Diritto europeo


Autore: dalla Redazione 5 dicembre 2025
Corte di Giustizia dell'Unione europea (Settima Sezione), sentenza del 16 ottobre 2025 nella causa C-218/24 IL CASO E LA DECISIONE Due donne, madre e figlia, in partenza dall'Argentina e dirette a Barcellona con volo Iberia, imbarcavano il loro animale di compagnia, un cane femmina, in stiva, per via delle sue dimensioni e peso. Tuttavia, al momento dell'imbarco, il cane usciva dal trasportino in cui avrebbe dovuto viaggiare e non veniva recuperato prima della partenza dell'aereo. Conseguentemente, non veniva "recapitato" a destinazione. A fronte dell'accaduto, la proprietaria dell'animale chiedeva il ristoro del danno morale subito , ma la compagnia aerea le opponeva il limite risarcitorio di cui all' art. 22, paragrafo 2, della Convenzione per l'unificazione di alcune regole relative al trasporto aereo internazionale, firmata a Montreal il 28 maggio 1999 . Ne scaturiva un contenzioso presso il Tribunale di commercio di Madrid, in merito al quale il Giudice sollevava dei dubbi sul fatto che la nozione di «bagagli» , ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, ricomprendesse anche gli animali da compagnia che viaggiano con i passeggeri. In particolare, secondo il Tribunale di Madrid, sarebbe stato lecito chiedersi se il limite di risarcimento previsto all’articolo 22, paragrafo 2, di tale convenzione si applichi a detti animali, dal momento che la perdita degli stessi, in quanto esseri senzienti, ai sensi dell’ articolo 13 TFUE , o esseri viventi dotati di sensibilità, conformemente al diritto spagnolo, legati ai loro proprietari da legami affettivi, comporterebbe un danno psicologico non paragonabile, in generale, a quello causato dalla perdita di un semplice insieme di cose corrispondente alla nozione di «bagagli». La convenzione di Montreal, suggeriva il Giudice del rinvio, avrebbe dovuto essere interpretata nel senso di escludere, dalla sua applicazione, l'assimilazione tra bagagli e animali domestici e/o da compagnia. L'impostazione del Tribunale di Madrid viene tuttavia "respinta" dalla Corte di Giustizia, sostanzialmente per due ragioni tra di loro concorrenti. La prima, afferisce alla circostanza secondo cui l’ articolo 1 della Convenzione di Montreal si riferisce distintamente alle persone e ai bagagli, di modo che la nozione di «persone» comprenderebbe soltanto quella dei «passeggeri», e un animale da compagnia non potrebbe essere assimilato a un «passeggero», nonostante il significato comune del termine «bagagli» rinvii a oggetti. Tale interpretazione sarebbe confermata sia dai lavori preparatori che hanno portato all’adozione della Convenzione di Montreal, da cui non risulta che gli Stati contraenti abbiano inteso equiparare un animale da compagnia a un passeggero o assoggettare un tale animale al regime di responsabilità applicabile ai passeggeri, sia dagli obiettivi che hanno condotto all’adozione della suddetta Convenzione di Montreal, ovvero la previsione di un regime di responsabilità oggettiva dei vettori aerei , a cui avrebbe dovuto affiancarsi, al fine di preservare un «giusto equilibrio degli interessi» dei vettori aerei stessi e dei passeggeri, una limitazione di risarcimento applicata «per passeggero» , di modo da consentire da un lato un ristoro agevole e rapido, dall'altro una minore gravosità complessiva dell'onere di riparazione, che, laddove non calcolabile preventivamente, potrebbe arrivare a paralizzare l'attività economica degli operatori coinvolti. In secondo luogo, nel caso esaminato, la proprietaria del cane non aveva effettuato la dichiarazione speciale di interesse alla consegna a destinazione, dietro pagamento di un’eventuale tassa supplementare, e dunque non poteva giovarsi dell'innalzamento dell'ordinario limite di responsabilità del vettore aereo per il danno derivante dalla perdita di bagagli. La Corte di Giustizia dell'Unione europea ha risposto dunque, rispetto alla questione interpretativa sollevata, che l’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, in combinato disposto con l’articolo 22, paragrafo 2, di quest’ultima, deve essere interpretato nel senso che gli animali da compagnia non sono esclusi dalla nozione di «bagagli» ai sensi di tali disposizioni. BENESSERE DEGLI ANIMALI TRASPORTATI, DANNO MORALE E LIMITE RISARCITORIO In forza dell’ articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 2027/97 , la responsabilità di un vettore aereo dell’Unione in relazione ai passeggeri e ai loro bagagli è disciplinata da tutte