforzo di integrazione sociale . LA SOLUZIONE IN DIRITTO L’ art. 7 comma 1 del D.L. 20/23 (conv. dalla l. 50/23) , entrato in vigore l’11 marzo 2023, ha tra l’altro abrogato la seconda parte (terzo e quarto periodo) dell’ art. 19 comma 1.1 del Testo Unico Immigrazione . I periodi abrogati prevedevano un espresso divieto di respingimento o di espulsione tutte le volte in cui l’allontanamento potesse comportare una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del richiedente , salvo che l’allontanamento stesso non fosse necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, o di protezione della salute (da qui la definizione di questa forma di protezione speciale come “relativa”, in quanto il diritto in questione era bilanciabile con tali ragioni). La norma indicava poi, con elencazione da ritenersi non tassativa, ma solo esemplificativa, i quattro indici alla cui presenza sorgeva il diritto alla tutela della vita privata e familiare: natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato, suo effettivo inserimento sociale in Italia, durata del suo soggiorno nel territorio nazionale ed esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine. Prima della modifica normativa, tra l’altro, si riteneva che, nella particolare fattispecie della protezione speciale per integrazione sociale , non fosse più necessaria la valutazione comparativa con la condizione del richiedente nel Paese di origine, secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per il riconoscimento della protezione umanitaria, nemmeno nella forma della comparazione attenuata con proporzionalità inversa . La comparazione attenuata con proporzionalità inversa, a sua volta, presupponeva che la condizione di vulnerabilità venisse verificata di volta in volta all’esito di una valutazione individuale della vita privata e familiare del richiedente, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza alla stregua di un più generale principio di comparazione attenuata, concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, nel senso che quanto più fosse risultata accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità, se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficiassero la motivazione, conducendola al di sotto del minimo costituzionale), una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più era consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis , costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri rappresentati dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale . D’altra parte, l’art. 19 comma 1.1 sopra citato non ha subito alcuna modifica nel suo primo periodo; dunque, resta fermo il divieto di respingimento o di espulsione o di estradizione “ di una persona verso uno Stato […] qualora ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5 co. 6. […] ”. A sua volta, resta immutato il sesto comma dell’art. 5 cui tale norma fa rinvio, che dispone che nell’adottare una decisione di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno allo straniero occorre fare “ salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano ”. Pertanto, continuerebbero a trovare tutela nell’alveo della prima parte dell’art. 19 comma 1.1. TUI tutte le situazioni di vulnerabilità ed i diritti che trovavano tutela in precedenza, in quanto rientranti o nel divieto di refoulement (pericolo di tortura, di trattamenti inumani o degradanti, violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di origine), ovvero più in generale nel rispetto degli obblighi costituzionali (diritto di asilo, art. 10; alla salute art. 32; alla parità, art. 3; alle relazioni familiari, artt. 29-31, ecc.) ed internazionali , con particolare riferimento al necessario rispetto dei diritti alla vita privata ed alla vita familiare, che trovano ampia tutela non solo nell’ art. 8 CEDU ma altresì nell’ art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea . Ed è questa la posizione assunta dal Giudice adito nel caso di specie. In particolare, il Tribunale di Milano ha tenuto conto, nel decidere, dei principi elaborati, anche in materia di protezione umanitaria , dalla giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione, che hanno aperto non solo a una concezione allargata della vulnerabilità del cittadino straniero, ma hanno, altresì, introdotto la necessità di una valutazione individuale , caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. Sotto questo profilo, pertanto, i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un' effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa. Sempre