Diritto penale

Diritto penale


22 feb, 2024
Tribunale di Cassino, Sezione penale, sentenza n. 158 depositata il 24 aprile 2023 IL CASO E LA DECISIONE Nel corso di un giudizio civile era stata disposta una consulenza tecnica di ufficio, con termine per il deposito della relazione peritale fissato in 90 giorni. L'elaborato veniva tuttavia acquisito agli atti del processo con vari mesi di ritardo, dopo rinvii di udienza e solleciti al perito da parte del giudice. A seguito di una richiesta di chiarimenti proveniente dalle parti, veniva disposto un accesso ai luoghi e richiesta una relazione integrativa al perito. Tale relazione integrativa non è però mai stata depositata agli atti del giudizio. Da tali fatti è partita una denuncia contro il consulente tecnico di ufficio e una successiva imputazione nei suoi confronti per il reato di cui all' art. 328, comma 1 c.p. (rifiuto di atti di ufficio), per avere il presunto reo omesso di depositare la relazione peritale relativa all'incarico conferitogli dal Tribunale civile nell'ambito di un contenzioso giudiziale. Il Giudice penale di primo grado non ha però ritenuto la sussistenza del fatto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo. Innanzitutto, è stato osservato che la prima relazione di cui all'incarico peritale era stata concretamente depositata, seppure con vari mesi di ritardo, per cui non si era formato neanche implicitamente il rifiuto necessario per la configurazione della fattispecie penale, posto che secondo il Giudice adito la mera inerzia non era di per sé rilevante ai fini della sussistenza del rifiuto di atti di ufficio. D'altra parte, nemmeno si era realizzata, secondo il Tribunale penale, quell'inerzia "reiterata" che secondo la giurisprudenza maggioritaria sarebbe sufficiente a integrare il rifiuto penalmente rilevante, in considerazione del fatto che la relazione originaria era stata depositata due mesi dopo il primo sollecito del giudice. Sotto altro, decisivo profilo, l'imputato era da assolvere dal reato a lui contestato anche con riferimento alla relazione integrativa mai depositata, e ciò in virtù della patologia da cui era stato colpito nel frangente finale del suo incarico di perito. Tale patologia, secondo quanto emerso in sede dibattimentale, avrebbe inficiato la capacità del perito di ricordare e gestire i suoi impegni lavorativi, così escludendo il carattere doloso della condotta omissiva, requisito peraltro necessario per la realizzazione della fattispecie contestata, che il legislatore ha inteso punire soltanto se volontaria e non anche se colposa. DIFFERENZE TRA RIFIUTO E OMISSIONE. RILEVANZA IN AMBITO GIUDIZIARIO Tra i delitti contro la pubblica amministrazione commessi sul versante di chi lavora nell’apparato pubblico una fattispecie di chiusura particolare, volta a sanzionare l’inerzia “qualificata”, è costituita dall’ art. 328 del codice penale . Già dalla sua rubrica (“ Rifiuti di atti di ufficio. Omissione ”), il legislatore lascia intendere che ha voluto, in realtà, disciplinare due distinte ipotesi criminose. Il primo comma punisce con la reclusione da sei mesi a due anni la condotta di indebito “ rifiuto ” di un atto dell’ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo. Il secondo comma sanziona con una pena leggermente più blanda (reclusione o multa) la condotta di inerzia ( omissione ) tenuta allo scadere dei trenta giorni decorrenti da una richiesta formale di provvedere a un atto di ufficio; per evitare la realizzazione di tale fattispecie il soggetto obbligato può o compiere l’atto o esporre le ragioni del ritardo. In questo caso, d’altra parte, concorre alla tipicità della fattispecie anche l’espressa menzione del necessario interesse in capo a chi fa la richiesta e della forma (scritta) della richiesta medesima. In entrambe le ipotesi a “potere” commettere il delitto sono soltanto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio ( reato proprio ), nell’ambito di una condotta omissiva di pericolo concreto per il corretto funzionamento, anche in termini di efficienza e tempestività delle prestazioni, della “macchina” pubblica. Si discute se il rifiuto di cui al primo comma debba essere necessariamente preceduto da una “richiesta”, come invece senz’altro necessario nel caso di cui al secondo comma, in cui l’istanza “esterna” – nel senso che deve provenire da un ambiente (lavorativo o privato) diverso da quello degli uffici di appartenenza del pubblico ufficiale – è espressamente prevista dalla norma. La giurisprudenza maggioritaria adotta la formula dell’ “ urgenza qualificata ” per indicare il presupposto in base al quale il destinatario dell’obbligo di legge – laddove sono le disposizioni ordinamentali di riferimento a definire compiutamente tale obbligo e lo stretto nesso di appartenenza con l’ufficio di riferimento – deve agire. Secondo questo orientamento, dunque, nel caso del rifiuto di atti di ufficio si può pure prescindere da una istanza formale del soggetto “bisognoso” (o di altri attestanti la sua necessità) e può essere sufficiente, ai fini di configurazione del reato, anche solo un’inerzia o un’omissione consapevoli e volontarie. D’altra parte, resta astrattamente controverso se il termine rifiuto abbracci anche l'inerzia priva di qualsiasi giustificazione, in quanto, qualora si intendesse la nozione di rifiuto come volontà esplicita od implicita di negare l'atto precedentemente richiesto, l'inerzia potrebbe integrare solo le ipotesi dell'omissione o del ritardo. Ad ogni modo, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente è senz’altro configurabile il reato di rifiuto di atti d'ufficio in caso di persistente inerzia omissiva del pubblico ufficiale che si risolva in un rifiuto implicito . Si portano come esempi – per quanto di interesse con riferimento alla controversia oggetto della sentenza in commento - la fattispecie relativa all'omesso deposito della relazione da parte di un consulente tecnico nominato in una causa civile, nonostante ripetute sollecitazioni formali, per svariati anni dall'affidamento dell'incarico di eseguire un supplemento di perizia, o il caso relativo al curatore di un fallimento che, dopo aver omesso di depositare per anni la relazione e di compiere atti della procedura, una volta ricevuta dal giudice delegato una diffida a relazionare, si era limitato a presentare una richiesta di proroga motivata in termini generici, e, poi, una volta rigettata questa istanza, non aveva dato alcun riscontro a successivi solleciti e richieste di informazioni fino alla sua sostituzione. Quanto all’ elemento soggettivo del reato , ai fini della configurabilità del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento “contra ius”, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione. Nel caso esaminato dal Tribunale penale di Cassino, il Giudice di prime cure ha individuato nella patologia da cui era stato colpito il perito l’elemento indicativo di un’assenza di volontà dolosa, posto che tale patologia si era innestata temporalmente nel frangente finale del suo incarico. Restando nell’ambito dei doveri “processual-giurisdizionali”, meritano certamente un cenno i risvolti penali dei ritardi o addirittura delle omissioni da parte degli organi giudicanti. Occorre innanzitutto osservare che l’inosservanza, anche ripetuta e grave, da parte del magistrato, dei termini di deposito delle sentenze non integra, di per sé sola, il reato di rifiuto di atti d'ufficio per ragioni di giustizia ex art. 328, comma primo, cod. pen., se non sussista una indifferibilità dell’atto omesso, la quale non può essere desunta dall’esigenza di regolare andamento dell’attività giudiziaria, ma presuppone che il ritardo determini un pericolo concreto di pregiudizio per le parti interessate, derivante dalla mancata definizione dell’assetto regolativo degli interessi coinvolti nel procedimento. In questa prospettiva, il ritardo, in specie quando consistente, non costituisce un dato irrilevante e neutro, ma deve essere valutato nella concretezza della situazione, in modo da verificare se in rapporto ad essa lo stesso, per il suo protrarsi, possa influire sull’attuazione del diritto oggettivo nel caso concreto e se dunque l’ulteriore ritardo possa assumere il significato di vero e proprio rifiuto di un atto divenuto indifferibile. In tale quadro possono assumere concreta rilevanza le specifiche sollecitazioni rivolte al giudice, affinché provveda al deposito del provvedimento, posto che tali sollecitazioni possono provenire anche da organi sovraordinati o preposti al controllo e al coordinamento dell’attività giudiziaria ovvero direttamente da soggetti coinvolti nell’attività giudiziaria. D’altra parte, la manifestazione di un legittimo interesse , ove ulteriormente qualificata dalla richiesta del provvedimento, può dare luogo alla figura del diniego di giustizia e, in presenza di una diffida, al reato di cui all’art. 328, secondo comma del codice penale, sempre che la sollecitazione non sia specificamente qualificata dalla rappresentazione dell’urgenza - come correlata all’esigenza di compiuta attuazione del diritto positivo e di evitare pregiudizi dipendenti dalla mancata definizione dell’assetto degli interessi coinvolti nel procedimento -, con possibile valutazione della protratta inerzia come elemento rappresentativo del rifiuto, e integrazione ancora una volta, in tal caso, dell'ipotesi delittuosa più grave di cui al primo comma del citato art. 328.
18 dic, 2023
Tribunale di Roma, Sezione GUP, sentenza n. 1430/17 – Corte di Cassazione, sentenza n. 1443 pubblicata il 16 ottobre 2023 IL CASO E E IL GIUDIZIO DI ULTIMA ISTANZA Un soggetto contatta sotto falsa identità tutta una serie di ragazze minorenni per intrattenersi sessualmente con loro, promettendo loro, come corrispettivo, utilità di vario tipo, soldi, cene eleganti, locali esclusivi e pernottamenti lussuosi. Il Giudice di primo grado, a seguito di rito abbreviato, ritiene provate due fattispecie tentate del delitto di cui all'art. 600-bis, comma II , e una fattispecie consumata relativamente alla stessa tipologia di condotta. In particolare, se in un caso era stata ritenuta provata la consumazione di atti sessuali con una minorenne in cambio di utilità, con riferimento ad altre contestazioni era stata reputata raggiunta la sola soglia di punibilità del tentativo del delitto di cui all’art. 600-bis, II comma c.p.. Invero, con riferimento a tali ultime condotte, la dinamica del complessivo comportamento posto in essere dall’imputato, secondo un identico modulo strategico (previo invio di mail standardizzata, corredata da esplicita offerta di denaro, agli indirizzi delle modelle estratti da siti internet, con successiva acquisizione del numero di telefono della “vittima” e pressanti richieste di appuntamenti), è risultata congrua ad esporre a pericolo l’integrità delle minori “compulsate”, ed avrebbe potuto conseguire il compimento con queste di atti sessuali a pagamento, se la relativa condotta non fosse rimasta incompiuta per l’intervento di fattori estranei alla volontà dell’accusato. Purtuttavia, la Corte di Appello di Roma, a seguito di rinvio operato sul punto dalla Corte di Cassazione, è dovuta ritornare sull’accertamento della fattispecie consumata – così come ritenuta dal GUP in primo grado – giungendo stavolta a conclusioni favorevoli all’imputato. In particolare, è stata censurata, pur in un contesto di spiccata dedizione dell’accusato ad incontrare giovani donne per soddisfare i propri desideri sessuali a pagamento, la presunzione assoluta in ordine alla traduzione, ogni volta, degli incontri realizzati o anche solo programmati in conseguenti rapporti sessuali. Tale presunzione è stata ritenuta logicamente inaccettabile, in quanto non fondata su dati univocamente convergenti verso la concreta consumazione di rapporti sessuali, così da restringere ed eliminare ragionevolmente il novero delle alternative a tali esiti; invero, non erano stati individuati, accanto al dato di partenza costituito dalla bramosia sessuale dell’imputato, altre circostanze capaci di delineare i passaggi comportamentali dei soggetti coinvolti, oppure elementi probatori alternativi idonei ad avvicinare in maniera indiscutibile le condotte accertate al momento sessuale finale. In altri termini, l’assoluta assenza di prove circa l’evoluzione degli incontri programmati ha precluso anche qualunque valutazione in ordine a possibili esiti alternativi al raggiungimento dello scopo inizialmente programmato dall’imputato, ivi inclusa la rinuncia volontaria alla consumazione del rapporto sessuale o altri comportamenti inquadrabili nella nozione di desistenza , a differenza delle altre condotte (tentate), rispetto alle quali era stato invece accertato che la mancata consumazione del reato era dipesa dalla volontà delle vittime. Interpellata infine nuovamente sulla vicenda, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la questione, declinando alcuni interessati principi in materia di formazione progressiva del giudicato e divieto di reformatio in peius delle sentenze appellate, dal momento che per alcune fattispecie di reato, contenuti in capi di imputazione autonomi, era già stata definitivamente accertata, nel corso del complessivo processo (caratterizzato da cassazione con rinvio e nuova decisione del giudice di merito), e al momento della definitiva pronuncia del Giudice di ultimo grado, la responsabilità penale dell'imputato. In particolare, i Giudici di legittimità sono partiti dall’assunto secondo cui al giudicato progressivo – che può riguardare sia le ipotesi in cui la pronuncia di annullamento ha ad oggetto uno o più capi d'imputazione, sia l'ipotesi in cui la stessa decisione interviene in relazione ad uno o più punti concernenti una singola accusa, perché sia nell'uno che nell'altro caso l 'irrevocabilità della decisione rappresenta l'effetto conseguente all'esaurimento di quella parte del giudizio - è associata una definitività decisoria relativa all'accertamento della responsabilità dell'autore del fatto criminoso e alla conclusione dell 'iter processuale su tale parte, benché la cosa giudicata possa non essere ancora connotata dall'esaustività per il permanere del residuo potere cognitivo del giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena a lui devoluta. Invero, da un lato l'affermazione di responsabilità è coperta dal giudicato, dall'altro difetta il solo titolo esecutivo, la cui formazione segue all’irrevocabilità delle parti della sentenza non ancora "esaurite", relative all'accertamento della responsabilità del fatto-reato e della responsabilità dell'accusato per tutti i capi di imputazione o per tutti i punti dell'unico capo di imputazione, oltre che alla determinazione della pena. Conseguentemente, qualora il giudicato progressivo abbia sancito l'irrevocabilità dell'accertamento della sussistenza del reato oggetto del medesimo capo (e, a maggior ragione, di un capo diverso) e della sua attribuzione all'accusato, l'annullamento parziale con rinvio relativo a un capo diverso non esclude gli effetti tipici dello stesso giudicato progressivo (quali la definizione dell'ambito cognitivo e decisorio del giudizio di rinvio e la non rilevabilità della prescrizione e di altre cause estintive del reato). D’altra parte, nel giudizio di rinvio scaturito dall'annullamento della condanna per il solo reato più grave, il giudice del rinvio (come avvenuto nel caso di specie , essendo stata annullata con rinvio solo la condanna per la fattispecie consumata ma non quella per le fattispecie tentate), nel determinare la pena per il reato residuo, meno grave, non è vincolato alla quantità di pena individuata quale aumento ai sensi dell'art. 81, comma secondo, cod. pen. ma, per la regola del divieto di "reformatio in peius", non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all'annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione. IL REATO E IL TENTATIVO Il delitto previsto dall' art. 