Diritto civile

Diritto civile


Autore: dalla Redazione 28 apr, 2024
Tribunale di Torre Annunziata, sez. Lavoro, sentenza n. 811 del 30 maggio 2023 IL CASO E LA SOLUZIONE Una ex dipendente comunale ha chiesto al suo datore di lavoro il risarcimento del danno (biologico e professionale) che le sarebbe derivato dalle condotte vessatorie e persecutorie tenute nei suoi confronti nell'arco di un periodo di tempo pluriennale. Tali condotte avrebbero dovuto qualificarsi, nell'impostazione della ricorrente, come integranti fattispecie di mobbing o comunque di straining sul posto di lavoro, con esito finale di dimissioni "coartate", condotte così identificate in concreto: - azioni intimidatorie; - apposizione di condizioni restrittive a legittime richieste lavorative; - privazione della libertà di espressione; - atteggiamento ostruzionistico nell'evadere normali richieste lavorative; - violazione del diritto alla disconnessione . Con particolare riferimento a quest'ultimo aspetto, la ex dipendente ha evidenziato di essere stata contattata dagli organi di vertice dell'amministrazione locale durante giorni in cui era in malattia e sollecitata negli stessi giorni ad inviare una relazione sull'attività svolta. Il Tribunale adito ha peraltro respinto la richiesta di risarcimento del danno, non ritenendo raggiunta la prova né del mobbing né dello straining , e specificando, in particolare, che per configurare tali fattispecie non basta che gli effetti potenzialmente dannosi dell'azione intenzionalmente orientata a danno del lavoratore cadano nel raggio di cognizione di chi agisce, ma occorre che gli effetti suddetti costituiscano l' elemento polarizzante della volontà dell'agente, nel senso che il procurare un danno al lavoratore sia l'unica ragione della condotta. Tuttavia, nel casi esaminato dal Tribunale di primo grado, il ricorrente non avrebbe provato tale esclusivo intento, ma si sarebbe limitato a postulare un'asserita inesistenza di ragioni giustificative alle misure organizzative adottate dall'amministrazione comunale. D'altra parte, l'illiceità, l'illegittimità o anche solo l'inopportunità di un atto o fatto imputabile al datore di lavoro non può costituire di per sé solo quella pluralità di indizi gravi precisi e concordanti da cui desumere l'esistenza del dolo specifico , in assenza di elementi ulteriori di prova su tale dolo, elementi atti in particolare a indicare un progetto persecutorio coinvolgente diversi soggetti all'interno dell'amministrazione. Sotto altro profilo, i certificati medici attestanti una sintomatologia del tipo "stress lavoro correlato" non hanno sopperito, nel caso di specie, alla insufficienza della prova del comportamento scientemente vessatorio e stressogeno . DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE E DANNO DA STRESS LAVORATIVO Nella pronuncia del Giudice del lavoro di Torre Annunziata si intrecciano tematiche molto rilevanti e particolarmente attuali, specie se considerate in relazione alla ormai diffusa pratica, anche nelle pubbliche amministrazioni, dello smart working . Punto di partenza della vicenda giuridica sono alcuni principi definitori di istituti tipicamente "lavoristici" e l'individuazione della loro connessione con la più generale tematica del risarcimento del danno, specie alla luce della norma cardine in materia, prescrivente l'obbligo per il datore di lavoro di " adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro " ( art. 2087 c.c.. ). Sovviene innanzitutto la definizione di mobbing , fattispecie a condotta libera e connotata soltanto in riferimento ai suoi effetti, che devono consistere in una coartazione, diretta o indiretta, della libertà psichica del lavoratore, così da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione. Devono sussistere, ai fini di configurabilità di tale fattispecie, un elemento oggettivo e uno soggettivo, il primo riferibile alla reiterazione delle condotte prevaricatrici (con una durata di almeno sei mesi ed episodi pressoché quotidiani, secondo le indicazioni della più autorevole letteratura esistente in materia), il secondo, intrinsecamente connesso alla finalità persecutoria di vari atti o comportamenti, che, se analizzati isolatamente, possono