Diritto civile


Autore: a cura di Paolo Nasini 5 settembre 2025
Tribunale Milano, sez. IV, 02 giugno 2025 IL CASO E LA DECISIONE La controversia in esame è intercorsa tra un Condominio sito in un immobile residenziale risalente ai primi anni del Novecento e il proprietario di un appartamento ubicato al piano rialzato della scala A dello stabile. Nei primi giorni di gennaio 2025, l'impresa incaricata dal suddetto proprietario ha esposto un cartello recante l'avviso dell' inizio di lavori edilizi consistenti nella creazione di una nuova apertura in una muratura condominiale portante, allo scopo di realizzare un secondo ingresso all'unità abitativa di proprietà del resistente. Da quanto risulterebbe dalla documentazione tecnica depositata, la muratura oggetto dell'intervento sarebbe spessa circa mezzo metro e costituirebbe un elemento portante del fabbricato. A seguito dell'annuncio dei lavori, l'amministratore del Condominio ha convocato un'assemblea per il 28 gennaio 2025, durante la quale, con ampia maggioranza, sono state adottate tre delibere : una prima concernente l'integrazione del regolamento condominiale, introducendo l'obbligo di autorizzazione assembleare per qualsiasi apertura o modifica dei varchi su muri condominiali; una seconda, di diniego espresso alla realizzazione del varco previsto dal predetto proprietario; una terza, di mandato all'amministratore per attivarsi al fine di impedire l'esecuzione dell'intervento. Nonostante l'avvenuta adozione di tali delibere, il 12 marzo 2025 l'architetto incaricato dal proprietario ha comunicato all'amministratore l’imminente inizio dei lavori di apertura. Il proprietario, peraltro, ha giustificato la propria iniziativa sostenendo di aver ricevuto, per il tramite dei precedenti proprietari, un'autorizzazione rilasciata dall'amministratore condominiale nel 2024 per una simile apertura. Tuttavia, ad avviso del Condominio tale autorizzazione sarebbe inconferente, in quanto: non riferita al proprietario e relativa ad un progetto differente quanto a collocazione del varco; non considerante i precedenti interventi di consolidamento strutturale dell'edificio; e, in ogni caso, revocata prima dell'inizio di qualsiasi attività. Il Condominio, dunque, opponendosi alla suddetta aperura, ha agito in giudizio evidenziando che la muratura in oggetto rientra tra le parti comuni ex art. 1117 c.c. e che l'intervento progettato non potrebbe essere ricondotto all'uso individuale consentito dall' art. 1102 c.c. , configurando piuttosto un'innovazione ai sensi dell' art. 1120 c.c. , che necessiterebbe della previa approvazione dell'assemblea condominiale, secondo i quorum previsti dall' art. 1136 c.c. Ha inoltre invocato il regolamento condominiale, il quale vieterebbe modifiche delle strutture portanti senza l'autorizzazione preventiva dell'amministratore e comunque senza approvazione assembleare. Il regolamento, inoltre, vieterebbe modifiche che compromettano la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell'edificio, elementi che secondo il Condominio sarebbero tutti coinvolti nell'intervento contestato. Sul piano tecnico, il Condominio ha dedotto problematiche inerenti alla sicurezza e alla conformità edilizia. In particolare, l'apertura prevista si troverebbe in prossimità della rampa delle scale, a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dal regolamento edilizio del Comune di Milano (art. 89), oltre che a ridosso di impianti condominiali (gas e corrente elettrica). Sarebbe altresì contestata la legittimità dell'intervento in riferimento alle norme antisismiche (D.G.R. 4317/2021), ritenendo non rispettati i criteri di distanza dagli angoli murari e dalla cerchiatura. In aggiunta, si deduce che la nuova porta, per posizione, dimensioni e proporzioni rispetto alle altre aperture esistenti, altererebbe il decoro architettonico dello stabile, violando l' art. 1120, comma 4, c.c. , oltre a determinare un'illegittima appropriazione di porzione del bene comune (la muratura stessa), in contrasto con l' art. 1102 c.c. Con riferimento alla tutela possessoria , il Condominio ha ravvisato