le pertinenti disposizioni della Convenzione di Montreal . Tuttavia, la nozione di «bagagli» di cui a tale disposizione non è definita né nella Convenzione di Montreal né nel regolamento n. 2027/97, il cui articolo 2, paragrafo 1, lettera d), rinvia a tale convenzione enunciando che tale nozione corrisponde, in mancanza di altra definizione, a qualsiasi bagaglio consegnato o meno, ai sensi dell’ articolo 17, paragrafo 4 , della convenzione stessa. Passaggio importante, sotto un profilo giuridico, è peraltro quello secondo cui la nozione di bagaglio deve ricevere un’ interpretazione uniforme e autonoma per l’Unione e i suoi Stati membri , tenuto conto, in particolare, dell’oggetto della Convenzione di Montreal, che è quello di unificare alcune norme relative al trasporto aereo internazionale. Ciò esclude a priori che si debbano considerare, a tali fini, i diversi significati che possono essere attribuiti alla stesso nozione nel diritto interno degli Stati membri, e non invece le regole di interpretazione del diritto internazionale generale che sono vincolanti per l’Unione Ne consegue che si applicano in questo caso l’ articolo 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 , sul diritto dei trattati, che riflette il diritto internazionale consuetudinario e le cui disposizioni fanno parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione, che precisa che un trattato deve essere interpretato in buona fede, secondo il senso comune da attribuire ai suoi termini nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo, e l'art. 32 dello stesso testo, che prevede che si possa ricorrere a mezzi complementari d’interpretazione, in particolare ai lavori preparatori del trattato in questione e alle circostanze in cui esso è stato concluso. Utilizzando tali coordinate ermeneutiche, la Corte di Giustizia, nel cercare il contesto in cui è menzionato il termine «bagagli» di cui all’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, si sofferma in particolare sull’ articolo 1 di tale convenzione, che determina l’ambito di applicazione della medesima, evidenziando che tale disposizione elenca, in modo tassativo, tre categorie di trasporto internazionale effettuato a titolo oneroso mediante aeromobile, vale a dire il trasporto internazionale di persone, di bagagli e di merci . Il riferimento distinto alle persone e ai bagagli, contenuto in tale disposizione, esclude, secondo il Giudice adito, che un animale da compagnia possa essere assimilato a un «passeggero». Sul piano interpretativo, dunque, il passaggio operato dalla Corte di Giustizia sembra lineare e corrispondente all'intenzione dei sottoscrittori della Convenzione di Montreal. Più problematica, tuttavia, è la contemperazione tra la tutela del benessere degli animali (trasportati), e la limitazione risarcitoria del danno morale da perdita eventualmente spettante al beneficiario della compagnia di tali animali, ovvero il proprietario degli stessi. Al riguardo, secondo il Giudice adito, non inficia il suo approdo interpretativo l’ articolo 13 TFUE , ai sensi del quale, nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti , rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale. Pur essendo infatti la tutela del benessere degli animali un riconosciuto obiettivo - anche in chiave di orientamenti giurisprudenziali formatisi in materia - di interesse generale dell’Unione, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’articolo 13 TFUE non vieta che gli animali stessi siano trasportati come «bagagli», ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, della Convenzione di Montreal, e che siano considerati tali nell’ambito del sistema di responsabilità istituito da tale convenzione, " a condizione che le esigenze in materia di benessere degli animali siano pienamente prese in considerazione al momento del loro trasporto" . Resta il dubbio sul fatto che tali esigenze possano congruamente confluire in un documento asettico e comunque parametrato al valore di beni materiali come è quello rappresentato dalla speciale dichiarazione di interesse di cui all'art. 22, comma 2 della Convenzione, in un contesto dichiaratamente volto alla regolamentazione del risarcimento dovuto - quale limite assoluto che comprende tanto il danno morale quanto il danno patrimoniale -per la perdita o distruzione di un insieme di cose, posto che, tra l'altro, per ciò che concerne gli animali da compagnia, il termine "distruzione" dovrebbe ormai lasciare il passo a quello più umanamente accettabile di morte.
