Esempi ragionati di prova pratica

Esempi ragionati di prova pratica


31 ott, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA L’associazione temporanea di imprese X e la Zeta Costruzioni hanno partecipato ad una gara per l’affidamento di lavori sopra soglia. All’esito della procedura l’ATI X si è classificata al primo posto e la Zeta Costruzioni al secondo posto. Tuttavia, in sede di verifiche ex art. 89, comma 3 del d.lgs. n. 50 del 2016, la stazione appaltante riteneva non veritiera la dichiarazione del Consorzio Y (ausiliaria dell’ATI X) nella parte in cui aveva indicato la società J S.p.A. ai fini del raggiungimento del requisito della cifra d’affari in lavori - nel triennio antecedente al bando - oggetto del contratto di avvalimento, e, per l’effetto, dopo avere chiesto e ottenuto osservazioni sul punto dall’interessata ATI X, disponeva l’annullamento della proposta di aggiudicazione e l’esclusione della predetta ATI dalla procedura per falsità dichiarativa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), rimodulando la graduatoria finale e assegnando la prima posizione a Zeta Costruzioni. Due società facenti parte dell’ATI X impugnano la disposta esclusione – e nuova aggiudicazione -, ritenendo che il caso dovesse essere ricondotto all’ipotesi dell’omissione dichiarativa, ai sensi della lettera c-bis) dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, per la quale non potrebbe, in tesi, applicarsi l’automatismo espulsivo proprio della medesima lett. f-bis), di modo che la stazione appaltante avrebbe dovuto svolgere la valutazione di incidenza sull’integrità ed affidabilità del concorrente. Si sono costituite in giudizio l’amministrazione procedente e la controinteressata aggiudicataria, che hanno chiesto il rigetto del ricorso, eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione attiva delle società ricorrenti e sostenendo, nel merito, le seguenti argomentazioni, a sostegno dei provvedimenti impugnati: - l’amministrazione procedente ha ritenuto l’ipotesi di falsità nell’ambito della verifica sui requisiti di partecipazione alla gara della prima aggiudicataria ATI X, in conseguenza del fatto che una consorziata era stata precedentemente sospesa dall’ausiliario Consorzio Y, a causa dell’intervenuta scadenza dell’attestazione SOA della medesima consorziata, che infatti non figurava nell’attestazione SOA del Consorzio; - nella misura in cui il Consorzio Y aveva dichiarato nell’ambito della propria cifra d’affari complessiva quella di una consorziata che non poteva apportare nulla all’ente consortile, come a quest’ultimo noto per effetto della sospensione dallo stesso deliberata, l’ausiliario avrebbe pertanto reso una dichiarazione falsa, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), del codice dei contratti pubblici; - se pure la dichiarazione non veritiera «non abbia avuto un’incidenza rilevante ai fini della prova della sussistenza del requisito di partecipazione», nondimeno, in presenza di una dichiarazione falsa, non sarebbe stato consentito alla stazione appaltante alcun margine di valutazione; - il possesso dell’attestazione SOA da parte del consorziato sarebbe condizione necessaria non solo per l’ammissione al consorzio medesimo ma anche per il mantenimento dello status di consorziato, e la sospensione disposta nei confronti di quest’ultimo a causa della scadenza dell’attestazione SOA produrrebbe gli stessi effetti dell’estromissione dal consorzio medesimo impedendo allo stesso di disporre dei requisiti della consorziata sospesa sia con riferimento alla SOA che con riferimento alla cifra d’affari. Parte ricorrente, nella sua memoria finale, ha puntualizzato che non si tratterebbe di dichiarazione falsa, in quanto la cifra d'affari dichiarata era stata comunque conseguita - seppure non utilizzabile nel caso concreto -, circostanza, questa non contestata in giudizio; inoltre, secondo la difesa delle ricorrenti, rispetto all’ipotesi della falsità dichiarativa (o documentale) di cui alla lettera f-bis), quella relativa alle «informazioni false o fuorvianti» avrebbe un elemento specializzante, dato dalla loro idoneità a «influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione» della stazione appaltante. Nella sua memoria di replica, la controinteressata ha ulteriormente argomentato che, anche a volere accogliere la tesi di parte ricorrente, il ricorso andrebbe comunque respinto, in quanto la valutazione di incidenza può essere effettuata direttamente dal Giudice, sulla base della documentazione depositata agli atti, ed è in sé provata (l'influenza sulla decisione della stazione appaltante) dal fatto che era stata proposta in un primo tempo l'aggiudicazione proprio a favore dell'ATI X, aggiudicazione poi non confermata dopo le verifiche effettuate ex art. 89, comma 3 del d.lgs. n. 50 del 2016. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Preliminarmente, il Collegio deve esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata da resistente e controinteressata per asserito difetto di legittimazione attiva in capo alle ricorrenti. 1.2. La tesi non coglie nel segno, in quanto le due società che hanno impugnato gli atti nel presente giudizio fanno parte dell’Associazione temporanea di imprese che ha partecipato alla gara e dunque sono titolari – seppure in quota parte – della posizione soggettiva facente capo all'ente unitario a cui hanno contribuito a dare vita, in funzione della procedura concorsuale volta all’affidamento del contratto pubblico di loro interesse. L’eccezione deve dunque essere respinta. 2. Nel merito, il ricorso è fondato. 2.1. L’Adunanza plenaria n. 16 del 2020 ha chiarito, in fattispecie analoga, la differenza esistente tra falsità dichiarativa o documentale di cui alla lett. f-bis del comma 5 dell'art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 e l’ipotesi di falso consistente nel fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni della stazione appaltante sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione (art. 80, comma 5, lett. c-bis del citato d.lgs. n. 50). Quest’ultima ipotesi ha un elemento specializzante rispetto alla prima (come tale prevalente, nel caso di concorso apparente di entrambe le fattispecie) , costituito dalla idoneità delle informazioni false o fuorvianti a influenzare le decisioni della stazione appaltante; viene inoltre equiparata la dichiarazione/informazione falsa alla dichiarazione/informazione fuorviante, che può essere distinta dalla prima per un maggior grado di aderenza al vero, pur essendo anch’essa un’informazione potenzialmente e indebitamente incidente sulle decisioni inerenti alla procedura concorsuale. 2.2. L’automatismo espulsivo è proprio soltanto del falso dichiarativo di cui alla lettera f-bis, che costituisce oggi una fattispecie residuale connessa a ipotesi di obiettiva falsità, ovvero senza alcun margine di opinabilità, che non siano collegate all’adozione dei provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara; mentre, per il resto, rimane riservato uno spazio valutativo in capo all’amministrazione procedente, che non è dunque obbligata ad escludere automaticamente il concorrente a seguito della rilevata falsità. 3. Nel caso oggetto di controversia, peraltro, emerge dalle risultanze processuali che non ricorre un’ipotesi pacifica e obiettiva di dichiarazione falsa da parte dell’ausiliaria dell’ATI X, ma una fattispecie in cui il volume di affari allegato, pur certamente sussistente, non era utilizzabile, ai fini della gara, per la situazione di sospensione di una delle consorziate dell'ausiliaria. D’altra parte, che sussistesse o meno il fondamento di tale sospensione – e che tale sospensione fosse o meno realmente impeditiva rispetto alla considerazione del fatturato della consorziata come parte integrante del requisito economico complessivamente richiesto - era una circostanza di natura giuridica che, come tale, non poteva essere ricondotta all'alternativa logica falso/vero. 3.1. Né ha rilievo la qualificazione della condotta tenuta dalla consorziata come falsità o come omissione dichiarativa, in quanto l’elemento comune tra le due fattispecie è dato dal fatto che in nessuna di queste fattispecie si ha l’automatismo espulsivo proprio del falso dichiarativo di cui alla lettera f-bis). 4. Ricorre pertanto, nel caso di specie, l’ipotesi di cui alla lett. c-bis del comma 5 dell'art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, cui consegue l'illegittimità dell'esclusione dalla gara dell'ATI X in relazione al mero falso dichiarativo, e la necessità per la stazione appaltante di valutare, ad esito di adeguata istruttoria, se l’informazione fuorviante sia stata decisiva nell’indurre l’amministrazione procedente a proporre, in prima battuta, l’aggiudicazione in favore dell'originaria aggiudicataria. In particolare, è necessario stabilire, preliminarmente, se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante; se inoltre la stessa era in grado di sviare le valutazioni dell'amministrazione; e, infine, se il comportamento tenuto dall’operatore economico incida in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità. 5. Tale valutazione, peraltro, non può essere effettuata "in sostituzione" dal Giudice, come eccepito dalla controinteressata nella memoria di replica, ma deve restare in ogni caso riservata alla stazione appaltante, pena la violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., trattandosi di poteri amministrativi non ancora esercitati. 5.1. D’altra parte, nel momento in cui l’amministrazione effettui in concreto la valutazione, permane intatta la possibilità per il Giudice di sindacare la correttezza dell’esercizio di un potere che deve essere informato ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e attendibilità della scelta effettuata, e fermo restando che soltanto la stazione appaltante può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel futuro contraente. 6. Il ricorso deve dunque essere accolto e gli atti impugnati annullati, con obbligo per l’amministrazione procedente di riesaminare la dichiarazione controversa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis del codice dei contratti pubblici. 7. Le spese del giudizio seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione. Condanna in solido l’amministrazione resistente e la società controinteressata a rifondere le spese processuali sostenute dalla parte ricorrente, che liquida in complessivi € ______, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
26 ott, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Tizio, cittadino straniero, chiede in giudizio l’accertamento dell’illegittimità del silenzio tenuto dalla Prefettura procedente sulla domanda di emersione del lavoro irregolare presentata in suo favore ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. 19 maggio 2020 n. 34. Nella prospettazione del cittadino straniero, essendo ormai decorsi i termini ordinari di conclusione del relativo procedimento (individuabili in trenta giorni, in assenza di previsione di diverso termine), il Ministero competente sarebbe dunque obbligato a provvedere. In effetti, alla data della proposizione del ricorso, erano già trascorsi quattro mesi dal momento della istanza inoltrata in favore dello straniero. Si costituisce in giudizio il Ministero dell’Interno, eccependo preliminarmente l’inammissibilità della proposta azione avverso il silenzio, per mancata diffida ad adempiere, oltre che per mancata notificazione del ricorso al datore di lavoro che ha presentato in favore dello straniero la domanda ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. 19 maggio 2020 n. 34. Nel merito, l’amministrazione ha chiesto il rigetto del ricorso, sulla base delle seguenti, concorrenti allegazioni, come supportate dal contestuale deposito di sentenze di merito conformi alla tesi della difesa erariale: - assenza di un termine normativamente previsto: - non applicabilità della disciplina dei termini di cui all’art. 2 della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti riguardanti l’immigrazione; - eccezionalità in tale contesto delle procedure di emersione; - assenza di pregiudizio concreto arrecato all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Il ricorso è fondato, per quanto di ragione. 1.1. In materia di domanda di emersione del lavoro irregolare di cui all’art. 103, comma 1 del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, si è formato un orientamento giurisprudenziale (che ha recepito un precedente indirizzo su fattispecie similare del passato) volto a negare la sussistenza di un termine entro il quale l’amministrazione procedente deve concludere il procedimento, di cui anche la difesa erariale ha dato atto nella sua memoria. Tanto, in considerazione dell’assenza di un termine normativamente previsto, della non applicabilità della disciplina dei termini di cui all’art. 2 della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti riguardanti l’immigrazione, della eccezionalità in tale contesto delle procedure di emersione e dell’assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi. 1.2. Il Collegio non può condividere questa impostazione, ritenendo, da un lato, che la stessa crei una frizione con valori costituzionalmente tutelati (oltre che, nel suo riflesso processuale, un vuoto di tutela giurisdizionale), dall’altro, che sussistano elementi interpretativi del dato normativo di segno contrario rispetto a quanto sostenuto e sopra richiamato in materia. 2. Occorre preliminarmente evidenziare che l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo (di tutti i procedimenti amministrativi) entro un determinato termine costituisce diretta applicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 97, comma 2 della Costituzione, secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati (…) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell'amministrazione”. Il buon andamento della “macchina” organizzativa pubblica presuppone la possibilità per il cittadino che ad essa si rivolge di poter contare su tempi certi – e possibilmente ragionevoli – nella conclusione di un procedimento che debba obbligatoriamente conseguire ad una istanza. In altri termini, se specifiche disposizioni normative prevedono che l’interessato possa conseguire un bene della vita soltanto tramite l’intermediazione dell’autorità pubblica e l’interessato in questione si attiva per conseguire concretamente tale bene, sarebbe contrario al principio costituzionale del “buon andamento” lasciare all’amministrazione la scelta di rispondere o meno. Ogni soluzione diversa dall’obbligo di concludere il procedimento amministrativo “mediante l'adozione di un provvedimento espresso” (così come è in effetti previsto dall’art. 2, comma 1 della L. n. 241 del 1990) – e salve le ipotesi di silenzio significativo -, si tradurrebbe nel conferimento ai pubblici uffici di un potere arbitrario, tipico di uno Stato non democratico. Tale potere arbitrario, inoltre, in quanto astrattamente esercitabile a discrezione, in casi “selezionati” di volta in volta dal preposto a quel singolo procedimento, determinerebbe inevitabilmente anche una lesione dell’altro principio espressamente tutelato dalla Costituzione in materia di pubblici uffici, ovvero l’imparzialità dell’azione amministrativa. Si arriverebbe infatti al paradosso, lasciando piena libertà sull’an e sul quando dell’agere pubblico provvedimentale, di avere, in ordine alla stessa tipologia di istanze, soggetti privilegiati (quelli che, in relazione all’ambito territoriale o burocratico di riferimento, ricevono riscontro alla loro istanza) e soggetti sfavoriti (quelli che, in un diverso ambito territoriale o burocratico di riferimento, non ottengono alcun riscontro alla loro istanza). Verrebbe meno, inoltre, accogliendo un’impostazione diversa dall’obbligatorietà della conclusione di ogni procedimento con provvedimento espresso o anche implicito (qualora ricorrano ipotesi di silenzio diniego o di silenzio assenso), ed entro tempi certi, anche la possibilità di tutela giurisdizionale rispetto all’inerzia dell’amministrazione, con lesione dell’art. 24 della Costituzione, secondo cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. E’ infatti ovvio che dietro un’istanza vi sia sempre una posizione soggettiva in fase di espansione o di perfezionamento, e che l’inerzia dell’amministrazione preclude a tempo indeterminato l’ottenimento del bene della vita a cui aspira l’interessato, obiettivo non adeguatamente raggiungibile con il risarcimento del danno per equivalente (che necessita in ogni caso di idonea prova). 2.1. Il meccanismo di tutela giurisdizionale previsto nell’ipotesi di silenzio inadempimento è peraltro inscindibilmente connesso allo “sforamento” del termine di conclusione del procedimento, tanto è vero che il codice del processo amministrativo stabilisce, all’art. 31, comma 1, che soltanto “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”. Senza l’individuazione di un termine di conclusione del procedimento, dunque, l’art 31 diventa inapplicabile – e conseguenzialmente anche l’art. 117 c.p.a. -, perché l’assenza di un termine implica anche l’impossibilità di agire processualmente contro l’inerzia dell’amministrazione. 2.3. In linea di principio, dunque – e in ossequio ai dettami della Costituzione di uno Stato democratico quale è il nostro –, ogni procedimento amministrativo “necessario” (che consegua cioè obbligatoriamente ad una istanza) deve concludersi entro un determinato termine e con l’adozione di un provvedimento, esplicito o implicito che sia. 3. Il termine generale entro il quale il procedimento deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, è quello indicato dall’art. 2, comma 2 della L. n. 241 del 1990, ovvero trenta giorni. La norma non lascia spazio a soluzioni diverse dall’alternativa “termine di 30 giorni/termine più lungo”, perché il comma 2 dell’articolo 2 sopra citato non dice che disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 possono “non” prevedere un termine, ma soltanto che possono prevedere “un termine diverso”. E il comma 4 dell’art. 2 della L. n. 241 del 1990 – che è la norma che ci interessa più da vicino, in relazione al caso oggetto dell’odierna controversia – così dispone: “Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”. 3.1. Dunque, l’esclusione di cui all’ultimo periodo (“procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”), per ragioni di coerenza logica e sistematica, non può che riferirsi all’esclusione di tali procedimenti da quelli che devono avere un termine di conclusione del procedimento non superiore a 180 giorni, e non alla loro esclusione sic et simpliciter dal regime dei termini del procedimento. In altre parole, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, può essere individuato, per i procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e per i procedimenti riguardanti l'immigrazione, un termine di conclusione superiore a centottanta giorni. E ciò è tanto vero, se si pensa che per una delle due tipologie di “esclusione” previste dalla L. n. 241 del 1990 (procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio o per concessione), è stato previsto da un atto normativo primario (L. n. 92 del 1991) che “il termine di definizione dei procedimenti di cui agli articoli 5 e 9 è fissato in ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda”. 4. Non conferenti, infine, rispetto alla risoluzione della questione giuridica controversa sono gli ultimi due argomenti spesi a sostegno dell’orientamento che ritiene legittima in questi casi (procedimenti per l’emersione dal lavoro irregolare) l’inerzia “senza fine” dell’amministrazione. 4.1. Quanto al primo (eccezionalità delle procedure di emersione) basti rilevare che l’eccezionalità della specifica procedura, in termini di previsione normativa e di deroga rispetto all’ordinario svolgimento dei procedimenti regolativi dell’immigrazione, non giustifica certamente un regime di eccezione rispetto alla disciplina della L. n. 241 del 1990, qualora non espressamente previsto dalla specifica norma regolativa della fattispecie. 4.2. Quanto al secondo (assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi), si tratta di un argomento di mero fatto, che tendenzialmente può essere utilizzato anche per altre fattispecie per le quali non è mai stato messo in discussione il rispetto obbligatorio di un termine per l’adozione del provvedimento espresso (o implicito), e che dimentica che il bene-tempo costituisce, di per sé, un valore degno di tutela giurisdizionale. 5. In definitiva, essendo decorsi più di trenta giorni dalla domanda procedimentale dell’interessato – e dovendo applicarsi al procedimento di emersione dal lavoro irregolare tale termine di conclusione del procedimento ex art. 2, comma 2 della legge sul procedimento amministrativo, in assenza di previsione espressa di diversi termini – il silenzio serbato dall’amministrazione procedente deve essere considerato illegittimo. 5.1. Ne deriva che la Prefettura competente, tramite lo Sportello unico dell’immigrazione, è obbligata a provvedere sull’istanza di interesse del ricorrente entro e non oltre trenta giorni dalla comunicazione nelle forme di legge della presente sentenza, attribuendo priorità alla pratica del cittadino straniero interessato rispetto alle numerose altre che sono in lavorazione in ordine cronologico. 6. La novità della questione esaminata, nei suoi riflessi modificativi del pregresso orientamento giurisprudenziale, giustifica la compensazione della spese processuali tra le parti. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, ordina alla Prefettura competente di provvedere sull’istanza di interesse del ricorrente, entro il termine di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