nella condotta del resistente gli estremi della turbativa ( ex art. 1170 c.c. ), già attuale, stante l'esecuzione di fori prodromici all'apertura e l'avvenuto annuncio dei lavori, e potenzialmente suscettibile di aggravarsi in caso di prosecuzione delle opere; ha fatto altresì riferimento alla possibilità che possa configurarsi uno spoglio ( art. 1168 c.c. ), qualora venga effettivamente creato il varco. In subordine, il Condominio ha agito ex art. 700 c.p.c. , il fumus boni iuris essendo dimostrato dai fatti sopra esposti ed il periculum in mora sussistendo a fronte dei danni irreparabili alla stabilità dell'edificio e alla sicurezza degli abitanti. Il proprietario si è difeso contestando in fatto e diritto il ricorso avversario: in particolare, ha dedotto di aver acquistato in data 5 settembre 2024 un appartamento sito nel suddetto stabile da soggetti che, già nel febbraio precedente, avevano richiesto all'amministratore l'autorizzazione all'apertura di una seconda porta sul pianerottolo condominiale, al fine di rendere frazionabile l'immobile in due unità distinte. Tale autorizzazione, secondo quanto documentato in atti, sarebbe stata rilasciata in data 28 febbraio 2024, previo esame favorevole dei progettisti e del tecnico strutturista incaricato. Secondo il resistente, detta autorizzazione, benché rilasciata ai danti causa, sarebbe tuttora efficace e idonea a legittimare la medesima opera anche a beneficio dell'attuale proprietario. Inoltre, la fattibilità tecnica dell'intervento sarebbe stata ulteriormente confermata in più occasioni da parte del medesimo tecnico incaricato dal resistente, in risposta alle obiezioni sollevate in sede assembleare e dal tecnico di parte condominiale. Il resistente richiama l' art. 1102 c.c. , ritenendo che l'apertura della porta configurerebbe un uso più intenso del bene comune pienamente consentito al singolo condomino, in quanto: - non sarebbe pregiudicata la stabilità del fabbricato, come attestato da plurime perizie; - non risulterebbe violato il decoro architettonico, trattandosi di intervento interno al pianerottolo e dunque privo di impatto visivo rilevante; - non sarebbe alterata la destinazione della cosa comune, né risulterebbe lesa la possibilità di pari uso da parte degli altri condomini; - l'intervento risulterebbe conforme al regolamento condominiale vigente, che all'art. 2 del capitolo 2 prevede quale unica autorizzazione necessaria quella dell'amministratore, autorizzazione che si assumerebbe tuttora valida e non efficacemente revocata. Conseguentemente, a dire del resistente, la delibera assembleare del 28 gennaio 2025, con la quale è stata introdotta una limitazione al diritto di modificare i varchi nel muro comune, non risulterebbe valida in quanto adottata a maggioranza e non all'unanimità, come invece richiesto per le modifiche a regolamenti contrattuali. In ogni caso, il resistente ha contestato la validità del diniego espresso dall'assemblea, per carenza di motivazione concreta e definitiva, evidenziando che tale diniego sarebbe fondato su rilievi meramente dubitativi. Né l'intervento violerebbe il Regolamento Edilizio del Comune di Milano, tanto più che risulterebbe già consentito mediante regolare presentazione di SCIA, cui non sarebbero seguite osservazioni da parte dell'Amministrazione comunale. Infine, in relazione alla doglianza secondo cui l'apertura della porta determinerebbe un’illegittima appropriazione di porzione del muro comune, il resistente assume che tale uso esclusivo sarebbe legittimo ai sensi dell' art. 1102 c.c. , non pregiudicando gli altri condomini. All’esito del giudizio il Giudice, in accoglimento del ricorso, ha ordinato al proprietario resistente l' immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale , provvedendo - a sue cure e spese - alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. LA SOLUZIONE IN DIRITTO Il Tribunale, anzitutto, ha accertato che il Condominio possiede il muro portante che affaccia sul pianerottolo del piano rialzato; detto muro ha la funzione di sostenere l'edificio ed altresì di circoscrivere la geometria tipica