Autore: Gregorio Tagliapietra, già funzionario dell'Ufficio del Processo 22 settembre 2025
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, 06/02/2025 (Ricorsi n. 36617/18 e altri 12) IL CASO La controversia in commento origina dai ricorsi proposti innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo da tredici aziende italiane avverso le autorizzazioni e gli ordini di servizio esibiti dai verificatori (appartenenti alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate) in sede di accesso presso i loro locali commerciali o professionali . I ricorrenti hanno sostenuto che tali accessi, nonché la consultazione, la copia o il sequestro dei loro documenti contabili, dei libri sociali e di altri documenti fiscali, erano illegittimi in quanto effettuati in violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui all’art. 8 della Convenzione . Tale disposizione, infatti, prescrive il divieto di ingerenza da parte dell’autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare, a meno che la stessa sia conforme alla legge. Nello specifico, i ricorrenti hanno sostenuto che la normativa nazionale in materia di accessi presso i locali commerciali e professionali conferisce all’autorità pubblica un potere discrezionale illimitato atteso che, da una parte, l’autorizzazione all’attuazione delle misure non è sottoposta ad un controllo giurisdizionale, né ex ante né ex post , dall’altra, che non sono disciplinate le condizioni che giustificano l’accesso, in quanto l’autorizzazione non deve contenere una motivazione specifica. Il Governo ha sostenuto che le misure impugnate hanno una base nel diritto interno e che tale base è conforme a quanto richiesto dall’art. 8 della Convenzione. In particolare, ha sottolineato che: a) le norme nazionali richiedono l’autorizzazione dell’organo di gestione competente; b) ai sensi dell’ art. 12 della l. n. 212/2000 (“Statuto dei diritti del contribuente”), gli accessi sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo; c) la stessa disposizione prescrive il diritto del contribuente di essere informato sulle ragioni che hanno giustificato la verifica e sull’oggetto che la riguarda; d) esistono delle linee guida emanate ogni anno dall’Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, liberamente accessibili, che forniscono istruzioni in merito alla selezione dei contribuenti da sottoporre a verifica e agli specifici profili di rischio da considerare; e) l’autorizzazione all’accesso può essere impugnata innanzi ai giudici tributari unitamente all’avviso di accertamento emesso all’esito del controllo; se, per contro, le misure non portano all’emissione di un avviso di accertamento, le stesse possono essere impugnate dinanzi ai giudici civili. LA SOLUZIONE La Corte, ribadito che nella nozione di domicilio di cui all’ art. 8 della Convenzione rientrano la sede legale e i locali commerciali e professionali del contribuente, ha indagato sulla natura dell’ingerenza esercitata dall’autorità pubblica nei casi sottoposti al suo esame, al fine di valutare se la stessa possa essere giustificata. Il secondo comma dell’art. 8 della Cedu, come anticipato, prescrive che l’ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata e familiare del contribuente sia conforme alla legge se: a) prevista da una norma di legge; b) persegua uno degli scopi legittimi ivi elencati; c) sia necessaria, in una società democratica, per il raggiungimento di tali scopi. Innanzitutto, la Corte ha ritenuto pacifico tra le parti che le misure avessero un fondamento nel diritto interno, ossia, per quanto riguarda l’Agenzia delle Entrate, l’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972 e l’art. 33 del d.p.r. n. 600/1973 che disciplinano gli accessi, le ispezioni e le verifiche , rispettivamente in materia di iva e di imposte dirette, per quanto riguarda la Guardia di Finanza, l’ art. 35 della l. n. 4/1929 . Inoltre, l’art. 12 della l. n. 212/2000, fornisce una serie di garanzie e tutele a favore del contribuente sottoposto