25 giu, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La società ALFA impugna dinanzi al competente Tribunale amministrativo regionale, chiedendone l’annullamento, il provvedimento con cui il Ministero della Transizione ecologica (ex Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare) le ha imposto alcune “condizioni ambientali”, in fase di accertamento della rispondenza tra progetto definitivo e progetto esecutivo dei lavori di potenziamento di una strada provinciale. Tale provvedimento è stato adottato in conformità al parere della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS - anch'esso impugnato -, ed ha imposto, nello specifico, senza rilevare sostanziali difformità tra progetto definitivo e progetto esecutivo dell’opera, nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità, al fine di salvaguardare l’ambiente circostante. I lavori di potenziamento della strada provinciale, a loro volta, erano stati previsti nell’ambito di un accordo di programma stipulato nel 2011 tra la Regione, la Città Metropolitana e il Comune territorialmente competenti, con adesione della società ricorrente, e approvati, con riferimento al progetto definitivo presentato dalla ricorrente stessa, con delibera CIPE del 2014, previa positiva valutazione di impatto ambientale. Con un unico, articolato motivo, la società ALFA deduce l’illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’art. 185 del d.lgs. n. 163 del 2006, norma ritenuta ratione temporis applicabile al caso di specie, sostenendo che la Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS avrebbe dovuto astenersi dall’imporre nuove prescrizioni volte alla tutela dell’ambiente, rispetto a quelle già in precedenza prescritte e ottemperate, una volta appurato che non vi erano state, nel passaggio tra progetto definitivo e progetto esecutivo, modifiche del progetto comportanti significative variazioni dell’impatto ambientale. Si costituiscono in giudizio il Ministero della transizione ecologica, che chiede il rigetto del ricorso, la Regione ZETA e il Comune BETA, competenti per territorio e partecipi dell’accordo di programma de quo , che chiedono invece l’accoglimento del ricorso. Si costituisce in giudizio altresì, in un lasso temporale successivo ai sessanta giorni dalla conoscenza del provvedimento del Ministero impugnato, il Comune X, il quale, pur non essendo stato in precedenza parte dell’accordo di programma, propone ricorso incidentale, notificato alle parti necessarie ex art. 170 c.p.c., chiedendo a sua volta l’annullamento del provvedimento ministeriale e del presupposto parere, sia perché assunti senza il suo coinvolgimento - quale ente esponenziale il cui territorio sarebbe stato inciso da una parte dei lavori -, sia perché proprio la mancata partecipazione del Comune interessato avrebbe impedito che fossero sottoposti alla Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS ulteriori profili ambientali e viabilistici da considerare. Nel merito, sia il Ministero resistente che il Comune X hanno fatto rilevare: 1. che la disciplina applicabile al caso di specie non sarebbe quella di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto tale disposizione normativa era da ritenersi abrogata dopo l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti; 2. che la Commissione Tecnica di Verifica e il Ministero competente avrebbero potuto e dovuto rivalutare, senza alcun limite, anche in sede di esame del progetto esecutivo, e anche se tale progetto fosse stato, come nel caso di specie, coerente con il progetto definitivo, l’impatto ambientale delle opere approvate, imponendo di conseguenza tutte le ulteriori prescrizioni ritenute via via opportune. Il Ministero ha inoltre chiesto l'estromissione dal processo, per difetto di legittimazione passiva, della Regione ZETA e del Comune BETA. A sua volta, la società ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune X, per irritualità dello strumento processuale utilizzato e mancata impugnazione dei precedenti atti (accordo di programma e delibera CIPE), che non avevano considerato quale parte necessaria del progetto tale Comune. Qualche giorno prima della udienza di trattazione della causa, il Ministero convenuto ha dato atto, depositando la relativa documentazione nel fascicolo processuale, di avere attivato e concluso nelle more un procedimento di riesame, su istanza del Comune X, che ha chiesto contestualmente di “essere parte del procedimento ai sensi dell’art. 9, legge n. 241/1990”. Tale procedimento di riesame è stato definito con l’adozione di un altro decreto, a seguito di rinnovata valutazione da parte della Commissione Via-Vas, che ha sostituito il decreto impugnato e ha così statuito, con riferimento alle questioni di rilievo per il presente giudizio: - la richiesta di modifica del tracciato della strada da realizzare, avanzata dal Comune X con memoria ex art. 9 L. 241/90, non è pertinente rispetto al procedimento in esame e potrà essere valutata solo nell’ambito di una procedura di Variante del progetto esaminato; - è verificata positivamente l’ottemperanza alle prescrizioni contenute nella delibera CIPE del 2014 di approvazione del progetto definitivo, nel rispetto delle condizioni ambientali ivi indicate, senza ulteriori prescrizioni afferenti al progetto esecutivo, salve le necessarie verifiche da effettuare in sede di concreta attuazione dei lavori. Il Ministero ha dunque eccepito in udienza la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso principale, o comunque la cessata materia del contendere. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Preliminarmente, il Collegio rileva che il nuovo decreto adottato dal Ministero resistente risulta avere determinato la cessazione della materia del contendere, o comunque una sopravvenuta carenza di interesse da parte della società ricorrente (principale), con riferimento ai profili fondamentali di interesse coltivati nel presente giudizio. Al di là delle valutazioni di merito del provvedimento sopravvenuto, è infatti innegabile che la sua adozione implica il superamento degli ostacoli in precedenza rappresentati dall’imposizione di modifiche strutturali alle opere del progetto definitivo e dalla subordinazione della prosecuzione dell’attuazione del progetto alla realizzazione di tali opere. 2. Dovendo in ogni caso scendere nel merito delle singole censure proposte, occorre innanzitutto esaminare l’ammissibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune X. L’art. 42 c.p.a. menziona, tra i soggetti legittimati alla proposizione di tale ricorso, soltanto l’amministrazione resistente e i soggetti tecnicamente qualificabili come controinteressati. Sotto questo primo profilo, peraltro, il Comune X non risulta interessato alla conservazione degli effetti dei provvedimenti impugnati in via principale. Invero, l’impugnazione proposta da tale Comune mira a contestare circostanze ed elementi distinti contenuti nei provvedimenti impugnati in via principale, al fine non già di conservare una situazione giuridica di vantaggio ma, al contrario, per conseguire un’ulteriore e diversa utilità, consistente nella rivalutazione dei contenuti di un accordo di programma a cui non aveva partecipato. La posizione del Comune X nel presente giudizio non è dunque quella di controinteressato, ma di soggetto che ha un interesse di fatto coinvolto dal provvedimento impugnato (interesse di fatto costituito dalla circostanza che alcune opere del progetto definitivo dovrebbero essere eseguite nel suo territorio) e un interesse legittimo di tipo partecipativo diretto ad ottenere la modificazione del provvedimento stesso. Tale interesse non è peraltro qualificabile come un interesse contrario a quello della ricorrente principale, o comunque connesso alla necessità di conservazione del provvedimento impugnato, anche perché quest’ultimo atto non ha di per sé effetti favorevoli per il Comune X, come testimoniato dallo stesso ricorso incidentale presentato dal Comune in questione, che è nella sostanza volto a stigmatizzare il suo mancato coinvolgimento nelle valutazioni ministeriali, in relazione a delle presunte criticità ambientali e viabilistiche delle soluzioni approvate. E’ dunque inammissibile il ricorso incidentale proposto dal Comune X, in quanto lo strumento processuale utilizzato non è fondato sui necessari presupposti di legge, né è possibile considerare tale ricorso incidentale alla stregua di un ricorso principale (quale invece avrebbe dovuto essere), perché notificato alle parti necessarie ex art. 170 c.p.c. e non ex art. 41 c.p.a., come invece avrebbe dovuto avvenire, per un’introduzione rituale del giudizio. Sotto altro, concorrente profilo, è rilevabile anche un’assenza di legittimazione (o comunque una carenza di interesse per inoppugnabilità dei precedenti atti prodromici al procedimento ministeriale) ad ottenere la caducazione di un atto che non ha coinvolto né aveva l’obbligo di coinvolgere il ricorrente incidentale, in quanto avente ad oggetto valutazioni di impatto ambientale relative all’esecuzione di un accordo di programma di cui l’amministrazione locale in discorso, a torto o a ragione, non aveva fatto parte. Era al limite ed eventualmente tale accordo di programma (e gli atti ad esso presupposti e conseguenti, quali la delibera di promozione dell’accordo stesso e la delibera CIPE di approvazione del progetto definitivo dell’opera) che avrebbero dovuto essere tempestivamente censurati dal Comune X, e non la successiva sequenza sub-procedimentale innestatasi a livello ministeriale sul legittimo presupposto di dovere coinvolgere una cerchia di soggetti ben definiti, tra cui era stato appunto escluso proprio il Comune X. Sotto ulteriore, concorrente profilo, anche a volere considerare il Comune de quo quale soggetto controinteressato, il suo interesse non sorge, come visto, in dipendenza della domanda svolta in via principale, bensì in dipendenza del provvedimento impugnato, essendo stati impugnati profili di tale atto ulteriori e differenti rispetto a quelli contestati dalla ricorrente principale. Anche sotto questo aspetto, dunque, lo strumento processuale utilizzato è insanabilmente difforme rispetto a quello (ricorso in via autonoma) di cui avrebbe dovuto avvalersi il Comune interessato, e risulta comunque proposto oltre il termine di 60 giorni dalla conoscenza dell’atto impugnato. Il ricorso incidentale è dunque complessivamente inammissibile, per le ragioni appena evidenziate. 3. Venendo all’esame di merito del ricorso principale, lo stesso deve ritenersi fondato. Invero, risulta determinante la circostanza secondo cui nessuna modifica sostanziale è stata introdotta nel progetto esecutivo, rispetto a quello definitivo, e che, in ogni caso, la Commissione non ha riscontrato alcuna variazione significativa dell’impatto ambientale. La verifica di attuazione, quindi, avrebbe dovuto concludersi senza le nuove prescrizioni contestate in sede odierna, fatte salve quelle eventualmente già imposte dal CIPE in sede di approvazione del progetto definitivo, così come specificate dalla Commissione stessa nel suo parere; al contrario, l’amministrazione procedente, in chiara violazione dell’art. 185 del d.lgs. n. 163 del 2006 (norma ratione temporis applicabile, in base al chiaro disposto di cui all’art. 216, comma 1-bis del d.lgs. n. 50 del 2016), ha imposto di variare il progetto definitivo approvato dal CIPE (posto che è pacifico che quello esecutivo si limita a riprodurre, nella sostanza, quanto già approvato in precedenza) sopprimendo alcuni interventi e prevedendo nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità non considerate nello studio di impatto ambientale e non previste nel progetto definitivo. Nello specifico, la società ricorrente ha trasmesso al Ministero resistente il progetto esecutivo dei lavori di interesse, ai fini della verifica di attuazione prevista dal combinato disposto di cui ai commi 6 e 7 del d.lgs. n. 163 del 2006. Secondo una lettura congiunta di tali norme, “prima dell’inizio dei lavori, è comunicata al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio la relativa data ed è trasmesso allo stesso Ministero il progetto esecutivo composto dai documenti previsti dagli articoli 19 e seguenti dell'allegato tecnico recato dall'allegato XXI, ivi compresa l'attestazione di cui all'articolo 20, comma 4”. La suddetta comunicazione è finalizzata alla verifica, da parte della Commissione speciale VIA e VAS, dell’esistenza di eventuali “violazioni degli impegni presi ovvero modifiche del progetto che comportino significative variazioni dell'impatto ambientale”. Qualora tali condizioni ricorrano, “la commissione riferisce al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il quale ordina al soggetto gestore di adeguare l'opera”. Orbene, risulta dagli atti che l’organo tecnico di cui si avvale il Ministero ha omesso di segnalare quali siano “le modifiche del progetto che comportino significative variazioni dell’impatto ambientale”, ma si è diffuso ad imporre nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità, al fine di salvaguardare l’ambiente circostante. Il potere esercitato non è dunque conforme alla specifica procedura attivata – pur essendo in linea di principio coerente con le attribuzioni ministeriali in materia ambientale – e l'atto in conseguenza adottato deve dunque ritenersi viziato per violazione di legge. L’illegittimità rilevata del parere della Commissione - che, dunque, e in sintesi, riguarda tutti gli obblighi ulteriori che sono stati imposti, rispetto a quelli connessi al mero rispetto delle eventuali precedenti prescrizioni CIPE – ha determinato, in via conseguenziale, anche l’illegittimità in parte qua del decreto ministeriale impugnato. 4. In definitiva, ferma restando l’inammissibilità del ricorso incidentale, il ricorso principale deve essere accolto, nella misura in cui non si è verificata una cessata materia del contendere, o comunque una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione. 4.1. Le spese del giudizio devono essere peraltro compensate tra tutte le parti costituite in giudizio, in considerazione della peculiarità e novità della questione esaminata. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso principale e sul ricorso incidentale, come in epigrafe proposti: dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale; dichiara in parte cessata la materia del contendere, o comunque l’improcedibilità del ricorso principale, accogliendolo per il resto, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
20 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La stazione appaltante intimata ha aggiudicato a Delta S.p.A. il lotto n. 1 della gara d’appalto per l’affidamento del servizio di pulizia, sanificazione e ausiliari. La seconda classificata, Alfa S.p.A., ha impugnato tale aggiudicazione, facendo valere l’iscrizione della controinteressata (vincitrice) nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC per aver omesso le dovute dichiarazioni in occasione di una diversa procedura selettiva. La decisione dell'ANAC è stata ritenuta legittima a seguito di una pronuncia di inammissibilità della Corte di Cassazione e dopo essere stata impugnata e sospesa sia in primo che in secondo grado. Secondo la società ALFA S.p.A., la pronuncia della Cassazione avrebbe ri-esteso gli effetti della deliberazione ANAC , recante l’annotazione nel casellario informatico, e accompagnata da 6 mesi di interdizione dalla partecipazione alle procedure di gara e degli affidamenti in sub-appalto. Malgrado le rimostranze di parte ricorrente, la stazione appaltante ha però confermato l’aggiudicazione già disposta. Alfa S.p.A., seconda classificata, impugna dunque gli atti di gara culminati nell’affidamento della commessa, deducendo in diritto i seguenti motivi: I) Violazione dell’art. 80 del d.lgs. 50/2016, lesione della lex specialis e in particolare del disciplinare, falsa applicazione dei principi di piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, eccesso di potere sotto plurimi profili, in quanto alla luce della sentenza della Cassazione la delibera del Consiglio di ANAC avrebbe ripreso efficacia, e con essa sarebbe tornata in vigore la misura dell’interdizione semestrale dallo svolgimento delle procedure di gara (l’annotazione non era stata rimossa ma soltanto sospesa con l’ordinanza del Consiglio di Stato, e con la pronuncia definitiva della Cassazione è ritornata operativa); II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 80 comma 5 lett. c) del D. Lgs. 50/2016, degli artt. 3 e 7 della L. 241/90, eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, erroneità dei presupposti, travisamento dei fatti e sviamento, dal momento che: - il dolo accertato nella falsa dichiarazione era desumibile, secondo ANAC, dalla recidiva in altra procedura di gara, che avrebbe disvelato un comportamento elusivo rientrante in una strategia con finalità anticoncorrenziali; - la gravità della condotta (in disparte la questione dell’annotazione che ha ripreso efficacia) avrebbe dovuto indurre la stazione appaltante ad avviare un’accurata istruttoria (che è viceversa mancata in toto) dacché la condotta configura un’ipotesi di esclusione facoltativa per grave illecito professionale. La ricorrente ha chiesto altresì il risarcimento del danno, in via principale mediante aggiudicazione a proprio favore, e in via subordinata per equivalente. Nelle more del giudizio è risultato che ANAC ha annotato nel casellario informatico l’atto interdittivo, avente efficacia residua fino al giugno successivo all'introduzione del ricorso. La stazione appaltante ha tuttavia confermato la correttezza dell'avvenuta aggiudicazione, ritenendo che il dovere di esclusione “sussiste solo qualora la sanzione ANAC sia efficacemente iscritta nel casellario prima della data di presentazione delle offerte”. Quanto al profilo dell’esclusione “discrezionale” (per grave illecito professionale), la stazione appaltante ha ravvisato e documentato l’avvenuta pregressa assunzione di significative misure di "self-cleaning" rispetto al fatto colpito dalla sanzione ANAC. Con motivi aggiunti parte ricorrente ha poi censurato gli ulteriori atti ottenuti con l’evasione dell’istanza di accesso nelle more inoltrata, deducendo ulteriori motivi in diritto: III) Violazione dell’art. 80 del D. Lgs. 50/2016, lesione della lex specialis e del disciplinare di gara, falsa applicazione del principio di possesso dei requisiti di partecipazione senza interruzione, piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, eccesso di potere per plurimi profili, visto che malgrado dia atto dell’effetto dell’annotazione ANAC (interdizione semestrale automatica dalla partecipazione alle gare), l’Ente procedente ha deciso di non procedere alla vincolata esclusione dell’aggiudicataria; sul punto viene invocato l’orientamento di ANAC e della giurisprudenza secondo il quale i requisiti di partecipazione devono essere posseduti senza soluzione di continuità per l’intera durata della procedura, pena la violazione della par condicio. IV) Mancata indagine sull’intervento di "self-cleaning", dato che l’istruttoria è da ritenersi insufficiente e claudicante, con generico richiamo alle misure adottate ma senza prendere posizione specifica e dettagliata sulle plurime illegittimità che hanno connotato la condotta precedente dell'aggiudicataria (che sarebbe consistita in una complessiva strategia avente finalità anti-concorrenziali, sulla quale non erano stati intrapresi necessari approfondimenti esaustivi dei fatti sottesi). V) Violazione dell’art. 80 del D. Lgs. 50/2016, falsa applicazione dei principi di piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, dell’art. 97 della Costituzione, eccesso di potere per plurimi profili, in quanto, nonostante la controinteressata abbia avuto notizia dell’esito del giudizio sulla segnalazione ANAC prima della disposta aggiudicazione definitiva, avrebbe temporeggiato, dandone comunicazione soltanto qualche giorno dopo la proclamazione del vincitore (comportamento che rientrerebbe, secondo la ricorrente, tra quelli che prevedono l'esclusione dell’operatore economico che abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante ovvero abbia omesso di fornire le dovute informazioni per il corretto svolgimento della selezione). VI) Illegittimità derivata dai vizi che affliggono gli atti presupposti, descritti nel gravame introduttivo. Si sono costituite in giudizio la stazione appaltante e la controinteressata, chiedendo il rigetto del gravame. Si è costituita altresì ANAC. In particolare, la controinteressata ha chiesto: - di disapplicare l’art. dell’art. 80 comma 5 lett. f) e f-ter) del D. Lgs. 50/2016 per contrasto con l’art. 57 par. 4 lett. g) della direttiva self-executing 2014/24/UE; - di rilevare il contrasto dell’automatismo espulsivo con i valori di proporzionalità, libera circolazione, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi e degli artt. 49 e ss. e 56 e ss., 119 del TFUE, 16, 51 e 52 della Carta dei diritti fondamentali UE, dei canoni di parità di trattamento e non discriminazione, del legittimo affidamento e della certezza del diritto, dei principi di legalità e irretroattività; - in subordine, di riconoscere che la preclusione non è automatica ma necessita di un’autonoma valutazione del fatto, che tenga conto delle misure di "self-cleaning" (cfr. art. 80 comma 7 del D. Lgs. 50/2016; CGUE C-387/2019); - in ulteriore subordine, di affermare l’illegittimità derivata dell’art. 38 D. Lgs. 163/2006 e 8 del D. Lgs. 50/2016 per violazione degli artt. 3, 76, 97, 117 comma 1 della Costituzione in riferimento alla direttiva 2004/18/CE e 2014/24/UE e agli artt. 7 e 1 primo prot. agg. CEDU. Con gravame incidentale, la controinteressata deduce infine che la ricorrente avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura selettiva per violazione dell’art. 80 comma 5 lett. c e c-bis del D. Lgs. 50/2016, in quanto avrebbe omesso di esibire informazioni rilevanti ai fini del giudizio di integrità o affidabilità, di competenza della stazione appaltante (si tratta di indagini penali che hanno coinvolto dirigenti e procuratori della Società e il suo Presidente). ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Con l’atto introduttivo del giudizio e i motivi aggiunti la ricorrente censura gli atti della gara per l’affidamento del servizio di pulizia, sanificazione e ausiliari per cui è causa, nella parte in cui la controinteressata non è stata esclusa dalla selezione, in conseguenza del "riacquisto" di efficacia della sanzione interdittiva emessa da ANAC (che precluderebbe la partecipazione alle gare). Con il gravame incidentale, Delta S.p.A. chiede l’estromissione della ricorrente principale dalla procedura selettiva. 1.1. Sull’ordine di trattazione dei ricorsi, la necessità della disamina sia del ricorso principale sia del ricorso incidentale avente effetto paralizzante non postula che debba essere esaminato prioritariamente il secondo: infatti, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince solo l'obbligo di decidere nel merito interamente la causa relativa ad appalti di rilevanza unionale, a condizione che ciò corrisponda anche ad un interesse meramente strumentale alla rinnovazione della gara. Ove, quindi, il ricorso principale sia infondato o inammissibile, e l'aggiudicazione debba perciò essere confermata in capo alla controinteressata, la decisione dell'eventuale ricorso incidentale sarebbe del tutto priva di utilità per la parte, e non potrebbe in alcun modo generare una nuova gara. Del resto, l'art. 42 c.p.a. lega l'interesse all'impugnativa incidentale alla proposizione della domanda principale, con l'effetto che il rigetto di quest'ultima in linea di principio elide quell'interesse sul piano processuale. Adattando i predetti principi alla fattispecie che ci occupa, il Collegio opta per affrontare preliminarmente il ricorso introduttivo (e i motivi aggiunti). 