degli edifici dei primi anni del ‘900. Il possesso del muro è esercitato non tanto mediante il suo materiale utilizzo, bensì per mezzo della sua pluridecennale funzione di sostegno del Condominio, caratterizzando oltretutto l'armonia dei suoi spazi comuni interni. Il Giudice, quindi, ha affermato che il Condominio gode di quel muro quotidianamente - appunto - possedendolo: in particolare, ha sottolineato che la sezione quarta civile del Tribunale avesse già in precedenza evidenziato, con sentenza del 21 maggio 2015, che “ la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato il principio per cui il decoro architettonico di un edificio costituisce una caratteristica essenziale dello stabile e quindi un elemento incidente, oltre che sul valore economico del bene, anche sul modo di godimento da parte del suo possessore, con la conseguenza che la modificazione dell'assetto estetico, comportando un'interferenza nel godimento del bene, può integrare un'indebita turbativa suscettibile di tutela possessori ” [1] . Tanto è vero che, nella motivazione della sentenza in esame, si legge che già “ All'esito della fase sommaria del procedimento il giudice designato pronunciava l'ordinanza del 6 marzo 2012, successivamente confermata con provvedimento collegiale del 16 maggio 2012 dal Tribunale adito con reclamo ai sensi dell' art. 669 terdecies c.p.c. , con cui ordinava al convenuto il ripristino dello stato dei luoghi mediante demolizione del manufatto "ritenuta prospettabile, nel caso in esame, unicamente la molestia possessoria consistente nel turbamento del pacifico godimento dell'edificio condominiale attuato attraverso la realizzazione, ormai completa, di un intervento di recupero del sottotetto chiaramente incidente sul decoro architettonico ed estetico dell'edificio, tutelabile, ai sensi dell' art. 1170 c.c. ”. In conseguenza di quanto precede, quindi, il Tribunale ha sottolineato che occorreva esaminare l'eventuale molestia del muro comune sotto il profilo del decoro architettonico dello spazio circostante. Nello specifico, secondo il Giudice, dal piano rialzato è ben visibile anche il piano superiore, circostanza che già consente di rilevare una totale disarmonia tra i piani, posto che al primo piano non vi è un'altra apertura in corrispondenza di quella che il proprietario vorrebbe realizzare. Quindi, il Tribunale ha ricordato che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 851 del 2007 , ha affermato che: “ In tema di condominio negli edifici, per "decoro architettonico" deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità; pertanto, nessuna influenza, ai fini della tutela prevista dall' art.1120 cod. civ. , può essere attribuita al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell'edificio, ovvero alla presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate ”. Una ulteriore disarmonia geometrica emergerebbe altresì allo stesso piano rialzato, in cui non esiste un'altra apertura simmetrica sulla sinistra. A tal proposito, si ricorda che la simmetria è una declinazione del decorso architettonico come chiarito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 14607/2012 : “ In tema di condominio, è illegittimo l'uso particolare o più intenso del bene comune, ai sensi dell' art. 1102 cod. civ. , ove si arrechi pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio condominiale. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittima la realizzazione di alcuni fori di porta o di finestra posti sulle facciate dell'edificio, i quali avevano alterato la simmetria dei fori preesistenti, producendo un risultato esteticamente sgradevole) ”. Inoltre, il Tribunale ha accertato che la nuova apertura verrebbe disposta in uno spazio ridotto, soffocato tra la scala e l'angolo del muro in cui sono financo posizionate delle tubature condominiali: pertanto, un'opera siffatta produce un effetto geometricamente sgradevole rispetto alla armonia ed al respiro che offre lo spazio del pianerottolo del piano rialzato con ringhiere in ferro battuto; pianerottolo che già di per sé non appare particolarmente ampio e che pertanto