a verifica fiscale. L’indagine dei giudici ha avuto ad oggetto la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali , in particolare se il quadro giuridico interno indicasse in modo chiaro e prevedibile le circostanze e le condizioni in cui le stesse sono autorizzate ad attuare le misure contestate, e se delimitasse l’oggetto e la portata di tali misure. Con riferimento al primo profilo, la Corte, rilevata la distinzione tra gli accessi presso le abitazioni , per i quali l’autorizzazione può essere rilasciata solo in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie e deve essere emessa dall’autorità giudiziaria, e gli accessi presso i locali commerciali e professionali , per i quali sono invece sufficienti “esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e l’autorizzazione viene emessa dal responsabile dell’ufficio, ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui in questo secondo caso l’autorizzazione rappresenta “un mero adempimento procedimentale, la cui ratio è individuabile nell’opportunità che la perquisizione trovi l'avallo di un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata” (Cass. Civ. 6 novembre 2019, n. 28563). Ad avviso dei giudici di legittimità, pertanto, in relazione ai locali adibiti a scopi commerciali e professionali, il quadro giuridico interno non richiede che l’autorizzazione all’accesso venga motivata. Allo stesso modo, la Corte ha ritenuto che le linee guida emanate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate sui criteri da adottare nella selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo non fossero sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità conferito all’autorità pubblica in quanto, alla luce delle giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, in assenza di un dovere di motivare le lettere di incarico, il rispetto di tali criteri non è monitorabile e non rappresenta una condizione per la legittimità dell’autorizzazione. Per tutte queste ragioni, è stato ritenuto che: “ la base giuridica delle misure impugnate non fosse in grado di delimitare in modo sufficiente l’ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di “qualità del diritto” di cui all’articolo 8 della Convenzione ”. Considerazioni simili valgono con riferimento alla delimitazione dell’oggetto e della portata delle autorizzazioni impugnate. Innanzitutto, la Corte ha rilevato l’ampiezza del potere di ispezione documentale disciplinato al comma 4 dell’art. 52 del d.p.r. n. 633/1972, posto che la norma lo estende “a tutti i libri, registri, documenti e scritture, compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie, che si trovano nei locali in cui l'accesso viene eseguito, o che sono comunque accessibili tramite apparecchiature informatiche installate in detti locali”. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la portata delle prove e dei documenti che possono essere acquisiti dalle autorità nazionali non è limitata a quelli relativi agli esercizi oggetto di accesso o a specifiche violazioni, ma può estendersi a qualsiasi altro documento che le autorità che attuano le misure possono ritenere pertinente (Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Nel caso delle ricorrenti, l’ambito di applicazione delle misure impugnate comprendeva tutti i documenti e le prove relativi al rispetto degli obblighi fiscali dei richiedenti per diversi anni, senza limitare in alcun modo la portata delle ispezioni effettuate nei loro locali. In tale contesto, la Corte ha quindi ritenuto che il quadro normativo non delimitasse in misura sufficiente l’oggetto dell’acquisizione documentale, consentendo all’autorità pubblica di esercitare un potere discrezionale illimitato. Per quanto riguarda, invece, l’esistenza di un controllo giurisdizionale ex post , la Corte ha rilevato che gli atti di autorizzazione all’accesso non rientrano tra quelli autonomamente impugnabili ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 546/1992 e che eventuali vizi potranno essere