2. L’articolazione della vicenda è chiara. All’esito di una gara aggiudicata in data precedente ai fatti dell'odierno ricorso, la controinteressata è stata segnalata dalla stazione appaltante ad ANAC per la mancata presentazione delle dichiarazioni dovute per legge. L’iscrizione nel casellario informatico – accompagnata dall’inibizione a prendere parte a procedure selettive per l’affidamento di commesse pubbliche – si è definitivamente consolidata "medio tempore" dopo un lungo contenzioso, nel corso del quale i provvedimenti giurisdizionali di sospensione adottati hanno comportato la cancellazione temporanea dell’iscrizione originaria. Nel frattempo, Delta S.p.A. ha ottenuto l’aggiudicazione in suo favore dell’appalto del servizio di pulizia oggetto del presente contenzioso. 2.1. La questione che si pone è stabilire anzitutto da quando decorre l’effetto ostativo (ristabilito dopo la sospensione accordata in sede giurisdizionale) e se la sanzione ANAC – di nuovo efficacemente iscritta nel casellario dopo l'aggiudicazione impugnata – investa anche l’affidamento disposto dalla stazione appaltante in data precedente: la misura interdittiva è infatti ri-entrata in vigore in data posteriore sia alla scadenza del termine di presentazione delle offerte che all’aggiudicazione della gara. 2.2.. Secondo l’art. 80 comma 5 del d.lgs. 80/2016 le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto, tra l'altro, "un operatore economico iscritto nel casellario informatico tenuto dall'Osservatorio dell'ANAC per aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti. Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera l'iscrizione nel casellario informatico; …” (lett. f-ter). Ai sensi del successivo comma 6 “Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5”. 2.3. L’art. 38 comma 4 del regolamento ANAC dispone che “L’o.e. è escluso dalle procedure di gara o dall’accesso alla qualificazione se la scadenza del termine di presentazione delle offerte o l’istanza di qualificazione ricade nel periodo di efficacia dell’annotazione”. 2.4. La giurisprudenza consolidata ricava dalle disposizioni legislative citate la regola per cui il concorrente deve essere immediatamente escluso ogni volta in cui l’interdittiva dell'ANAC venga irrogata in pendenza di una procedura di gara, in quanto la sanzione non produce un mero effetto preclusivo, ma altresì espulsivo. Inoltre, la lett. f-ter, nel prevedere che “Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera l'iscrizione nel casellario informatico”, da un lato preclude l'ultrattività della sanzione, dall'altro, però, ne conferma in modo inequivoco la natura di motivo di esclusione che produce i propri effetti nelle procedure in corso, rendendo doverosa la misura espulsiva, anche successiva all’aggiudicazione, dell’impresa colpita. 2.5. A identica soluzione, peraltro, si giunge anche in considerazione del fatto che la sanzione ANAC comporta, sia pur temporaneamente, la perdita dei requisiti di partecipazione, con possibile violazione del principio secondo cui i partecipanti alle gare pubbliche devono possedere i requisiti di partecipazione lungo tutto l’arco della procedura di gara. Dunque, la sopravvenienza della misura interdittiva in una procedura selettiva iniziata prima dell’iscrizione realizza comunque la perdita della continuità dei requisiti di partecipazione, introducendo un'autonoma causa di esclusione dalla gara in corso, mentre l’art. 38 del regolamento ANAC è interpretabile unicamente nel senso che, per le gare indette dopo l'iscrizione nel casellario informatico, la partecipazione è interdetta finché è efficace l'annotazione. 2.6. A tali riflessioni si aggiunge la considerazione che la sanzione irrogata dall'ANAC ha un effetto non già preclusivo della sola partecipazione alle gare nel periodo di interdizione, ma anche un effetto espulsivo in coerenza con la finalità di assicurare un concreto grado di effettività alla misura. E’ utile a questo punto richiamare sinteticamente il quadro normativo europeo, invocato dalla resistente e dalla controinteressata. 3. Secondo il quadro normativo europeo, la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, recepita sul punto dal legislatore nazionale, ha l’introdotto l’istituto del cd. self-cleaning a favore delle imprese che hanno assunto comportamenti inappropriati (afferenti alla moralità professionale) suscettibili di provocare l’esclusione dal confronto comparativo. L’operatore economico che si è reso responsabile di condotte scorrette – che integrano ipotesi di esclusione – può riacquistare l’affidabilità indispensabile per partecipare alla selezione pubblica attraverso una sorta di "ravvedimento operoso": deve a tal fine dimostrare di aver coltivato, entro il termine di scadenza per la presentazione delle offerte, iniziative e strategie concrete idonee a suffragare un pieno recupero di affidabilità e integrità. La stazione appaltante deve poi sottoporre le misure adottate a uno scrupoloso vaglio di congruità. 3.1. La Corte di Giustizia UE ha riconosciuto alla direttiva carattere innovativo, nella parte in cui istituisce il meccanismo delle misure riparatorie (art. 57 par. 6), sottolineando che esso tende a incoraggiare un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui all'articolo 57, paragrafo 4, della medesima direttiva a fornire prove del fatto che le misure da esso adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità nonostante l'esistenza di un pertinente motivo facoltativo di esclusione. Se tali prove sono ritenute sufficienti, l'operatore economico in questione non deve essere escluso dalla procedura d'appalto. A tale riguardo, le misure riparatorie evidenziano l'importanza attribuita all'affidabilità dell'operatore economico, elemento che permea i motivi di esclusione relativi alla situazione soggettiva dell'offerente. 3.2. E’ stato anche osservato che in osservanza del principio di proporzionalità che costituisce un principio generale del diritto dell'Unione, le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dell'attuazione delle disposizioni della direttiva di cui sopra, come le norme destinate a specificare le condizioni di applicazione dell'articolo 57 di tale direttiva, non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da questa stessa direttiva. In questo senso, la necessità di rispettare il principio di proporzionalità risulta parimenti rispecchiata all'articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24, in virtù del quale un operatore economico, che si trovi segnatamente nella situazione contemplata all'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, anche quando ciò derivi da una violazione constatata nei confronti di un subappaltatore indicato nell'offerta, può fornire delle prove al fine di attestare che le misure da esso prese sono sufficienti per dimostrare la sua affidabilità malgrado l'esistenza di detto motivo di esclusione. 3.3. Coerentemente alle istanze sostanzialistiche che da sempre caratterizzano gli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, va quindi evitata l'esclusione di operatori economici (non definitivamente pretermessi dalla procedura da una sentenza penale di condanna agli stessi riferibile) i quali hanno dimostrato di avere adottato misure riparatorie sufficienti a ripristinare il giudizio positivo sulla loro affidabilità nonostante l'esistenza di un pregresso motivo di esclusione; dall’esame della normativa europea in materia di esclusione dalle gare pubbliche non si rinviene cioè un obiettivo punitivo/repressivo, ma l’incoraggiamento rivolto all’operatore ad adoperarsi per elidere nel futuro gli effetti distorsivi di pregressi comportamenti irregolari. In tal modo, il diritto europeo persegue l’effetto di migliorare il contesto imprenditoriale – introducendo "best practises" e modelli organizzativi performanti – e di garantire il più ampio confronto concorrenziale possibile. La "par condicio" delle imprese che aspirano alla commesse pubbliche è salvaguardata dalla chiarezza della previsione e dalla necessità che la stazione appaltante verifichi che la struttura è stata reimpostata in modo autenticamente virtuoso. Al riguardo va osservato, con specifico riferimento all'ipotesi esaminata nell’odierna lite, che il self-cleaning è destinato a produrre benefici sulle gare successive alla sua concreta attuazione, fermi restando gli effetti espulsivi prodotti sulle procedure indette e svolte in precedenza. 4. Nel caso in discussione, la controinteressata è stata colpita dalla causa di esclusione enucleata dall’art. 80 comma 5 lett. f-ter del d. lgs. 50/2016 poiché iscritta “… nel casellario informatico tenuto dall'Osservatorio dell'ANAC per aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti”. 4.1. Secondo l’inequivoco tenore letterale dell’art. 80 comma 7 del D. Lgs. 50/2016 – introdotto nel rispetto della norma cornice di cui all’art. 57 comma 6 e del “considerando” n. 102 della direttiva 24/14/UE – l’operatore economico che versi in una qualunque delle ipotesi enucleate al precedente comma 5 “… è ammesso a provare di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti”. La stazione appaltante è tenuta poi a valutare – attraverso un’appropriata e motivata valutazione discrezionale – le misure applicate alle quali, se ritenute sufficienti, consegue che al ricorrente non è inibita la prosecuzione della procedura di gara (comma 8). L’unica fattispecie in cui l’esclusione è intangibile è quella sancita da una sentenza penale di condanna divenuta definitiva (comma 9). 4.2. Alla luce del delineato quadro normativo, il Collegio è dell’avviso che l’iter procedimentale osservato dalla stazione appaltante sia conforme al diritto euro-unitario (correttamente trasfuso nel diritto interno). 4.3. Invero, risulta dagli atti che la stazione appaltante ha ravvisato e documentato l’avvenuta pregressa assunzione di significative misure di "self-cleaning" rispetto al fatto colpito dalla sanzione ANAC, di modo che la condotta dell’amministrazione, vagliata alla luce delle riflessioni dei paragrafi precedenti, induce a rigettare le censure avanzate con il gravame introduttivo e i motivi aggiunti. 5. Non è anzitutto condivisibile il rilievo per cui l’esclusione dell’aggiudicataria assumeva natura vincolata. Come ricostruito nei paragrafi precedenti, l’istituto del self-cleaning rappresenta una “valvola di chiusura” del sistema che regola le cause di esclusione, preposta a mitigare le ipotesi ostative enucleate all’art. 80 comma 5, ai sensi del quale “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto …”. L’opposta lettura si porrebbe in contrasto con la direttiva comunitaria più volte evocata (art. 57 commi 4, 5 e 7), vagliata alla luce del considerando n. 102. 5.1. Né può ritenersi indebitamente lesa la par condicio dei concorrenti, ovvero irrimediabilmente posta nel nulla la portata dell’iscrizione nel casellario ANAC. Al contrario, la sanzione inserita ha natura espulsiva, e produce i suoi effetti su tutte le procedure ad evidenza pubblica in corso a prescindere dalla stadio raggiunto (anche posteriore all’aggiudicazione). Pertanto, la fattispecie di cui all’art. 80 comma 5 lett. f-ter è suscettibile di provocare l’esclusione immediata dalle selezioni in atto per l’intero periodo di efficacia dell’iscrizione. E’ onere della parte interessata dimostrare che sono state in concreto adottate misure tecnico-organizzative idonee a “prevenire ulteriori reati o illeciti”. Tra l’altro, la resipiscenza seguita dal ravvedimento operoso è ammessa persino nelle ipotesi di sentenza definitiva di condanna di cui all’art. 80 comma 1 del D. Lgs. 50/2016 (purché la pena detentiva non sia superiore a 18 mesi ovvero abbia riconosciuto l’attenuante della collaborazione). 5.2. Risponde inoltre al canone di logicità il fatto che le misure di self-cleaning siano operative "pro futuro", ovvero per la partecipazione a gare successive all’adozione delle stesse, e che è inimmaginabile un loro effetto retroattivo: solo dopo l’elaborazione e l’attuazione delle misure siffatte la stazione appaltante può reputarsi al riparo dalla ripetizione di pratiche scorrette ad opera dell’impresa e dei suoi organi sociali. Come già sottolineato, le misure di self-cleaning rappresentano una conseguenza di precedenti condotte illecite e rispondono alla finalità di mantenere l'operatore economico sul mercato, e non già all’esigenza di sanare l’illiceità di condotte pregresse: ne deriva che il momento "ne ultra quem" per l'adozione delle misure di self-cleaning e per la loro allegazione alla stazione appaltante è ancorato al termine di presentazione delle offerte, posto che una facoltà di tardiva implementazione o allegazione si paleserebbe, a tacer d'altro, alterativa della par condicio dei concorrenti 5.3. Non persuade neppure la dedotta insufficienza dell’istruttoria rispetto alle misure adottate (secondo motivo aggiunto), nella parte in cui viene censurata la condotta della stazione appaltante, che non avrebbe preso posizione specifica e dettagliata sulle plurime illegittimità che hanno connotato la condotta precedente dell'aggiudicataria, risultando necessario e sufficiente, a tali fini, il rispetto dell’obbligo motivazionale posto in capo alla stazione appaltante stessa e il fatto che le misure (appropriate) precedano il confronto comparativo indetto e abbiano già trovato attuazione alla data di scadenza del termine di presentazione delle offerte. 5.4. E’ infine infondata anche la terza censura formulata nei motivi aggiunti, dal momento che risulta dagli atti di causa la pregressa conoscenza da parte della stazione appaltante dell’esistenza di un contenzioso sull'iscrizione ANAC, dato che la stessa stazione appaltante ha verificato allo scopo le adottate misure di self cleaning da parte dell'interessata, in sede di verifica dei requisiti di partecipazione, e il fatto che immediatamente prima dell’informativa sia intervenuta l’aggiudicazione è del tutto irrilevante, alla luce della ricostruzione giuridica degli effetti dell’interdizione. Né certamente il decorso di alcuni giorni può insinuare un sospetto di “influenza indebita” sul processo decisionale della stazione appaltante, già preavvisata della vertenza e dei procedimenti giurisdizionali pendenti. 6. Non si ravvisa in definitiva la necessità di ricorrere alla disapplicazione della normativa nazionale, che si rivela in realtà coerente con la direttiva 2014/24/UE; né è riscontrabile un’antinomia dell’automatismo espulsivo (in quanto mitigato nel senso illustrato) con i principi euro-unitari, e neppure l’illegittimità derivata per violazione della Costituzione (in riferimento alla direttiva e alla CEDU). 8. Il rigetto della pretesa avanzata dal ricorrente principale, cui si riconnette anche l'infondatezza della domanda di risarcimento del danno, depotenzia l’interesse a decidere il gravame incidentale, che diviene improcedibile. Ad ogni modo, nell'ottica di una valutazione del ricorso incidentale nel merito, lo stesso è da considerarsi infondato, in quanto la mera esistenza di indagini penali non meglio precisate non è sufficiente ad integrare le fattispecie previste dall'art. 80 comma 5 lett. c e c-bis del D. Lgs. 50/2016, in assenza di ogni dimostrazione con mezzi adeguati da parte della stazione appaltante della colpevolezza sul punto dell'operatore economico. 9. In conclusione, il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti sono infondati e devono essere respinti unitamente alla domanda risarcitoria, mentre la società controinteressata è priva di interesse all’esame del gravame incidentale. 10. La complessità e la novità della vicenda inducono a compensare integralmente le spese di lite tra le parti in causa. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti di cui in epigrafe, li respinge. Respinge l’istanza di risarcimento del danno. Dichiara improcedibile il ricorso incidentale per difetto di interesse. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
18 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Nel dicembre 2019 l’Agenzia delle Entrate ha notificato a Delta S.r.l. tre distinti avvisi di accertamento relativi ai periodi di imposta 2012, 2013 e 2014, avverso i quali la società ricorrente ha interposto ricorso avanti la competente Commissione Tributaria provinciale, tuttora pendente, senza che risulti ancora fissata l’udienza per la decisione sull’istanza di sospensione formulata dalla società Delta. A fronte della richiesta di rilascio del c.d. “D.U.R.F.” (Documento Unico di Regolarità Fiscale) ex art. 17 bis, d.lgs. del 28 luglio 1997, n. 241 (così come introdotto dalla l. n. 157/2019) l’Agenzia delle Entrate ha emesso, nell'ottobre 2020, provvedimento di diniego rilevando che non sussistevano i requisiti previsti dall’articolo 17 bis, comma 5, d.lgs. n. 241 del 1997, in presenza di iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento erano scaduti ed erano ancora dovuti pagamenti o non erano in essere provvedimenti di sospensione. Delta S.r.l., successivamente, ha presentato all’Agenzia delle Entrate un’istanza di sospensione in via amministrativa degli importi iscritti a ruolo oggetto degli atti impugnati avanti alle Commissioni tributarie. L’Agenzia delle Entrate, con provvedimento di novembre 2020, ha respinto l’istanza, rappresentando che il 20 ottobre 2020 era stato emanato il D.L. n. 129, il cui art. 1, comma 1, lett. a) aveva differito la sospensione legale della esigibilità delle pretese fiscali, in fase riscossiva, al 31 dicembre 2020. L’operare, pertanto, di tale sospensione legale avrebbe comportato, secondo l'Agenzia, il difetto di attualità del c.d. periculum in mora sino a fine anno, anche considerando che, in forza della richiamata normativa (articolo 29 del D.L. n. 78 del 2010), in linea generale l’esecuzione forzata da parte dell’agente della riscossione restava comunque sospesa per un periodo di centottanta giorni dall'affidamento e che, anche a seguito della comunicazione di presa in carico inviata dall’agente al debitore, non era previsto un termine di versamento. Successivamente, Delta S.r.l. ha, quindi, chiesto nuovamente l’emissione del DURF, sostenendo che l'affidamento a ruolo delle somme portate dai tre avvisi di accertamento originari (impugnati dinanzi alla Commissione tributaria) non avrebbero determinato, in quel momento, l’insorgenza di un debito scaduto in capo alla Società, di conseguenza ostativo al rilascio del DURF. L’Agenzia delle Entrate, peraltro, con provvedimento del dicembre 2020, ha nuovamente omesso di rilasciare una certificazione positiva: l’Amministrazione, pur prendendo atto della sospensione ex lege, ha affermato che la sospensione delle azioni di recupero, cautelari ed esecutive, dei carichi affidati alla riscossione, non impedendo in ogni caso al contribuente di versare autonomamente quanto dovuto, non avrebbe rilievo ai fini della verifica di sussistenza dei requisiti per il rilascio di un certificato ex art. 17 bis. Avverso tale ultimo atto la società ricorrente ha proposto impugnazione con ricorso giurisdizionale ritualmente notificato e depositato, domandandone l’annullamento e chiedendo che fosse ordinato all’Agenzia delle Entrate di emettere il Documento Unico Regolarità Fiscale da lei richiesto ed a questa intestato, con validità di 4 mesi dalla data di emissione. A fondamento del ricorso la società ricorrente, asserendo preventivamente la sussistenza della giurisdizione dell’intestato TAR, ha dedotto il seguente, articolato motivo: - l’Agenzia delle Entrate avrebbe violato l’art. 17 bis, d.lgs. n. 241 del 1997, in quanto il rilascio del DURF è connesso all’esecutività dell’iscrizione a ruolo e alla possibilità per l’Agente della Riscossione di agire coattivamente per la riscossione di quanto dovuto ex art. 1, comma 1, lett. C), d.p.r. n. 602/1973; per contro, l’esecutività degli avvisi di accertamento notificati alla ricorrente risulterebbe sospesa per effetto dell’art. 68, d.l. n. 18/2020, che concerne tanto i termini per i versamenti diretti che quelli per la riscossione, di modo che la circostanza che il contribuente possa adempiere spontaneamente sarebbe irrilevante, poiché la normativa in materia di Documento di Regolarità Fiscale riconnette il rilascio del predetto certificato alla verifica che non siano decorsi i termini per l’esecuzione coattiva della pretesa tributaria, e non alla possibilità giuridica di provvedere al versamento. Si è costituita in giudizio con memoria di stile l’Agenzia delle Entrate e la causa è stata trattenuta definitivamente in decisione. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1. E’ necessario, in via pregiudiziale e di ufficio, valutare se sussiste la giurisdizione di questo Tribunale. La società ricorrente parte infatti dall’assunto – preventivamente illustrato negli scritti difensivi – che la causa petendi della sua azione afferisca ad un interesse legittimo, dimostrando così di avere affrontato e risolto, in senso coerente con la scelta di adire il TAR, la questione di ammissibilità connessa al possibile difetto di giurisdizione. 