600-bis, comma secondo, del codice penale, punisce chiunque consuma rapporti sessuali “a pagamento” con soggetti minori di età compresa tra i 14 e i 18 anni, anche se l’utilità costituente corrispettivo della prestazione sessuale sia stata soltanto promessa. Si distingue dalla fattispecie prevista dal comma primo dello stesso articolo, con cui viene punita con pena decisamente più grave (da sei a dodici anni più multa) il reclutamento e l’induzione alla prostituzione o comunque il favoreggiamento o lo sfruttamento della prostituzione stessa del minore, in quanto nel caso di mero compimento di atti sessuali con minore dietro retribuzione l'attività di "convincimento" è finalizzata ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente. La ratio della più ampia tutela penalistica accordata a tale ulteriore condotta è da ravvisarsi nella protezione del libero sviluppo psico-fisico del minore , sviluppo che può essere messo a repentaglio da qualsiasi tipo di mercificazione del suo corpo. La norma si innesta all'interno di un complessivo disegno normativo volto a tutelare l'integrità anche sessuale di soggetti ritenuti più vulnerabili e perciò incapaci di esprimere un pieno consenso sugli atti sessuali tout court (con un limite stabilito, a seconda dei casi, in 14 e 16 anni) o sulla messa a disposizione a pagamento del proprio corpo a fini sessuali (limite dei 18 anni). Tanto, all'interno di un ordinamento che in linea generale considera la prostituzione del maggiorenne come un atto illecito ma punito soltanto in via amministrativa, mentre nel caso di prostituzione del minorenne avente età compresa tra i 14 e i 18 anni vi è una valutazione “assoluta” del legislatore nel senso di ritenere chi pone in essere tale attività (anche per un'unica volta) in termini di vittima e persona offesa dal reato. Il delitto di prostituzione minorile pone alcuni delicato problemi probatori per ciò che concerne la fattispecie tentata. In linea generale, con riferimento alla struttura normativa del reato tentato , il requisito della idoneità indica la capacità causale della condotta a produrre il risultato del perfezionamento del delitto, con apprezzamento da condurre avendo riguardo ad una idoneità relativa (o concreta), incentrata cioè sulla potenziale capacità degli atti stessi a causare o favorire la realizzazione di un delitto, alla luce di una valutazione prognostica effettuata in base a tutti i dati presenti al momento della condotta. Quanto invece al requisito della univocità , tale requisito deve essere inteso non in senso soggettivo, come attinente cioè al proposito dell’agente soggettivamente diretto alla realizzazione del delitto, ma anch’esso in senso oggettivo, in quanto indica la necessità che la condotta abbia raggiunto un grado di sviluppo tale da renderla sufficientemente prossima al momento perfezionativo del delitto. L’esigenza di configurare l’univocità come caratteristica dell’azione non esclude peraltro che la prova del fine delittuoso possa essere desunta in qualsiasi modo, facendo applicazione dei consueti canoni probatori in tema di elemento soggettivo del reato, ad eccezione del fatto che, una volta raggiunta anche aliunde la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda verifica. Tale ulteriore verifica consiste nell’accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, siano in grado di rivelare in maniera sufficientemente congrua l’intenzione e la direzione verso il fine criminoso già eventualmente accertato per altra via. Il tentativo – ovvero, come detto, la commissione di atti idonei e non equivoci di perfezionare il reato - è da considerarsi sicuramente ammissibile, nel caso del delitto di prostituzione minorile di cui al secondo comma dell'art. 600-bis c.p.. Non si va infatti a punire il pericolo di un pericolo, dal momento che mentre con la consumazione del reato viene leso irrimediabilmente il bene giuridico protetto, la possibilità di frazionamento della condotta tipica fino a un momento immediatamente antecedente alla consumazione del reato rende effettivo e concreto il pericolo di compromissione dell'interesse protetto dalla norma penale. Il problema è capire quando si raggiunge il livello di alert immaginato dal legislatore - in coerenza con il rispetto del principio di offensività - e quali interazioni con l'applicazione della norma di cui all'art. 56 possono avere, nel caso di specie, le condotte non andate a buon fine (in altri termini, la mancata consumazione dell'atto sessuale). Si intreccia con questa problematica di natura generale il fatto che il reato di prostituzione minorile richiede inequivocabilmente il compimento di atti sessuali con la persona offesa dal reato per la sua realizzazione, di modo che per ritenere perfezionato il tentativo non basta l’accertamento dell’approccio a fini (anche) sessuali ma altresì la prova certa che la conclusione della condotta tipica non sia stata conseguenza di un ripensamento da parte dell’autore del reato. Esistono in effetti diverse ragioni, anche di natura opportunistica, che possono “bloccare” sulla soglia del compimento dell’atto sessuale finale il protagonista dell’offerta mercenaria, riconducendo il comportamento complessivo nell’ambito dell’istituto della desistenza volontaria dall’azione, di cui 56, comma 3 c.p. , con conseguente insussistenza del delitto tentato contestato. Sul punto, occorre ricordare che la fattispecie della desistenza si distingue chiaramente rispetto alla contro-condotta di chi si invece si adopera per impedire l’evento (c.d. recesso attivo). Nel rispetto del principio di offensività e della necessaria concreta pericolosità delle azioni inquadrabili quali tentativo, il Legislatore ha inteso punire più duramente quelle condotte che arrivano ad uno stadio tale da richiedere un intervento attivo (anche se effettuato dallo stesso responsabile) per evitare la realizzazione "perfetta" del reato. Nel caso della desistenza, invece, il potenziale reo arresta la propria condotta prima ancora che sia necessaria una azione “uguale e contraria” per porre nel nulla gli effetti della sua azione, ovvero in un momento in cui la modificazione della realtà è stata innocua e priva di conseguenze, non essendosi realizzato alcun iter causale diretto alla consumazione del crimine. Al riguardo, risulta del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico qualsiasi considerazione sui motivi che inducono il soggetto a desistere o a recedere, essendo sufficiente che la condotta non sia coartata da fatti ed evenienze (ad esempio l’arrivo della polizia o l’opposizione della vittima) che avrebbero in ogni caso implicato l’interruzione del processo criminoso. Invero, la legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l'agente a desistere dall'azione criminosa ma richiede, invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile o gravemente rischiosa la prosecuzione dell'azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta deve, quindi, essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell'agente. Ad esempio, l'atteggiamento risoluto della vittima, determinata a non cedere alle pressioni "economiche" del soggetto deciso a concludere sessualmente un incontro, può costituire un fattore che, rendendo gravemente rischiosa la prosecuzione dell'azione, sia di per sé idoneo ad escludere la volontarietà dell'ipotetica desistenza.
01 ott, 2023
Tribunale di Foggia, sent. n. 2124/2019 emessa in data 09/07/2019 (dep. il 07/10/2019) - Corte appello sez. I - Bari, 15/05/2023, n. 2283 IL CASO E LA DECISIONE Un soggetto imputato del reato di furto in abitazione compie in due distinte occasioni – e a carico di due distinte persone, entrambe imparentate con il futuro testimone della sua condotta delittuosa (che aveva reso nel corso delle indagini preliminari dichiarazioni accusatorie) – una condotta di minaccia volta ad impedire che il predetto testimone si presenti in Tribunale all’udienza contro di lui. Viene pertanto imputato anche del delitto continuato di intralcio alla giustizia , nel diverso procedimento apertosi a seguito della denuncia operata dai soggetti minacciati. Il Tribunale di primo grado condannava l’imputato, riqualificando le condotte delittuose nel reato di intralcio alla giustizia nei confronti della testimone diretta e nel reato di tentata violenza privata nei confronti di uno dei due soggetti avvicinati (ovvero il marito della dichiarante), per avere fatto intendere a quest'ultimo che, qualora non fossero state ritirate le accuse, non vi sarebbe più stato “rispetto” né verso di lei né verso di lui. In particolare, la configurabilità della fattispecie di tentata violenza privata era stata ritenuta maggiormente rispondente alla concreta condotta tenuta dall'imputato, in quanto il marito minacciato non aveva mai assunto la qualità di testimone nell'ambito del procedimento contro l’imputato per il delitto di furto in abitazione, e nessuna violazione del principio di corrispondenza tra "chiesto e pronunciato" era da ritenersi ravvisabile, sia per la evidente minore gravità del reato ritenuto, sia, soprattutto, perché il prevenuto si era difeso in contraddittorio rispetto ad una fattispecie (come riqualificata) che conteneva tutti gli elementi essenziali della norma penale incriminatrice, fatta salva, per l'appunto, la qualità di testimone del destinatario della condotta. La Corte di Appello di Foggia ha confermato il verdetto di primo grado, per ciò che concerne il delitto di intralcio alla giustizia, mentre ha dichiarato il proscioglimento dal reato di tentata violenza privata per difetto della necessaria condizione di improcedibilità, in quanto tale fattispecie è divenuta, con la riforma di cui al decreto legislativo n.150/2022 ( riforma Cartabia ), perseguibile a querela di parte, e non era stata sporta, nelle more, la detta querela. In particolare, il Giudice di secondo grado ha ritenuto corretta l’individuazione del reato scopo (e cioè del reato che il responsabile di intralcio alla giustizia voleva concretamente indurre a commettere) nel delitto di cui all’ art. 371 bis c.p. , specificando che, a prescindere dalla qualificazione del suddetto reato scopo, è comunque configurabile il delitto di intralcio alla giustizia qualora la condotta violenta o minatoria sia stata posta in essere per condizionare il soggetto che ha deposto in sede di indagini preliminari – non essendo rilevante se ciò abbia fatto innanzi al p.m. o alla p.g.- al fine di indurlo alla ritrattazione, in vista della futura acquisizione della qualità di testimone. IL REATO E LE FATTISPECIE DI CONFINE La fattispecie di intralcio alla giustizia prevista dall’ art. 377 c.p. , introdotta con la L. n. 146/2006 e sostitutiva della già disciplinata subornazione del testimone, tutela in via anticipata il corretto svolgimento dell’attività dell’autorità giudiziaria , punendo interferenze tese a incidere negativamente sulla sincerità e la completezza delle testimonianze (oltre che di perizie, dichiarazioni al P.M. o al difensore), potenzialmente lesive per l’amministrazione della giustizia. E’ un reato di pericolo che, in deroga all’art. 115 c.p., attribuisce rilievo penale alla mera istigazione alla falsità giudiziale, non accolta o comunque non accompagnata dalla successiva commissione dei delitti di false informazioni al P.M. o al difensore, falsa testimonianza o falsa perizia e interpretazione. Il fatto che non vi sia in corso alcun processo penale dibattimentale per il reato da cui il responsabile del delitto di intralcio alla giustizia vuole non essere perseguito e condannato non rileva, in quanto soltanto per uno dei reati-scopo contemplati dalla norma (falsa testimonianza) è necessario che i destinatari della condotta abbiano già assunto formalmente la qualifica processuale nel momento in cui la condotta viene posta in essere, qualifica che si acquisisce solo col deposito della lista ex art. 468 co. 2 c.p.p.. Il delitto di intralcio alla giustizia si consuma o con la semplice offerta o promessa di denaro o altra utilità , oppure con una condotta di violenza o minaccia , finalizzate, rispettivamente, a indurre o a coartare il testimone, il perito o l’interprete. La disposizione stessa chiarisce che le sanzioni ivi previste sono applicate – nei confronti del solo soggetto attivo – “qualora l’offerta o la promessa non sia accettata”, “qualora la promessa o l’offerta sia accettata, ma la falsità non commessa”, oppure ancora, “qualora il fine” cui la violenza o minaccia era orientata “non sia conseguito”. Fattispecie con qualificati punti di contatto con il reato di intralcio alla giustizia è il delitto di cui all’ art. 377-bis c.p. ( induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria ). Tale delitto condivide con l’intralcio alla giustizia l’oggettività giuridica, in quanto entrambi i reati, rientranti tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, puniscono condotte volte a pregiudicare – mediante offerta o promessa di denaro o altra utilità, ovvero violenza o minaccia – la serena acquisizione delle dichiarazioni di soggetti chiamati a rendere dichiarazioni in procedimenti giurisdizionali. Tuttavia, l’art. 377 c.p. si riferisce a fatti che abbiano, quale soggetto passivo, persona su cui gravi l’obbligo di rispondere, mentre l’art. 377-bis c.p. tipizza condotte commesse nei confronti di chi possa scegliere il diritto al silenzio (in primo luogo, l’imputato e l’indagato, anche di reato connesso). Un’ulteriore differenza con il reato di intralcio alla giustizia risiede nel fatto che la fattispecie di cui all’art. 377-bis c.p. è un reato di evento; invero, perché la fattispecie sia perfezionata, il soggetto facoltizzato a rimanere in silenzio deve effettivamente rinunciare a rendere dichiarazioni oppure rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Nella fattispecie si distinguono un evento immediato, interno alla sfera del soggetto passivo (l’induzione derivante da una delle condotte tipizzate), e un evento processuale, per così dire esterno, che manifesta e consuma il reato (il silenzio o la falsa dichiarazione della persona chiamata dinanzi all’autorità giudiziaria); ne consegue che è pacificamente configurabile il tentativo . Comparando poi la struttura e l’oggettività giuridica dei due reati appena menzionati con il delitto di corruzione in atti giudiziari – che si prospetta in definitiva come un’ipotesi di confine dell’intralcio alla giustizia -, è possibile rilevare che l’art. 319-ter c.p. punisce non solo chi induce la falsità ma anche il soggetto indotto, che invece non è attratto nel perimetro delle fattispecie incriminatrici ex artt. 377 e 377-bis c.p.. Ciò è agevolmente spiegabile considerando che nella fattispecie corruttiva l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità si rivolge a una persona che al momento in cui è stata escussa era pacificamente qualificabile come testimone, in quanto si trattava di soggetto che non era (o non vi erano indizi per ritenere che fosse) coinvolto nei fatti oggetto di giudizio né in altri ad essi connessi, ovvero ancora perché, pur indagato o imputato di reato connesso, è stato dovutamente avvisato e garantito e ha consapevolmente scelto di assumere la qualità di testimone c.d. assistito. Orbene, anche nell’art. 377 c.p. la condotta mira a contaminare le dichiarazioni di un testimone; tuttavia, come visto, l’intralcio alla giustizia postula che – a differenza dell’ipotesi di cui all’art. 319-ter c.p. – il soggetto passivo non abbia accettato l’offerta o la promessa ovvero che comunque non vi sia stata la contaminazione processuale perché la falsità non è stata commessa. Per converso, l’art. 377-bis c.p. si distanzia sia dall’art. 377 c.p. che dalla corruzione in atti giudiziari perché la condotta tesa a realizzare la contaminazione processuale si rivolge non al testimone puro (che è incondizionatamente obbligato a rispondere secondo verità) bensì alla persona che possa avvalersi della facoltà di non rispondere.