verrebbe ulteriormente gravato da una porta che ne riduce la profondità. Del resto, non a caso originariamente detto piano rialzato è stato realizzato (e mantenuto per decenni) con una sola apertura. Quindi, il Tribunale ha ritenuto una profonda forzatura l'incastro di una seconda porta tra le scale e l'angolo del muro, ciò comportando tra l'altro lo spostamento dell'interruttore ed un irregolare posizionamento del plafone sovrastante, che risulterebbe fuori asse rispetto alla porta. La stessa colorazione della parte inferiore del muro, sebbene non presenti decorazione alcuna, rappresenterebbe un elemento fortemente caratterizzante dell'edificio, proprio per la sua continuità geometrica lungo l'intero perimetro dei pianerottoli e delle scale, unitamente alla ringhiera in ferro battuto. Continuità interrotta dalle aperture già esistenti che, in quanto limitate e ordinatamente posizionate, sono in perfetto equilibrio con la descritta armonia della colorazione continuativa del muro, che, per contro, verrebbe forzatamente alterata dalla apertura di una porta ultronea. Una apertura siffatta invero trasforma completamente la fisionomia dell'originario pianerottolo, sia di per sé considerato sia in relazione ai piani superiori. Secondo il Giudice, il decoro architettonico dell'edificio merita dunque di essere tutelato, in quanto la trasformazione del muro comune “ rompe […] l'armonia e la continuità delle linee e delle forme geometriche dell'edificio ” (in tal senso, cfr. sentenza del 11 maggio 2012, già menzionata). Edificio che risale ai primi anni del ‘900, i cui interni sono tipici degli edifici di quel tempo, il cui possesso (materiale ed estetico) merita di essere tutelato a fronte della contraria volontà condominiale ad una sua trasformazione. Sebbene il resistente sostenga di aver agito convinto di esercitare un proprio diritto contro la volontà del Condominio, la sede possessoria non è quella in cui il Tribunale deve valutare la sussistenza del diritto in capo al singolo condomino ad effettuare opere di definitiva trasformazione di una parte comune. Pertanto, il Giudice ha sottolineato come non fosse quella la sede per valutare se il resistente avesse o meno il diritto all'apertura della seconda porta a seguito della originaria autorizzazione dell'amministratore, essendo, invece, sufficiente accertare, ai fini della tutela possessoria, che l'opera del resistente arreca una profonda molestia nel possesso del muro comune . Né varrebbe sostenere che sino ad oggi alcuna opera è stata ancora eseguita. La tutela possessoria è ammissibile non solo dal momento in cui si siano già verificati lo spoglio o la molestia, bensì anche laddove comportamenti univoci conducono a ritenere che quello spoglio e quella molestia comprometteranno il possesso. In tal senso si è espressa la Suprema Corte, affermando che “ Perché sussista turbativa del possesso non è necessario che siano state poste in essere alterazioni fisiche attuali della situazione di fatto tutelabile, ma è sufficiente che l'altrui comportamento denunziato dal ricorrente, risulti idoneo a porre in pericolo o in dubbio il libero esercizio del possesso, di guisa che l'azione di manutenzione devesi considerare utilmente esperita anche in via preventiva ogniqualvolta sussista una minaccia di compromissione della preesistente situazione di fatto in ragione di un comportamento nel quale siano ravvisabili i presupposti logico e materiale di un possibile successivo ulteriore comportamento direttamente lesivo del possesso ” [2] In conclusione, quindi, secondo il Tribunale, sussistono i presupposti per l'accoglimento della domanda ex art. 1170 c.c. e, per l'effetto, per ordinare al resistente a sue cure e spese, l'immediata cessazione di ogni turbativa e molestia all'esercizio del possesso del muro condominiale, provvedendo alla rimozione di ogni parte di cantiere eventualmente allestito, nelle more del giudizio, nelle parti comuni del Condominio ricorrente. [1] Cass., 22 giugno 1995, n. 7069 ; Cass. 10 luglio 1985 n. 4109 . [2] Cass. sentenza n. 14868/2000
Autore: a cura di Paolo Nasini 30 luglio 2025