2. La legge 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, (“Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili”), ha introdotto, nel d.lgs. 28 luglio 1997, n. 241 (contenente < >), l’art. 17 bis - recante < >- ai sensi del quale, per quanto di interesse ai fini del presente giudizio: - in deroga alla disposizione di cui all'articolo 17, comma 1, i soggetti di cui all'articolo 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, residenti ai fini delle imposte dirette nello Stato, ai sensi degli articoli 2, comma 2, 5, comma 3, lettera d), e 73, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che affidano il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un'impresa, tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l'utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest'ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, sono tenuti a richiedere all'impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute di cui agli articoli 23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo 28 settembre 1998, n. 360, trattenute dall'impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori direttamente impiegati nell'esecuzione dell'opera o del servizio. Il versamento delle ritenute di cui al periodo precedente è effettuato dall'impresa appaltatrice o affidataria e dall'impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per ciascun committente, senza possibilità di compensazione (comma 1); - al fine di consentire al committente il riscontro dell'ammontare complessivo degli importi versati dalle imprese, entro i cinque giorni lavorativi successivi alla scadenza del versamento di cui all'articolo 18, comma 1, l'impresa appaltatrice o affidataria e le imprese subappaltatrici trasmettono al committente e, per le imprese subappaltatrici, anche all'impresa appaltatrice le deleghe di cui al comma 1 del presente articolo e un elenco nominativo di tutti i lavoratori, identificati mediante codice fiscale, impiegati nel mese precedente direttamente nell'esecuzione di opere o servizi affidati dal committente, con il dettaglio delle ore di lavoro prestate da ciascun percipiente in esecuzione dell'opera o del servizio affidato, l'ammontare della retribuzione corrisposta al dipendente collegata a tale prestazione e il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di tale lavoratore, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente (comma 2); - nel caso in cui alla data di cui al comma 2 sia maturato il diritto a ricevere corrispettivi dall'impresa appaltatrice o affidataria e questa o le imprese subappaltatrici non abbiano ottemperato all'obbligo di trasmettere al committente le deleghe di pagamento e le informazioni relative ai lavoratori impiegati di cui al medesimo comma 2 ovvero risulti l'omesso o insufficiente versamento delle ritenute fiscali rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, il committente deve sospendere, finche' perdura l'inadempimento, il pagamento dei corrispettivi maturati dall'impresa appaltatrice o affidataria sino a concorrenza del 20 per cento del valore complessivo dell'opera o del servizio ovvero per un importo pari all'ammontare delle ritenute non versate rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, dandone comunicazione entro novanta giorni all'ufficio dell'Agenzia delle entrate territorialmente competente nei suoi confronti. In tali casi, è preclusa all'impresa appaltatrice o affidataria ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito il cui pagamento è stato sospeso, fino a quando non sia stato eseguito il versamento delle ritenute (comma 3); - in caso di inottemperanza agli obblighi previsti dai commi 1 e 3, il committente è obbligato al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata all'impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice per la violazione degli obblighi di corretta determinazione delle ritenute e di corretta esecuzione delle stesse, nonché di tempestivo versamento, senza possibilità di compensazione (comma 4); - gli obblighi previsti dal presente articolo non trovano applicazione qualora le imprese appaltatrici o affidatarie o subappaltatrici di cui al comma 1 comunichino al committente, allegando la relativa certificazione, la sussistenza, nell'ultimo giorno del mese precedente a quello della scadenza prevista dal comma 2, dei seguenti requisiti: a) risultino in attività da almeno tre anni, siano in regola con gli obblighi dichiarativi e abbiano eseguito nel corso dei periodi d'imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell'ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10 per cento dell'ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; b) non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all'imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione… (comma 5); - a decorrere dalla data di applicazione della presente disposizione, la certificazione di cui al comma 5 è messa a disposizione delle singole imprese dall'Agenzia delle entrate e ha validità di quattro mesi dalla data del rilascio (comma 6). 2.1. La disposizione legislativa che precede, derogando al precedente art. 17, comma 1, in materia di versamenti e compensazioni sugli appalti, introduce alcune misure volte a garantire, con specifico ed esclusivo riguardo al settore degli “appalti, subappalti e affidamenti” con prevalente utilizzo di manodopera di valore superiore a 200.000 euro, un controllo più intenso ed effettivo del corretto adempimento, da parte delle imprese appaltatrici, aggiudicatarie o affidatarie, degli obblighi sulle stesse gravanti relativamente al versamento delle ritenute che le stesse devono operare sui redditi da lavoro dipendente erogati. Proprio per garantire l’effettività del controllo da parte del committente in ordine al rispetto della suddetta disciplina in materia di versamento delle ritenute, i commi da 1 a 3 prevedono degli obblighi/oneri di comunicazione documentale a carico degli imprenditori, che, a seconda della dimensione dell’azienda, possono anche risultare molto gravosi. In termini strettamente derogatori agli stringenti e potenzialmente gravosi obblighi che precedono, quindi, il legislatore ha previsto l’istituto oggetto del presente giudizio ovvero il certificato che l’impresa appaltatrice/aggiudicataria/affidataria deve allegare alla comunicazione di cui al comma 5, nel quale deve essere attestata la sussistenza dei requisiti specifici previsti dal suddetto comma alle lettere a) e b) sopra richiamate. 2.2. Si tratta, sinteticamente, di una certificazione di regolarità fiscale: di qui l’espressione DURF o “Documento Unico di Regolarità Fiscale”, da taluni anche già ridenominato, evocativamente, “DURC fiscale”. Infatti, l’analogia con l’istituto del “DURC” – dichiarazione unica di regolarità contributiva – si giustifica in quanto ne condivide la sostanziale ratio, quella di offrire alla committenza la certificazione (nel caso del DURC da parte degli Enti previdenziali) della regolarità nei versamenti, nel caso del DURC, dei contributi previdenziali da parte dell’impresa appaltatrice/aggiudicatrice/affidataria. Dal punto di vista, quindi, dell’ambito di efficacia del DURF, la finalità di certificazione della regolarità fiscale che lo stesso garantisce, allo stato, può dirsi strettamente limitata ai contratti indicati nel comma 1 che precede. Per quanto concerne, invece, la natura e le caratteristiche di tale “documento”, esso costituisce il risultato di un’attività di “certificazione” da parte dell’Agenzia delle Entrate: un atto pubblico, cioè, "certativo" di una serie di dati di fatto, puntualmente indicati dalle citate lettere a) e b) che precedono, che l’Agenzia delle Entrate è tenuta a “mettere a disposizione” delle singole imprese. 2.3. Si tratta, quindi, come nel caso del DURC, di una dichiarazione di scienza che si colloca tra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso. 3. Come per esso, quindi, la situazione giuridica vantata dall’impresa richiedente il Durc nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e che si ritiene lesa da una certificazione negativa erronea o non veridica integra una posizione di diritto soggettivo, non incidendo direttamente o indirettamente su di essa l’esercizio, da parte della P.A., di poteri pubblicistici tali da incardinare la giurisdizione del Giudice amministrativo ai sensi degli artt. 7 e 133 c.p.a. (circa la giurisdizione del Giudice ordinario relativamente all’accertamento della regolarità contributiva ai fini del rilascio del Durc, si veda Cass. civ., sez. lav., 03 marzo 2021, n. 5825) La contestazione circa l’erroneità e, quindi, la non veridicità contenuta nell’atto pubblico di cui sopra, laddove venga promossa in via principale, per mezzo, cioè, di un giudizio specificamente ed esclusivamente finalizzato a censurare tali vizi della certificazione, deve, pertanto, rivestire le forme del giudizio per querela di falso, ai sensi degli artt. 221 e ss. c.p.c., la cui decisione spetta al Giudice ordinario. Ai sensi dell’art. 8, comma 2, c.p.a., infatti, la “risoluzione dell’incidente di falso” resta riservata all’autorità giudiziaria. 3.1. Rimane fermo, per contro, l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze n. 6 e n. 10 del 2016 (ribadito dalla giurisprudenza successiva), secondo il quale, nell’ambito dei giudizi afferenti procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, il giudice amministrativo può conoscere, senza travalicare i limiti della propria giurisdizione, la questione relativa alla sussistenza del requisito della regolarità contributiva, senza che occorra l'espressa impugnazione del DURC, oggetto solo di un sindacato incidenter tantum ai sensi dell'art. 8 c.p.a. Si tratta di insegnamento che, come sottolineato anche dallo stesso Consiglio di Stato, anche se affermato con riferimento ai documenti di regolarità contributiva rilasciati dagli enti previdenziali, è applicabile pure con riferimento alle certificazioni di regolarità fiscale rilasciate dall'Agenzia delle Entrate e va qui ribadito, anche in coerenza con il conforme indirizzo espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, poiché la produzione della certificazione che attesta la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto (c.d. "durc") costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara, appartiene alla cognizione del giudice amministrativo verificare la regolarità di tale certificazione. 3.2. Nel caso di specie, ove la contestazione della regolarità del DURF non si iscrive nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una procedura di gara, ma è assunta in via principale ed esclusiva, la società ricorrente contestandone l’erroneità e non veridicità, non è invocabile il sindacato “incidenter tantum” da parte dell’intesto TAR, il quale, pertanto, non può che declinare la propria giurisdizione. 4. Così definita la “pars destruens” del ragionamento in ordine al riparto di giurisdizione, d’altronde, occorre accertare quale sia l’Autorità giudiziaria effettivamente titolare del potere di decidere sulla controversia in questione. Infatti, a differenza del DURC, che involge profili contributivi come tali afferenti alla materia lavoristica e previdenziale, comunque di spettanza del giudice ordinario, il DURF presuppone la sussistenza di un rapporto tributario e concerne l’adempimento dei relativi obblighi. Quindi, si tratta, comunque, di una certificazione che si inserisce in un ambito “tributario”. 4.1. A questo proposito, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1992 ss.mm.ii. (recante disposizioni sul processo tributario) <<1. Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica; 2. Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale. Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie [relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall' articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie] attinenti l'imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni; 3. Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio>>. La norma che precede, poi, deve essere letta in combinato disposto con l’art. 19 che precisa quali atti possono formare in concreto oggetto di ricorso avanti al Giudice Tributario ovvero: < >. 4.2. Ciò che non è ricompreso nell’ambito di applicazione del suddetto combinato disposto, pertanto, (e fatti salvi i casi di giurisdizione del giudice amministrativo, nel caso di specie, come detto, non sussistente) pertiene alla giurisdizione del Giudice ordinario come emerge, indirettamente, dal disposto dell’art. 9, comma 2, c.p.c., ancorché dettato in materia di riparto della competenza e non di giurisdizione. 5. Ebbene, nel caso che ci occupa, in primo luogo, va ribadito che l’azione esperita da parte ricorrente, essendo volta a contestare l’erroneità e la non veridicità della certificazione facente prova fino a querela di falso, va sussunta, come detto, nell’ipotesi di cui all’art. 221 c.p.c. la cui giurisdizione spetta al giudice ordinaria in considerazione della testuale previsione del comma 3 dell’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1992 che precede. In secondo luogo, il certificato in questione non rientra comunque tra gli atti impugnabili ex art. 19 richiamato, sicché, comunque, andrebbe dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario. 5.1. In conclusione, pertanto, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, e la giurisdizione del Giudice ordinario. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a., quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato. 6. Anche se il rilevato profilo di rito è da ritenersi assorbente, occorre in ogni caso esaminare il merito della questione sostanziale sollevata dalla ricorrente. 6.1. Nella prospettiva di Delta S.r.l., l’Agenzia delle Entrate avrebbe violato l’art. 17-bis del d.lgs. n. 241 del 1997, in quanto il rilascio del DURF sarebbe connesso all’esecutività dell’iscrizione a ruolo e alla possibilità per l’Agente della Riscossione di agire coattivamente per la riscossione di quanto dovuto ex art. 1, comma 1, lett. c) del d.p.r. n. 602/1973. Tale esecutività sarebbe stata sospesa, quanto agli avvisi di accertamento notificati alla ricorrente, per effetto dell’art. 68, d.l. n. 18/2020. L'assunto del ricorrente è corretto, dal momento che la normativa in materia di documento di regolarità fiscale riconnette il rilascio del predetto certificato alla verifica che non siano decorsi i termini per l’esecuzione coattiva della pretesa tributaria (in relazione alla comunicazione al committente di non avere "iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi (...) per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione"), di modo che la circostanza che il contribuente possa adempiere spontaneamente sarebbe irrilevante, a fronte di una norma, come l'art. 68 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 27 del 2020, secondo cui erano sospesi, al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, i termini dei versamenti, anche derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione. D'altra parte, l'Agenzia delle Entrate non ha dedotto in giudizio nessun argomento di segno contrario rispetto alla ricostruzione operata dalla ricorrente. 7. Attesa la novità e la particolarità delle questioni oggetto di causa le spese di lite devono essere integralmente compensate. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso dichiara il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo e la giurisdizione del Giudice ordinario. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:

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31 ott, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA L’associazione temporanea di imprese X e la Zeta Costruzioni hanno partecipato ad una gara per l’affidamento di lavori sopra soglia. All’esito della procedura l’ATI X si è classificata al primo posto e la Zeta Costruzioni al secondo posto. Tuttavia, in sede di verifiche ex art. 89, comma 3 del d.lgs. n. 50 del 2016, la stazione appaltante riteneva non veritiera la dichiarazione del Consorzio Y (ausiliaria dell’ATI X) nella parte in cui aveva indicato la società J S.p.A. ai fini del raggiungimento del requisito della cifra d’affari in lavori - nel triennio antecedente al bando - oggetto del contratto di avvalimento, e, per l’effetto, dopo avere chiesto e ottenuto osservazioni sul punto dall’interessata ATI X, disponeva l’annullamento della proposta di aggiudicazione e l’esclusione della predetta ATI dalla procedura per falsità dichiarativa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), rimodulando la graduatoria finale e assegnando la prima posizione a Zeta Costruzioni. Due società facenti parte dell’ATI X impugnano la disposta esclusione – e nuova aggiudicazione -, ritenendo che il caso dovesse essere ricondotto all’ipotesi dell’omissione dichiarativa, ai sensi della lettera c-bis) dell’art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, per la quale non potrebbe, in tesi, applicarsi l’automatismo espulsivo proprio della medesima lett. f-bis), di modo che la stazione appaltante avrebbe dovuto svolgere la valutazione di incidenza sull’integrità ed affidabilità del concorrente. Si sono costituite in giudizio l’amministrazione procedente e la controinteressata aggiudicataria, che hanno chiesto il rigetto del ricorso, eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione attiva delle società ricorrenti e sostenendo, nel merito, le seguenti argomentazioni, a sostegno dei provvedimenti impugnati: - l’amministrazione procedente ha ritenuto l’ipotesi di falsità nell’ambito della verifica sui requisiti di partecipazione alla gara della prima aggiudicataria ATI X, in conseguenza del fatto che una consorziata era stata precedentemente sospesa dall’ausiliario Consorzio Y, a causa dell’intervenuta scadenza dell’attestazione SOA della medesima consorziata, che infatti non figurava nell’attestazione SOA del Consorzio; - nella misura in cui il Consorzio Y aveva dichiarato nell’ambito della propria cifra d’affari complessiva quella di una consorziata che non poteva apportare nulla all’ente consortile, come a quest’ultimo noto per effetto della sospensione dallo stesso deliberata, l’ausiliario avrebbe pertanto reso una dichiarazione falsa, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), del codice dei contratti pubblici; - se pure la dichiarazione non veritiera «non abbia avuto un’incidenza rilevante ai fini della prova della sussistenza del requisito di partecipazione», nondimeno, in presenza di una dichiarazione falsa, non sarebbe stato consentito alla stazione appaltante alcun margine di valutazione; - il possesso dell’attestazione SOA da parte del consorziato sarebbe condizione necessaria non solo per l’ammissione al consorzio medesimo ma anche per il mantenimento dello status di consorziato, e la sospensione disposta nei confronti di quest’ultimo a causa della scadenza dell’attestazione SOA produrrebbe gli stessi effetti dell’estromissione dal consorzio medesimo impedendo allo stesso di disporre dei requisiti della consorziata sospesa sia con riferimento alla SOA che con riferimento alla cifra d’affari. Parte ricorrente, nella sua memoria finale, ha puntualizzato che non si tratterebbe di dichiarazione falsa, in quanto la cifra d'affari dichiarata era stata comunque conseguita - seppure non utilizzabile nel caso concreto -, circostanza, questa non contestata in giudizio; inoltre, secondo la difesa delle ricorrenti, rispetto all’ipotesi della falsità dichiarativa (o documentale) di cui alla lettera f-bis), quella relativa alle «informazioni false o fuorvianti» avrebbe un elemento specializzante, dato dalla loro idoneità a «influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione» della stazione appaltante. Nella sua memoria di replica, la controinteressata ha ulteriormente argomentato che, anche a volere accogliere la tesi di parte ricorrente, il ricorso andrebbe comunque respinto, in quanto la valutazione di incidenza può essere effettuata direttamente dal Giudice, sulla base della documentazione depositata agli atti, ed è in sé provata (l'influenza sulla decisione della stazione appaltante) dal fatto che era stata proposta in un primo tempo l'aggiudicazione proprio a favore dell'ATI X, aggiudicazione poi non confermata dopo le verifiche effettuate ex art. 89, comma 3 del d.lgs. n. 50 del 2016. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Preliminarmente, il Collegio deve esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata da resistente e controinteressata per asserito difetto di legittimazione attiva in capo alle ricorrenti. 1.2. La tesi non coglie nel segno, in quanto le due società che hanno impugnato gli atti nel presente giudizio fanno parte dell’Associazione temporanea di imprese che ha partecipato alla gara e dunque sono titolari – seppure in quota parte – della posizione soggettiva facente capo all'ente unitario a cui hanno contribuito a dare vita, in funzione della procedura concorsuale volta all’affidamento del contratto pubblico di loro interesse. L’eccezione deve dunque essere respinta. 2. Nel merito, il ricorso è fondato. 2.1. L’Adunanza plenaria n. 16 del 2020 ha chiarito, in fattispecie analoga, la differenza esistente tra falsità dichiarativa o documentale di cui alla lett. f-bis del comma 5 dell'art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 e l’ipotesi di falso consistente nel fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni della stazione appaltante sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione (art. 80, comma 5, lett. c-bis del citato d.lgs. n. 50). Quest’ultima ipotesi ha un elemento specializzante rispetto alla prima (come tale prevalente, nel caso di concorso apparente di entrambe le fattispecie) , costituito dalla idoneità delle informazioni false o fuorvianti a influenzare le decisioni della stazione appaltante; viene inoltre equiparata la dichiarazione/informazione falsa alla dichiarazione/informazione fuorviante, che può essere distinta dalla prima per un maggior grado di aderenza al vero, pur essendo anch’essa un’informazione potenzialmente e indebitamente incidente sulle decisioni inerenti alla procedura concorsuale. 2.2. L’automatismo espulsivo è proprio soltanto del falso dichiarativo di cui alla lettera f-bis, che costituisce oggi una fattispecie residuale connessa a ipotesi di obiettiva falsità, ovvero senza alcun margine di opinabilità, che non siano collegate all’adozione dei provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara; mentre, per il resto, rimane riservato uno spazio valutativo in capo all’amministrazione procedente, che non è dunque obbligata ad escludere automaticamente il concorrente a seguito della rilevata falsità. 3. Nel caso oggetto di controversia, peraltro, emerge dalle risultanze processuali che non ricorre un’ipotesi pacifica e obiettiva di dichiarazione falsa da parte dell’ausiliaria dell’ATI X, ma una fattispecie in cui il volume di affari allegato, pur certamente sussistente, non era utilizzabile, ai fini della gara, per la situazione di sospensione di una delle consorziate dell'ausiliaria. D’altra parte, che sussistesse o meno il fondamento di tale sospensione – e che tale sospensione fosse o meno realmente impeditiva rispetto alla considerazione del fatturato della consorziata come parte integrante del requisito economico complessivamente richiesto - era una circostanza di natura giuridica che, come tale, non poteva essere ricondotta all'alternativa logica falso/vero. 3.1. Né ha rilievo la qualificazione della condotta tenuta dalla consorziata come falsità o come omissione dichiarativa, in quanto l’elemento comune tra le due fattispecie è dato dal fatto che in nessuna di queste fattispecie si ha l’automatismo espulsivo proprio del falso dichiarativo di cui alla lettera f-bis). 4. Ricorre pertanto, nel caso di specie, l’ipotesi di cui alla lett. c-bis del comma 5 dell'art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016, cui consegue l'illegittimità dell'esclusione dalla gara dell'ATI X in relazione al mero falso dichiarativo, e la necessità per la stazione appaltante di valutare, ad esito di adeguata istruttoria, se l’informazione fuorviante sia stata decisiva nell’indurre l’amministrazione procedente a proporre, in prima battuta, l’aggiudicazione in favore dell'originaria aggiudicataria. In particolare, è necessario stabilire, preliminarmente, se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante; se inoltre la stessa era in grado di sviare le valutazioni dell'amministrazione; e, infine, se il comportamento tenuto dall’operatore economico incida in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità. 5. Tale valutazione, peraltro, non può essere effettuata "in sostituzione" dal Giudice, come eccepito dalla controinteressata nella memoria di replica, ma deve restare in ogni caso riservata alla stazione appaltante, pena la violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., trattandosi di poteri amministrativi non ancora esercitati. 5.1. D’altra parte, nel momento in cui l’amministrazione effettui in concreto la valutazione, permane intatta la possibilità per il Giudice di sindacare la correttezza dell’esercizio di un potere che deve essere informato ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e attendibilità della scelta effettuata, e fermo restando che soltanto la stazione appaltante può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel futuro contraente. 6. Il ricorso deve dunque essere accolto e gli atti impugnati annullati, con obbligo per l’amministrazione procedente di riesaminare la dichiarazione controversa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-bis del codice dei contratti pubblici. 7. Le spese del giudizio seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione. Condanna in solido l’amministrazione resistente e la società controinteressata a rifondere le spese processuali sostenute dalla parte ricorrente, che liquida in complessivi € ______, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