07 ago, 2023
Tribunale di Milano, Sezione VII penale, sentenza n. 2246 del 15 febbraio 2023, pubblicata il 15 maggio 2023 IL CASO E LA DECISIONE L’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi viene imputato del reato di corruzione in atti giudiziari (cosiddetto processo “Ruby-ter") per avere promesso e dato denaro o altre utilità, al fine di ottenere una versione dei fatti a sé favorevole, alle persone chiamate a rendere dichiarazioni in altri due procedimenti penali in cui lo stesso Berlusconi e alcuni soggetti a lui “vicini” erano stati imputati di concussione, prostituzione minorile e favoreggiamento della prostituzione (cosiddetti processi Ruby-1 e Ruby-bis, definiti dal Tribunale di Milano con sentenza n. 7927 del 24.6.2013 e sentenza n. 9289 del 19.7.2013). Assieme a lui sono imputate di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza tutte le donne che avevano partecipato alle cosiddette “cene eleganti” presso la residenza di Berlusconi e che hanno testimoniato sui fatti di concussione, prostituzione minorile e favoreggiamento della prostituzione contestati nei due processi antecedenti. Secondo il Tribunale adito, però, tali soggetti avrebbero dovuto sedere sul banco dei dichiaranti nel ruolo di indagati (e non di testimoni semplici) per il reato di corruzione in atti giudiziari, già all’epoca della loro escussione in dibattimento nei precedenti processi. In particolare, il Giudice penale di primo grado ha illustrato tutta una serie di elementi dai quali sarebbe emerso che le autorità giudiziarie fossero già a conoscenza di plurimi indizi di reità a carico delle persone da sentire come testimoni, e prima di sentirle come tali. Tra tali elementi vengono valorizzati, in particolare, le elargizioni cospicue e periodiche nei confronti delle testimoni già provate durante il dibattimento in cui hanno reso testimonianza - elargizioni riferibili a Silvio Berlusconi, nella qualità di soggetto donante - e la circostanza, anch’essa già nota nel corso dei primi processi, della convocazione di tutte le testimoni, in quanto assidue frequentatrici delle serate “incriminate” presso la residenza del Presidente del Consiglio - e dunque persone direttamente coinvolte nello scandalo -, per parlare delle proposte economiche da formulare in loro favore. Il Giudice penale si sofferma nello specifico su tale vicenda (riunione di Arcore del 15 gennaio 2011), per dimostrare che, al di là della sconcertante disinvoltura dimostrata da tutti i protagonisti, era chiaro fin dal momento concomitante a tale vicenda (emersa a seguito di intercettazioni telefoniche) che vi era stato un accordo per rendere dichiarazioni false nei procedimenti riguardanti Berlusconi e gli altri imputati per favoreggiamento della prostituzione. Invero, all’indomani delle perquisizioni del 14 gennaio 2011 tutte le donne poi imputate per falsa testimonianza erano state convocate ad Arcore, tramite un giro di telefonate nato da una chiamata del Presidente del Consiglio in carica, per un incontro con lo stesso Berlusconi e i suoi legali di allora. Da tale incontro era conseguita, a stretto giro di posta, la corresponsione di un bonifico con ricorrenza mensile e a tempo indeterminato di non meno di € 2.500 in favore di tutte le perquisite (poi divenute testimoni “prezzolate”), che lo stesso Tribunale di Milano, nei due precedenti processi, non aveva ritenuto di poter qualificare né come risarcimento del danno da negativa risonanza mediatica (trattandosi di elargizioni in favore di soggetti inseriti nelle liste testimoniali dell’accusa e della difesa), né come lecita attività investigativa difensiva, mancandone qualsivoglia tipo di verbalizzazione. In quei processi, al contrario, il pagamento anzidetto era stato direttamente qualificato come un fatto illecito e fattore di inquinamento probatorio; tuttavia, secondo il Giudice del Ruby-ter , tali considerazioni potevano e dovevano compiersi già prima della escussione delle dichiaranti, trattandosi di elementi indiziari di corruzione che sarebbero stati a disposizione dei collegi procedenti in epoca antecedente allo svolgimento degli esami dibattimentali. La conseguenza logico-giuridica per il concorrente necessario nel reato di corruzione in atti giudiziari (Silvio Berlusconi) – una volta ritenuto che le persone imputate di avere ricevuto da lui il denaro o la promessa di denaro non avrebbero dovute essere escusse come testimoni “pure”, e dunque non avevano mai assunto il pubblico ufficio a cui consegue poi il reato di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari – è l’insussistenza del fatto tipico del reato anche sul versante dell’ipotizzata corruzione attiva. Il Tribunale di primo grado si è chiesto, a questo punto, se lo stesso Berlusconi potesse essere condannato ad altro titolo di reato, previa riqualificazione giuridica, ma ha concluso negativamente (nonché favorevolmente all’imputato) anche sotto questo profilo, sostenendo che le eventuali imputazioni sostitutive – per atti che conservano nella loro sostanza risvolti di illiceità – costituiscono “fatti diversi”, in relazione alla differente posizione processuale che le dichiaranti avrebbero dovuto assumere affinché si potesse poi configurare, ai danni di Berlusconi, la corrispondente fattispecie penale tipica. I REATI E LA QUALIFICA DI TESTIMONE La corruzione in atti giudiziari e la falsa testimonianza sono reati propri , che possono configurarsi simultaneamente (ed essere contestati cumulativamente, stante la differenza strutturale e di oggettività giuridica delle due fattispecie) se la persona accusata dell’avere accettato la promessa o l’offerta di denaro o altra utilità per rendere dichiarazioni false o reticenti, volte a favorire o danneggiare una parte, sia un testimone e quindi un pubblico ufficiale. In tal caso, la corruzione in atti giudiziari può essere antecedente (se la testimonianza è avvenuta dopo la promessa o la dazione) o susseguente (se la testimonianza è avvenuta prima della promessa e della dazione). Importante, a questo proposito, ricordare che le norme sulla corruzione, incriminando anche la semplice promessa di denaro al pubblico ufficiale che l'accetta, anticipano la soglia della punibilità per una tutela rafforzata del bene protetto; ciò non significa però che l'effettiva ricezione di quanto ha formato oggetto della promessa e dell'accettazione sia elemento estraneo alla fattispecie, non potendosi minimizzare un aspetto centrale della condotta antigiuridica: invero, la mera promessa accettata assume una propria autonomia ed è idonea a fissare il momento consumativo del reato nelle sole ipotesi in cui non è seguita dalla dazione–ricezione, perché, ove quest'ultima segua alla promessa, si verificano l'approfondimento dell'offesa tipica e lo spostamento in avanti dello stesso momento consumativo . Fino alle Sezioni Unite del 2010 per la giurisprudenza di legittimità non era pacifica la possibilità di una corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente. Si diceva, in particolare, che non fosse ipotizzabile tale tipo di corruzione in atti giudiziari, benché il generico rinvio operato dalla disposizione incriminatrice ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p. potesse far pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna distinzione o limitazione, sulla base del dato normativo racchiuso nell'inciso " per favorire o danneggiare una parte ..."; secondo questa tesi, dal momento che la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, assumerebbe rilievo nell'attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, e per il cui compimento il pubblico ufficiale assume un impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resterebbe fuori dell'area di tipicità. In altre parole, qualificandosi la corruzione in atti giudiziari per la tensione finalistica verso un risultato, la stessa non sarebbe compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sentenza n. 15208 del 2010 ) hanno peraltro ritenuto la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziali anche nella forma della corruzione susseguente; in primo luogo, è stato detto che è inequivoca la formulazione letterale dell' art. 319 ter c.p. , che riconnette la sanzione in esso prevista ai " fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p. ". Invero, sussiste il primato dell' interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici, il cui impiego ha carattere sussidiario a causa della loro funzione ausiliaria e secondaria, in ragione dell'ordine con cui i diversi criteri interpretativi sono enunciati dall' art. 12 delle preleggi , secondo una gerarchia di valori non alterabile. Sotto altro profilo, il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull'esito del processo; è dunque l'atto o il comportamento processuale che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità), e l'anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale. Ciò che conta, in altri termini, è la finalità perseguita al momento del compimento dell'atto del pubblico ufficiale, qualsiasi sia il motivo da cui è nata, risultando indifferente che l'utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell'atto, come pure, secondo la Corte di Cassazione, sarebbe irrilevante stabilire se l'atto in concreto sia o meno contrario ai doveri di ufficio. La finalità sì riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante ai fini della ipotizzabilità dell'ipotesi di corruzione giudiziaria, da cancellare la distinzione tra atto contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l'autore del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale. In definitiva, secondo i Giudici di legittimità, nelle ipotesi di corruzione susseguente l'atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione, e che tale rilevanza assume se, successivamente all'atto o al comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato, con strumentalizzazione e sviamento della pubblica funzione che può essere anche solo tentato, laddove non vi sia il successivo profitto. Resta dunque possibile in astratto, seguendo questo ragionamento, anche la configurabilità della corruzione susseguente impropria , anche se vi è, probabilmente, una difficoltà probatoria insormontabile nel dimostrare una finalità sviata nella realizzazione di un atto conforme ai doveri di ufficio, in mancanza di un accordo preventivo. La corruzione in atti giudiziari oggetto del procedimento trattato dal Tribunale di Milano si è incentrata nella condotta processuale del testimone . La giurisprudenza della Corte di cassazione ha pacificamente ricondotto all'interno dell'art. 319 ter c.p. la condotta della falsa deposizione testimoniale, ritenendo che per "atto giudiziario" deve intendersi l'atto che sia funzionale ad un procedimento giudiziario e si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo, e che al testimone deve riconoscersi la qualifica di "pubblico ufficiale" ai sensi dell'art. 357 c.p., comma 1. Sul punto, nessun profilo di ostatività è rinvenibile con riferimento ai rapporti tra il reato di corruzione in atti giudiziari e quello di falsa testimonianza, stante, come detto, la differenza strutturale tra tali due fattispecie. Tuttavia, problemi di configurabilità di entrambi i reati sorgono quando l’imputato, esaminato nel precedente processo in cui avrebbe reso dichiarazione falsa nella veste di “testimone”, avrebbe dovuto essere invece sentito in quel processo ai sensi dell' art. 210 c.p.p. , e cioè come "imputato di reato connesso". Secondo il Tribunale di Milano, il giudice ha il potere-dovere di sindacare la qualità del soggetto esaminato, e dal momento nel diritto penale il termine “testimone” indica un elemento normativo della fattispecie , per definire compiutamente tale elemento occorre fare riferimento alle norme processuali in base alle quali detta qualifica può essere attribuita. La ricerca dell'esatta individuazione dei confini assegnati al potere del giudice in ordine alla qualifica soggettiva da attribuire al dichiarante chiama in causa, peraltro, i presupposti applicativi non solo dell'art. 210 c.p.p., ma anche dell' art. 63 c.p.p., comma 2 , ad essa collegata sul piano sistematico; tale norma, come chiarito anche dalla giurisprudenza costituzionale che si è formata in materia, attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l'ufficio di testimone previste dall'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), nei confronti dell'imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato. Peraltro, secondo la Cassazione a Sezioni Unite pronunciatasi sul caso Mills – coinvolgente ancora una volta la posizione nelle vesti di presunto corruttore di Silvio Berlusconi –, il potere del Giudice di merito di verificare nella sostanza - al di là del riscontro di indici formali, quali la già intervenuta o meno iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato - l'attribuibilità, al dichiarante, della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, dovrebbe essere circoscritto, quanto al tipo e alla consistenza degli elementi apprezzabili al fine di verificare l'effettivo status , alla sussistenza dei soli indizi non equivoci di reità ( gravi indizi ), sussistenti già prima dell'escussione del soggetto e conosciuti dall'autorità procedente. D’altra parte, laddove si subordinasse l'applicazione della disposizione di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2, alla iniziativa del pubblico ministero di iscrizione del dichiarante nel registro ex art. 335 c.p.p., si finirebbe col fare assurgere la condotta del pubblico ministero a requisito positivo di operatività della disposizione, quando sarebbe invece proprio la omissione antidoverosa di quest'ultimo ad essere oggetto del sindacato in vista della dichiarazione di inutilizzabilità. Nella sostanza – e ciò ha rivestito un ruolo decisivo nella pronuncia in commento – la sanzione processuale prevista dall’art. 63, comma 2 c.p.p. per la violazione delle disposizioni a garanzia del dichiarante già attinto da indizi di reità è l’ inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni. Qualora il giudice dibattimentale si trovi di fronte ad un soggetto citato come testimone, mai formalmente iscritto nel registro degli indagati e a carico del quale emergano indizi di reità, affiorati dalle dichiarazioni stesse del testimone nel corso dell’esame, oppure rilevabili già prima, sulla base di diverse risultanze probatorie, il giudice medesimo deve attivarsi per far coincidere la situazione formale del dichiarante-testimone con quella sostanziale di soggetto passibile di indagini a proprio carico. Con la particolarità, secondo il Tribunale di Milano da ultimo adito, che se tale “adeguamento” non sia stato effettuato dal giudice dinanzi al quale sia stata resa la testimonianza dall’ indagato sostanziale , tale operazione possa essere compiuta anche dal successivo collegio giudicante che si stia occupando del reato di falsa testimonianza in ipotesi commesso nel precedente processo e infine contestato previa apposita iscrizione formale nel registro degli indagati.