apparire anche neutri (nel caso ad esempio di semplici atti di amministrazione del rapporto di lavoro) o addirittura rappresentativi dell'esercizio di diritti o potestà. Tanto premesso, la variante, anch'essa persecutoria, dello straining , si caratterizza più specificamente quale somma di comportamenti stressogeni scientificamente attuati nei confronti di un dipendente. Esulano peraltro da mobbing e straining le situazioni di malessere o di disagio riferibili esclusivamente alla sfera delle condizioni e delle componenti caratteriali del lavoratore, rilevando piuttosto la sensibilità media dell'uomo comune; non qualsiasi screzio, o inurbanità, o scortesia, o persino qualsiasi maleducazione o offesa, vengono dunque attratti nell'ambito delle tutele risarcitorie. La valutazione di illiceità delle situazioni più gravi della patologia dell'organizzazione deve conseguentemente essere compiuta al netto delle ipersensibilità soggettive; non esiste infatti un diritto alla felicità nei rapporti di lavoro, ma soltanto l'obbligo di tenere comportamenti improntati a buona fede, per cui non è lesiva la condotta avvertita come tale dal lavoratore in dipendenza esclusiva della propria fragilità nei rapporti interpersonali. Nelle condotte di tipo persecutorie sul lavoro, specie nella modalità "agile" di esso, ha un rilievo sempre più marcato la tematica della necessaria separazione tra orario di ufficio e cd. tempo libero. Il diritto alla disconnessione , in Italia, è ancora racchiuso in un ibrido normativo, in cui non vi è nemmeno espressa qualificazione dell'istituto quale diritto, posto che si tratta di un interesse collettivo dei lavoratori dipendenti, nel suo significato letterale, che si attua nell'ambito di una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che necessita quale requisito sostanziale della presenza di strumenti tecnologici. Invero, in un mondo del lavoro sempre più digitalizzato e interconnesso, i dispositivi tecnologici aiutano nella comunicazione, nella gestione dei documenti, nel controllo degli stati dei singoli progetti, o anche nella gestione di ferie e permessi, con nuove possibilità di reperibilità costante e connessione "totale" che possono rendere molto difficile la separazione tra lavoro e vita privata. In questo quadro si inserisce dunque il citato diritto alla disconnessione, volto cioè a garantire al lavoratore l'impossibilità pratica si essere "inseguito" dai suoi compiti professionali anche oltre l'orario di lavoro normalmente praticato. Il legislatore italiano ha collegato direttamente tra di loro, nel suo primo arresto normativo in materia, tale nuovo diritto e il lavoro agile ( smart working ), quale nuova modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato. Posto che datore e prestatore di lavoro possono stabilire che la prestazione lavorativa possa essere eseguita, senza precisi vincoli di orario, anche all'esterno dei locali aziendali, il cosiddetto diritto alla disconnessione implica innanzitutto che il lavoratore sia libero di disattivare le strumentazioni tecnologiche e le piattaforme informatiche di lavoro, una volta terminata l'ordinaria prestazione quotidiana. Sotto questo profilo, il comma 1 dell'art.19 della L. n. 81 del 2017 si limita a disporre che l'accordo individuale tra azienda e lavoratore individui i tempi di riposo del lavoratore nonché "l e misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro." D'altra parte, come ha evidenziato sul punto anche il Garante della privacy, il ricorso alle tecnologie non può rappresentare l'occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore, ma deve avvenire nel rispetto delle garanzie dei lavoratori, ovvero entro i limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva., e nel rispetto dei periodi di ferie e di tutti gli altri legittimi casi di assenza. Successivamente alla L. n. 81, in Italia la questione è stata regolamentata in termini generali da alcuni CCNL, sempre con l'obiettivo di ridurre al massimo, se non azzerare, il rischio di un "invasione di campo" (uso della tecnologia senza soluzione di continuità dalla sfera lavorativa alla sfera privata). In altri Paesi, invece - in primis la Francia - il diritto alla