26 ott, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Tizio, cittadino straniero, chiede in giudizio l’accertamento dell’illegittimità del silenzio tenuto dalla Prefettura procedente sulla domanda di emersione del lavoro irregolare presentata in suo favore ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. 19 maggio 2020 n. 34. Nella prospettazione del cittadino straniero, essendo ormai decorsi i termini ordinari di conclusione del relativo procedimento (individuabili in trenta giorni, in assenza di previsione di diverso termine), il Ministero competente sarebbe dunque obbligato a provvedere. In effetti, alla data della proposizione del ricorso, erano già trascorsi quattro mesi dal momento della istanza inoltrata in favore dello straniero. Si costituisce in giudizio il Ministero dell’Interno, eccependo preliminarmente l’inammissibilità della proposta azione avverso il silenzio, per mancata diffida ad adempiere, oltre che per mancata notificazione del ricorso al datore di lavoro che ha presentato in favore dello straniero la domanda ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. 19 maggio 2020 n. 34. Nel merito, l’amministrazione ha chiesto il rigetto del ricorso, sulla base delle seguenti, concorrenti allegazioni, come supportate dal contestuale deposito di sentenze di merito conformi alla tesi della difesa erariale: - assenza di un termine normativamente previsto: - non applicabilità della disciplina dei termini di cui all’art. 2 della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti riguardanti l’immigrazione; - eccezionalità in tale contesto delle procedure di emersione; - assenza di pregiudizio concreto arrecato all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Il ricorso è fondato, per quanto di ragione. 1.1. In materia di domanda di emersione del lavoro irregolare di cui all’art. 103, comma 1 del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, si è formato un orientamento giurisprudenziale (che ha recepito un precedente indirizzo su fattispecie similare del passato) volto a negare la sussistenza di un termine entro il quale l’amministrazione procedente deve concludere il procedimento, di cui anche la difesa erariale ha dato atto nella sua memoria. Tanto, in considerazione dell’assenza di un termine normativamente previsto, della non applicabilità della disciplina dei termini di cui all’art. 2 della L. n. 241 del 1990 ai procedimenti riguardanti l’immigrazione, della eccezionalità in tale contesto delle procedure di emersione e dell’assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi. 1.2. Il Collegio non può condividere questa impostazione, ritenendo, da un lato, che la stessa crei una frizione con valori costituzionalmente tutelati (oltre che, nel suo riflesso processuale, un vuoto di tutela giurisdizionale), dall’altro, che sussistano elementi interpretativi del dato normativo di segno contrario rispetto a quanto sostenuto e sopra richiamato in materia. 2. Occorre preliminarmente evidenziare che l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo (di tutti i procedimenti amministrativi) entro un determinato termine costituisce diretta applicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 97, comma 2 della Costituzione, secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati (…) in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell'amministrazione”. Il buon andamento della “macchina” organizzativa pubblica presuppone la possibilità per il cittadino che ad essa si rivolge di poter contare su tempi certi – e possibilmente ragionevoli – nella conclusione di un procedimento che debba obbligatoriamente conseguire ad una istanza. In altri termini, se specifiche disposizioni normative prevedono che l’interessato possa conseguire un bene della vita soltanto tramite l’intermediazione dell’autorità pubblica e l’interessato in questione si attiva per conseguire concretamente tale bene, sarebbe contrario al principio costituzionale del “buon andamento” lasciare all’amministrazione la scelta di rispondere o meno. Ogni soluzione diversa dall’obbligo di concludere il procedimento amministrativo “mediante l'adozione di un provvedimento espresso” (così come è in effetti previsto dall’art. 2, comma 1 della L. n. 241 del 1990) – e salve le ipotesi di silenzio significativo -, si tradurrebbe nel conferimento ai pubblici uffici di un potere arbitrario, tipico di uno Stato non democratico. Tale potere arbitrario, inoltre, in quanto astrattamente esercitabile a discrezione, in casi “selezionati” di volta in volta dal preposto a quel singolo procedimento, determinerebbe inevitabilmente anche una lesione dell’altro principio espressamente tutelato dalla Costituzione in materia di pubblici uffici, ovvero l’imparzialità dell’azione amministrativa. Si arriverebbe infatti al paradosso, lasciando piena libertà sull’an e sul quando dell’agere pubblico provvedimentale, di avere, in ordine alla stessa tipologia di istanze, soggetti privilegiati (quelli che, in relazione all’ambito territoriale o burocratico di riferimento, ricevono riscontro alla loro istanza) e soggetti sfavoriti (quelli che, in un diverso ambito territoriale o burocratico di riferimento, non ottengono alcun riscontro alla loro istanza). Verrebbe meno, inoltre, accogliendo un’impostazione diversa dall’obbligatorietà della conclusione di ogni procedimento con provvedimento espresso o anche implicito (qualora ricorrano ipotesi di silenzio diniego o di silenzio assenso), ed entro tempi certi, anche la possibilità di tutela giurisdizionale rispetto all’inerzia dell’amministrazione, con lesione dell’art. 24 della Costituzione, secondo cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. E’ infatti ovvio che dietro un’istanza vi sia sempre una posizione soggettiva in fase di espansione o di perfezionamento, e che l’inerzia dell’amministrazione preclude a tempo indeterminato l’ottenimento del bene della vita a cui aspira l’interessato, obiettivo non adeguatamente raggiungibile con il risarcimento del danno per equivalente (che necessita in ogni caso di idonea prova). 2.1. Il meccanismo di tutela giurisdizionale previsto nell’ipotesi di silenzio inadempimento è peraltro inscindibilmente connesso allo “sforamento” del termine di conclusione del procedimento, tanto è vero che il codice del processo amministrativo stabilisce, all’art. 31, comma 1, che soltanto “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”. Senza l’individuazione di un termine di conclusione del procedimento, dunque, l’art 31 diventa inapplicabile – e conseguenzialmente anche l’art. 117 c.p.a. -, perché l’assenza di un termine implica anche l’impossibilità di agire processualmente contro l’inerzia dell’amministrazione. 2.3. In linea di principio, dunque – e in ossequio ai dettami della Costituzione di uno Stato democratico quale è il nostro –, ogni procedimento amministrativo “necessario” (che consegua cioè obbligatoriamente ad una istanza) deve concludersi entro un determinato termine e con l’adozione di un provvedimento, esplicito o implicito che sia. 3. Il termine generale entro il quale il procedimento deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, è quello indicato dall’art. 2, comma 2 della L. n. 241 del 1990, ovvero trenta giorni. La norma non lascia spazio a soluzioni diverse dall’alternativa “termine di 30 giorni/termine più lungo”, perché il comma 2 dell’articolo 2 sopra citato non dice che disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 possono “non” prevedere un termine, ma soltanto che possono prevedere “un termine diverso”. E il comma 4 dell’art. 2 della L. n. 241 del 1990 – che è la norma che ci interessa più da vicino, in relazione al caso oggetto dell’odierna controversia – così dispone: “Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”. 3.1. Dunque, l’esclusione di cui all’ultimo periodo (“procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione”), per ragioni di coerenza logica e sistematica, non può che riferirsi all’esclusione di tali procedimenti da quelli che devono avere un termine di conclusione del procedimento non superiore a 180 giorni, e non alla loro esclusione sic et simpliciter dal regime dei termini del procedimento. In altre parole, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, può essere individuato, per i procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e per i procedimenti riguardanti l'immigrazione, un termine di conclusione superiore a centottanta giorni. E ciò è tanto vero, se si pensa che per una delle due tipologie di “esclusione” previste dalla L. n. 241 del 1990 (procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio o per concessione), è stato previsto da un atto normativo primario (L. n. 92 del 1991) che “il termine di definizione dei procedimenti di cui agli articoli 5 e 9 è fissato in ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda”. 4. Non conferenti, infine, rispetto alla risoluzione della questione giuridica controversa sono gli ultimi due argomenti spesi a sostegno dell’orientamento che ritiene legittima in questi casi (procedimenti per l’emersione dal lavoro irregolare) l’inerzia “senza fine” dell’amministrazione. 4.1. Quanto al primo (eccezionalità delle procedure di emersione) basti rilevare che l’eccezionalità della specifica procedura, in termini di previsione normativa e di deroga rispetto all’ordinario svolgimento dei procedimenti regolativi dell’immigrazione, non giustifica certamente un regime di eccezione rispetto alla disciplina della L. n. 241 del 1990, qualora non espressamente previsto dalla specifica norma regolativa della fattispecie. 4.2. Quanto al secondo (assenza di pregiudizio concreto arrecata all’interessato dai tempi "dilatati" di conclusione di tali procedimenti amministrativi), si tratta di un argomento di mero fatto, che tendenzialmente può essere utilizzato anche per altre fattispecie per le quali non è mai stato messo in discussione il rispetto obbligatorio di un termine per l’adozione del provvedimento espresso (o implicito), e che dimentica che il bene-tempo costituisce, di per sé, un valore degno di tutela giurisdizionale. 5. In definitiva, essendo decorsi più di trenta giorni dalla domanda procedimentale dell’interessato – e dovendo applicarsi al procedimento di emersione dal lavoro irregolare tale termine di conclusione del procedimento ex art. 2, comma 2 della legge sul procedimento amministrativo, in assenza di previsione espressa di diversi termini – il silenzio serbato dall’amministrazione procedente deve essere considerato illegittimo. 5.1. Ne deriva che la Prefettura competente, tramite lo Sportello unico dell’immigrazione, è obbligata a provvedere sull’istanza di interesse del ricorrente entro e non oltre trenta giorni dalla comunicazione nelle forme di legge della presente sentenza, attribuendo priorità alla pratica del cittadino straniero interessato rispetto alle numerose altre che sono in lavorazione in ordine cronologico. 6. La novità della questione esaminata, nei suoi riflessi modificativi del pregresso orientamento giurisprudenziale, giustifica la compensazione della spese processuali tra le parti. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, ordina alla Prefettura competente di provvedere sull’istanza di interesse del ricorrente, entro il termine di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
25 giu, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La società ALFA impugna dinanzi al competente Tribunale amministrativo regionale, chiedendone l’annullamento, il provvedimento con cui il Ministero della Transizione ecologica (ex Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare) le ha imposto alcune “condizioni ambientali”, in fase di accertamento della rispondenza tra progetto definitivo e progetto esecutivo dei lavori di potenziamento di una strada provinciale. Tale provvedimento è stato adottato in conformità al parere della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS - anch'esso impugnato -, ed ha imposto, nello specifico, senza rilevare sostanziali difformità tra progetto definitivo e progetto esecutivo dell’opera, nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità, al fine di salvaguardare l’ambiente circostante. I lavori di potenziamento della strada provinciale, a loro volta, erano stati previsti nell’ambito di un accordo di programma stipulato nel 2011 tra la Regione, la Città Metropolitana e il Comune territorialmente competenti, con adesione della società ricorrente, e approvati, con riferimento al progetto definitivo presentato dalla ricorrente stessa, con delibera CIPE del 2014, previa positiva valutazione di impatto ambientale. Con un unico, articolato motivo, la società ALFA deduce l’illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’art. 185 del d.lgs. n. 163 del 2006, norma ritenuta ratione temporis applicabile al caso di specie, sostenendo che la Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS avrebbe dovuto astenersi dall’imporre nuove prescrizioni volte alla tutela dell’ambiente, rispetto a quelle già in precedenza prescritte e ottemperate, una volta appurato che non vi erano state, nel passaggio tra progetto definitivo e progetto esecutivo, modifiche del progetto comportanti significative variazioni dell’impatto ambientale. Si costituiscono in giudizio il Ministero della transizione ecologica, che chiede il rigetto del ricorso, la Regione ZETA e il Comune BETA, competenti per territorio e partecipi dell’accordo di programma de quo , che chiedono invece l’accoglimento del ricorso. Si costituisce in giudizio altresì, in un lasso temporale successivo ai sessanta giorni dalla conoscenza del provvedimento del Ministero impugnato, il Comune X, il quale, pur non essendo stato in precedenza parte dell’accordo di programma, propone ricorso incidentale, notificato alle parti necessarie ex art. 170 c.p.c., chiedendo a sua volta l’annullamento del provvedimento ministeriale e del presupposto parere, sia perché assunti senza il suo coinvolgimento - quale ente esponenziale il cui territorio sarebbe stato inciso da una parte dei lavori -, sia perché proprio la mancata partecipazione del Comune interessato avrebbe impedito che fossero sottoposti alla Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale VIA e VAS ulteriori profili ambientali e viabilistici da considerare. Nel merito, sia il Ministero resistente che il Comune X hanno fatto rilevare: 1. che la disciplina applicabile al caso di specie non sarebbe quella di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto tale disposizione normativa era da ritenersi abrogata dopo l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti; 2. che la Commissione Tecnica di Verifica e il Ministero competente avrebbero potuto e dovuto rivalutare, senza alcun limite, anche in sede di esame del progetto esecutivo, e anche se tale progetto fosse stato, come nel caso di specie, coerente con il progetto definitivo, l’impatto ambientale delle opere approvate, imponendo di conseguenza tutte le ulteriori prescrizioni ritenute via via opportune. Il Ministero ha inoltre chiesto l'estromissione dal processo, per difetto di legittimazione passiva, della Regione ZETA e del Comune BETA. A sua volta, la società ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune X, per irritualità dello strumento processuale utilizzato e mancata impugnazione dei precedenti atti (accordo di programma e delibera CIPE), che non avevano considerato quale parte necessaria del progetto tale Comune. Qualche giorno prima della udienza di trattazione della causa, il Ministero convenuto ha dato atto, depositando la relativa documentazione nel fascicolo processuale, di avere attivato e concluso nelle more un procedimento di riesame, su istanza del Comune X, che ha chiesto contestualmente di “essere parte del procedimento ai sensi dell’art. 9, legge n. 241/1990”. Tale procedimento di riesame è stato definito con l’adozione di un altro decreto, a seguito di rinnovata valutazione da parte della Commissione Via-Vas, che ha sostituito il decreto impugnato e ha così statuito, con riferimento alle questioni di rilievo per il presente giudizio: - la richiesta di modifica del tracciato della strada da realizzare, avanzata dal Comune X con memoria ex art. 9 L. 241/90, non è pertinente rispetto al procedimento in esame e potrà essere valutata solo nell’ambito di una procedura di Variante del progetto esaminato; - è verificata positivamente l’ottemperanza alle prescrizioni contenute nella delibera CIPE del 2014 di approvazione del progetto definitivo, nel rispetto delle condizioni ambientali ivi indicate, senza ulteriori prescrizioni afferenti al progetto esecutivo, salve le necessarie verifiche da effettuare in sede di concreta attuazione dei lavori. Il Ministero ha dunque eccepito in udienza la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso principale, o comunque la cessata materia del contendere. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso principale va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Preliminarmente, il Collegio rileva che il nuovo decreto adottato dal Ministero resistente risulta avere determinato la cessazione della materia del contendere, o comunque una sopravvenuta carenza di interesse da parte della società ricorrente (principale), con riferimento ai profili fondamentali di interesse coltivati nel presente giudizio. Al di là delle valutazioni di merito del provvedimento sopravvenuto, è infatti innegabile che la sua adozione implica il superamento degli ostacoli in precedenza rappresentati dall’imposizione di modifiche strutturali alle opere del progetto definitivo e dalla subordinazione della prosecuzione dell’attuazione del progetto alla realizzazione di tali opere. 2. Dovendo in ogni caso scendere nel merito delle singole censure proposte, occorre innanzitutto esaminare l’ammissibilità del ricorso incidentale proposto dal Comune X. L’art. 42 c.p.a. menziona, tra i soggetti legittimati alla proposizione di tale ricorso, soltanto l’amministrazione resistente e i soggetti tecnicamente qualificabili come controinteressati. Sotto questo primo profilo, peraltro, il Comune X non risulta interessato alla conservazione degli effetti dei provvedimenti impugnati in via principale. Invero, l’impugnazione proposta da tale Comune mira a contestare circostanze ed elementi distinti contenuti nei provvedimenti impugnati in via principale, al fine non già di conservare una situazione giuridica di vantaggio ma, al contrario, per conseguire un’ulteriore e diversa utilità, consistente nella rivalutazione dei contenuti di un accordo di programma a cui non aveva partecipato. La posizione del Comune X nel presente giudizio non è dunque quella di controinteressato, ma di soggetto che ha un interesse di fatto coinvolto dal provvedimento impugnato (interesse di fatto costituito dalla circostanza che alcune opere del progetto definitivo dovrebbero essere eseguite nel suo territorio) e un interesse legittimo di tipo partecipativo diretto ad ottenere la modificazione del provvedimento stesso. Tale interesse non è peraltro qualificabile come un interesse contrario a quello della ricorrente principale, o comunque connesso alla necessità di conservazione del provvedimento impugnato, anche perché quest’ultimo atto non ha di per sé effetti favorevoli per il Comune X, come testimoniato dallo stesso ricorso incidentale presentato dal Comune in questione, che è nella sostanza volto a stigmatizzare il suo mancato coinvolgimento nelle valutazioni ministeriali, in relazione a delle presunte criticità ambientali e viabilistiche delle soluzioni approvate. E’ dunque inammissibile il ricorso incidentale proposto dal Comune X, in quanto lo strumento processuale utilizzato non è fondato sui necessari presupposti di legge, né è possibile considerare tale ricorso incidentale alla stregua di un ricorso principale (quale invece avrebbe dovuto essere), perché notificato alle parti necessarie ex art. 170 c.p.c. e non ex art. 41 c.p.a., come invece avrebbe dovuto avvenire, per un’introduzione rituale del giudizio. Sotto altro, concorrente profilo, è rilevabile anche un’assenza di legittimazione (o comunque una carenza di interesse per inoppugnabilità dei precedenti atti prodromici al procedimento ministeriale) ad ottenere la caducazione di un atto che non ha coinvolto né aveva l’obbligo di coinvolgere il ricorrente incidentale, in quanto avente ad oggetto valutazioni di impatto ambientale relative all’esecuzione di un accordo di programma di cui l’amministrazione locale in discorso, a torto o a ragione, non aveva fatto parte. Era al limite ed eventualmente tale accordo di programma (e gli atti ad esso presupposti e conseguenti, quali la delibera di promozione dell’accordo stesso e la delibera CIPE di approvazione del progetto definitivo dell’opera) che avrebbero dovuto essere tempestivamente censurati dal Comune X, e non la successiva sequenza sub-procedimentale innestatasi a livello ministeriale sul legittimo presupposto di dovere coinvolgere una cerchia di soggetti ben definiti, tra cui era stato appunto escluso proprio il Comune X. Sotto ulteriore, concorrente profilo, anche a volere considerare il Comune de quo quale soggetto controinteressato, il suo interesse non sorge, come visto, in dipendenza della domanda svolta in via principale, bensì in dipendenza del provvedimento impugnato, essendo stati impugnati profili di tale atto ulteriori e differenti rispetto a quelli contestati dalla ricorrente principale. Anche sotto questo aspetto, dunque, lo strumento processuale utilizzato è insanabilmente difforme rispetto a quello (ricorso in via autonoma) di cui avrebbe dovuto avvalersi il Comune interessato, e risulta comunque proposto oltre il termine di 60 giorni dalla conoscenza dell’atto impugnato. Il ricorso incidentale è dunque complessivamente inammissibile, per le ragioni appena evidenziate. 