30 apr, 2023
Tribunale militare di Napoli - GUP, sentenza n. 20 del 10 marzo 2023 IL CASO E LA DECISIONE Un militare è imputato del reato di forzata consegna , previsto dall' art. 140 del codice penale militare , secondo cui è punita con la reclusione da sei mesi a due anni la condotta costituita dalla violazione, in qualsiasi modo, di una consegna. La consegna militare , a sua volta, è costituita dalle prescrizioni generali o particolari, permanenti o temporanee, scritte o verbali impartite per l’adempimento di un particolare servizio. Il militare, secondo l'accusa, aveva commesso tale reato entrando nella palazzina della caserma di assegnazione, nonostante il contrario avviso del personale di guardia, che gli aveva intimato di attendere al varco l'arrivo dei superiori, in forza della regola, all'epoca vigente, che consentiva l'accesso soltanto ai soggetti provvisti di green pass (certificazione verde covid-19). In sede di richiesta di rinvio a giudizio, il Tribunale militare adito ha pronunciato il non luogo a procedere, per insussistenza del fatto determinata dall'assenza di offensività della condotta. Il Giudice dell'udienza preliminare, in particolare, pur avendo ritenuto provati i fatti storici addotti dall'accusa (l'imputato era effettivamente sprovvisto di green pass ed era entrato in caserma per pochi minuti nonostante l'ordine contrario ricevuto) ha ritenuto che l'ingresso nel luogo di lavoro di un soggetto non vaccinato non aveva determinato alcun rischio maggiore per la salute pubblica rispetto all'ingresso di soggetti vaccinati. La pronuncia ha preso le mosse, per arrivare a questa conclusione, da un'interpretazione delle norme che hanno introdotto l'obbligo del green pass, tale da far derivare, sotto il profilo penalistico, una irrilevanza della condotta contestata all'imputato. Nello specifico, il Giudice adito ha rilevato che i vaccini in commercio contro il virus Sars-CoV-2 non sarebbero strumenti idonei in alcun modo a prevenire il contagio dal virus in questione, e ciò in ragione dell'osservazione empirica - ricondotta dal Giudice stesso a fatto notorio - secondo cui è dato di esperienza incontrovertibile la circostanza che i soggetti vaccinati per SARS-Cov-2 possono contrarre e trasmettere il contagio esattamente come i non vaccinati, con equiparazione tra i due gruppi dal punto di vista epidemiologico. Ne consegue dunque, nel ragionamento deduttivo del Tribunale, che la non sussistenza in fatto del presupposto normativo dell'obbligo vaccinale e della necessità di esibizione del green pass nei luoghi di lavoro determini l'inoffensività delle condotte contrarie a tale disposto normativo, tra cui anche, nel caso di specie, la condotta di rispettare la consegna militare di divieto di accesso in caserma senza certificazione attestante l'avvenuto ciclo di vaccinazione obbligatoria. In particolare, non sarebbe stato leso, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di riferimento, il bene penalmente protetto, che è quello della "tutela del servizio", con svuotamento a priori, nel caso di specie, della finalità garantita di assicurare il corretto svolgimento del servizio comandato. Finalità che, in questo caso, sarebbe stata quella di ridurre il rischio per la salute pubblica. Sotto altro profilo, il Giudice adito ha ritenuto sussistente, nella concreta fattispecie dallo stesso esaminata, anche lo stato di necessità, integrato dall'esigenza ineludibile di salvare se stessi dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, rappresentato dal rischio di insorgenza di un evento avverso, anche grave, a seguito della vaccinazione. Da questo punto di vista, il Tribunale militare di primo grado ha ritenuto, in difforme avviso rispetto alle recenti pronunce della Corte costituzionale, che un trattamento sanitario obbligatorio che può provocare effetti gravi - anche fatali -, in un numero non del tutto marginale di casi, come sicuramente è quello relativo alla somministrazione degli attuali vaccini in commercio per SARS-Cov-2, violerebbe i limiti imposti dal rispetto della persona umana, così come tutelato dall' art. 32 della Costituzione . OFFENSIVITA' E STATO DI NECESSITA' Il principio di necessaria offensività della condotta astrattamente configurata dalla legge come delittuosa postula, ai sensi artt. 25 e 27 della Cost., e dell’art. 49 c.p., che il fatto, per essere penalmente rilevante, risulti non solo conforme al modello legale, ma anche effettivamente e concretamente lesivo e offensivo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Nel caso del reato militare di forzata consegna - di cui si è occupata la pronuncia in commento – è dunque necessaria, per la punibilità del fatto, una effettiva lesione del bene penalmente protetto della tutela del servizio , con necessità per il Giudice adito di valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato, e se l’inadempimento del militare ad una di tali prescrizioni sia idonea a pregiudicare l’integrità del bene protetto. Se dunque, a monte, il legislatore non può prevedere fattispecie penali oggettivamente prive di offensività, spetta poi all’autorità giudiziaria, a valle, impedire una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale. Nel caso di specie, la condotta contestata all’imputato, di per sé violativa della ipotesi delittuosa configurata dal legislatore (forzare una “consegna”), ha costretto il Giudice penale a un previo vaglio dell’idoneità dell’ordine impartito (e del comportamento rispettoso dello stesso) a prevenire un rischio “ulteriore” per la salute pubblica rispetto a quello ordinario, con connesso e indiretto sindacato della ragionevolezza della norma che ha imposto la necessaria vaccinazione dei militari per accedere al posto di lavoro, in quanto la consegna di non accedere alla caserma di appartenenza era conseguenza inevitabile della mancata ottemperanza all’obbligo vaccinale. Il Tribunale militare ha preso le mosse, per la decisione del caso concreto, dalle sentenze n. 14, 15 e 16 con cui la Corte costituzionale, con decisione del 1 dicembre 2022 , ha dichiarato inammissibili o comunque infondate le questioni di costituzionalità sollevate con riferimento alla disciplina introduttiva dell’obbligo di sottoporsi a vaccinazione per SARS-Cov-2 di cui al decreto-legge n. 44 del 2021 . Il Giudice speciale di primo grado ha premesso che alla Corte delle leggi non spetta alcuna funzione nomofilattica con riguardo all’interpretazione delle norme esaminate, essendo riservata tale funzione, che consiste nell’assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, oltre che “l’unità del diritto oggettivo nazionale”, soltanto alla Corte di Cassazione. Conseguentemente, il Tribunale militare ha potuto fare propria un’interpretazione autonoma delle norme che fungono da presupposto alla contestazione penale sottoposta al suo vaglio e ha affermato di non condividere l’impostazione seguita dalla Corte costituzionale, che avrebbe recepito acriticamente, secondo il Giudice di merito, il punto di vista, peraltro qualificato, dell’Istituto Superiore di Sanità. Secondo l’ISS – e dunque anche secondo la Corte costituzionale -, la vaccinazione di massa anti-covid avrebbe avuto l’effetto di ridurre la circolazione del virus, mentre secondo il Giudice militare tale “verità” sarebbe stata smentita, anche ad esito di un vaglio critico dei dati offerti dalle autorità nazionali e internazionali preposte alla ricerca scientifica, dall’osservazione del naturale accadimento dei fatti ( id quod plerumque accidit ), secondo cui anche i soggetti vaccinati possono contrarre e trasmettere il virus. Il Tribunale adito ha dedotto così che l’assunto di partenza nell’interpretazione di conformità a Costituzione fornita dalla Corte, in merito all’imposizione per legge dell’obbligo vaccinale, sarebbe erroneo, e ciò sulla base di un doppio passaggio logico. In particolare, il Giudice di primo grado aderisce all’orientamento giurisprudenziale di merito secondo cui l’inidoneità dei vaccini in commercio a costituire strumenti di prevenzione del contagio costituirebbe in realtà fatto notorio, e tale adesione gli consente di conseguenza di definire irragionevole sia l’obbligo vaccinale che l’obbligo di esibizione del green pass per accedere ai luoghi di lavoro, in quanto strumenti inidonei a rallentare la diffusione del virus. Essendo peraltro la presunta efficacia del vaccino anti-covid nel ridurre il contagio alla base del disposto normativo che ha stabilito tali obblighi, o comunque alla base degli atti amministrativi fondati sul disposto medesimo, la constatazione dell’erroneità del presupposto rende le condotte contrarie ai precetti conseguenti come prive di reale offensività. Degno di interesse è infine l’ excursus sulla rilevanza dello stato di necessità nella fattispecie concreta esaminata, quale causa di giustificazione che rende non punibile il reato. Secondo l’ art. 54 del codice penale , “ non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo ”. Il Tribunale militare arretra la valutazione della condotta tenuta dall’imputato al momento della decisione di non vaccinarsi, da cui sarebbe scaturita poi la “forzata consegna”. In altri termini, lo stato di necessità è stato ravvisato non con riferimento alla condotta in concreto contestata (urgenza qualificata di accedere all’alloggio), ma con riferimento alla condotta presupposta a quella (necessità di non correre un rischio grave o fatale vaccinandosi). Rispetto a tale diverso segmento dell'azione, il Giudice adito critica nuovamente l’impostazione seguita dalla Corte costituzionale nelle ultime pronunce, affermando che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione solo se gli unici effetti negativi prevedibili siano temporanei, di scarsa entità e tollerabili, ma non quando ci siano effetti avversi gravi, irreversibili o fatali già prevedibili al momento dell’imposizione, dovendo la previsione dell’indennizzo riguardare gli eventi avversi imponderabili, che non potevano essere previsti dal legislatore in quel dato momento storico, e che quindi servono a ristorare il danno “ulteriore” imprevedibile. In altri termini, secondo il Tribunale militare, con affermazione di principio che non può che essere condivisa – sulla base di un’interpretazione corretta dell’art. 32 della Costituzione, che configura la salute prima come fondamentale diritto dell’individuo e solo successivamente come interesse della collettività – nel nostro ordinamento “nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute per quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”.
27 mar, 2023
Tribunale civile e penale di Gorizia, sentenza n. 649, depositata il 18/11/2022 IL CASO E LA DECISIONE Un soggetto viene accusato di avere commesso il reato previsto e punito dall' art. 12 commi 1 e 3 lett. a), b), c) ed e), comma 3-bis e comma 3-ter lett. b) d.lgs. 286/98 , in quanto imputato di avere effettuato il trasporto di 12 sedicenti cittadini pakistani nel territorio dello Stato, tutti privi di documenti di identificazione e di titolo per soggiornare in Italia. Secondo l’accusa, l’imputato, dopo aver prelevato gli extracomunitari in una località boschiva a circa sei ore di auto dal confine nazionale, si era posto alla guida di una vettura con vetri oscurati e targa registrata in Germania e aveva fatto ingresso nel nostro Paese, giungendo infine in un parcheggio dove aveva fatto scendere i dodici clandestini. Proprio in quel frangente, peraltro, il guidatore veniva controllato dalle forze dell'ordine sopraggiunte sul posto sulla base di una “soffiata”, nell'atto di armeggiare sul motore della vettura, tenendo in mano una tanica di olio. Il Giudice adito ha ritenuto provata la fattispecie di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina – seppure non accogliendo integralmente la prospettazione dell’accusa -, evidenziando che il dolo del reato e la consapevolezza dell'illegittimità del trasporto erano desumibili senza incertezze dalle modalità della condotta, quali il recupero degli stranieri in un bosco, il numero di passeggeri nettamente superiore alla capienza del mezzo e la prospettazione di un compenso economico da parte di altro soggetto per svolgere il trasporto. In particolare, il Giudice di primo grado ha valorizzato le dichiarazioni rese da uno dei clandestini, secondo cui l’imputato aveva recuperati i trasportati in un bosco e da lì avevano viaggiato per sei ore stipati nell'autovettura da lui condotta: due dei cittadini stranieri erano seduti al posto del passeggero davanti, sei sui sedili posteriori e quattro nel vano bagagli. La polizia giudiziaria aveva inoltre estrapolato un video dal cellulare di uno dei trasportati, da cui si evinceva chiaramente che la vettura usata per il trasporto era stata condotta dall'imputato, il quale era riconoscibile dall'esteso tatuaggio presente sul dorso della mano destra. D’altra parte, lo stesso imputato aveva ammesso di aver trasportato in Italia i soggetti stranieri al fine di profitto , poiché un soggetto a lui praticamente sconosciuto (secondo le dichiarazioni auto-accusatorie) aveva organizzato il viaggio, e gli aveva promesso in cambio la somma di € 200,00 per ogni straniero trasportato. L’accusato aveva peraltro negato di essere stato a conoscenza del fatto che gli stranieri fossero privi di documenti, e che il loro trasporto fosse illegale; il Tribunale di Gorizia ha però ritenuto superate e contraddette sul punto le affermazioni dell’imputato, in relazione alle evidenze derivanti dalle prove acquisite, secondo cui nessuno dei trasportati era in possesso di documenti idonei alla legale permanenza nel territorio dello Stato, il trasporto era stato effettuato ininterrottamente da un bosco lontano dal confine e con modalità più che sospette. Inoltre, la promessa di denaro - al termine del trasporto -, proveniente da un soggetto pressoché sconosciuto, avrebbe deposto per una consapevolezza da parte dell'imputato dell’illegalità del trasporto stesso da effettuare, e attestato il dolo specifico di avere agito per procurarsi il profitto promesso, ad integrazione della fattispecie aggravante prevista dal comma 3-ter, lett. b) dell’art. 3 del d.lgs. n. 286/1998. Nonostante l’applicazione dei minimi edittali e il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, e in conseguenza del regime di bilanciamento imposto dall’art. 3, comma 3-quater della norma sanzionatoria “( Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti ”), la pena finale inflitta è stata di anni 4 e mesi 8 di reclusione, oltre a € 220.000.00 di multa. FAVOREGGIAMENTO E AGGRAVANTI L’art. 12 del testo unico sull’immigrazione contiene una fattispecie di base, definita comunemente di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che punisce alternativamente diverse condotte (promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o effettuazione concreta del trasporto di stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del testo unico stesso), e sempre che tali condotte non costituiscano di per sé un diverso più grave reato. L’altra fattispecie (anch’essa alternativa) prevista dall’art. 12 è costituita dal compiere “ altri atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente ”. E’ un’ipotesi delittuosa che si pone soltanto apparentemente sulla scia del reato di favoreggiamento personale , in quanto, mentre quest’ultimo punisce chiunque aiuta taluno a eludere le investigazioni dell'autorità, o a sottrarsi alle ricerche effettuate, ma dopo la commissione di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione, nel caso del cosiddetto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina l’aiuto viene prestato prima o durante la commissione (peraltro soltanto eventuale) del reato di cui all’ art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato). D’altra parte, nonostante un precedente isolato della Corte di cassazione, la giurisprudenza di legittimità (ivi comprese le Sezioni unite della stessa Corte di cassazione, con sentenza del 21 giugno 2018, n. 40982), confortata dalla Corte costituzionale, ha sposato un orientamento ormai consolidato, secondo cui le ipotesi aggravate di cui al comma 3 non sarebbero strutturate quali reati di danno, e dunque non implicherebbero l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, in quanto, stante l’inequivoco tenore letterale del comma 3, tutte le fattispecie previste dall’art. 12 del testo unico sull'immigrazione sono definibili come reati “a consumazione anticipata”, che si perfezionano cioè con il solo compimento di «atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri», senza che tale scopo debba necessariamente essere conseguito dall’agente. E’ un delitto che ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento italiano in sede di conversione del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 , con la previsione di una fattispecie delittuosa base che era già configurata all’epoca a guisa di reato a consumazione anticipata, caratterizzata dal compimento di attività «dirette» a favorire l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, e che era sanzionata con la reclusione «fino a due anni». Erano poi previste due ipotesi aggravate, integrate dal fine di lucro e dalla commissione da parte di tre o più persone, sanzionate con l’autonomo quadro edittale della reclusione da due a sei anni e da una multa assai più severa rispetto a quella prevista per il fatto base. Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione è poi confluito nell’art. 12 t.u. immigrazione, con un immediato innalzamento di pena, e l’inserimento di numerose altre circostanze aggravanti al comma 3. L’art. 12 del testo unico sull'immigrazione fu poi incisivamente modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (cosiddetta “legge Bossi-Fini”), con integrale riscrittura del comma 3 e aggiunta di altri due commi, che contemplavano ulteriori ipotesi aggravanti. Di fronte al dato letterale del nuovo comma 3, che – subordinatamente a una clausola espressa di sussidiarietà rispetto ad altri più gravi reati – reiterava pressoché integralmente la descrizione della condotta contenuta nel comma 1 arricchendola di ulteriori requisiti, la giurisprudenza si orientò in prima battuta a considerare le fattispecie ivi previste come figure autonome di reato, mentre la commissione da parte di tre o più persone passò a integrare l’ipotesi aggravata prevista dal nuovo comma 3-bis, accanto a quella dell’ingresso o della permanenza illegale di cinque o più persone e a quelle, di nuova introduzione, dell’esposizione della persona trasportata a pericolo per la vita o l’incolumità, ovvero a trattamento inumano o degradante. Per queste ipotesi veniva disposto che le pene previste dal comma 3 fossero ulteriormente aumentate. Un autonomo e più severo quadro edittale (comprensivo, in particolare, della pena della reclusione da cinque a quindici anni) veniva invece previsto per le nuove circostanze aggravanti di cui al comma 3-ter, integrate dal fine di destinare le persone trasportate alla prostituzione, allo sfruttamento sessuale o allo sfruttamento di minori. Ulteriori modifiche furono apportate all’art. 12 in questione dall’ art. 1-ter del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 , con l’aumento della pena detentiva per la fattispecie di cui al comma 1 (da uno a cinque anni) e la conservazione nel comma 3 soltanto del fine di trarre profitto, anche indiretto. La circostanza aggravata dell’utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti, alterati o comunque illecitamente ottenuti fu a questo punto trasferita nel comma 3-bis, accanto a quelle che già erano state collocate in quest’ultimo comma dalla “legge Bossi-Fini” (fatto concernente l’ingresso o permanenza illegale di cinque o più persone; pericolo alla vita o all’incolumità fisica della persona trasportata; sottoposizione della stessa a trattamenti inumani o degradanti), prevedendosi per tutte queste ipotesi l’aumento della pena stabilita dai commi 1 e 3. Conseguentemente, ai fini della determinazione del quadro edittale applicabile, decisivo divenne il discrimine tra fatto commesso senza fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 1, e punito con la reclusione da uno a cinque anni, su cui operare l’aumento sino a un terzo ex art. 64 cod. pen.) e fatto commesso con fine di lucro (rilevante ai sensi del comma 3, e punito con la reclusione da cinque a quindici anni, su cui operare l’ulteriore aumento sino a un terzo). Infine, per le ipotesi di cui al comma 3-ter, rimaste inalterate nella loro definizione rispetto alla “legge Bossi-Fini”, fu previsto l’aumento da un terzo alla metà delle pene detentive stabilite dal comma 3. L’art. 12 t.u. immigrazione ha infine acquisito l’attuale fisionomia dopo la riformulazione operata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, ed è stato recentissimamente “ritoccato” dal cosidetto decreto-migranti ( d.l. n. 20 del 10 marzo 2023) , approvato in fretta e furia dopo i fatti di Cutro. E’ stata confermata – in relazione alla fattispecie base di cui al primo comma – la cornice edittale da uno a cinque anni di reclusione già introdotta dalla legge n. 271 del 2004 (cornice allo stato aumentata da due a sei anni), mentre nel riformulato comma 3 sono state ricollocate cinque diverse ipotesi, di cui la quinta, descritta alla lettera e), di nuovo conio (caso in cui gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti). Per tutte queste ipotesi la pena è stata ulteriormente innalzata, prevedendosi una nuova cornice edittale da cinque a quindici anni di reclusione (allo stato attuale da sei a sedici anni), oltre alla multa di 15.000 euro "per ogni persona". Il comma 3-bis riformulato dispone che, in caso di concorso tra due o più delle ipotesi di cui al comma precedente, la pena ivi prevista sia aumentata. Il comma 3-ter, parimenti riformulato, prevede poi che la pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3: a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l'ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b) sono commessi al fine di trarne profitto, anche indiretto. Ai sensi del nuovo comma 3-quater, infine, eventuali circostanze attenuanti (diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 cod. pen.) non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti rispetto alle circostanze aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-quater, le relative diminuzioni di pena dovendosi operare sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti. Risolvendo peraltro un contrasto giurisprudenziale sul punto, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto natura di circostanze aggravanti anche alle ipotesi descritte dal comma 3, così come oggi formulato (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 21 giugno 2018, n. 40982), rendendo così possibile il loro bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen., e la conseguente commisurazione della pena – in caso di equivalenza o prevalenza delle attenuanti – a partire dal più mite quadro edittale previsto dal comma 1, e ciò sempre che non ricorrano due o più di tali aggravanti ovvero il fine di profitto, operando in tal caso il divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti stabilito dal comma 3-quater . D’altra parte, l’art. 12 del testo unico sull'immigrazione, e in particolare i suoi commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, investono una materia interessata da obblighi assunti in sede di diritto internazionale e imposti dal diritto dell’Unione europea. Viene anzitutto in considerazione il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria (cosiddetto Protocollo di Palermo ), il cui art. 6, paragrafo 1, obbliga gli Stati parte a criminalizzare tra l’altro, allorché il fatto sia commesso intenzionalmente e a scopo di profitto, il «traffico di migranti» («smuggling of migrants»). L’indicato art. 6, al paragrafo 3, impone poi a ciascuno Stato parte di adottare le misure legislative e di altra natura che si rendano necessarie a conferire il carattere di circostanze aggravanti, tra l’altro, del reato di traffico di migranti alla messa in pericolo della vita o dell’incolumità dei migranti interessati (lettera a), ovvero alla loro sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, incluso lo sfruttamento (lettera b). Gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal Protocollo in parola sono, dunque, limitati a condotte commesse a scopo di profitto, mentre l’obbligo di prevedere specifici aggravamenti di pena sussiste solo per le ipotesi coperte oggi, nel diritto italiano, dall’art. 12, comma 3, lettere b) e c), t.u. immigrazione, relative rispettivamente all’esposizione a pericolo per la vita o l’incolumità del migrante e alla sua sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti. Quanto al diritto dell’Unione europea, gli obblighi di incriminazione in materia sono essenzialmente quelli stabiliti dal combinato disposto della decisione quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002 , relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e dalla direttiva, adottata in pari data, 2002/90/CE del Consiglio , volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (che assieme formano il cosiddetto “Facilitators Package”). Secondo questi obblighi, le correlative sanzioni penali devono essere “effettive, proporzionate e dissuasive”. Quanto al bene-interesse protetto dalla norma penale, l’intera gamma delle ipotesi delittuose descritte dall’art. 12 t.u. immigrazione ha quale comune oggetto di tutela l’ordinata gestione dei flussi migratori, interesse definibile quale bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, potenzialmente a rischio nel caso di fenomeni di immigrazione incontrollata, quali, in particolare, gli equilibri del mercato del lavoro, le risorse (limitate) del sistema di sicurezza sociale, l’ordine e la sicurezza pubblica. I forti aumenti di pena previsti – che in termini percentuali sono notevolmente superiori a quelli che ordinariamente connotano le fattispecie aggravate rispetto alle corrispondenti figure base di reato – si ricollegano chiaramente, nella prospettiva del legislatore, alla dimensione plurioffensiva delle ipotesi ivi contemplate, il cui orizzonte di tutela trascende di gran lunga quello dell’ordinata gestione dei flussi migratori, e che sono volte anzitutto, anche se non esclusivamente, a tutelare le persone trasportate, che spesso versano in stato di bisogno, anche estremo. Ciò appare evidente, ad esempio, rispetto alle due ipotesi aggravate previste dalle lettere b) e c) del comma 3 , integrate dall’essere stata la persona trasportata esposta rispettivamente a un pericolo per la propria vita o incolumità, e addirittura a trattamenti inumani o degradanti. Nel caso affrontato dal Tribunale di Gorizia, ad esempio, entrambe le fattispecie sono state contestate all’imputato, anche se è stata ritenuta sussistente soltanto l’ipotesi dell’esposizione a pericolo per la propria incolumità, in quanto i dodici stranieri trasportati avevano viaggiato in due sul sedile anteriore, in sei su quello posteriore e in quattro nel vano bagagli, senza dunque alcun presidio di sicurezza e con estremo pericolo in caso di incidente o anche semplice urto dell'automobile. L’altra aggravante, invece (trattamento inumano), è stata esclusa, in quanto il viaggio era durato sei ore in tutto ed era avvenuto a bordo di un mezzo comunque da considerarsi "piuttosto comodo". D’altra parte, tornando alla fattispecie astratta, anche la fattispecie aggravata di cui al comma 3-bis, lettera a) – caratterizzata dal fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione ovvero allo sfruttamento sessuale o lavorativo, e confinante con la fattispecie di tratta di persone di cui all’art. 601 cod. pen., quest’ultima punita con la reclusione da otto a venti anni – appare calibrata sulle esigenze di tutela dello straniero assai più che sul controllo dei flussi migratori, che pure resta sullo sfondo dell’incriminazione come in ogni altra ipotesi disciplinata dall’art. 12 t.u. immigrazione. Così come le altre ipotesi aggravanti previste dalla norma in questione (fatto riguardante l’ingresso o la permanenza illegale di cinque o più persone, disponibilità di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto e fatto commesso da tre o più persone in concorso tra loro) appaiono tutte evocare, secondo le verosimili intenzioni del legislatore, scenari di coinvolgimento di organizzazioni criminali attive nel traffico internazionale di migranti. Restano invece sullo sfondo di tale intento punitivo – come visto avallato anche dalle disposizioni internazionali vigenti in materia – le due ipotesi dell’utilizzazione di servizi internazionali di trasporto o di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti . [1] Nel primo caso, la Corte costituzionale non ha ravvisato alcun ragionevole surplus di disvalore rispetto alla generalità dei fatti riconducibili alla fattispecie base descritta nel comma 1. Nel secondo caso, sempre la Corte costituzionale, pur riconoscendo alla condotta una connotazione offensiva ulteriore rispetto a quella propria della fattispecie base, per lesione del bene delle “fede pubblica”, ha ritenuto non giustificabile l’entità dello scarto tra la pena prevista per la fattispecie base e quella derivante dall’applicazione delle circostanza medesima, anche in considerazione del fatto che la generalità dei delitti di falsità in atti e personali previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del Libro II del codice penale è punita con pene che, nel minimo, non oltrepassano la soglia di un anno di reclusione, e che lo stesso art. 6, comma 6-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, che incrimina la contraffazione o alterazione di permessi di soggiorno o di altri documenti correlati alla presenza legittima dello straniero nel territorio nazionale, prevede una cornice edittale da uno a tre anni di reclusione. D’altra parte, nel tempo, la norma incriminatrice su cui si è incardinato il contrasto all’immigrazione clandestina ha progressivamente differenziato, con sempre maggiore nettezza, il trattamento sanzionatorio di due distinte classi di condotte : da un lato, l’aiuto all’ingresso illegale nel territorio dello Stato compiuto in favore di singoli stranieri, per finalità in senso lato altruistiche; dall’altro, l’attività posta in essere a scopo di lucro da gruppi criminali organizzati nei confronti di un numero più o meno ampio di migranti destinati a essere trasportati illegalmente nel territorio dello Stato. Il ben maggiore rigore sanzionatorio previsto per la seconda classe di condotte riflette l’evidente distinzione, sul piano criminologico, tra due fenomeni radicalmente diversi, in quanto un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita, è da considerarsi, ragionevolmente, una situazione del tutto distinta dall’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche, in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati. [1] Con sentenza n. 63 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 3, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), limitatamente alle parole « o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti ».