disconnessione è stato normato a livello primario. Ma quali conseguenze comporta la violazione del diritto alla disconnessione? Un primo aspetto concerne l'ambito retributivo e il doveroso riconoscimento di una maggiorazione del compenso a chi impiega le proprie energie personali anche al di fuori dell'orario di lavoro, specie se si tratta di semplici mansioni operative. Un secondo aspetto riguarda l'eventuale inserimento della fattispecie in una più ampia condotta vessatoria, con un automatismo - che parrebbe per certi versi inevitabile - del transito ad opera del comportamento "invasivo" della vita privata del lavoratore all'interno di una gestione oggettivamente non equilibrata del rapporto di lavoro, salva poi la valutazione in concreto del Giudice - come accaduto nel caso scrutinato dal Tribunale di Torre Annunziata -, sulla sussistenza di tutti gli altri elementi necessari a integrare la fattispecie di condotte persecutorie o vessatorie sul posto di lavoro. D'altra parte, per garantire l’effettivo diritto alla disconnessione, è necessario in partenza che il lavoratore possa disattivare i propri dispositivi di connessione, quanto meno per evitare la ricezione di comunicazioni aziendali oltre l’orario di lavoro o nei periodi di assenza legittimati. Posto che uno dei principali rischi lavorativi "moderni" da evitare, a tutela dell’integrità psicofisica dello smart worker , è il cosiddetto rischio di tecnostress , ovverosia la sindrome che colpisce l’individuo che deve gestire forme di conoscenze complesse e il flusso informativi offerto dalle nuove tecnologie, può essere proprio la disconnessione "automatica" a costituire una efficace misura preventiva per attuare in pieno tale tutela.
11 feb, 2024
Tribunale ordinario di Milano, I Sez. civile, ordinanza del 30 giugno 2023, nel procedimento cautelare iscritto al n. r.g. 17000/2023 IL CASO E LA SOLUZIONE Il Tribunale di Milano si è dovuto pronunciare sulla richiesta di emissione di un provvedimento di urgenza finalizzato a ordinare al Sindaco del capoluogo lombardo, in qualità di Ufficiale di governo, l'iscrizione nell'anagrafe della popolazione residente di una cittadina straniera. La premessa in fatto era costituita dalla stipulazione tra l'interessata all'iscrizione anagrafica e il suo convivente di fatto italiano di un patto di convivenza con cui era stata fissata la propria dimora comune in un'abitazione sita nel Comune di Milano. La particolarità della fattispecie era che senza l' iscrizione nell'anagrafe - conseguenza automatica della trascrizione del patto di convivenza ai sensi dell' art. 36 della L. n. 76 del 2016 - la cittadina straniera non avrebbe potuto ottenere il titolo di soggiorno desiderato. La Questura, infatti, ritiene il requisito anagrafico presupposto necessario per scrutinare l'istanza "immigratoria" dell'interessato. Il Giudice adito ha risolto il caso facendo i seguenti passaggi logici: - era stata provata in giudizio la stabile relazione tra le parti, ciò che bastava ai fini del ricorso, costituendo la dichiarazione anagrafica consequenziale soltanto uno strumento di verifica di tale requisito e non un elemento costitutivo della circostanza di fatto da provare; - la mancanza in capo alla ricorrente del requisito del possesso di un permesso di soggiorno deve considerarsi ininfluente, ai fini di cui in domanda, perché la circostanza che un membro della coppia sia cittadino italiano determina l'applicazione della legge n. 30/2007 e non del testo unico sull'immigrazione, in conformità al principio di non discriminazione e dell'applicazione della normativa più favorevole ai familiari di cittadini italiani non aventi la medesima cittadinanza; - in attuazione dell'art. 17 della direttiva 2003/86/CE è stato modificato l'art. 5 del d.lgs. n. 286/1998, di modo che, anche a seguito del successivo intervento sul punto della Corte costituzionale, è stata estesa la protezione del diritto alla vita familiare a tutti gli stranieri che possano vantare l'esistenza di un legame familiare, e ciò a prescindere dal fatto che tale legame sia stato costituito nell'ambito del ricongiungimento familiare; - la documentazione ufficiale a cui la L. n. 30 del 2007 subordina i benefici