Tribunale Benevento, sez. I, 22 maggio 2025, n. 1090, Pres. M.I. Romano, est. A. De Luca IL CASO E LA DECISIONE P.S. si è unita civilmente (ai sensi della l. n. 76 del 2016 ), con P.A., convivendo altresì con R.C., figlia di quest’ultima madre, avuta nell’ambito di un precedente legame affettivo con il deceduto R.A.. P.S., quindi, ha proposto domanda di adozione di maggiorenne , in favore di R.C., asserendo il forte legame affettivo con quest'ultima. Nel corso del giudizio sono state sentite R.C. e la madre naturale P.A.: la prima ha espresso la volontà di essere adottata da P.S.; la seconda ha manifestato il proprio consenso all'adozione. Il PM ha espresso parere favorevole. Il Tribunale di Benevento, all’esito del giudizio, ha disposto l’adozione di R.C., da parte di P.S. precisando che l'adottata posponesse il cognome dell'adottante al proprio, venendosi per l'effetto a chiamare R.P.C.. Sotto il profilo giuridico, occorre premettere che Il legislatore, con la richiamata l. n. 76 del 2016 ha disciplinato le c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso, introducendo una specifica ipotesi di “formazione sociale”, in conformità ai precetti programmatici di cui agli artt. 2 e 3 Cost. . Secondo il Tribunale, quindi, anche a livello normativo la relazione di coppia omosessuale rientra nella nozione di “vita privata”, nonché di “vita familiare”. D’altronde, il legislatore non disciplina l’adozione del figlio del partner dello stesso sesso (cd. stepchild adoption ), neppure nel caso in cui l'adottando sia maggiorenne, atteso che la l. n. 76 del 2016 non menziona l’ art. 291 c.c. tra le norme applicabili alle unioni civili. Secondo il Tribunale, però, ciò non esclude che tale lacuna possa essere colmata in via interpretativa per garantire il diritto dei figli alla certezza e stabilità del rapporto con coloro che effettivamente esercitano il ruolo genitoriale. L'adozione di maggiorenni, infatti, ha la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva e identitaria, nonché di una storia personale tra adottante e adottando, diventando così uno strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili. Quindi, il Giudice di prime cure asserisce che non vi sarebbe ragione per escludere tale forma di adozione anche alle unioni civili, in mancanza di espressa preclusione normativa in tal senso: perciò, se tale possibilità è ammessa dalla giurisprudenza più recente nell'ipotesi, diversa e più complessa per la minore età dell'adottando, dell'adozione del minore “in casi particolari”, non vi sarebbe ragione per non ammettere la stepchild adoption nel caso di adozione di maggiorenne, essendo la finalità perseguita sempre quella di consentire la formazione di famiglie tra soggetti legati di fatto da saldi vincoli personali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in tema di stepchild adoption del minore muove dall'affermazione che “il desiderio di avere figli, "naturali" o adottati, rientra nell'ambito del diritto alla vita familiare, nel vivere liberamente la propria condizione di coppia riconosciuto come diritto fondamentale, anzi, ne è una delle espressioni più rappresentative. Pertanto, una volta valutato in concreto il superiore interesse del minore ad essere adottato e l'adeguatezza dell'adottante a prendersene cura, un'interpretazione dell' art. 44 l. n. 184/1983 che escludesse l'adozione per le coppie omosessuali, solo in ragione dell'orientamento sessuale, sarebbe un'interpretazione non conforme al dettato costituzionale, in quanto lesiva del diritto di uguaglianza” [1] . Ed ancora, l'orientamento sessuale e il rapporto di coniugio degli adottanti non rappresentano limiti elevati al rango di principi di ordine pubblico internazionale. Nella genitorialità sociale, dice la corte, «l'imitatio naturae manca ab origine ed è ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell'istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale più adeguato alla sua crescita» [2] . Secondo tale orientamento giurisprudenziale, la mancata previsione legislativa dell'accesso all'adozione coparentale non deve essere letta