08 feb, 2023
Sentenza del Tribunale di Torino – Sezione dei Giudici delle Indagini preliminari, depositata il 19/08/2022, n. 1339 IL CASO, I REATI ACCERTATI E LA DECISIONE Una ragazza di 15 anni aveva creato un profilo fake su Instagram di genere sadomaso, essendo curiosa dell'argomento. Nell’agosto del 2018 era stata contattata da un certo "padrone-domination", poi identificato con l’imputato, al quale aveva rivelato la verità con riferimento alla sua età. Nonostante tale esternazione, l’uomo, di molti anni più grande, aveva continuato a chattare con lei e in più occasioni le aveva chiesto di inviargli, con successo, delle fotografie in cui lei si masturbava. Dopo circa due mesi si erano scambiati i numeri di telefono e avevano cominciato una relazione a singhiozzo, consumando nell’aprile 2019 il primo rapporto sessuale consenziente; nonostante lui volesse un rapporto sadomaso lei aveva rifiutato perché aveva capito che tale modalità in fin dei conti non le piaceva. All'inizio della relazione, peraltro, l’imputato, nella sua qualità di "padrone", aveva chiesto alla minore di riprendersi mentre si masturbava con vari accessori e lei, dopo avere registrato i video, glieli aveva mandati su Instagram e su whatsapp , insieme ad alcune foto nuda. Nei video e nelle foto non compariva mai il suo volto, così che nessuno avrebbe potuto riconoscerla, non avendo tatuaggi o segni particolari sul corpo. Anche l’uomo le mandava dei video mentre si masturbava; dopo un po’di tempo non le aveva peraltro più richiesto di mandargli video, pur continuandole a domandare l’effettuazione di gesti autoerotici nel corso delle videochiamate. Successivamente, l’imputato le aveva ceduto gratuitamente cocaina e aveva cominciato a perseguitare lei e i suoi familiari, una volta che la ragazza le aveva comunicato l’intenzione di interrompere la loro relazione. La vicenda si era quindi definitivamente trasferita nelle aule di giustizia con la denuncia-querela della minore nel giugno 2020, da cui era scaturito un procedimento penale nei confronti dell’uomo per i reati di cessione di stupefacenti, atti persecutori e pornografia minorile . Con particolare riferimento a tale ultimo delitto, i Giudici torinesi hanno dovuto valutare la realizzazione, nel caso di specie, della fattispecie di cui al primo comma dell'art. 600 ter c.p. , che punisce chiunque produca o realizzi materiale pornografico utilizzando un minore di anni diciotto, ovvero chi recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici, ovvero dai suddetti spettacoli trae profitto. In particolare, all’imputato è stato contestato di avere "indotto" una ragazza all'epoca quindicenne a produrre tale materiale, istigandola in tal senso, avvalendosi della sua superiorità in termini di età, maturità ed esperienza e facendosi così inviare dalla ragazza immagini che la ritraevano mentre si masturbava. Secondo il Tribunale adito, dal materiale di indagine confluito nel fascicolo del giudizio abbreviato è emerso chiaramente che la ragazza avesse inviato all’imputato immagini dal sicuro contenuto pornografico , su richiesta dell'imputato stesso e nell'ambito del gioco di ruolo sadomaso, in cui lei, "schiava", doveva obbedire agli ordini del "padrone". Il Giudice di primo grado si è però chiesto se tale condotta fosse da considerarsi penalmente rilevante, costituendo il discrimine rispetto ad una fattispecie “non punibile” non il consenso del minore in quanto tale, ma la configurabilità dell’ azione di utilizzazione . In effetti, nell’attuale sistema del codice penale, la condotta della produzione di materiale pornografico con minore risulta lecita soltanto se posta in essere alle seguenti due condizioni, che devono ricorrere congiuntamente: senza utilizzazione del minore e con il consenso espresso da colui che abbia raggiunto l'età per manifestarlo. E siccome anche le condotte induttive e istigative possono integrare il requisito dell'utilizzo del minore, l'utilizzazione del minore può manifestarsi non solo quando l'agente realizzi egli stesso la produzione di tale materiale, ad esempio scattando le foto dal contenuto erotico, ma anche - come nel caso affrontato dal GUP torinese - quando induca o istighi il minore a compiere tali azioni, ossia facendo sorgere in questi il relativo proposito prima assente (induzione), ovvero rafforzando un proposito già presente (istigazione). D’altra parte, il consenso del minore all'atto sessuale non include e non implica, di per sé, il consenso alla registrazione dell'attività o alle riprese di carattere intimo di natura pornografica, essendo tale attività un quid pluris rispetto all'atto sessuale. Sotto altro profilo, poi, il consenso è sempre revocabile e deve riguardare non solo il momento della "produzione" del materiale pornografico, ma anche la sua successiva conservazione. Partendo da tali premesse interpretative del reato da accertare, il Tribunale adito ha evidenziato che la persona offesa aveva attivato spontaneamente, consapevolmente e autonomamente un profilo Instagram a contenuto "sadomaso", dicendosi incuriosita e interessata all'argomento, e non facendo mai mistero della cosa. Inoltre, la ragazza ha pacificamente ammesso di avere effettuato e inviato, su richiesta (nel gergo usato, su "ordine" dell'imputato) i video pornografici nel primo periodo della relazione con costui, nell'ambito del gioco sadomaso in cui entrambi interpretavano ruoli ben definiti e in linea con la tipologia di profilo che lei stessa aveva aperto. La persona offesa, inoltre, per quanto giovane e proveniente da una famiglia musulmana, non era da considerarsi una ragazza "chiusa", sia a livello di maturità personale che a livello di relazioni sociali, di modo che il Giudice adito è arrivato alla conclusione che il consenso all’invio dei video pornografici fosse stato libero, effettivo e pienamente valido . Correlativamente, nel comportamento dell’imputato non era ravvisabile alcuna induzione o istigazione e, dunque, alcuna "utilizzazione" della minore, essendosi costui comportato in linea con la tipologia di profilo che la ragazza aveva attivato. In definitiva, dunque, il GUP ha mandato assolto l’imputato per il reato di pornografia minorile. Quanto invece agli altri reati contestati, posto che vi era piena prova della cessione di stupefacenti a minore, il Giudice adito ha ritento integrati anche gli estremi dello stalking , evidenziando che era sussistente l’evento materiale di tale reato, nonostante la persona offesa non avesse mai riferito di patire, a causa dell'imputato, uno stato di ansia e paura, né di temere per la propria o altrui incolumità, né di avere modificato, a causa dei comportamenti dell’uomo, le proprie abitudini di vita. Invero, il GUP ha “sposato” la giurisprudenza secondo cui il reato di atti persecutori si realizza anche in assenza di una espressa e dichiarata manifestazione di ansia da parte della vittima, dovendosi avere riguardo sia alle caratteristiche della persona offesa (che, se minorenne, è per ciò solo più vulnerabile), sia all'astratta e oggettiva idoneità della condotta dell'agente a causare uno degli eventi alternativi previsto dalla legge. LE FATTISPECIE CRIMINOSE DI CUI ALL’ART. 600-TER C.P. L'attuale formulazione dell'art. 600 ter c.p. (che tutela non l'autonomia sessuale del minore ma la necessità di proteggere la sua intimità, la dignità e il suo corretto sviluppo psico-fisico, limitando la diffusione di immagini che possano destare un interesse sessuale) è il frutto di plurimi interventi legislativi. La norma si articola su una molteplicità di ipotesi di reato tra loro autonome e diversamente strutturate, ordinate secondo un criterio gerarchico di gravità decrescente, ricavabile dalle clausole di esclusione contenute nei commi terzo e quarto, nonché di graduazione delle pene edittali. Nel dettaglio, il primo comma ha riguardo alla fase di realizzazione/produzione del materiale pornografico mediante utilizzo del minore, nonché al reclutamento e all'induzione del minore stesso; il comma secondo punisce la condotta di chi fa commercio del materiale di cui al primo comma; il comma terzo reprime le condotte di distribuzione, divulgazione, diffusione, pubblicizzazione , ovvero di distribuzione, divulgazione o diffusione di notizie o informazioni finalizzate all'adescamento o allo sfruttamento sessuale del minore; il comma quarto sanziona, infine, i comportamenti di offerta o cessione a terzi , a titolo oneroso o gratuito, del materiale pornografico. La definizione del materiale pornografico, rilevante per tutti i commi dell'art. 600-ter, si ricava dal settimo e ultimo comma. Secondo la Corte di cassazione, che ha così interpretato il disposto del settimo comma dell'art. 600 ter c.p., in virtù della modifica introdotta dall'art. 4, comma 1, lett. I), della legge n. 172 del 2012 ( Ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale) - che ha sostituito il primo comma dell'art. 600-ter cod. pen. - costituisce materiale pedopornografico la rappresentazione, con qualsiasi mezzo atto alla conservazione, di atti sessuali espliciti coinvolgenti soggetti minori di età, oppure degli organi sessuali di minori con modalità tali da rendere manifesto il fine di causare concupiscenza od ogni altra pulsione di natura sessuale, e il riferimento alla "rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto" di cui all'ultimo comma dell'art. 600-ter cod. pen. ricomprende non solo gli organi genitali, ma anche altre zone erogene, come il seno e i glutei, anche perché la natura pornografica delle immagini discende non tanto dalla nudità della persona ritratta, quanto dall'atteggiamento e dalle espressioni che la persona assume, con la conseguenza che rientrano nell'alveo del 600 ter c.p. quelle immagini in cui le pose della minore siano inequivocabilmente destinate non a risaltare solo la bellezza del corpo in quanto tale, ma a stimolare in modo esplicito l'interesse erotico altrui. Con riferimento specifico alla fattispecie di cui al primo comma dell’art. 600-ter c.p. – fattispecie approfondita dalla sentenza in esame -, occorre innanzitutto evidenziare che, ai fini dell'integrazione del reato di produzione di materiale pedo-pornografico, non è richiesto dalla giurisprudenza più recente l'accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale. E' stato così superato l'orientamento precedentemente espresso nel 2000 dalla Cassazione a Sezioni Unite, secondo cui si tratterebbe di un reato di pericolo concreto, punibile cioè soltanto nel caso in cui la condotta abbia una consistenza tale da implicare un concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto. Tale materiale, in realtà, secondo le Sezioni Unite del 2018, non deve essere necessariamente destinato ad essere immesso nel mercato della pedofilia, in considerazione della pervasiva influenza delle moderne tecnologie della comunicazione. Sempre sul piano ermeneutico, è stata inoltre negata autonomia concettuale alla nozione di produzione rispetto a quella di realizzazione. Tornando alla costruzione semantica della fattispecie di reato in esame, uno degli elementi costitutivi di essa è l'utilizzo, ovvero il reclutamento o l'induzione del minore, da parte di un soggetto terzo (escludendo dunque i casi di "autoproduzione"). La nozione di "utilizzo" è molto ampia e in essa rientrano e rilevano certamente anche le condotte induttive. Sul concetto di "utilizzo" si erano espresse le Sezioni Unite della Suprema Corte con la citata sentenza n. 51815 del 31.5.2018 , che aveva delineato l'ambito della c.d. " pedopornografia domestica ", affermando, in linea con i principi enunciati nella Direttiva 2011/93/EU e nella Convenzione di Lanzarote, che non sussiste alcuna "utilizzazione del minore" (e pertanto il reato non è integrato) nei casi in cui il materiale pornografico sia stato prodotto e realizzato per un uso strettamente privato, all'interno di un rapporto di coppia paritario (inteso come scevro da condizionamenti derivanti dalla posizione dell'autore), con il consenso, libero ed effettivo, della persona ultraquattordicenne ripresa e/o fotografata. Le Sezioni Unite del 2018 si erano però soffermate unicamente sui rapporti "paritari" instaurati dal minore ultraquattordicenne, così lasciando fuori tutti quei casi di relazione tra minore e adulto . Della questione si sono peraltro interessate nuovamente le Sezioni Unite, che con la sentenza n. 4616 del 28.10.2021 , nel dare una risposta alla questione dei rapporti minorenne-adulto, hanno enunciato una serie di importanti principi di diritto. Secondo la Corte, posto che non tutte le condotte di produzione e realizzazione di immagini e video pornografici aventi ad oggetto minorenni sono reato, ma soltanto quelle che hanno "utilizzato" i minori - e posto che nel caso in cui il minore sia infraquattordicenne tale utilizzo è in re ipsa , in quanto il minore non ha ancora raggiunto l'età minima che la legge stabilisce per prestare il proprio libero e valido consenso -, nel caso in cui vi sia "utilizzazione" del minore ultraquattordicenne, nessuna valenza (esimente o scriminante) può essere riconosciuta al suo eventuale consenso, dal momento che la stessa strumentalizzazione effettuata produce nel minore la formazione un consenso non libero, ma viziato e determinato dall'abusività della condotta dell'adulto. Il discrimine tra il penalmente rilevante e il penalmente irrilevante, in quest'ultima ipotesi, non è dunque il consenso del minore in quanto tale - che comunque deve sussistere -, ma la configurabilità dell'utilizzazione. Al riguardo, è stato precisato che il termine "utilizzazione" sta ad indicare la condotta di chi manovra, adopera, strumentalizza o sfrutta il minore servendosi dello stesso e facendone un uso nel proprio interesse, piegandolo ai propri fini come se fosse uno strumento. Vi sono una serie di elementi-indice dai quali è possibile ricavare la condizione di "utilizzazione" del minore. Invero, la nozione di utilizzazione (che ha sostituito il termine "sfruttamento" presente nell'originaria stesura della norma) evoca innanzitutto una "strumentalizzazione" del minore e la sua riduzione a res per il soddisfacimento di desideri sessuali di altri soggetti, ovvero per conseguire un utile. In altre parole, c'è "utilizzo" del minore quando ricorre, alternativamente, una condizione di abuso, approfittamento, costringimento, istigazione e induzione (quest'ultima condotta, pur espressamente prevista dal n. 2 del primo comma dell'art. 600 ter c.p., è anch'essa una modalità di "utilizzo") da parte del produttore/realizzatore delle immagini, con conseguente asservimento del minore per un vantaggio altrui, anche non direttamente economico. Dunque, anche le condotte induttive e istigative possono integrare il requisito dell'utilizzo del minore, e l'utilizzazione del minore può manifestarsi non solo quando l'agente realizzi egli stesso la produzione di tale materiale, ma anche quando induca o istighi il minore a tali azioni. La condotta di utilizzo può essere desunta, in concreto, da una serie di elementi: dalla posizione di supremazia ricoperta dall'agente nei confronti del minore; dal differenziale di potere tra i due; dalle modalità con cui il materiale pornografico viene prodotto (inganno, minaccia, violenza), dal fine commerciale e dall'età e dalla maturità del minore (soprattutto per la fascia di età compresa tra i 14 e i 16 anni, quando è molto elevato il rischio di condizionamenti esterni e la maturità del minore è ancora limitata), senza che rilevi la familiarità del minore a divulgare le proprie immagini erotiche, in quanto tale tendenza è spesso sintomatica di una particolare fragilità della persona offesa. Devono in altri termini essere accertate forme di coercizione o di condizionamento della volontà del minore stesso, restando escluse dalla rilevanza penale solo condotte realmente prive di offensività rispetto all'integrità psico-fisica dello stesso. Si resta inoltre nell'ambito della pornografia domestica non punibile (ossia quando il materiale è prodotto all'interno del rapporto di coppia, senza forme di utilizzazione e col consenso del minore ultraquattordicenne), soltanto quando il materiale resta nella disponibilità esclusiva delle parti coinvolte nel rapporto. Tale materiale non può infatti mai essere posto in circolazione, perché, in caso contrario, il minore, ancorché inizialmente non "utilizzato", deve essere ritenuto, secondo una valutazione ex post , strumentalizzato, con la conseguenza che il materiale deve essere ritenuto prodotto con utilizzazione del minore, trovando in questo caso applicazione il primo comma dell'art. 600 ter c.p., ovvero i commi successivi, a seconda che la diffusione del materiale sia il frutto di una determinazione originaria o successiva dell'agente, a nulla rilevando l'eventuale consenso del minore, non avendo egli ancora raggiunto quella maturità necessaria a consentirgli una valutazione consapevole in ordine alle ricadute negative nella mercificazione del suo corpo attraverso la divulgazione delle immagini erotiche. In definitiva, anche nei casi in cui sia accertato che il comportamento complessivo dell'imputato non sia stato corretto, e che vi sono plurimi elementi che portano a biasimare profondamente la sua condotta, soprattutto in relazione alla grande differenza di età rispetto al minore, se non si ravvisa in tale condotta alcuna induzione o istigazione e, dunque, alcuna "utilizzazione" del minore, e tenendo presente che occorre mantenere sempre distinto il giudizio morale dal giudizio penale, la formula assolutoria non può essere che piena (“il fatto non sussiste”).