derivanti dell'attestazione di una relazione stabile tra cittadino/ straniero/a e cittadino/a italiano/a può essere di qualunque natura, purché idonea; - l'obiettivo dell' agevolazione dell'ingresso e del soggiorno del partner straniero (in esecuzione di quanto disposto dall’art. 3, par. 2 della dir. 2004/38) non può dirsi raggiunto dalla necessaria disponibilità di un permesso di soggiorno, al cui rilascio osta, peraltro, la mancanza di un'iscrizione anagrafica; - nella interpretazione del disposto dell’art. 3, lett. b) del d.lgs. n. 30/07, di recepimento della direttiva europea n. 2004/38 sul ricongiungimento familiare, si rileva un contrasto che può essere risolto attraverso l’interpretazione conforme del diritto interno al diritto europeo, e che consente pertanto di applicare direttamente le norme della direttiva sulla cui base è possibile riconoscere valenza alla relazione stabile, con effettiva esplicazione del diritto ad ottenere l’iscrizione anagrafica. Il Giudice adito ha pertanto ordinato al Sindaco di Milano, ai sensi dell' art. 700 c.p.c. , e in qualità di Ufficiale di Governo responsabile della tenuta dei registri anagrafici della popolazione residente, di provvedere alla iscrizione della cittadina straniera nell’anagrafe della popolazione residente e al suo inserimento nello stato di famiglia del cittadino italiano, con annotazione del contratto di convivenza tra i due interessati, ai sensi della legge n. 76 del 2016. RAPPORTI TRA PATTO DI CONVIVENZA, ISCRIZIONE ANAGRAFICA E RESPINGIMENTO ALLA FRONTIERA La L. n. 76 del 2016 (che regola in via generale le norme sulle unioni civili ) ha previsto che si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile, e che per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all' articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 , secondo cui il responsabile del registro deve annotarvi l’indicazione di costituzione di nuova famiglia o di nuova convivenza. D’altra parte, i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza ; tale contratto, così come le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico. Se peraltro un cittadino straniero non residente in Italia e non provvisto di permesso di soggiorno stipula tale patto di convivenza con un cittadino italiano, sulla base di un vincolo affettivo stabile, occorre chiedersi quale sia la disciplina applicabile in sede di richiesta di iscrizione anagrafica, e, soprattutto, se sia sufficiente il patto di convivenza quale documentazione "ufficiale" da esibire ai fini dell'iscrizione. Secondo il Comune di Milano, il mancato possesso da parte del cittadino straniero di un titolo che lo legittimi ad una stabile e lecita permanenza sul territorio nazionale costituirebbe un impedimento all’iscrizione anagrafica del nuovo nucleo familiare, e ciò anche se vi sia alla base della richiesta il contratto di cui al comma 50 dell’art. 1 della L. n. 76 del 2016 . Secondo il Ministero dell’Interno, d’altra parte, sarebbe impossibile rilasciare un permesso di soggiorno, qualsiasi ne sia il motivo, senza attestazione dell’iscrizione anagrafica ad un Comune italiano. Il Tribunale ordinario, peraltro, interpreta differentemente il regime normativo afferente alla disciplina de qua , desumendo dal diritto incoercibile, di natura sovranazionale, al rispetto della vita privata e dell'unità familiare, la necessità di un’applicazione orientata della L. n. 30 del 2007, di modo che le formalità di attestazione di una relazione stabile tra cittadino italiano e cittadina straniera possono essere di qualunque natura, purché idonee a rendere verificabile tale relazione. Consegue a tale ragionamento che per ottenere i benefici di cui alla predetta legge (tra cui quello dell’iscrizione anagrafica) non è necessaria la disponibilità di un permesso di soggiorno, ma è bensì sufficiente il citato patto di convivenza. La situazione però si complica se nelle more della decisione del Giudice sulla legittimità del diniego o rifiuto di iscrizione anagrafica si innesta un respingimento alla frontiera del cittadino/a straniera che nel frattempo abbia “sforato” rispetto al termine di permanenza consentito dalle norme sul soggiorno in Italia e nell’Unione