come un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all'orientamento consolidato in giurisprudenza anche prima dell'entrata in vigore della legge sulle unioni civili a favore di tale adozione. Infatti, con l'entrata in vigore della legge sulle unioni civili “resta fermo” (ex art. 1, comma 20, l. n. 76 del 2016) quanto previsto non solo dalla legge, ma dal c.d. diritto vivente, ossia dall'interpretazione che della disciplina sulle adozioni è stata fornita dalla giurisprudenza, “ che, nel pieno rispetto del diritto del minore, inserito in una famiglia same sex, ha dato tutela ad una bigenitorialità, ancorché realizzata tramite l'adozione in casi particolari, attributiva di uno status filiationis ” [3] . Nel solco di tale orientamento, il Tribunale di Milano, in tema di trascrizione in Italia dell'atto di nascita formato all'estero relativo a bambino con genitori dello stesso sesso, ha ribadito che la scelta del legislatore italiano nell'ambito della l. n. 76 del 2016 di non prevedere la c.d. stepchild adoption non può indurre a ritenere contraria all'ordine pubblico tale tipologia genitoriale, dal momento che non solo all'estero la stessa è pacificamente prevista e tutelata, ma anche in Italia la genitorialità same sex ha ormai trovato riconoscimento sulla base nell'interesse del minore, “ a conferma dell'assenza di superiori, contrari e ineludibili principi di rango primario alla genitorialità da parte di coppie dello stesso sesso; non esistendo del resto dati scientifici che attestino la rilevanza dell'orientamento sessuale dei genitori sul benessere dei figli ” [4] . In definitiva, secondo il Tribunale di Benevento, va data prevalenza e tutela all'interesse al riconoscimento del rapporto genitoriale di fatto instauratosi con l'altra figura genitoriale sociale anche se dello stesso sesso, ciò in assenza di ostacoli di natura normativa o di altra natura in tal senso. In materia è recentissimo l'arresto del Tribunale Minorenni Trento del 11 giugno 2024 che, nel condividere l'elaborazione giurisprudenziale sopra ricordata, ha ribadito che la nuova normativa ha eletto le coppie formate da persone dello stesso sesso, ove sussistenti vincoli affettivi, al rango di “famiglia” (è inequivoco il riferimento, nella normativa, alla “vita familiare”, a tacer d'altro), così offrendo all'adozione in casi particolari un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato. La legge di nuovo conio ha evidenziato, con l'articolo 1, co. 20, che: “ al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso ”, mentre l'ultimo periodo del medesimo comma prevede che “ resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti ”. Tal ultima locuzione è stata interpretata come clausola di salvaguardia espressiva , nel momento in cui “consente”, della volontà di dare continuità all'interpretazione giurisprudenziale così come sviluppatasi nel tempo, di modo che pare evidente che dalla legge 76/2016 non emerge affatto una volontà del Legislatore di delimitare più rigidamente i confini interpretativi dell'adozione in casi particolari ma, semmai, emerge la volontà contraria. In definitiva, ove l'adozione risponda all'interesse dell'adottando e vi sia il consenso di tutti i soggetti interessati “ non si comprende come possano essere posti ostacoli alla richiesta di adozione se non per il prevalere di pregiudizi legati ad una concezione dei vincoli familiari non più rispondente alla ricchezza e complessità delle relazioni umane nell'epoca attuale. Del resto, proprio la interpretazione evolutiva della Corte EDU della nozione di vita familiare di cui all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, è giunta ad affermare che nell'ambito della vita familiare deve annoverarsi il rapporto fra persone dello stesso sesso, rapporto che non può quindi essere escluso dal diritto di famiglia con la conseguenza che non già le aspirazioni o i desideri degli adulti debbano avere necessariamente pari riconoscimento da parte dell'ordinamento, bensì i diritti dei bambini ” [5] . Sotto altro e concorrente profilo, secondo il Tribunale di Benevento, la differenza di