3. Venendo all’esame di merito del ricorso principale, lo stesso deve ritenersi fondato. Invero, risulta determinante la circostanza secondo cui nessuna modifica sostanziale è stata introdotta nel progetto esecutivo, rispetto a quello definitivo, e che, in ogni caso, la Commissione non ha riscontrato alcuna variazione significativa dell’impatto ambientale. La verifica di attuazione, quindi, avrebbe dovuto concludersi senza le nuove prescrizioni contestate in sede odierna, fatte salve quelle eventualmente già imposte dal CIPE in sede di approvazione del progetto definitivo, così come specificate dalla Commissione stessa nel suo parere; al contrario, l’amministrazione procedente, in chiara violazione dell’art. 185 del d.lgs. n. 163 del 2006 (norma ratione temporis applicabile, in base al chiaro disposto di cui all’art. 216, comma 1-bis del d.lgs. n. 50 del 2016), ha imposto di variare il progetto definitivo approvato dal CIPE (posto che è pacifico che quello esecutivo si limita a riprodurre, nella sostanza, quanto già approvato in precedenza) sopprimendo alcuni interventi e prevedendo nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità non considerate nello studio di impatto ambientale e non previste nel progetto definitivo. Nello specifico, la società ricorrente ha trasmesso al Ministero resistente il progetto esecutivo dei lavori di interesse, ai fini della verifica di attuazione prevista dal combinato disposto di cui ai commi 6 e 7 del d.lgs. n. 163 del 2006. Secondo una lettura congiunta di tali norme, “prima dell’inizio dei lavori, è comunicata al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio la relativa data ed è trasmesso allo stesso Ministero il progetto esecutivo composto dai documenti previsti dagli articoli 19 e seguenti dell'allegato tecnico recato dall'allegato XXI, ivi compresa l'attestazione di cui all'articolo 20, comma 4”. La suddetta comunicazione è finalizzata alla verifica, da parte della Commissione speciale VIA e VAS, dell’esistenza di eventuali “violazioni degli impegni presi ovvero modifiche del progetto che comportino significative variazioni dell'impatto ambientale”. Qualora tali condizioni ricorrano, “la commissione riferisce al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il quale ordina al soggetto gestore di adeguare l'opera”. Orbene, risulta dagli atti che l’organo tecnico di cui si avvale il Ministero ha omesso di segnalare quali siano “le modifiche del progetto che comportino significative variazioni dell’impatto ambientale”, ma si è diffuso ad imporre nuove prescrizioni di esecuzione delle opere di viabilità, al fine di salvaguardare l’ambiente circostante. Il potere esercitato non è dunque conforme alla specifica procedura attivata – pur essendo in linea di principio coerente con le attribuzioni ministeriali in materia ambientale – e l'atto in conseguenza adottato deve dunque ritenersi viziato per violazione di legge. L’illegittimità rilevata del parere della Commissione - che, dunque, e in sintesi, riguarda tutti gli obblighi ulteriori che sono stati imposti, rispetto a quelli connessi al mero rispetto delle eventuali precedenti prescrizioni CIPE – ha determinato, in via conseguenziale, anche l’illegittimità in parte qua del decreto ministeriale impugnato. 4. In definitiva, ferma restando l’inammissibilità del ricorso incidentale, il ricorso principale deve essere accolto, nella misura in cui non si è verificata una cessata materia del contendere, o comunque una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione. 4.1. Le spese del giudizio devono essere peraltro compensate tra tutte le parti costituite in giudizio, in considerazione della peculiarità e novità della questione esaminata. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso principale e sul ricorso incidentale, come in epigrafe proposti: dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale; dichiara in parte cessata la materia del contendere, o comunque l’improcedibilità del ricorso principale, accogliendolo per il resto, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
20 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La stazione appaltante intimata ha aggiudicato a Delta S.p.A. il lotto n. 1 della gara d’appalto per l’affidamento del servizio di pulizia, sanificazione e ausiliari. La seconda classificata, Alfa S.p.A., ha impugnato tale aggiudicazione, facendo valere l’iscrizione della controinteressata (vincitrice) nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC per aver omesso le dovute dichiarazioni in occasione di una diversa procedura selettiva. La decisione dell'ANAC è stata ritenuta legittima a seguito di una pronuncia di inammissibilità della Corte di Cassazione e dopo essere stata impugnata e sospesa sia in primo che in secondo grado. Secondo la società ALFA S.p.A., la pronuncia della Cassazione avrebbe ri-esteso gli effetti della deliberazione ANAC , recante l’annotazione nel casellario informatico, e accompagnata da 6 mesi di interdizione dalla partecipazione alle procedure di gara e degli affidamenti in sub-appalto. Malgrado le rimostranze di parte ricorrente, la stazione appaltante ha però confermato l’aggiudicazione già disposta. Alfa S.p.A., seconda classificata, impugna dunque gli atti di gara culminati nell’affidamento della commessa, deducendo in diritto i seguenti motivi: I) Violazione dell’art. 80 del d.lgs. 50/2016, lesione della lex specialis e in particolare del disciplinare, falsa applicazione dei principi di piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, eccesso di potere sotto plurimi profili, in quanto alla luce della sentenza della Cassazione la delibera del Consiglio di ANAC avrebbe ripreso efficacia, e con essa sarebbe tornata in vigore la misura dell’interdizione semestrale dallo svolgimento delle procedure di gara (l’annotazione non era stata rimossa ma soltanto sospesa con l’ordinanza del Consiglio di Stato, e con la pronuncia definitiva della Cassazione è ritornata operativa); II. Violazione e falsa applicazione dell’art. 80 comma 5 lett. c) del D. Lgs. 50/2016, degli artt. 3 e 7 della L. 241/90, eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, erroneità dei presupposti, travisamento dei fatti e sviamento, dal momento che: - il dolo accertato nella falsa dichiarazione era desumibile, secondo ANAC, dalla recidiva in altra procedura di gara, che avrebbe disvelato un comportamento elusivo rientrante in una strategia con finalità anticoncorrenziali; - la gravità della condotta (in disparte la questione dell’annotazione che ha ripreso efficacia) avrebbe dovuto indurre la stazione appaltante ad avviare un’accurata istruttoria (che è viceversa mancata in toto) dacché la condotta configura un’ipotesi di esclusione facoltativa per grave illecito professionale. La ricorrente ha chiesto altresì il risarcimento del danno, in via principale mediante aggiudicazione a proprio favore, e in via subordinata per equivalente. Nelle more del giudizio è risultato che ANAC ha annotato nel casellario informatico l’atto interdittivo, avente efficacia residua fino al giugno successivo all'introduzione del ricorso. La stazione appaltante ha tuttavia confermato la correttezza dell'avvenuta aggiudicazione, ritenendo che il dovere di esclusione “sussiste solo qualora la sanzione ANAC sia efficacemente iscritta nel casellario prima della data di presentazione delle offerte”. Quanto al profilo dell’esclusione “discrezionale” (per grave illecito professionale), la stazione appaltante ha ravvisato e documentato l’avvenuta pregressa assunzione di significative misure di "self-cleaning" rispetto al fatto colpito dalla sanzione ANAC. Con motivi aggiunti parte ricorrente ha poi censurato gli ulteriori atti ottenuti con l’evasione dell’istanza di accesso nelle more inoltrata, deducendo ulteriori motivi in diritto: III) Violazione dell’art. 80 del D. Lgs. 50/2016, lesione della lex specialis e del disciplinare di gara, falsa applicazione del principio di possesso dei requisiti di partecipazione senza interruzione, piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, eccesso di potere per plurimi profili, visto che malgrado dia atto dell’effetto dell’annotazione ANAC (interdizione semestrale automatica dalla partecipazione alle gare), l’Ente procedente ha deciso di non procedere alla vincolata esclusione dell’aggiudicataria; sul punto viene invocato l’orientamento di ANAC e della giurisprudenza secondo il quale i requisiti di partecipazione devono essere posseduti senza soluzione di continuità per l’intera durata della procedura, pena la violazione della par condicio. IV) Mancata indagine sull’intervento di "self-cleaning", dato che l’istruttoria è da ritenersi insufficiente e claudicante, con generico richiamo alle misure adottate ma senza prendere posizione specifica e dettagliata sulle plurime illegittimità che hanno connotato la condotta precedente dell'aggiudicataria (che sarebbe consistita in una complessiva strategia avente finalità anti-concorrenziali, sulla quale non erano stati intrapresi necessari approfondimenti esaustivi dei fatti sottesi). V) Violazione dell’art. 80 del D. Lgs. 50/2016, falsa applicazione dei principi di piena concorrenza, par condicio, imparzialità, buon andamento, dell’art. 97 della Costituzione, eccesso di potere per plurimi profili, in quanto, nonostante la controinteressata abbia avuto notizia dell’esito del giudizio sulla segnalazione ANAC prima della disposta aggiudicazione definitiva, avrebbe temporeggiato, dandone comunicazione soltanto qualche giorno dopo la proclamazione del vincitore (comportamento che rientrerebbe, secondo la ricorrente, tra quelli che prevedono l'esclusione dell’operatore economico che abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante ovvero abbia omesso di fornire le dovute informazioni per il corretto svolgimento della selezione). VI) Illegittimità derivata dai vizi che affliggono gli atti presupposti, descritti nel gravame introduttivo. Si sono costituite in giudizio la stazione appaltante e la controinteressata, chiedendo il rigetto del gravame. Si è costituita altresì ANAC. In particolare, la controinteressata ha chiesto: - di disapplicare l’art. dell’art. 80 comma 5 lett. f) e f-ter) del D. Lgs. 50/2016 per contrasto con l’art. 57 par. 4 lett. g) della direttiva self-executing 2014/24/UE; - di rilevare il contrasto dell’automatismo espulsivo con i valori di proporzionalità, libera circolazione, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi e degli artt. 49 e ss. e 56 e ss., 119 del TFUE, 16, 51 e 52 della Carta dei diritti fondamentali UE, dei canoni di parità di trattamento e non discriminazione, del legittimo affidamento e della certezza del diritto, dei principi di legalità e irretroattività; - in subordine, di riconoscere che la preclusione non è automatica ma necessita di un’autonoma valutazione del fatto, che tenga conto delle misure di "self-cleaning" (cfr. art. 80 comma 7 del D. Lgs. 50/2016; CGUE C-387/2019); - in ulteriore subordine, di affermare l’illegittimità derivata dell’art. 38 D. Lgs. 163/2006 e 8 del D. Lgs. 50/2016 per violazione degli artt. 3, 76, 97, 117 comma 1 della Costituzione in riferimento alla direttiva 2004/18/CE e 2014/24/UE e agli artt. 7 e 1 primo prot. agg. CEDU. Con gravame incidentale, la controinteressata deduce infine che la ricorrente avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura selettiva per violazione dell’art. 80 comma 5 lett. c e c-bis del D. Lgs. 50/2016, in quanto avrebbe omesso di esibire informazioni rilevanti ai fini del giudizio di integrità o affidabilità, di competenza della stazione appaltante (si tratta di indagini penali che hanno coinvolto dirigenti e procuratori della Società e il suo Presidente). ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Con l’atto introduttivo del giudizio e i motivi aggiunti la ricorrente censura gli atti della gara per l’affidamento del servizio di pulizia, sanificazione e ausiliari per cui è causa, nella parte in cui la controinteressata non è stata esclusa dalla selezione, in conseguenza del "riacquisto" di efficacia della sanzione interdittiva emessa da ANAC (che precluderebbe la partecipazione alle gare). Con il gravame incidentale, Delta S.p.A. chiede l’estromissione della ricorrente principale dalla procedura selettiva. 1.1. Sull’ordine di trattazione dei ricorsi, la necessità della disamina sia del ricorso principale sia del ricorso incidentale avente effetto paralizzante non postula che debba essere esaminato prioritariamente il secondo: infatti, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince solo l'obbligo di decidere nel merito interamente la causa relativa ad appalti di rilevanza unionale, a condizione che ciò corrisponda anche ad un interesse meramente strumentale alla rinnovazione della gara. Ove, quindi, il ricorso principale sia infondato o inammissibile, e l'aggiudicazione debba perciò essere confermata in capo alla controinteressata, la decisione dell'eventuale ricorso incidentale sarebbe del tutto priva di utilità per la parte, e non potrebbe in alcun modo generare una nuova gara. Del resto, l'art. 42 c.p.a. lega l'interesse all'impugnativa incidentale alla proposizione della domanda principale, con l'effetto che il rigetto di quest'ultima in linea di principio elide quell'interesse sul piano processuale. Adattando i predetti principi alla fattispecie che ci occupa, il Collegio opta per affrontare preliminarmente il ricorso introduttivo (e i motivi aggiunti). 2. L’articolazione della vicenda è chiara. All’esito di una gara aggiudicata in data precedente ai fatti dell'odierno ricorso, la controinteressata è stata segnalata dalla stazione appaltante ad ANAC per la mancata presentazione delle dichiarazioni dovute per legge. L’iscrizione nel casellario informatico – accompagnata dall’inibizione a prendere parte a procedure selettive per l’affidamento di commesse pubbliche – si è definitivamente consolidata "medio tempore" dopo un lungo contenzioso, nel corso del quale i provvedimenti giurisdizionali di sospensione adottati hanno comportato la cancellazione temporanea dell’iscrizione originaria. Nel frattempo, Delta S.p.A. ha ottenuto l’aggiudicazione in suo favore dell’appalto del servizio di pulizia oggetto del presente contenzioso. 2.1. La questione che si pone è stabilire anzitutto da quando decorre l’effetto ostativo (ristabilito dopo la sospensione accordata in sede giurisdizionale) e se la sanzione ANAC – di nuovo efficacemente iscritta nel casellario dopo l'aggiudicazione impugnata – investa anche l’affidamento disposto dalla stazione appaltante in data precedente: la misura interdittiva è infatti ri-entrata in vigore in data posteriore sia alla scadenza del termine di presentazione delle offerte che all’aggiudicazione della gara. 2.2.. Secondo l’art. 80 comma 5 del d.lgs. 80/2016 le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto, tra l'altro, "un operatore economico iscritto nel casellario informatico tenuto dall'Osservatorio dell'ANAC per aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti. Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera l'iscrizione nel casellario informatico; …” (lett. f-ter). Ai sensi del successivo comma 6 “Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5”. 2.3. L’art. 38 comma 4 del regolamento ANAC dispone che “L’o.e. è escluso dalle procedure di gara o dall’accesso alla qualificazione se la scadenza del termine di presentazione delle offerte o l’istanza di qualificazione ricade nel periodo di efficacia dell’annotazione”. 2.4. La giurisprudenza consolidata ricava dalle disposizioni legislative citate la regola per cui il concorrente deve essere immediatamente escluso ogni volta in cui l’interdittiva dell'ANAC venga irrogata in pendenza di una procedura di gara, in quanto la sanzione non produce un mero effetto preclusivo, ma altresì espulsivo. Inoltre, la lett. f-ter, nel prevedere che “Il motivo di esclusione perdura fino a quando opera l'iscrizione nel casellario informatico”, da un lato preclude l'ultrattività della sanzione, dall'altro, però, ne conferma in modo inequivoco la natura di motivo di esclusione che produce i propri effetti nelle procedure in corso, rendendo doverosa la misura espulsiva, anche successiva all’aggiudicazione, dell’impresa colpita. 2.5. A identica soluzione, peraltro, si giunge anche in considerazione del fatto che la sanzione ANAC comporta, sia pur temporaneamente, la perdita dei requisiti di partecipazione, con possibile violazione del principio secondo cui i partecipanti alle gare pubbliche devono possedere i requisiti di partecipazione lungo tutto l’arco della procedura di gara. Dunque, la sopravvenienza della misura interdittiva in una procedura selettiva iniziata prima dell’iscrizione realizza comunque la perdita della continuità dei requisiti di partecipazione, introducendo un'autonoma causa di esclusione dalla gara in corso, mentre l’art. 38 del regolamento ANAC è interpretabile unicamente nel senso che, per le gare indette dopo l'iscrizione nel casellario informatico, la partecipazione è interdetta finché è efficace l'annotazione. 2.6. A tali riflessioni si aggiunge la considerazione che la sanzione irrogata dall'ANAC ha un effetto non già preclusivo della sola partecipazione alle gare nel periodo di interdizione, ma anche un effetto espulsivo in coerenza con la finalità di assicurare un concreto grado di effettività alla misura. E’ utile a questo punto richiamare sinteticamente il quadro normativo europeo, invocato dalla resistente e dalla controinteressata. 3. Secondo il quadro normativo europeo, la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, recepita sul punto dal legislatore nazionale, ha l’introdotto l’istituto del cd. self-cleaning a favore delle imprese che hanno assunto comportamenti inappropriati (afferenti alla moralità professionale) suscettibili di provocare l’esclusione dal confronto comparativo. L’operatore economico che si è reso responsabile di condotte scorrette – che integrano ipotesi di esclusione – può riacquistare l’affidabilità indispensabile per partecipare alla selezione pubblica attraverso una sorta di "ravvedimento operoso": deve a tal fine dimostrare di aver coltivato, entro il termine di scadenza per la presentazione delle offerte, iniziative e strategie concrete idonee a suffragare un pieno recupero di affidabilità e integrità. La stazione appaltante deve poi sottoporre le misure adottate a uno scrupoloso vaglio di congruità. 3.1. La Corte di Giustizia UE ha riconosciuto alla direttiva carattere innovativo, nella parte in cui istituisce il meccanismo delle misure riparatorie (art. 57 par. 6), sottolineando che esso tende a incoraggiare un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui all'articolo 57, paragrafo 4, della medesima direttiva a fornire prove del fatto che le misure da esso adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità nonostante l'esistenza di un pertinente motivo facoltativo di esclusione. Se tali prove sono ritenute sufficienti, l'operatore economico in questione non deve essere escluso dalla procedura d'appalto. A tale riguardo, le misure riparatorie evidenziano l'importanza attribuita all'affidabilità dell'operatore economico, elemento che permea i motivi di esclusione relativi alla situazione soggettiva dell'offerente. 3.2. E’ stato anche osservato che in osservanza del principio di proporzionalità che costituisce un principio generale del diritto dell'Unione, le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dell'attuazione delle disposizioni della direttiva di cui sopra, come le norme destinate a specificare le condizioni di applicazione dell'articolo 57 di tale direttiva, non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da questa stessa direttiva. In questo senso, la necessità di rispettare il principio di proporzionalità risulta parimenti rispecchiata all'articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24, in virtù del quale un operatore economico, che si trovi segnatamente nella situazione contemplata all'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, anche quando ciò derivi da una violazione constatata nei confronti di un subappaltatore indicato nell'offerta, può fornire delle prove al fine di attestare che le misure da esso prese sono sufficienti per dimostrare la sua affidabilità malgrado l'esistenza di detto motivo di esclusione. 3.3. Coerentemente alle istanze sostanzialistiche che da sempre caratterizzano gli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, va quindi evitata l'esclusione di operatori economici (non definitivamente pretermessi dalla procedura da una sentenza penale di condanna agli stessi riferibile) i quali hanno dimostrato di avere adottato misure riparatorie sufficienti a ripristinare il giudizio positivo sulla loro affidabilità nonostante l'esistenza di un pregresso motivo di esclusione; dall’esame della normativa europea in materia di esclusione dalle gare pubbliche non si rinviene cioè un obiettivo punitivo/repressivo, ma l’incoraggiamento rivolto all’operatore ad adoperarsi per elidere nel futuro gli effetti distorsivi di pregressi comportamenti irregolari. In tal modo, il diritto europeo persegue l’effetto di migliorare il contesto imprenditoriale – introducendo "best practises" e modelli organizzativi performanti – e di garantire il più ampio confronto concorrenziale possibile. La "par condicio" delle imprese che aspirano alla commesse pubbliche è salvaguardata dalla chiarezza della previsione e dalla necessità che la stazione appaltante verifichi che la struttura è stata reimpostata in modo autenticamente virtuoso. Al riguardo va osservato, con specifico riferimento all'ipotesi esaminata nell’odierna lite, che il self-cleaning è destinato a produrre benefici sulle gare successive alla sua concreta attuazione, fermi restando gli effetti espulsivi prodotti sulle procedure indette e svolte in precedenza. 4. Nel caso in discussione, la controinteressata è stata colpita dalla causa di esclusione enucleata dall’art. 80 comma 5 lett. f-ter del d. lgs. 50/2016 poiché iscritta “… nel casellario informatico tenuto dall'Osservatorio dell'ANAC per aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti”. 