sulla base dei principi costituzionali o di diritto unionale o internazionale, è stato ritenuto che ai fini della verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria deve tenersi conto: delle violenze subite nel Paese di transito, degli eventi calamitosi, causa dell’emigrazione, verificatisi nel paese di origine, del rischio di una lesione del diritto alla salute, ivi compreso un accertato disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite, della situazione oggettiva del Paese di origine (ai fini del giudizio di ‘comparazione attenuata’), del diritto alla vita privata e familiare e, a tali fini, dell'esistenza e della consistenza dei legami familiari e affettivi del richiedente in Italia e del suo percorso di integrazione in Italia, non solo sotto il profilo lavorativo, ma anche culturale e sociale (ad es., con riferimento alla conoscenza della lingua italiana ed alle attività di volontariato svolte con continuità) e valutando il livello di integrazione raggiunto non come necessità di un pieno, irreversibile eradicale inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma come ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale di riferimento. Quanto poi alla tutela dei legami famigliari instaurati nel Paese di accoglienza, il Giudice che ha esaminato il caso in commento, decidendolo favorevolmente al ricorrente, ha ricordato che “ la situazione di radicamento familiare, ove sussistente, […], deve essere esaminata e valutata in modo autonomo come fattore di per sé espressivo e sintomatico del diritto al riconoscimento della vita familiare ex art. 8 CEDU, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio del richiedente nel Paese d’origine renda probabile un significativo peggioramento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare tale da pregiudicare il diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU. "
Autore: a cura di Paolo Nasini 5 settembre 2025
Tribunale Milano, sez. IV, 02 giugno 2025 IL CASO E LA DECISIONE La controversia in esame è intercorsa tra un Condominio sito in un immobile residenziale risalente ai primi anni del Novecento e il proprietario di un appartamento ubicato al piano rialzato della scala A dello stabile. Nei primi giorni di gennaio 2025, l'impresa incaricata dal suddetto proprietario ha esposto un cartello recante l'avviso dell' inizio di lavori edilizi consistenti nella creazione di una nuova apertura in una muratura condominiale portante, allo scopo di realizzare un secondo ingresso all'unità abitativa di proprietà del resistente. Da quanto risulterebbe dalla documentazione tecnica depositata, la muratura oggetto dell'intervento sarebbe spessa circa mezzo metro e costituirebbe un elemento portante del fabbricato. A seguito dell'annuncio dei lavori, l'amministratore del Condominio ha convocato un'assemblea per il 28 gennaio 2025, durante la quale, con ampia maggioranza, sono state adottate tre delibere : una prima concernente l'integrazione del regolamento condominiale, introducendo l'obbligo di autorizzazione assembleare per qualsiasi apertura o modifica dei varchi su muri condominiali; una seconda, di diniego espresso alla realizzazione del varco previsto dal predetto proprietario; una terza, di mandato all'amministratore per attivarsi al fine di impedire l'esecuzione dell'intervento. Nonostante l'avvenuta adozione di tali delibere, il 12 marzo 2025 l'architetto incaricato dal proprietario ha comunicato all'amministratore l’imminente inizio dei lavori di apertura. Il proprietario, peraltro, ha giustificato la propria iniziativa sostenendo di aver ricevuto, per il tramite dei precedenti proprietari, un'autorizzazione rilasciata dall'amministratore condominiale nel 2024 per una simile apertura. Tuttavia, ad avviso del Condominio tale autorizzazione sarebbe inconferente, in quanto: non riferita al proprietario e relativa ad un progetto differente quanto a collocazione del varco; non considerante i precedenti interventi di consolidamento strutturale dell'edificio; e, in ogni caso, revocata prima dell'inizio di qualsiasi attività. Il Condominio, dunque, opponendosi alla suddetta aperura, ha agito in giudizio evidenziando che la muratura in oggetto rientra tra le parti comuni ex art. 1117 c.c. e che l'intervento progettato non potrebbe essere ricondotto all'uso individuale consentito dall' art. 1102 c.c. , configurando piuttosto un'innovazione ai sensi dell' art. 1120 c.c. , che necessiterebbe della previa approvazione dell'assemblea condominiale, secondo i quorum previsti