età di circa 16 anni tra la ricorrente e l'adottanda non sarebbe di ostacolo all'accoglimento della domanda. Infatti, si afferma in giurisprudenza che l’art. 291 c.c., nel richiedere la differenza di diciotto anni tra adottante e adottando, introduca una ingiusta limitazione e compressione dell'istituto dell'adozione di maggiorenne nell'accezione e configurazione sociologica assunta negli ultimi decenni, ciò in contrasto con le previsioni di cui all’ art. 30 Cost. , e all' art. 8 CEDU . In tal senso, “ in tema di adozione del maggiorenne, il giudice nell'applicare la regola che impone il divario minimo di età di 18 anni tra l'adottante e l'adottato, deve procedere ad una interpretazione dell'art. 291 c.c. compatibile con l’art. 30 Cost., secondo la lettura data dalla Corte Costituzionale e in relazione all'art. 8 CEDU, che consenta, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, una ragionevole riduzione di tale divario minimo al fine di tutelare situazioni familiari consolidatesi da tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris ” [6] . Ed ancora, “ in tema di adozione del maggiorenne, non appare ostativa una differenza di età fra l'adottante e l'adottando pari a 14 anni e sei mesi in luogo dei 18 anni previsti dalla legge a fronte di una convivenza quasi decennale fra i soggetti interessati. Tale convivenza, nel caso di specie, depone inequivocabilmente nel senso della ragionevole riduzione del divario minimo, al fine di tutelare la situazione familiare consolidatasi da tempo e fondata sulla comprovata affectio familiaris. L'ammissibilità dell'adozione, dunque, pur in difetto della differenza di età fissata dall'’art. 291 c.c., risulta possibile dall'interpretazione costituzionalmente orientata, in conformità all'art. 30 cost. e all'art. 8 Cedu, secondo quanto ormai chiarito dalla giurisprudenza di legittimità ” [7] . Il Tribunale di Benevento, quindi, applicando tali principi al caso in esame, ha ritenuto che, seppur l'adottante presenta una differenza di età con l'adottanda di sedici anni, quest'ultima ha attualmente quarant'anni e vive con l'adottante e la madre naturale (unite civilmente) dall'età di tredici anni, costituendo a tutti gli effetti un nucleo familiare consolidato e compatto da quasi trent'anni. Ciò che viene in rilievo è la richiesta di concretizzare la lunga convivenza “di fatto” tra l'adottante e l'adottanda, attraverso un riconoscimento formale che sancisca la consolidata comunione di affetti e di vita vissuta. La sussistenza di un effettivo rapporto genitoriale instauratosi fra il genitore sociale e la figlia della propria partner è emersa anche in sede di audizione personale delle parti coinvolte in detta vicenda. Il Giudice ha valorizzato il fatto che all’udienza del 9 luglio 2024 R.C. ha dichiarato di voler “essere adottata da P.S.”, in quanto è stata il suo “punto di riferimento”, avendola cresciuta dall'età di 5 anni e convivendo con lei dall'età di 13 anni. Dichiarazioni che hanno trovato conferma, oltre che dalla stessa P.S., anche dalla madre naturale dell'adottanda che, nel non opporsi a tale volontà, ha ribadito l'intensità del loro legame affettivo. Pertanto, su tali considerazioni, secondo il Tribunale, impedire questo tipo di adozione “ritenendo insuperabile la differenza minima di età di ben diciotto anni ”, costituirebbe espressione di un'interpretazione puramente letterale della norma che non tiene conto, a parere del collegio, di argomentazioni di carattere sistematico ed evolutivo. La riduzione di tale divario di età appare ragionevole alla luce delle circostanze del caso concreto, essendo volta a tutelare la situazione familiare consolidatasi nel tempo e fondata su una comprovata affectio familiaris . [1] Tribunale Minorenni Roma, 23 dicembre 2015. [2] Cass. Civ., Sez. Un., n. 9006 del 2021. [3] Tribunale Minorenni Bologna, 6 luglio 2017. [4] Tribunale Milano, sez. VIII, sent. 15 novembre 2018. [5] Tribunale Minorenni Trento, 11 giugno 2024. [6] Cass. Civ., sez. I, n. 7667 del 2020. [7] Tribunale Viterbo, 25 novembre 2022.
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