4.1. Secondo l’inequivoco tenore letterale dell’art. 80 comma 7 del D. Lgs. 50/2016 – introdotto nel rispetto della norma cornice di cui all’art. 57 comma 6 e del “considerando” n. 102 della direttiva 24/14/UE – l’operatore economico che versi in una qualunque delle ipotesi enucleate al precedente comma 5 “… è ammesso a provare di aver risarcito o di essersi impegnato a risarcire qualunque danno causato dal reato o dall'illecito e di aver adottato provvedimenti concreti di carattere tecnico, organizzativo e relativi al personale idonei a prevenire ulteriori reati o illeciti”. La stazione appaltante è tenuta poi a valutare – attraverso un’appropriata e motivata valutazione discrezionale – le misure applicate alle quali, se ritenute sufficienti, consegue che al ricorrente non è inibita la prosecuzione della procedura di gara (comma 8). L’unica fattispecie in cui l’esclusione è intangibile è quella sancita da una sentenza penale di condanna divenuta definitiva (comma 9). 4.2. Alla luce del delineato quadro normativo, il Collegio è dell’avviso che l’iter procedimentale osservato dalla stazione appaltante sia conforme al diritto euro-unitario (correttamente trasfuso nel diritto interno). 4.3. Invero, risulta dagli atti che la stazione appaltante ha ravvisato e documentato l’avvenuta pregressa assunzione di significative misure di "self-cleaning" rispetto al fatto colpito dalla sanzione ANAC, di modo che la condotta dell’amministrazione, vagliata alla luce delle riflessioni dei paragrafi precedenti, induce a rigettare le censure avanzate con il gravame introduttivo e i motivi aggiunti. 5. Non è anzitutto condivisibile il rilievo per cui l’esclusione dell’aggiudicataria assumeva natura vincolata. Come ricostruito nei paragrafi precedenti, l’istituto del self-cleaning rappresenta una “valvola di chiusura” del sistema che regola le cause di esclusione, preposta a mitigare le ipotesi ostative enucleate all’art. 80 comma 5, ai sensi del quale “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto …”. L’opposta lettura si porrebbe in contrasto con la direttiva comunitaria più volte evocata (art. 57 commi 4, 5 e 7), vagliata alla luce del considerando n. 102. 5.1. Né può ritenersi indebitamente lesa la par condicio dei concorrenti, ovvero irrimediabilmente posta nel nulla la portata dell’iscrizione nel casellario ANAC. Al contrario, la sanzione inserita ha natura espulsiva, e produce i suoi effetti su tutte le procedure ad evidenza pubblica in corso a prescindere dalla stadio raggiunto (anche posteriore all’aggiudicazione). Pertanto, la fattispecie di cui all’art. 80 comma 5 lett. f-ter è suscettibile di provocare l’esclusione immediata dalle selezioni in atto per l’intero periodo di efficacia dell’iscrizione. E’ onere della parte interessata dimostrare che sono state in concreto adottate misure tecnico-organizzative idonee a “prevenire ulteriori reati o illeciti”. Tra l’altro, la resipiscenza seguita dal ravvedimento operoso è ammessa persino nelle ipotesi di sentenza definitiva di condanna di cui all’art. 80 comma 1 del D. Lgs. 50/2016 (purché la pena detentiva non sia superiore a 18 mesi ovvero abbia riconosciuto l’attenuante della collaborazione). 5.2. Risponde inoltre al canone di logicità il fatto che le misure di self-cleaning siano operative "pro futuro", ovvero per la partecipazione a gare successive all’adozione delle stesse, e che è inimmaginabile un loro effetto retroattivo: solo dopo l’elaborazione e l’attuazione delle misure siffatte la stazione appaltante può reputarsi al riparo dalla ripetizione di pratiche scorrette ad opera dell’impresa e dei suoi organi sociali. Come già sottolineato, le misure di self-cleaning rappresentano una conseguenza di precedenti condotte illecite e rispondono alla finalità di mantenere l'operatore economico sul mercato, e non già all’esigenza di sanare l’illiceità di condotte pregresse: ne deriva che il momento "ne ultra quem" per l'adozione delle misure di self-cleaning e per la loro allegazione alla stazione appaltante è ancorato al termine di presentazione delle offerte, posto che una facoltà di tardiva implementazione o allegazione si paleserebbe, a tacer d'altro, alterativa della par condicio dei concorrenti 5.3. Non persuade neppure la dedotta insufficienza dell’istruttoria rispetto alle misure adottate (secondo motivo aggiunto), nella parte in cui viene censurata la condotta della stazione appaltante, che non avrebbe preso posizione specifica e dettagliata sulle plurime illegittimità che hanno connotato la condotta precedente dell'aggiudicataria, risultando necessario e sufficiente, a tali fini, il rispetto dell’obbligo motivazionale posto in capo alla stazione appaltante stessa e il fatto che le misure (appropriate) precedano il confronto comparativo indetto e abbiano già trovato attuazione alla data di scadenza del termine di presentazione delle offerte. 5.4. E’ infine infondata anche la terza censura formulata nei motivi aggiunti, dal momento che risulta dagli atti di causa la pregressa conoscenza da parte della stazione appaltante dell’esistenza di un contenzioso sull'iscrizione ANAC, dato che la stessa stazione appaltante ha verificato allo scopo le adottate misure di self cleaning da parte dell'interessata, in sede di verifica dei requisiti di partecipazione, e il fatto che immediatamente prima dell’informativa sia intervenuta l’aggiudicazione è del tutto irrilevante, alla luce della ricostruzione giuridica degli effetti dell’interdizione. Né certamente il decorso di alcuni giorni può insinuare un sospetto di “influenza indebita” sul processo decisionale della stazione appaltante, già preavvisata della vertenza e dei procedimenti giurisdizionali pendenti. 6. Non si ravvisa in definitiva la necessità di ricorrere alla disapplicazione della normativa nazionale, che si rivela in realtà coerente con la direttiva 2014/24/UE; né è riscontrabile un’antinomia dell’automatismo espulsivo (in quanto mitigato nel senso illustrato) con i principi euro-unitari, e neppure l’illegittimità derivata per violazione della Costituzione (in riferimento alla direttiva e alla CEDU). 8. Il rigetto della pretesa avanzata dal ricorrente principale, cui si riconnette anche l'infondatezza della domanda di risarcimento del danno, depotenzia l’interesse a decidere il gravame incidentale, che diviene improcedibile. Ad ogni modo, nell'ottica di una valutazione del ricorso incidentale nel merito, lo stesso è da considerarsi infondato, in quanto la mera esistenza di indagini penali non meglio precisate non è sufficiente ad integrare le fattispecie previste dall'art. 80 comma 5 lett. c e c-bis del D. Lgs. 50/2016, in assenza di ogni dimostrazione con mezzi adeguati da parte della stazione appaltante della colpevolezza sul punto dell'operatore economico. 9. In conclusione, il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti sono infondati e devono essere respinti unitamente alla domanda risarcitoria, mentre la società controinteressata è priva di interesse all’esame del gravame incidentale. 10. La complessità e la novità della vicenda inducono a compensare integralmente le spese di lite tra le parti in causa. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti di cui in epigrafe, li respinge. Respinge l’istanza di risarcimento del danno. Dichiara improcedibile il ricorso incidentale per difetto di interesse. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
18 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Nel dicembre 2019 l’Agenzia delle Entrate ha notificato a Delta S.r.l. tre distinti avvisi di accertamento relativi ai periodi di imposta 2012, 2013 e 2014, avverso i quali la società ricorrente ha interposto ricorso avanti la competente Commissione Tributaria provinciale, tuttora pendente, senza che risulti ancora fissata l’udienza per la decisione sull’istanza di sospensione formulata dalla società Delta. A fronte della richiesta di rilascio del c.d. “D.U.R.F.” (Documento Unico di Regolarità Fiscale) ex art. 17 bis, d.lgs. del 28 luglio 1997, n. 241 (così come introdotto dalla l. n. 157/2019) l’Agenzia delle Entrate ha emesso, nell'ottobre 2020, provvedimento di diniego rilevando che non sussistevano i requisiti previsti dall’articolo 17 bis, comma 5, d.lgs. n. 241 del 1997, in presenza di iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento erano scaduti ed erano ancora dovuti pagamenti o non erano in essere provvedimenti di sospensione. Delta S.r.l., successivamente, ha presentato all’Agenzia delle Entrate un’istanza di sospensione in via amministrativa degli importi iscritti a ruolo oggetto degli atti impugnati avanti alle Commissioni tributarie. L’Agenzia delle Entrate, con provvedimento di novembre 2020, ha respinto l’istanza, rappresentando che il 20 ottobre 2020 era stato emanato il D.L. n. 129, il cui art. 1, comma 1, lett. a) aveva differito la sospensione legale della esigibilità delle pretese fiscali, in fase riscossiva, al 31 dicembre 2020. L’operare, pertanto, di tale sospensione legale avrebbe comportato, secondo l'Agenzia, il difetto di attualità del c.d. periculum in mora sino a fine anno, anche considerando che, in forza della richiamata normativa (articolo 29 del D.L. n. 78 del 2010), in linea generale l’esecuzione forzata da parte dell’agente della riscossione restava comunque sospesa per un periodo di centottanta giorni dall'affidamento e che, anche a seguito della comunicazione di presa in carico inviata dall’agente al debitore, non era previsto un termine di versamento. Successivamente, Delta S.r.l. ha, quindi, chiesto nuovamente l’emissione del DURF, sostenendo che l'affidamento a ruolo delle somme portate dai tre avvisi di accertamento originari (impugnati dinanzi alla Commissione tributaria) non avrebbero determinato, in quel momento, l’insorgenza di un debito scaduto in capo alla Società, di conseguenza ostativo al rilascio del DURF. L’Agenzia delle Entrate, peraltro, con provvedimento del dicembre 2020, ha nuovamente omesso di rilasciare una certificazione positiva: l’Amministrazione, pur prendendo atto della sospensione ex lege, ha affermato che la sospensione delle azioni di recupero, cautelari ed esecutive, dei carichi affidati alla riscossione, non impedendo in ogni caso al contribuente di versare autonomamente quanto dovuto, non avrebbe rilievo ai fini della verifica di sussistenza dei requisiti per il rilascio di un certificato ex art. 17 bis. Avverso tale ultimo atto la società ricorrente ha proposto impugnazione con ricorso giurisdizionale ritualmente notificato e depositato, domandandone l’annullamento e chiedendo che fosse ordinato all’Agenzia delle Entrate di emettere il Documento Unico Regolarità Fiscale da lei richiesto ed a questa intestato, con validità di 4 mesi dalla data di emissione. A fondamento del ricorso la società ricorrente, asserendo preventivamente la sussistenza della giurisdizione dell’intestato TAR, ha dedotto il seguente, articolato motivo: - l’Agenzia delle Entrate avrebbe violato l’art. 17 bis, d.lgs. n. 241 del 1997, in quanto il rilascio del DURF è connesso all’esecutività dell’iscrizione a ruolo e alla possibilità per l’Agente della Riscossione di agire coattivamente per la riscossione di quanto dovuto ex art. 1, comma 1, lett. C), d.p.r. n. 602/1973; per contro, l’esecutività degli avvisi di accertamento notificati alla ricorrente risulterebbe sospesa per effetto dell’art. 68, d.l. n. 18/2020, che concerne tanto i termini per i versamenti diretti che quelli per la riscossione, di modo che la circostanza che il contribuente possa adempiere spontaneamente sarebbe irrilevante, poiché la normativa in materia di Documento di Regolarità Fiscale riconnette il rilascio del predetto certificato alla verifica che non siano decorsi i termini per l’esecuzione coattiva della pretesa tributaria, e non alla possibilità giuridica di provvedere al versamento. Si è costituita in giudizio con memoria di stile l’Agenzia delle Entrate e la causa è stata trattenuta definitivamente in decisione. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1. E’ necessario, in via pregiudiziale e di ufficio, valutare se sussiste la giurisdizione di questo Tribunale. La società ricorrente parte infatti dall’assunto – preventivamente illustrato negli scritti difensivi – che la causa petendi della sua azione afferisca ad un interesse legittimo, dimostrando così di avere affrontato e risolto, in senso coerente con la scelta di adire il TAR, la questione di ammissibilità connessa al possibile difetto di giurisdizione. 2. La legge 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, (“Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili”), ha introdotto, nel d.lgs. 28 luglio 1997, n. 241 (contenente < >), l’art. 17 bis - recante < >- ai sensi del quale, per quanto di interesse ai fini del presente giudizio: - in deroga alla disposizione di cui all'articolo 17, comma 1, i soggetti di cui all'articolo 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, residenti ai fini delle imposte dirette nello Stato, ai sensi degli articoli 2, comma 2, 5, comma 3, lettera d), e 73, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che affidano il compimento di una o più opere o di uno o più servizi di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 a un'impresa, tramite contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente con l'utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest'ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma, sono tenuti a richiedere all'impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute di cui agli articoli 23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo 28 settembre 1998, n. 360, trattenute dall'impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori direttamente impiegati nell'esecuzione dell'opera o del servizio. Il versamento delle ritenute di cui al periodo precedente è effettuato dall'impresa appaltatrice o affidataria e dall'impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per ciascun committente, senza possibilità di compensazione (comma 1); - al fine di consentire al committente il riscontro dell'ammontare complessivo degli importi versati dalle imprese, entro i cinque giorni lavorativi successivi alla scadenza del versamento di cui all'articolo 18, comma 1, l'impresa appaltatrice o affidataria e le imprese subappaltatrici trasmettono al committente e, per le imprese subappaltatrici, anche all'impresa appaltatrice le deleghe di cui al comma 1 del presente articolo e un elenco nominativo di tutti i lavoratori, identificati mediante codice fiscale, impiegati nel mese precedente direttamente nell'esecuzione di opere o servizi affidati dal committente, con il dettaglio delle ore di lavoro prestate da ciascun percipiente in esecuzione dell'opera o del servizio affidato, l'ammontare della retribuzione corrisposta al dipendente collegata a tale prestazione e il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di tale lavoratore, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente (comma 2); - nel caso in cui alla data di cui al comma 2 sia maturato il diritto a ricevere corrispettivi dall'impresa appaltatrice o affidataria e questa o le imprese subappaltatrici non abbiano ottemperato all'obbligo di trasmettere al committente le deleghe di pagamento e le informazioni relative ai lavoratori impiegati di cui al medesimo comma 2 ovvero risulti l'omesso o insufficiente versamento delle ritenute fiscali rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, il committente deve sospendere, finche' perdura l'inadempimento, il pagamento dei corrispettivi maturati dall'impresa appaltatrice o affidataria sino a concorrenza del 20 per cento del valore complessivo dell'opera o del servizio ovvero per un importo pari all'ammontare delle ritenute non versate rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, dandone comunicazione entro novanta giorni all'ufficio dell'Agenzia delle entrate territorialmente competente nei suoi confronti. In tali casi, è preclusa all'impresa appaltatrice o affidataria ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito il cui pagamento è stato sospeso, fino a quando non sia stato eseguito il versamento delle ritenute (comma 3); - in caso di inottemperanza agli obblighi previsti dai commi 1 e 3, il committente è obbligato al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata all'impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice per la violazione degli obblighi di corretta determinazione delle ritenute e di corretta esecuzione delle stesse, nonché di tempestivo versamento, senza possibilità di compensazione (comma 4); - gli obblighi previsti dal presente articolo non trovano applicazione qualora le imprese appaltatrici o affidatarie o subappaltatrici di cui al comma 1 comunichino al committente, allegando la relativa certificazione, la sussistenza, nell'ultimo giorno del mese precedente a quello della scadenza prevista dal comma 2, dei seguenti requisiti: a) risultino in attività da almeno tre anni, siano in regola con gli obblighi dichiarativi e abbiano eseguito nel corso dei periodi d'imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell'ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10 per cento dell'ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; b) non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all'imposta regionale sulle attività produttive, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione… (comma 5); - a decorrere dalla data di applicazione della presente disposizione, la certificazione di cui al comma 5 è messa a disposizione delle singole imprese dall'Agenzia delle entrate e ha validità di quattro mesi dalla data del rilascio (comma 6). 2.1. La disposizione legislativa che precede, derogando al precedente art. 17, comma 1, in materia di versamenti e compensazioni sugli appalti, introduce alcune misure volte a garantire, con specifico ed esclusivo riguardo al settore degli “appalti, subappalti e affidamenti” con prevalente utilizzo di manodopera di valore superiore a 200.000 euro, un controllo più intenso ed effettivo del corretto adempimento, da parte delle imprese appaltatrici, aggiudicatarie o affidatarie, degli obblighi sulle stesse gravanti relativamente al versamento delle ritenute che le stesse devono operare sui redditi da lavoro dipendente erogati. Proprio per garantire l’effettività del controllo da parte del committente in ordine al rispetto della suddetta disciplina in materia di versamento delle ritenute, i commi da 1 a 3 prevedono degli obblighi/oneri di comunicazione documentale a carico degli imprenditori, che, a seconda della dimensione dell’azienda, possono anche risultare molto gravosi. In termini strettamente derogatori agli stringenti e potenzialmente gravosi obblighi che precedono, quindi, il legislatore ha previsto l’istituto oggetto del presente giudizio ovvero il certificato che l’impresa appaltatrice/aggiudicataria/affidataria deve allegare alla comunicazione di cui al comma 5, nel quale deve essere attestata la sussistenza dei requisiti specifici previsti dal suddetto comma alle lettere a) e b) sopra richiamate. 2.2. Si tratta, sinteticamente, di una certificazione di regolarità fiscale: di qui l’espressione DURF o “Documento Unico di Regolarità Fiscale”, da taluni anche già ridenominato, evocativamente, “DURC fiscale”. Infatti, l’analogia con l’istituto del “DURC” – dichiarazione unica di regolarità contributiva – si giustifica in quanto ne condivide la sostanziale ratio, quella di offrire alla committenza la certificazione (nel caso del DURC da parte degli Enti previdenziali) della regolarità nei versamenti, nel caso del DURC, dei contributi previdenziali da parte dell’impresa appaltatrice/aggiudicatrice/affidataria. Dal punto di vista, quindi, dell’ambito di efficacia del DURF, la finalità di certificazione della regolarità fiscale che lo stesso garantisce, allo stato, può dirsi strettamente limitata ai contratti indicati nel comma 1 che precede. Per quanto concerne, invece, la natura e le caratteristiche di tale “documento”, esso costituisce il risultato di un’attività di “certificazione” da parte dell’Agenzia delle Entrate: un atto pubblico, cioè, "certativo" di una serie di dati di fatto, puntualmente indicati dalle citate lettere a) e b) che precedono, che l’Agenzia delle Entrate è tenuta a “mettere a disposizione” delle singole imprese. 2.3. Si tratta, quindi, come nel caso del DURC, di una dichiarazione di scienza che si colloca tra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso. 3. Come per esso, quindi, la situazione giuridica vantata dall’impresa richiedente il Durc nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e che si ritiene lesa da una certificazione negativa erronea o non veridica integra una posizione di diritto soggettivo, non incidendo direttamente o indirettamente su di essa l’esercizio, da parte della P.A., di poteri pubblicistici tali da incardinare la giurisdizione del Giudice amministrativo ai sensi degli artt. 7 e 133 c.p.a. (circa la giurisdizione del Giudice ordinario relativamente all’accertamento della regolarità contributiva ai fini del rilascio del Durc, si veda Cass. civ., sez. lav., 03 marzo 2021, n. 5825) La contestazione circa l’erroneità e, quindi, la non veridicità contenuta nell’atto pubblico di cui sopra, laddove venga promossa in via principale, per mezzo, cioè, di un giudizio specificamente ed esclusivamente finalizzato a censurare tali vizi della certificazione, deve, pertanto, rivestire le forme del giudizio per querela di falso, ai sensi degli artt. 221 e ss. c.p.c., la cui decisione spetta al Giudice ordinario. Ai sensi dell’art. 8, comma 2, c.p.a., infatti, la “risoluzione dell’incidente di falso” resta riservata all’autorità giudiziaria. 3.1. Rimane fermo, per contro, l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze n. 6 e n. 10 del 2016 (ribadito dalla giurisprudenza successiva), secondo il quale, nell’ambito dei giudizi afferenti procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, il giudice amministrativo può conoscere, senza travalicare i limiti della propria giurisdizione, la questione relativa alla sussistenza del requisito della regolarità contributiva, senza che occorra l'espressa impugnazione del DURC, oggetto solo di un sindacato incidenter tantum ai sensi dell'art. 8 c.p.a. Si tratta di insegnamento che, come sottolineato anche dallo stesso Consiglio di Stato, anche se affermato con riferimento ai documenti di regolarità contributiva rilasciati dagli enti previdenziali, è applicabile pure con riferimento alle certificazioni di regolarità fiscale rilasciate dall'Agenzia delle Entrate e va qui ribadito, anche in coerenza con il conforme indirizzo espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui nelle controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture da parte di soggetti tenuti al rispetto delle regole di evidenza pubblica, poiché la produzione della certificazione che attesta la regolarità contributiva dell'impresa partecipante alla gara di appalto (c.d. "durc") costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa di settore ai fini dell'ammissione alla gara, appartiene alla cognizione del giudice amministrativo verificare la regolarità di tale certificazione. 