dall' art. 1136 c.c. Ha inoltre invocato il regolamento condominiale, il quale vieterebbe modifiche delle strutture portanti senza l'autorizzazione preventiva dell'amministratore e comunque senza approvazione assembleare. Il regolamento, inoltre, vieterebbe modifiche che compromettano la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell'edificio, elementi che secondo il Condominio sarebbero tutti coinvolti nell'intervento contestato. Sul piano tecnico, il Condominio ha dedotto problematiche inerenti alla sicurezza e alla conformità edilizia. In particolare, l'apertura prevista si troverebbe in prossimità della rampa delle scale, a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dal regolamento edilizio del Comune di Milano (art. 89), oltre che a ridosso di impianti condominiali (gas e corrente elettrica). Sarebbe altresì contestata la legittimità dell'intervento in riferimento alle norme antisismiche (D.G.R. 4317/2021), ritenendo non rispettati i criteri di distanza dagli angoli murari e dalla cerchiatura. In aggiunta, si deduce che la nuova porta, per posizione, dimensioni e proporzioni rispetto alle altre aperture esistenti, altererebbe il decoro architettonico dello stabile, violando l' art. 1120, comma 4, c.c. , oltre a determinare un'illegittima appropriazione di porzione del bene comune (la muratura stessa), in contrasto con l' art. 1102 c.c. Con riferimento alla tutela possessoria , il Condominio ha ravvisato nella condotta del resistente gli estremi della turbativa ( ex art. 1170 c.c. ), già attuale, stante l'esecuzione di fori prodromici all'apertura e l'avvenuto annuncio dei lavori, e potenzialmente suscettibile di aggravarsi in caso di prosecuzione delle opere; ha fatto altresì riferimento alla possibilità che possa configurarsi uno spoglio ( art. 1168 c.c. ), qualora venga effettivamente creato il varco. In subordine, il Condominio ha agito ex art. 700 c.p.c. , il fumus boni iuris essendo dimostrato dai fatti sopra esposti ed il periculum in mora sussistendo a fronte dei danni irreparabili alla stabilità dell'edificio e alla sicurezza degli abitanti. Il proprietario si è difeso contestando in fatto e diritto il ricorso avversario: in particolare, ha dedotto di aver acquistato in data 5 settembre 2024 un appartamento sito nel suddetto stabile da soggetti che, già nel febbraio precedente, avevano richiesto all'amministratore l'autorizzazione all'apertura di una seconda porta sul pianerottolo condominiale, al fine di rendere frazionabile l'immobile in due unità distinte. Tale autorizzazione, secondo quanto documentato in atti, sarebbe stata rilasciata in data 28 febbraio 2024, previo esame favorevole dei progettisti e del tecnico strutturista incaricato. Secondo il resistente, detta autorizzazione, benché rilasciata ai danti causa, sarebbe tuttora efficace e idonea a legittimare la medesima opera anche a beneficio dell'attuale proprietario. Inoltre, la fattibilità tecnica dell'intervento sarebbe stata ulteriormente confermata in più occasioni da parte del medesimo tecnico incaricato dal resistente, in risposta alle obiezioni sollevate in sede assembleare e dal tecnico di parte condominiale. Il resistente richiama l' art. 1102 c.c. , ritenendo che l'apertura della porta configurerebbe un uso più intenso del bene comune pienamente consentito al singolo condomino, in quanto: - non sarebbe pregiudicata la stabilità del fabbricato, come attestato da plurime perizie; - non risulterebbe violato il decoro architettonico, trattandosi di intervento interno al pianerottolo e dunque privo di impatto visivo rilevante; - non sarebbe alterata la destinazione della cosa comune, né risulterebbe lesa la possibilità di pari uso da parte degli altri condomini; - l'intervento risulterebbe conforme al regolamento condominiale vigente, che all'art. 2 del capitolo 2 prevede quale unica autorizzazione necessaria quella dell'amministratore, autorizzazione che si assumerebbe tuttora valida e non efficacemente revocata. Conseguentemente, a dire del resistente, la delibera assembleare del 28 gennaio 2025, con la quale è stata introdotta una limitazione al diritto di modificare i varchi nel muro comune, non risulterebbe valida in quanto adottata a maggioranza e non all'unanimità, come invece richiesto per le modifiche a regolamenti contrattuali. In ogni caso, il resistente ha contestato la validità del diniego espresso dall'assemblea, per carenza di motivazione concreta e definitiva, evidenziando che tale diniego sarebbe fondato su rilievi meramente dubitativi. Né l'intervento