Europea ( disciplina Schengen ) a mezzo semplice visto turistico. La situazione specifica è la seguente: cittadino italiano e cittadina straniera sono legati da uno stabile vincolo affettivo, stipulano un patto di convivenza e convivono effettivamente presso la residenza del cittadino italiano, nei periodi in cui la cittadina straniera è nel nostro Paese, sulla base del visto per motivi turistici costituente titolo all'ingresso (durata massima di tre mesi). Tuttavia, se il soggiorno nel territorio italiano supera i 90 giorni su un periodo di 180 giorni (il che vuol dire che non si può rientrare nel nostro Paese se non dopo che siano trascorsi 90 giorni più uno dalla fine del periodo di 90 giorni di precedente permanenza), la polizia di frontiera, constatata all’atto dell’ingresso la situazione di irregolarità, deve adottare un provvedimento di respingimento ai sensi dell’ art. 10, comma 1 del d.lgs. n. 286 del 1998 , secondo cui, tra l’altro, “la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal codice frontiere Schengen di cui al Regolamento (UE) 2016/399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016 (…)”. Quid iuris nel caso in cui ad essere respinto sia il cittadino o la cittadina straniera che hanno un vincolo affettivo stabile con il cittadino o la cittadina italiana, ma senza iscrizione anagrafica? Il potere azionato dall’amministrazione è sicuramente di natura vincolata e non pare ammettere deroghe basate su considerazioni discrezionali legate al contesto familiare "interno" che nel frattempo si è creato, anche se tali considerazioni fossero in tesi legate ad un’interpretazione delle norme che rispetti il diritto alla vita familiare dell’interessato; tuttavia occorre considerare che lo stesso art. 6, al comma 5, del Regolamento UE citato dispone che " i cittadini di paesi terzi che non soddisfano una o più delle condizioni di cui al paragrafo 1 possono essere autorizzati da uno Stato membro ad entrare nel suo territorio per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali ”. Si tratta dunque di capire se il caso del cittadino extracomunitario legato da vincolo affettivo “certificato” da patto di convivenza possa invocare uno di tali motivi per avere una speciale autorizzazione ad entrare nel territorio nazionale anche in deroga ai limiti del visto turistico e se tale valutazione competa alla polizia di frontiera all’atto dell’ingresso o più verosimilmente debba essere preventivamente operata da altri organi del Ministero competente, dietro apposita istanza. D’altra parte, l’impossibilità di rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'interno sembra prevista dall’art. 10 del d.lgs. n. 286 del 1998 soltanto per i respingimenti di cui al comma 2 e non per quelli di cui al comma 1 dello stesso articolo, ovvero solo per quelli causati da circostanze particolari ulteriori rispetto al mero mancato rispetto del tempo massimo di permanenza stabilito dal Regolamento UE, quali l'accertamento immediato di un tentativo di sottrazione ai controlli di frontiera, o la temporanea ammissione nel territorio per necessità di pubblico soccorso. Occorre infine ricordare, a livello sistematico, che, se è vero che il diritto alla vita familiare di cui all’ art. 8 CEDU , nella giurisprudenza della Corte EDU, non implica un obbligo degli Stati di rispettare la scelta operata da una coppia di coniugi circa il luogo in cui stabilire la propria comune residenza e, pertanto non consente di enucleare un diritto al ricongiungimento familiare con il coniuge, è tuttavia altresì vero, anche con riferimento agli altri familiari, che la Corte mira ad accertare se le autorità nazionali, nell’ambito dell’ampio margine di apprezzamento loro riconosciuto, abbiano operato un corretto bilanciamento tra il diritto alla vita familiare dei soggetti coinvolti e l’interesse generale che lo Stato mira a tutelare. Ne consegue, pertanto, che, pur non esistendo, de iure condito , un diritto dello straniero a scegliere dove costituire la propria vita familiare, sussiste un preciso obbligo dello Stato membro di giustificare in modo ragionevole e proporzionato la propria scelta normativa a riguardo.
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