sollevati solo in sede di impugnazione dell’avviso di accertamento che ne è derivato, in quanto l’autorizzazione costituisce un atto preparatorio la cui legittimità incide sulla validità dell’avviso di accertamento. Inoltre, la Corte ha richiamato l’indirizzo della Corte di Cassazione secondo cui la liceità dell’autorizzazione all’accesso presso i locali commerciali non pregiudica la validità dell’avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova i documenti acquisiti con il provvedimento impugnato, salvo il caso in cui l’autorizzazione manchi del tutto (cfr. Cass. Civ. 29 aprile 2016, n. 8547; Cass. Civ. 7 agosto 2009, n. 18155). Tanto premesso, la Corte ha sostenuto che il ricorso al giudice tributario costituisce un rimedio meramente potenziale, nonché necessariamente differito e non può equivalere ad un ricorso giurisdizionale ex post . Parimenti, la prospettazione del Governo secondo cui, in tutti i casi in cui all’accesso non segue l’emissione di un avviso di accertamento, l’autorizzazione ad accedere ai locali potrebbe essere impugnata dinnanzi al giudice civile, non è stata ritenuta decisiva da parte della Corte. Vale, infatti, quanto già sopra rilevato in relazione alle linee guida: in assenza di un dovere di motivazione delle autorizzazioni, la Corte non vede come i giudici civili possano esercitare un controllo significativo sulle misure disposte dall’Amministrazione. Infine, con riferimento alla possibilità di ricorrere al Garante del Contribuente ai sensi dell’art. 13 della l. 212/2000 , la Corte ha evidenziato che, poiché questi non emette decisioni vincolanti, bensì semplici raccomandazioni, il reclamo non costituisce un rimedio effettivo contro possibili scelte arbitrarie dell’amministrazione finanziaria. Alla luce di tutto quanto evidenziato, la Corte ha concluso che, anche se le misure impugnate avevano un fondamento giuridico nel diritto interno, tale contesto ha conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato per quanto riguarda sia le condizioni di attuazione delle misure controverse sia l’ambito di applicazione di tali misure . Allo stesso modo, l’assenza di un adeguato controllo giurisdizionale sulle autorizzazioni dell’Amministrazione, non ha garantito al contribuente il livello minimo di protezione di cui ha diritto ai sensi della Convenzione. Di conseguenza, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. LE INDICAZIONI DEI GIUDICI Posto che la violazione accertata è stata ritenuta di carattere sistemico, ossia risultante dal contenuto del diritto interno, come interpretato e applicato dai giudici nazionali, il Giudice europeo ha ritenuto opportuno fornire allo Stato italiano alcune indicazioni al fine di evitare ulteriori violazioni in futuro. È stato innanzitutto premesso che la maggior parte delle misure ritenute necessarie sono già previste dalla normativa nazionale, in particolare dagli artt. 12 e 13 della l. n. 212/2000, ma i principi generali ivi enunciati “devono essere attuati mediante norme specifiche nel diritto interno, mentre la giurisprudenza dovrebbe essere allineata a tali principi e a quelli stabiliti dalla Corte”. Nello specifico, la Corte europea ha stabilito che il quadro giuridico interno dovrebbe: a) indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad eseguire gli accessi presso i locali commerciali e professionali; b) stabilire garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l’uso di documenti e oggetti non connessi con l’obiettivo della misura in questione; c) prevedere il diritto del contribuente, al più tardi al momento di inizio della verifica, di essere informato dei reali motivi che giustificano la verifica e della sua portata, del suo diritto di essere assistito da un professionista e delle conseguenze del rifiuto di autorizzare la verifica; d) prevedere un controllo giurisdizionale immediato ed effettivo sulla misura contestata, che non sia subordinato all’emissione dell’avviso di accertamento.
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