violerebbe il Regolamento Edilizio del Comune di Milano, tanto più che risulterebbe già consentito mediante regolare presentazione di SCIA, cui non sarebbero seguite osservazioni da parte dell'Amministrazione comunale. Infine, in relazione alla doglianza secondo cui l'apertura della porta determinerebbe un’illegittima appropriazione di porzione del muro comune, il resistente assume che tale uso esclusivo sarebbe legittimo ai sensi dell' art. 1102 c.c. , non pregiudicando gli altri condomini. All’esito del giudizio il Giudice, in accoglimento del ricorso, ha ordinato al proprietario resistente l' immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale , provvedendo - a sue cure e spese - alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. LA SOLUZIONE IN DIRITTO Il Tribunale, anzitutto, ha accertato che il Condominio possiede il muro portante che affaccia sul pianerottolo del piano rialzato; detto muro ha la funzione di sostenere l'edificio ed altresì di circoscrivere la geometria tipica degli edifici dei primi anni del ‘900. Il possesso del muro è esercitato non tanto mediante il suo materiale utilizzo, bensì per mezzo della sua pluridecennale funzione di sostegno del Condominio, caratterizzando oltretutto l'armonia dei suoi spazi comuni interni. Il Giudice, quindi, ha affermato che il Condominio gode di quel muro quotidianamente - appunto - possedendolo: in particolare, ha sottolineato che la sezione quarta civile del Tribunale avesse già in precedenza evidenziato, con sentenza del 21 maggio 2015, che “ la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il principio per cui il decoro architettonico di un edificio costituisce una caratteristica essenziale dello stabile e quindi un elemento incidente, oltre che sul valore economico del bene, anche sul modo di godimento da parte del suo possessore, con la conseguenza che la modificazione dell'assetto estetico, comportando un'interferenza nel godimento del bene, può integrare un'indebita turbativa suscettibile di tutela possessori ” [1] . Tanto è vero che, nella motivazione della sentenza in esame, si legge che già “ All'esito della fase sommaria del procedimento il giudice designato pronunciava l'ordinanza del 6 marzo 2012, successivamente confermata con provvedimento collegiale del 16 maggio 2012 dal Tribunale adito con reclamo ai sensi dell' art. 669 terdecies c.p.c. , con cui ordinava al convenuto il ripristino dello stato dei luoghi mediante demolizione del manufatto "ritenuta prospettabile, nel caso in esame, unicamente la molestia possessoria consistente nel turbamento del pacifico godimento dell'edificio condominiale attuato attraverso la realizzazione, ormai completa, di un intervento di recupero del sottotetto chiaramente incidente sul decoro architettonico ed estetico dell'edificio, tutelabile, ai sensi dell' art. 1170 c.c. ”. In conseguenza di quanto precede, quindi, il Tribunale ha sottolineato che occorreva esaminare l'eventuale molestia del muro comune sotto il profilo del decoro architettonico dello spazio circostante. Nello specifico, secondo il Giudice, dal piano rialzato è ben visibile anche il piano superiore, circostanza che già consente di rilevare una totale disarmonia tra i piani, posto che al primo piano non vi è un'altra apertura in corrispondenza di quella che il proprietario vorrebbe realizzare. Quindi, il Tribunale ha ricordato che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 851 del 2007 , ha affermato che: “ In tema di condominio negli edifici, per "decoro architettonico" deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità; pertanto, nessuna influenza, ai fini della tutela prevista dall' art.1120 cod. civ. , può essere attribuita al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell'edificio, ovvero alla presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate ”. Una ulteriore disarmonia geometrica emergerebbe altresì allo stesso piano rialzato, in cui non esiste un'altra apertura simmetrica sulla sinistra. A tal proposito, si ricorda che la simmetria è una declinazione del decorso architettonico come chiarito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 14607/2012 : “ In tema di condominio, è illegittimo l'uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell' art. 1102 cod. civ. , ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio condominiale. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittima la realizzazione di alcuni fori di porta o di finestra posti sulle facciate dell'edificio, i quali avevano alterato la simmetria dei fori preesistenti, producendo un risultato esteticamente sgradevole) ”. Inoltre, il Tribunale ha accertato che la nuova apertura verrebbe disposta in uno spazio ridotto, soffocato tra la scala e l'angolo del muro in cui sono financo posizionate delle tubature condominiali: pertanto, un'opera siffatta produce un effetto geometricamente sgradevole rispetto alla armonia ed al respiro che offre lo spazio del pianerottolo del piano rialzato con ringhiere in ferro battuto; pianerottolo che già di per sé non appare particolarmente ampio e che pertanto verrebbe ulteriormente gravato da una porta che ne riduce la profondità. Del resto, non a caso originariamente detto piano rialzato è stato realizzato (e mantenuto per decenni) con una sola apertura. Quindi, il Tribunale ha ritenuto una profonda forzatura l'incastro di una seconda porta tra le scale e l'angolo del muro, ciò comportando tra l'altro lo spostamento dell'interruttore ed un irregolare posizionamento del plafone sovrastante, che risulterebbe fuori asse rispetto alla porta. La stessa colorazione della parte inferiore del muro, sebbene non presenti decorazione alcuna, rappresenterebbe un elemento fortemente caratterizzante dell'edificio, proprio per la sua continuità geometrica lungo l'intero perimetro dei pianerottoli e delle scale, unitamente alla ringhiera in ferro battuto. Continuità interrotta dalle aperture già esistenti che, in quanto limitate e ordinatamente posizionate, sono in perfetto equilibrio con la descritta armonia della colorazione continuativa del muro, che, per contro, verrebbe forzatamente alterata dalla apertura di una porta ultronea. Una apertura siffatta invero trasforma completamente la fisionomia dell'originario pianerottolo, sia di per sé considerato sia in relazione ai piani superiori. Secondo il Giudice, il decoro architettonico dell'edificio merita dunque di essere tutelato, in quanto la trasformazione del muro comune “ rompe […] l'armonia e la continuità delle linee e delle forme geometriche dell'edificio ” (in tal senso, cfr. sentenza del 11 maggio 2012, già menzionata). Edificio che risale ai primi anni del ‘900, i cui interni sono tipici degli edifici di quel tempo, il cui possesso (materiale ed estetico) merita di essere tutelato a fronte della contraria volontà condominiale ad una sua trasformazione. Sebbene il resistente sostenga di aver agito convinto di esercitare un proprio diritto contro la volontà del Condominio, la sede possessoria non è quella in cui il Tribunale deve valutare la sussistenza del diritto in capo al singolo condomino ad effettuare opere di definitiva trasformazione di una parte comune. Pertanto, il Giudice ha sottolineato come non fosse quella la sede per valutare se il resistente avesse o meno il diritto all'apertura della seconda porta a seguito della originaria autorizzazione dell'amministratore, essendo, invece, sufficiente accertare, ai fini della tutela possessoria, che l'opera del resistente arreca una profonda molestia nel possesso del muro comune . Né varrebbe sostenere che sino ad oggi alcuna opera è stata ancora eseguita. La tutela possessoria è ammissibile non solo dal momento in cui si siano già verificati lo spoglio o la molestia, bensì anche laddove comportamenti univoci conducono a ritenere che quello spoglio e quella molestia comprometteranno il possesso. In tal senso si è espressa la Suprema Corte, affermando che “ Perché sussista turbativa del possesso non è necessario che siano state poste in essere alterazioni fisiche attuali della situazione di fatto tutelabile, ma è sufficiente che l'altrui comportamento denunziato dal ricorrente, risulti idoneo a porre in pericolo o in dubbio il libero esercizio del possesso, di guisa che l'azione di manutenzione devesi considerare utilmente esperita anche in via preventiva ogniqualvolta sussista una minaccia di compromissione della preesistente situazione di fatto in ragione di un comportamento nel quale siano ravvisabili i presupposti logico e materiale di un possibile successivo ulteriore comportamento direttamente lesivo del possesso ” [2] In conclusione, quindi, secondo il Tribunale, sussistono i presupposti per l'accoglimento della domanda ex art. 1170 c.c. e, per l'effetto, per ordinare al resistente a sue cure e spese, l'immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale, provvedendo alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. [1] Cass., 22 giugno 1995, n. 7069 ; Cass. 10 luglio 1985 n. 4109 . [2] Cass. sentenza n. 14868/2000
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