08 gen, 2023
Tribunale di Nocera Inferiore, Sezione Penale, sentenza n. 1073 del 3 giugno 2022, depositata il 14 giugno 2022 IL CASO E LA DECISIONE Un soggetto aveva denunciato di non avere mai ricevuto un rimborso di quasi quattromila euro da parte di Enel, emesso in suo favore a mezzo di assegno bancario non trasferibile spedito al suo indirizzo. Tale assegno risultava peraltro riscosso da diversa persona, la cui firma era presente sia sul fronte che sul retro del titolo. A fronte dell’accusa di riciclaggio nei confronti del soggetto che aveva incassato l’assegno a lui non intestato, dall’istruttoria dibattimentale è stato innanzitutto accertato, seppure incidentalmente, che l’incasso è stato preceduto dal delitto di furto dell’assegno incassato. Il Tribunale penale adito ha dedotto tale circostanza dal fatto che il titolo, nonostante fosse stato inviato al suo legittimo beneficiario, tramite posta ordinaria, non era però mai arrivato all'indirizzo di quest'ultimo, e ciò era spiegabile logicamente soltanto ipotizzando una sottrazione del titolo stesso nel corso del trasporto. Una volta rubato, il titolo è stato cambiato nella sua intestazione – con l’individuazione di un beneficiario diverso da quello originario – e portato all’incasso dall’imputato. Secondo il Giudice di primo grado, nel caso di specie non si è concretizzato però il delitto di riciclaggio – che è un reato a forma libera il cui elemento materiale è costituito da qualunque attività di trasformazione della cosa finalizzata ad impedire o a rendere più difficoltosa l'identificazione della sua provenienza illecita - bensì un'ipotesi di ricettazione, perché, se è vero che è stato versato sul conto dell’imputato un assegno di provenienza illecita, previa sostituzione delle generalità del beneficiario con le proprie, è altresì innegabile che non sono stati manomessi gli elementi identificativi dell'istituto bancario emittente né i numeri di serie del titolo, giacché, in tal caso, non risulta concretamente occultata l'origine illecita dello stesso. In altri termini, secondo il Giudice adito, non era ravvisabile, nel caso di specie, alcuna condotta volta a mascherare l' origine delittuosa del bene , cosicché è risultato carente l'elemento caratterizzante il delitto di riciclaggio. Quanto alla piena responsabilità dell’imputato per il reato di ricettazione e non anche per il reato presupposto di furto – la cui commissione avrebbe a quel punto impedito la punibilità per il reato susseguente -, il Tribunale di Nocera Inferiore, anche in considerazione della mancata comparizione dell’interessato, non ha rinvenuto nell’istruttoria dibattimentale elementi per affermare che a rubare il titolo fosse stato proprio l'imputato, mentre, al contrario, era stato provato al di là di ogni ragionevole dubbio che il soggetto accusato avesse ricevuto l'assegno in questione, avendone avuto la disponibilità, come dimostrato dal fatto di avere poi provveduto a versarlo sul suo conto. E’ stato inoltre accertato in modo inequivoco che colui che aveva versato l’assegno era proprio l’imputato in prima persona, in quanto costui era stato identificato, all’atto dell’incasso, tramite la sua patente di guida registrata nell'anagrafica clienti della banca, e vi era perfetta coincidenza tra i dati anagrafici (incluso l'indirizzo di residenza) del soggetto incassatore e quelli del titolare del conto su cui era stato versato il titolo. Inoltre, le due firme apposte sull'assegno erano del tutto analoghe a quella in calce alla nomina del difensore dell'imputato, ritualmente autenticata dal legale e acquisita agli atti, elemento che, così come la titolarità del conto, aveva consentito di escludere che a incassare il titolo fosse stato un soggetto che aveva impropriamente speso il nome dell'incolpato. Dal punto di vista dell’elemento soggettivo del reato, poi, il Giudice adito ha ritenuto sufficiente che l'imputato non avesse fornito alcuna spiegazione circa la provenienza del bene ed il motivo per cui lo deteneva; la sua buona fede andava senz’altro esclusa con certezza, posto che l’imputato stesso aveva sicuramente ben presente di non essere il legittimo intestatario di un assegno versato e contraffatto con riferimento al nome del beneficiario. Il fine specifico di conseguire un profitto , poi, nel caso di specie, sarebbe coinciso con l'intenzione di incassare l'assegno originariamente intestato ad altro soggetto al fine di ottenere indebitamente la relativa somma di denaro. L’imputato è stato dunque condannato per ricettazione e non per riciclaggio, con riqualificazione giuridica dell’originaria contestazione. RICETTAZIONE E FATTI DI RICICLAGGIO: REATI A CONFRONTO La condotta penale di ricettazione ( art. 648 c.p. ) consiste nell’acquisto, nella ricezione o nell’occultamento di cose o denaro provenienti da un qualunque delitto. E’ un delitto con dolo specifico (fine di procurare a sé o ad altri un profitto) e senza evento materiale, che tende a proteggere il bene-patrimonio in senso ampio (ma anche, in taluni casi, i beni protetti dal diverso delitto presupposto), introducendo un (ulteriore) ostacolo alla circolazione della refurtiva. La condicio sine qua non perché il ricettatore sia punibile a titolo di ricettazione, sta nel non avere commesso o essere stato concorrente nel reato presupposto, ovvero quello da cui è scaturito il possesso della refurtiva. O l’uno o l’altro. Il reato di riciclaggio è invece previsto dall’ art. 648-bis c.p. , e si configura quando un soggetto sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni che ostacolino l'identificazione della loro provenienza delittuosa. Anche in questo caso non deve esserci previa commissione o concorso da parte del riciclatore nel reato presupposto, mentre il dolo è generico. I beni giuridici protetti sono plurimi (si parla infatti di delitto plurioffensivo), in quanto le condotte di riciclaggio non offendono solo l'ambito patrimoniale, ma incidono anche sull'interesse all'accertamento dei fatti e inquinano il mercato, falsandone la libera concorrenza; sono così tutelati, oltre al patrimonio, anche l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico e l’ordine economico. Rispetto all’ipotesi “confinante” e similare di autoriciclaggio ( art. 648-ter.1 c.p. ), che però punisce proprio e solo lo stesso soggetto che ha commesso il reato presupposto e poi prova con operazioni economiche ad ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa, la giurisprudenza si è consolidata nel senso di ritenere ipotizzabile l’ipotesi di riciclaggio – e non di concorso in autoriciclaggio – per le condotte di coloro che, non avendo concorso nel delitto-presupposto, contribuiscano alla realizzazione del reato di cui all'art. 648-ter.1 c.p.. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, poi, il delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione in relazione all' elemento materiale , che si connota per l'idoneità ad ostacolare l'identificazione della provenienza del bene, e all'elemento soggettivo, costituito dal dolo generico di trasformazione della cosa per impedirne l'identificazione. A tale riguardo, peraltro, in presenza di una condotta idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa, il concreto intento di lucro può valere a rafforzare, ma non certo ad escludere, il dolo generico del riciclaggio. L’occultamento dell’origine illecita non viene ravvisata, dalla giurisprudenza prevalente, nella condotta di chi versi sul proprio conto corrente o libretto di deposito assegni di provenienza illecita, previa sostituzione delle generalità del beneficiario con le proprie, ma senza manomettere gli elementi identificativi dell'istituto bancario emittente, né i numeri di serie dei titoli, come avvenuto nel caso affrontato dal Tribunale di Nocera Inferiore. In tale ipotesi, è invece possibile in concreto una condotta di ricettazione, qualora sia certa la provenienza delittuosa del bene, senza che sia congiuntamente necessario l'accertamento giudiziale della commissione del delitto presupposto, né dei suoi autori, né dell'esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l'esistenza attraverso prove logiche; stesso concetto è stato espresso dalla giurisprudenza con riferimento ai reati di riciclaggio e autoriciclaggio, rispetto ai quali non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo, e che il giudice procedente per i fatti di riciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza. D’altra parte, ai fini della configurabilità del delitto successivo – concetto ribadito dal Tribunale di Nocera Inferiore con particolare riferimento all’ipotesi di ricettazione - non occorre la prova positiva che il soggetto attivo non sia stato concorrente nel delitto presupposto, essendo sufficiente che non emerga la prova del contrario, e una condotta dibattimentale di “silenzio” da parte dell’imputato, con omessa prospettazione da parte sua di una ricostruzione alternativa e plausibile dei fatti in addebito, pur non potendo essere valutata come prova a carico, ben può essere valorizzata dal giudice come argomento di supporto della assenza di ipotesi suscettibili di minare il giudico di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio già espresso sulla base delle prove acquisite. Quanto infine all' elemento soggettivo del reato ravvisato nel caso di specie dal Giudice di primo grado, il dolo specifico di ricettazione, consistente nella volontà di acquistare, ricevere o occultare al fine di profitto, si deve accompagnare alla generica consapevolezza della provenienza delittuosa della cosa, con una conoscenza che non deve estendersi alla precisa e completa cognizione delle circostanze di tempo, di luogo e di modo del reato principale, essendo invece sufficiente la consapevolezza di acquistare cose provenienti da delitto. La prova di tale consapevolezza può ricavarsi anche dalla mancanza di adeguata giustificazione sull'origine e provenienza del bene.
23 nov, 2022
Tribunale di Nola, sentenza del 19/05/2022, n. 1048 IL CASO E LA DECISIONE Un soggetto presentatosi al cospetto di un’agenzia immobiliare come possibile nuovo locatario di un immobile di proprietà altrui, si faceva consegnare dalla citata agenzia le chiavi dell’edificio, per poter verificare lo stato del cespite e la corrispondenza di esso rispetto alle sue aspettative, consegnando a garanzia della serietà del suo interessamento un assegno tratto da un conto corrente a lui non riconducibile, e pertanto non incassabile. Si trasferiva dunque con il suo mobilio e i suoi familiari nel predetto immobile, di fatto occupandolo, e non consentiva più ai legittimi proprietari, adoperando nel tempo diversi stratagemmi per potersi sottrarre al confronto con loro, di riprendere possesso del loro bene. Secondo il Giudice di primo grado, l'istruttoria dibattimentale ha pienamente confermato l'ipotesi accusatoria, con la conseguenza che l'imputato è stato dichiarato colpevole del reato a lui ascritto. L' invasione di edifici altrui contestata ai sensi dell'art. 633 c.p. si è concretizzata nell'utilizzo di uno stratagemma per occupare l'immobile appartenente a diverso soggetto, senza che tale immobile fosse in alcun modo nel possesso, neanche precario, dell'occupante. E' stato infatti accertato che l'imputato non avesse alcun titolo legittimante la detenzione o il possesso dell'immobile stesso, in ragione dello stadio di mere trattative a cui era ferma la contrattazione relativa ad una possibile locazione. L'imputato, attraverso l’espediente fraudolento consistito nel consegnare al mediatore immobiliare un assegno tratto da un contratto di conto corrente intestato ad altra persona, con firma diversa da quella depositata, a titolo di mera "cauzione", era riuscito a farsi consegnare le chiavi per un accesso momentaneo finalizzato alla valutazione delle misure dell'immobile, per poi appropriarsene in maniera definitiva. Secondo il Tribunale di Nola, il sopra descritto espediente fraudolento di accesso all'immobile ha configurato l' arbitrarietà dell'invasione , nel senso pacificamente recepito dalla giurisprudenza costante, secondo cui al concetto di invasione risulta estranea qualsiasi accezione di un ingresso attuato in maniera violenta, ma rileva soltanto il comportamento di colui che si introduce contra ius , in quanto privo del diritto d'accesso. D'altra parte, l 'istruttoria dibattimentale non ha dimostrato la precedente immissione in un possesso pacifico e tollerato del bene da parte dell'occupante, unica condizione che secondo la giurisprudenza di legittimità escluderebbe il concetto di "invasione" penalisticamente rilevante. Era da ritenersi sussistente, inoltre, secondo quanto emerso sempre dall’istruttoria dibattimentale, l’elemento soggettivo del reato contestato, in quanto risultava che l’imputato, dopo avere trasferito nella nuova casa la sua mobilia e stipulato in suo favore un contratto di energia elettrica facente riferimento all’immobile occupato, fosse poi stato invitato a lasciare l'appartamento sia telefonicamente sia mediante visite personali da parte del marito della persona offesa e dello stesso agente immobiliare, senza peraltro alcun risultato. IL REATO. FATTISPECIE A CONFRONTO E NUOVE NORME "ANTI-RAVE" Il reato di invasione di terreni o edifici è collocato nel codice penale tra i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone. Si tratta cioè di norme che puniscono l’aggressione del patrimonio altrui attuata tramite una particolare modalità di condotta, connotata da una vis che eccede i limiti della normale tollerabilità. Nel caso dell’ art. 633 c.p. , “l’invasione” punita deve essere arbitraria – cioè non conforme alle normali modalità relazionali di ospitalità – e finalizzata all’occupazione o comunque al conseguimento di un profitto. Si tratta di reato di mera condotta – senza cioè un evento naturalistico connesso alla modificazione della realtà fenomenica – e con dolo specifico, in cui la precipua finalità si deve necessariamente accompagnare alla generica rappresentazione e volontà dell’azione, ciò che ne marca in primis la differenza rispetto alla condotta di violazione di domicilio . In tale ultima fattispecie, infatti, basta l’assenza di consenso del titolare del diritto ad excludendum a rendere illecita e penalmente rilevante l’azione di introduzione nella dimora altrui. Inoltre, mentre non ogni turbativa del possesso comporta un’invasione ex art. 633 c.p. – bensì soltanto quella che realizzi un apprezzabile depauperamento, con corrispondente apprezzabilità di durata, delle facoltà di godimento del terreno o dell’edificio da parte del titolare dello ius excludendi -, nella violazione di domicilio difetta il carattere della necessaria permanenza prolungata nell’immobile altrui. Nel caso esaminato, il Giudice di primo grado ha condannato l’imputato per il reato a lui ascritto, richiamando l’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui la norma di cui all'art. 633 c.p., punendo la condotta tipica consistente nella invasione dall'esterno di un edificio altrui, del quale non si abbia il possesso o la detenzione, non è posta a tutela di un diritto, bensì di una situazione di fatto tra il soggetto e la cosa , per cui tutte le volte in cui si sia entrati legittimamente in possesso del bene deve escludersi la sussistenza del reato. Sempre secondo il Tribunale adito, al concetto di invasione risulta estranea qualsiasi accezione di un ingresso attuato in maniera violenta, rilevando ai fini della fattispecie in esame, per costante giurisprudenza, il comportamento di colui che si introduce "arbitrariamente" e cioè, contra ius , in quanto privo del diritto d'accesso. La conseguente "occupazione" deve ritenersi pertanto l'estrinsecazione materiale della condotta vietata, sebbene la giurisprudenza assolutamente dominante configuri il reato come eventualmente permanente , con ciò che ne consegue in termini di consumazione dello stesso, e decorrenza del termine di prescrizione dal momento in cui cessa l'occupazione, con l'allontanamento dell'occupante dall'edificio. Il reato in questione ha un’oggettiva linea di confine anche rispetto al nuovo reato di “ Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica ”. Invero, il decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, all’art. 5 , rubricato «Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali», ha introdotto, all’interno del titolo del codice penale dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica, la nuova fattispecie delittuosa di cui all’ art. 434-bis c.p. . (1) La norma incriminatrice, già ribattezzata “anti-rave” (sull’onda di un recente caso di cronaca che ha goduto di un’ampia copertura mediatica), appare in realtà idonea a sanzionare, in astratto, una serie assai più ampia di condotte, e viene direttamente ad incidere sull’esercizio del diritto di riunione, costituzionalmente garantito dall’ art. 17 della Costituzione . La fattispecie criminosa consiste, per espressa definizione legislativa, nell'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno , quando dallo stesso può derivare un pericolo per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica. Sono puniti per la commissione di tale reato sia gli organizzatori e i promotori (con la reclusione da tre a sei anni più multa), sia i semplici partecipanti “all’invasione” (con pena diminuita di un terzo). La norma, pur avendo un minimo comune denominatore con il delitto di cui all’art. 633 c.p. (invasione arbitraria di terreni o edifici altrui), differisce dall’invasione “classica” per il numero minimo di persone che devono essere coinvolte (da cinquantuno in poi), per lo scopo ultimo perseguito (dolo specifico di organizzazione di un raduno) e per i beni-interessi tutelati, che sono individuati alternativamente nell’ ordine pubblico , nell’ incolumità pubblica o nella salute pubblica . Invero, mentre l'art. 633 del codice penale è diretto a tutelare l'inviolabilità e l'integrità della proprietà immobiliare, specificatamente intesa come diritto d'uso e di godimento di tali beni (di modo che il delitto può essere commesso anche dal proprietario stesso, in pendenza di un rapporto di locazione), il nuovo reato di cui all'art. 434-bis c.p. introduce nell'ordinamento una fattispecie di pericolo , connessa al turbamento delle condizioni di tranquillità e benessere della società nel suo complesso, in cui la condotta tipica (invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, anche pubblici) diviene particolarmente grave per la finalità perseguita (organizzazione di un raduno) e la numerosità dei soggetti coinvolti. D'altra parte, l’interpretazione estensiva del concetto di invasione che è stata offerta dalla giurisprudenza dominante con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 633 c.p., e che si accompagna all’idea, volta a valorizzare la reale proiezione offensiva della fattispecie, secondo la quale, a dispetto della formulazione letterale, la conseguente “occupazione” costituirebbe «l’estrinsecazione materiale della condotta vietata» e non solo, quindi, la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione, una volta r icondotta all’ipotesi di reato di cui all’art. 434-bis, rischia di creare una sovrapposizione tra la condotta di invasione ed il successivo raduno «pericoloso», suggerendo l’idea che chi si raduna già invade, con il rischio di una sorta di criminalizzazione indiscriminata ai danni di qualsivoglia partecipante al raduno stesso, a dispetto delle reali intenzioni di costui. In realtà, già così come è stata scritta - e sorvolando per il momento sugli aspetti di più rilevante distonia con alcuni precetti costituzionali - la norma porta in sé alcuni importanti dubbi applicativi: l'organizzazione del raduno deve precedere o essere preceduta dall'invasione? Cosa si intende esattamente per raduno (nella lingua italiana raduno è " il radunarsi di molte persone, provenienti da parti diverse, in un luogo, per partecipare a una pubblica manifestazione di carattere vario ")? Cosa succede se l'organizzazione del raduno invita un numero di persone inferiore a cinquanta e poi se ne presentano di più? La fattispecie punisce la mera presenza ad un raduno illegale di tot persone, anche sopravvenute sul posto, o tutte insieme devono necessariamente partecipare, contestualmente, all'invasione? E' una nuova frontiera di arretramento della tutela penale che lascia molto perplessi e che - svincolata com'è da un legittimo e concreto interesse patrimoniale - individua una sproporzionata sanzione per condotte di pericolo concreto, il cui accertamento è in ultima analisi legato a valutazioni tipicamente soggettive, e il cui apprezzamento "strumentalizza" i rischi che corrono gli stessi soggetti (partecipanti al raduno) puniti per la mera partecipazione, in stridente contrasto con il principio di offensività. (1) In sede di conversione del decreto-legge che ha introdotto la nuova disposizione penale, è stata modificata la collocazione nel codice delle norma, con cambio di numero del corrispondente articolo (da art. 434-bis c.p., che è stato quindi abrogato, ad art. 633-bis c.p. , il quale punisce adesso, con la reclusione da tre a sei anni più multa, la condotta di chi " organizza o promuove l'invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento , (...) quando dall'invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l'incolumità pubblica a causa dell'inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento, anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi " .
03 ott, 2022
Ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Trapani in data 13/12/2021/ Ordinanza del 1/2/2022 della Corte di appello di Palermo/ Cassazione penale sez. VI - 30/05/2022, n. 24754 IL CASO Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani aveva applicato nei confronti del vicesegretario di un piccolo Comune siciliano la misura interdittiva della sospensione dal pubblico ufficio, misura poi confermata in sede di appello cautelare dal Tribunale di Palermo. Secondo l’impostazione dell’accusa – così come accolta dai Giudici di prime e seconde cure -, l’indagato, nelle vesti di pubblico ufficiale, avrebbe rivelato alla sindaca dell'ente, che in quel momento era sospesa dalle funzioni in forza di provvedimento prefettizio, e al difensore di questa, notizie coperte da segreto, e, in particolare, quelle emergenti dagli atti delle indagini preliminari condotte per reati in materia di urbanistica dalla polizia municipale comunale nel procedimento a carico di altro soggetto. Nella fattispecie, la ricostruzione dell’accusa è nel senso che l'indagato avrebbe consegnato al legale copia di tutti gli atti a disposizione del comando di polizia municipale, nonostante il vincolo del segreto di indagine di cui all’ art. 329 c.p.p. e nonostante che, per tale ragione, il comando di polizia municipale avesse comunicato all'interessata la necessità di specifica autorizzazione dell'autorità giudiziaria procedente. Materialmente, il vicesegretario, in mancanza del funzionario proposto al servizio, e nella sua qualità, aveva acquisito la documentazione in questione presso il Comando dei Vigili e aveva poi trasmesso al difensore dell’indagata - a seguito di richiesta del legale stesso - la comunicazione di notizia di reato redatta dalla polizia municipale del Comune in cui lavorava, oltre che il verbale di sopralluogo, atti che peraltro erano già conosciuti dalla sindaca in epoca precedente alla richiesta, in quanto costei, nella qualità pubblicistica dianzi descritta, aveva disposto il sopralluogo, venendo poi notiziata degli esiti e della successiva trasmissione alla Procura della Repubblica competente. Risultava inoltre che nessun atto di indagine nuovo e successivo alla comunicazione di notizia di reato era stato trasmesso alla sindaca. La Corte di Cassazione, investita dal ricorso dell’indagato finalizzato all’annullamento dell’ordinanza del Tribunale di Palermo, ha disatteso in punto di fumus la ricostruzione operata dall’accusa, statuendo che, alla luce della ricostruzione dei fatti sopra evidenziata, non sussisterebbe il reato contestato, in quanto le notizie d'ufficio ancora segrete erano state rivelate a un soggetto che, ancorché estraneo, nel caso di specie, al meccanismo istituzionale pubblico di acquisizione delle notizie stesse, le aveva già conosciute, né si era oltrepassato il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto fornito da tale soggetto alla formazione della notizia coperta da segreto, in quanto la sindaca, alla quale la comunicazione di notizia di reato e gli atti allegati erano stati diretti, attraverso il difensore che aveva attivato la richiesta evasa dall'indagato, era già a conoscenza della esistenza della informativa di polizia giudiziaria che ella stessa aveva determinato avviando il sopralluogo, e gli atti trasmessi coincidevano proprio con quelli svolti presso l'amministrazione comunale, senza coinvolgere la successiva fase investigativa, svolta dinanzi al Pubblico Ministero. IL REATO E L’INTERESSE TUTELATO Il delitto previsto e punito dall’ art. 326, comma 1 del codice penale è un reato proprio , in quanto incrimina quale soggetto attivo del reato stesso soltanto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio. La condotta è complessa, perché consiste nella rivelazione di notizie di ufficio le quali devono rimanere segrete, tramite violazione dei doveri inerenti alle funzioni e al servizio svolto , o comunque mediante abuso della sua autorità (locuzione che potrebbe avere un senso per i casi in cui la notizia sia acquisita dal pubblico ufficiale senza che lo stesso sia direttamente destinatario, per funzioni ricoperte, della stessa). Analoga pena (reclusione da sei mesi a tre anni) è stata prevista per chi agevola in qualsiasi modo - anche tramite omissione - la conoscenza delle notizie coperte da segretezza, salvo che l'agevolazione sia colposa (nel qual caso si applica la reclusione fino a un anno: comma 2). Ne deriva, dunque, che il reato di cui al comma 1 è punibile soltanto a titolo di dolo (generico), qualsiasi sia la forma in cui si manifesta il comportamento di rivelazione (rivelazione diretta o agevolazione volontaria). Sul piano materiale, occorre in pratica che sussistano, per il concretarsi di tale condotta, tre presupposti essenziali: la rivelazione di fatti o atti conosciuti per motivi di ufficio (ovvero acquisiti in ragione della professione svolta nell’ambito pubblico), un vincolo di segretezza afferente a tali notizie, e un dovere di non divulgazione verso quel determinato soggetto o quei determinati soggetti in favore dei quali avviene la rivelazione. In questa prospettiva, risulta evidente che il reato ex art. 326 cod. pen., comma 1, si configura anche qualora la rivelazione della notizia o l'agevolazione della sua conoscenza avvenga successivamente alla cessazione della qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, sempre però che il fatto si riferisca all'ufficio od al servizio esercitato, in ossequio al disposto di cui all'art. 360 c.p.. Quanto all'oggetto della rivelazione, si tratta di notizie di ufficio (ovvero di tutte le conoscenze relative ad atti o attività di un pubblico ufficiale o servizio, ai loro presupposti o alle loro conseguenze, oggettivamente inerenti ad un Ufficio pubblico, inteso quest'ultimo in senso ampio così da comprendere non solo la funzione amministrativa ma anche quella legislativa e giudiziaria), e di notizie segrete ma non semplicemente riservate, perché quest'ultime non vengono in considerazione in quanto titolo di reato, anche se il confine tra le due tipologie di notizie resta molto labile e non compiutamente definito dal legislatore. Ai fini della configurabilità del reato il dovere di segreto , cui è astretto il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, deve derivare da una legge, da un regolamento, ovvero dalla natura stessa della notizia che può recare danno alla pubblica amministrazione D'altra parte, in tema di accesso agli atti della P.A., non sono da considerarsi notizie segrete le informazioni, per le quali la diffusione sia genericamente vietata dalle norme sul diritto di accesso, nel momento in cui vengono indebitamente diffuse, perché svelate a soggetti non titolari del diritto o senza il rispetto delle modalità previste, ma soltanto, in ossequio al generale principio della tendenziale completa accessibilità agli atti, le notizie coperte da ipotesi di segreto normativamente e specificamente previste, dovendosi tenere distinte le singole categorie di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio dalla generica - e trasversale - categoria di impiegati civili dello Stato di cui al d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 15 . [1] La Corte di Cassazione, nel caso in commento, ha ribadito alcuni concetti fondamentali in ordine alla concreta configurabilità del delitto di rivelazione di segreti di ufficio. Innanzitutto, trattandosi di un reato di pericolo effettivo/concreto (e non meramente presunto) - nozione, questa, che prescinde dalla individuazione di un danno e che non si risolve nella mera rivelazione in sé e per sé della notizia da tenere segreta, imponendo la verifica, sulla base del caso concreto, della sua idoneità a creare pregiudizio agli interessi della pubblica amministrazione (in senso lato) o del terzo (bene tutelato) –, occorre che la notizia destinata a rimanere segreta, sotto il profilo materiale, sia portata a conoscenza di una persona non autorizzata. Di conseguenza, il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico , anche qualora notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta) ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute , fermo restando per tali ultime persone il limite della non conoscibilità dell'evoluzione della notizia oltre i termini dell'apporto da esse fornito. In altri termini, in tanto la rivelazione del segreto è punibile, in quanto è suscettibile di produrre un qualche nocumento agli interessi tutelati a mezzo della notizia da tenere segreta. Peraltro, quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto. Può dunque verificarsi, in concreto, una situazione in cui la norma imponga uno specifico vincolo di segretezza su alcune "notizie di ufficio" particolarmente sensibili (ad esempio in materia di voti dati e opinioni espresse altrui), con valutazione effettuata a priori dal legislatore, e non su altre "notizie di ufficio" acquisite contestualmente, ma pur sempre non conoscibili dalla generalità degli utenti (dal "pubblico"), per le quali occorrerà dunque verificare, di volta in volta, l'effettivo pregiudizio, in caso di rivelazione, per il bene tutelato dalla norma incriminatrice penale, anche secondo le specifiche coordinate espresse nel caso in commento dalla Corte di Cassazione. [1] Il testo dell'art. 15 del d.P.R. n. 3 del 1957, come sostituito dall'art. 28 Legge n. 241 del 1990, è stato così riformulato: " l'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall'ordinamento ".
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