3.2. Nel caso di specie, ove la contestazione della regolarità del DURF non si iscrive nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una procedura di gara, ma è assunta in via principale ed esclusiva, la società ricorrente contestandone l’erroneità e non veridicità, non è invocabile il sindacato “incidenter tantum” da parte dell’intesto TAR, il quale, pertanto, non può che declinare la propria giurisdizione. 4. Così definita la “pars destruens” del ragionamento in ordine al riparto di giurisdizione, d’altronde, occorre accertare quale sia l’Autorità giudiziaria effettivamente titolare del potere di decidere sulla controversia in questione. Infatti, a differenza del DURC, che involge profili contributivi come tali afferenti alla materia lavoristica e previdenziale, comunque di spettanza del giudice ordinario, il DURF presuppone la sussistenza di un rapporto tributario e concerne l’adempimento dei relativi obblighi. Quindi, si tratta, comunque, di una certificazione che si inserisce in un ambito “tributario”. 4.1. A questo proposito, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1992 ss.mm.ii. (recante disposizioni sul processo tributario) <<1. Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni nonché gli interessi e ogni altro accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica; 2. Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale. Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie [relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall' articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani, nonché le controversie] attinenti l'imposta o il canone comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni; 3. Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio>>. La norma che precede, poi, deve essere letta in combinato disposto con l’art. 19 che precisa quali atti possono formare in concreto oggetto di ricorso avanti al Giudice Tributario ovvero: < >. 4.2. Ciò che non è ricompreso nell’ambito di applicazione del suddetto combinato disposto, pertanto, (e fatti salvi i casi di giurisdizione del giudice amministrativo, nel caso di specie, come detto, non sussistente) pertiene alla giurisdizione del Giudice ordinario come emerge, indirettamente, dal disposto dell’art. 9, comma 2, c.p.c., ancorché dettato in materia di riparto della competenza e non di giurisdizione. 5. Ebbene, nel caso che ci occupa, in primo luogo, va ribadito che l’azione esperita da parte ricorrente, essendo volta a contestare l’erroneità e la non veridicità della certificazione facente prova fino a querela di falso, va sussunta, come detto, nell’ipotesi di cui all’art. 221 c.p.c. la cui giurisdizione spetta al giudice ordinaria in considerazione della testuale previsione del comma 3 dell’art. 2, d.lgs. n. 546 del 1992 che precede. In secondo luogo, il certificato in questione non rientra comunque tra gli atti impugnabili ex art. 19 richiamato, sicché, comunque, andrebbe dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario. 5.1. In conclusione, pertanto, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, e la giurisdizione del Giudice ordinario. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, c.p.a., quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato. 6. Anche se il rilevato profilo di rito è da ritenersi assorbente, occorre in ogni caso esaminare il merito della questione sostanziale sollevata dalla ricorrente. 6.1. Nella prospettiva di Delta S.r.l., l’Agenzia delle Entrate avrebbe violato l’art. 17-bis del d.lgs. n. 241 del 1997, in quanto il rilascio del DURF sarebbe connesso all’esecutività dell’iscrizione a ruolo e alla possibilità per l’Agente della Riscossione di agire coattivamente per la riscossione di quanto dovuto ex art. 1, comma 1, lett. c) del d.p.r. n. 602/1973. Tale esecutività sarebbe stata sospesa, quanto agli avvisi di accertamento notificati alla ricorrente, per effetto dell’art. 68, d.l. n. 18/2020. L'assunto del ricorrente è corretto, dal momento che la normativa in materia di documento di regolarità fiscale riconnette il rilascio del predetto certificato alla verifica che non siano decorsi i termini per l’esecuzione coattiva della pretesa tributaria (in relazione alla comunicazione al committente di non avere "iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi (...) per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione"), di modo che la circostanza che il contribuente possa adempiere spontaneamente sarebbe irrilevante, a fronte di una norma, come l'art. 68 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 27 del 2020, secondo cui erano sospesi, al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, i termini dei versamenti, anche derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione. D'altra parte, l'Agenzia delle Entrate non ha dedotto in giudizio nessun argomento di segno contrario rispetto alla ricostruzione operata dalla ricorrente. 7. Attesa la novità e la particolarità delle questioni oggetto di causa le spese di lite devono essere integralmente compensate. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso dichiara il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo e la giurisdizione del Giudice ordinario. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
04 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La società ALFA, proprietaria di un impianto di distribuzione di carburanti concesso in gestione a terzi, realizzato su suolo pubblico in ragione di un’apposita concessione ormai da tempo scaduta, all'inizio del 2018 ha chiesto al Comune di Zeta, a seguito di due proroghe biennali, un rinnovo della concessione per nove anni. Dopo il motivato diniego di tale richiesta da parte del Consiglio comunale (con deliberazione del 10 marzo 2019), il responsabile della struttura competente ha dato comunicazione di esso con nota datata 27 aprile 2019 alla richiedente, la quale si è rivolta al proprio avvocato rappresentando di non aver mai ricevuto copia di tale deliberazione e, quindi, di non averne avuto piena conoscenza, né di aver mai ricevuto la comunicazione del preavviso di rigetto dell’istanza, comunque sopravvenuta rispetto al formarsi del silenzio assenso. Entrambi gli atti suddetti sono stati dunque impugnati con un ricorso in cui sono stati dedotti: 1. l’illegittimità della deliberazione del Consiglio comunale per omessa notificazione della stessa; 2. la violazione degli artt. 3 e 10-bis della L. n. 241/1990: da un lato, i provvedimenti gravati avrebbero omesso di indicare i mutamenti sopravvenuti o i motivi di interesse pubblico che hanno indotto a negare il rinnovo della concessione; dall’altro lato, si tratterebbe di un atto discrezionale rispetto al quale sarebbe mancata la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, in violazione dell'ultimo periodo del comma 2 dell'art. 21-octies della L. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120; 3. il provvedimento di diniego sarebbe stato adottato dopo il termine per la conclusione del procedimento (il diniego è stato comunicato solo il 27 aprile 2019, a fronte dell’istanza di rinnovo presentata nel gennaio del 2018), con la conseguente formazione del silenzio-assenso di cui all’art. 20 l. 241/1990; 4. difetto di motivazione della scelta del Consiglio comunale di negare la concessione sulla scorta della considerazione della - solo potenziale, allo stato - volontà di recupero dell’area alla fruizione pubblica. Col il quinto punto di ricorso, la società ha, quindi, chiesto la condanna del Comune al risarcimento del danno derivante dalla necessità dello smantellamento dell’impianto e della sua delocalizzazione, con conseguente sviamento della clientela e perdita di una quota di mercato, mentre al sesto punto essa ha lamentato l’erroneità del calcolo relativamente al pagamento dei canoni di occupazione di suolo pubblico. Si è costituito in giudizio il Comune di Zeta per chiedere il rigetto del gravame, previa declaratoria del difetto di giurisdizione rispetto a quanto dedotto in relazione al preteso erroneo calcolo dei canoni di occupazione del suolo pubblico. Esso ha altresì rappresentato, in punto di fatto, che nella comunicazione del 27 aprile 2019 è stato riportato il dispositivo della deliberazione del Consiglio comunale, di cui è stata allegata copia, recante anche le motivazioni del diniego, evidentemente conosciute dalla ricorrente, che ne ha infatti contestato il fondamento con nota dell'11 maggio 2019, depositata in giudizio. Nel merito, il Comune ha evidenziato l’adeguata motivazione del diniego del rinnovo della concessione (considerata la volontà esplicitata dal Comune, nel provvedimento, di recuperare alla fruizione pubblica una piazza collocata in posizione strategica nell’ambito del centro storico dello stesso) e chiesto di accertare l’effetto non invalidante dell’omessa comunicazione delle ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza, alla luce del secondo comma dell’art. 21 octies della legge n. 241/90, evidenziando che parte ricorrente, in giudizio, non ha addotto alcun elemento concreto e idoneo, a fronte della chiara e compiuta motivazione del diniego avversato, a indurre a ritenere che, se l’Amministrazione ne fosse stata resa edotta attraverso la partecipazione al procedimento, il contenuto dell’atto finale avrebbe potuto essere diverso da quello dell’atto impugnato. Al contrario, la difesa dell'amministrazione comunale ha dedotto in giudizio che le motivazioni poste alla base delle due precedenti proroghe si rifacevano alla esigenza di garantire al territorio comunale di Zeta la presenza di almeno un impianto di distribuzione di carburanti che potesse soddisfare le esigenze della popolazione, motivazioni sostanzialmente venute meno con l’entrata in esercizio di un altro impianto di distribuzione di carburanti; si è resa necessaria, di conseguenza, una valutazione che imponga di considerare prioritario l’obiettivo di addivenire ad un recupero funzionale dell’area di che trattasi, al fine di destinarla in maniera proficua alla utilizzazione pubblica e dell’intera collettività. La società ricorrente, nella sua memoria finale, ha ribadito quanto sostenuto in ricorso, mettendo in evidenza, per quanto attiene alla fase integrativa dell’efficacia della deliberazione consiliare, l’incompletezza della stessa, essendo stata omessa la pubblicazione all’albo del provvedimento. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1. Preliminarmente, il Collegio deve dare atto del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento alla contestazione della misura dei canoni di occupazione dovuti di cui al punto 6 del ricorso. L’articolo 5, secondo comma della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 (oggi art. 133, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 104 del 2010), infatti, ha riservato al giudice ordinario ogni controversia relativa ad indennità, canoni ed altri corrispettivi inerenti a rapporti di concessione e, per giurisprudenza consolidata, le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario sono quelle contrassegnate da un contenuto meramente patrimoniale, attinente al rapporto interno tra p.a. concedente e concessionario del bene, contenuto in ordine al quale la contrapposizione tra le parti si presta ad essere schematizzata secondo il binomio "obbligo-pretesa", senza che assuma rilievo un potere di intervento riservato alla p.a. per la tutela di interessi generali. 2. Declinata la giurisdizione su tale domanda, il ricorso, per la parte restante, non è suscettibile di positivo apprezzamento. 2.1. Il primo motivo di gravame è infondato in fatto, atteso che il contenuto della delibera del Consiglio comunale lesiva è stato riportato integralmente nella lettera oggetto di impugnazione dal Comune resistente, come provato anche dalla circostanza che , con missiva in data successiva, la società ricorrente, preso atto del diniego, ne ha contestato il fondamento, rendendo così palese di aver preso piena conoscenza del contenuto dei provvedimenti gravati. In ogni caso, l'eventuale mancata notificazione, così come la dedotta omessa pubblicazione della delibera consiliare contestata (in asserita violazione dell’art. 124 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, anche se la deduzione è stata inammissibilmente effettuata per la prima volta dalla ricorrente con memoria finale non notificata) avrebbero avuto soltanto l’effetto di fare decorrere il termine per l’impugnazione dalla piena conoscenza di tali atti, ex art. 41, comma 2 c.p.a., e non inciderebbero sulla legittimità della delibera stessa. 2.2. Anche il secondo motivo di gravame è infondato, atteso che risulta dagli atti che la delibera consiliare impugnata chiarisce i motivi di interesse pubblico e le sopravvenienze in fatto che hanno giustificato il diniego, ovvero la necessità di considerare prioritario, rispetto alla conservazione in loco di un impianto di distribuzione di carburanti, l’obiettivo di addivenire ad un recupero funzionale dell’area in questione, al fine di destinarla in maniera proficua alla utilizzazione pubblica e dell’intera collettività. 2.3. Quanto al profilo relativo all’omessa comunicazione dei motivi ostativi, deve osservarsi che la deduzione non può trovare accoglimento, atteso che è stato dimostrato in giudizio – per quanto appresso si dirà - che il contenuto sostanziale del provvedimento, relativamente alla parte in questa sede impugnata, non è affetto dai vizi dedotti dalla ricorrente, e che, se anche fosse stato preceduto dalla prescritta comunicazione di legge, non avrebbe potuto comunque avere diverso contenuto. A tal proposito, occorre precisare che, per giurisprudenza costante, la violazione dell'art. 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, in ragione di quanto previsto dall’art. 21-octies della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, quale l’omessa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, il provvedimento conclusivo del procedimento non può essere annullato, nel caso in cui sia dimostrato che anche qualora la norma fosse stata rispettata il contenuto del provvedimento, discrezionale, non avrebbe potuto essere diverso. Nella fattispecie in esame parte ricorrente, anche in giudizio, non ha addotto alcun elemento concreto e idoneo - a fronte della chiara e compiuta motivazione del diniego avversato - a indurre a ritenere che, se l’Amministrazione ne fosse stata resa edotta attraverso la partecipazione al procedimento, il contenuto dell’atto finale avrebbe potuto essere diverso da quello dell’atto impugnato, e la difesa comunale ha evidenziato che le motivazioni poste alla base delle due precedenti proroghe (le quali si rifacevano alla esigenza di garantire al territorio comunale di Zeta la presenza di almeno un impianto di distribuzione di carburanti che potesse soddisfare le esigenze della popolazione) erano sostanzialmente venute meno con l’entrata in esercizio di un altro impianto di distribuzione di carburanti. Né può trovare applicazione al caso di specie la modifica del comma 2 dell’art. 21-octies della L. n. 241/1990 disposta dall’art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, che espressamente esclude l’applicazione della norma stessa nel caso di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/90, atteso che gli atti impugnati ricadono in un arco temporale antecedente alla adozione della modifica, dal carattere evidentemente innovativo del precedente quadro normativo e giurisprudenziale formatosi sulla originaria formulazione dell’art. 21-octies citato. Conseguentemente, l’operare del principio "tempus regit actum" preclude l’applicazione al caso di specie della novella. 2.4. Neppure è fondato il terzo motivo di gravame, relativo all’asserita formazione del silenzio-assenso sull’istanza di rinnovo della concessione presentata dall’odierna ricorrente, atteso che il provvedimento con cui la pubblica amministrazione assente ad una occupazione di suolo pubblico non può formarsi per silenzio assenso, tenuto conto della sua natura concessoria e dei rilevanti interessi pubblici connessi alla corretta pianificazione del territorio. Con tale provvedimento, infatti, la P.A. trasferisce in capo al privato istante una posizione giuridica attiva, che fino a quel momento era nella sua titolarità esclusiva, e ne regola l’uso, previa valutazione della ricorrenza dei requisiti previsti dalla normativa applicabile e previa comparazione dei contrapposti interessi in gioco. Ne consegue che, come più volte chiarito dalla giurisprudenza, nel caso di istanze volte ad ottenere concessioni per l'occupazione di suolo pubblico, non trova applicazione, per le insopprimibili ed ovvie esigenze di interesse pubblico al pieno controllo dell'ente comunale circa l'utilizzo delle proprie strade, l'istituto del silenzio assenso di cui all'art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241. 2.5. Anche il quarto motivo di gravame è infondato, atteso che l’Amministrazione – per quanto già indicato relativamente all’esame del secondo motivo – ha chiarito le ragioni del diniego. In particolare, deve osservarsi che la delibera consiliare censurata ha rappresentato, nell’esercizio dei poteri di competenza del Consiglio Comunale, l’esigenza di creare uno spazio pubblico destinato alla collettività, esigenza che – stando alle valutazioni discrezionali del Comune, che non risultano trasmodare, nel caso di specie, nell’irragionevolezza e dunque nell’eccesso di potere – non si concilia con la permanenza dell’impianto di distribuzioni di carburanti in una area di rilievo strategico, dal punto di vista urbanistico ed architettonico, del centro urbano. 3. Nemmeno può trovare accoglimento la domanda risarcitoria di cui al punto n. 5 del ricorso. In disparte ogni considerazione circa la genericità dell’istanza, nella quale si lamenta solo in termini del tutto ipotetici il danno che potrebbe derivare dalla delocalizzazione dell’impianto, in termini di perdita di una fetta di mercato e di appeal sulla clientela, essa deve, comunque, essere rigettata alla luce della legittimità dei provvedimenti gravati e della reiezione della domanda di annullamento, che escludono la sussistenza di una condotta ingenerante un danno ingiusto, fonte di responsabilità. 4. In conclusione, il ricorso deve essere integralmente rigettato e, pertanto, le spese di lite, liquidate in dispositivo, sono poste a carico della società ricorrente, per il principio della soccombenza. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso: - dichiara inammissibile la censura di cui al sesto punto del ricorso, declinando la propria giurisdizione a favore del giudice ordinario; - lo respinge in ogni altra sua parte, compresa la domanda di risarcimento del danno; - condanna la società ricorrente a rifondere le spese processuali sostenute dall’amministrazione resistente, che liquida in complessivi € ______, oltre accessori di legge e rifusione del contributo unificato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati: SPIEGAZIONE MOTIVAZIONE La traccia può e deve essere divisa, ai fini della stesura della motivazione, in due segmenti. Il primo, contenutisticamente meno rilevante - ma decisivo ai fini di una valutazione positiva del candidato - concerne la domanda di determinazione dell'indennità dovuta per i canoni. Il secondo riguarda invece il nucleo della motivazione che è alla base del provvedimento impugnato. Dal momento che il Comune ha eccepito il difetto di giurisdizione, il candidato deve prioritariamente soffermarsi su tale eccezione, anche se l'eventuale accoglimento della stessa, come nel caso di specie, non determinerebbe la preclusione dell'esame di merito delle altre censure. Si tratta infatti di una domanda distinta da quella principale di annullamento, in quanto volta all'accertamento di un diritto, espressamente escluso dall'art. 133, comma 1 lett. b) del codice del processo amministrativo dall'ambito della giurisdizione esclusiva. D'altra parte, siccome il rigetto di tale domanda (rectius: la declaratoria di inammissibilità) non assorbe il nucleo centrale dei motivi di ricorso, non occorre in questo caso affrontare il merito anche della questione afferente all'indennità. Ci si può dunque arrestare, su questa domanda, ad una pronuncia in rito. Quanto invece alla domanda di annullamento, il nucleo centrale da affrontare, come detto, attiene alla "tenuta" della motivazione del provvedimento. La traccia offre una soluzione abbastanza semplice in ordine alla valutazione del corretto esercizio della discrezionalità da parte dell'amministrazione - nel caso di specie da ritenersi sussistente - ma presenta un'insidia sugli effetti di un vizio formale sicuramente ravvisabile, ovvero il mancato preavviso di diniego. Occorre dunque chiedersi se l'esplicita (e recente) introduzione nell'ambito della L. n. 241 del 1990 di un inciso che esclude l'equiparazione tra mancata comunicazione di avvio del procedimento e mancato preavviso di diniego, ai fini di applicabilità dell'art. 21-octies, comma 2, secondo periodo della legge sul procedimento amministrativo, abbia una portata innovativa o di interpretazione autentica. Nel primo caso, la norma va applicata ex nunc , e cioè a tutti quei procedimenti che non si siano ancora conclusi al momento dell'entrata in vigore della nuova norma; nel secondo caso, la disposizione de qua va applicata ex tunc, e quindi anche al procedimento concluso prima della sua entrata in vigore . Il candidato può scegliere astrattamente entrambe le soluzioni, purché motivando in merito, ma dovrebbe in ogni caso tenete presente - e dimostrare di esserne a conoscenza - che la giurisprudenza formatasi precedentemente alla novella legislativa si era espressa per l'equiparazione tra i due vizi (mancato preavviso di diniego e omessa comunicazione di avvio del procedimento), ai fini della possibilità di integrazione della motivazione, da parte dell'amministrazione, in sede processuale, di modo che risulta più corretto sostenere che si tratti di norma che, prendendo atto di tale orientamento giurisprudenziale, lo abbia voluto superare innovativamente e non in sede di interpretazione autentica della disposizione originaria. Due delle altre censure principali del ricorso sono infine risolvibili grazie all'applicazione dei principi generali: da un lato, occorre ricordare che la contestazione di mancata notificazione o pubblicazione dell'atto, riguardando nel caso di specie un profilo di efficacia e non di perfezione dell'atto stesso, viene processualmente superata dall'intervenuta piena conoscenza del provvedimento impugnato e comunque non incide sulla legittimità dell'atto; dall'altro, è necessario tenere a mente che il disposto dell'art. 20 della L. n. 241 del 1990 qualifica l'inerzia entro il termine di conclusione del procedimento dell'autorità procedente come silenzio-assenso soltanto nei casi ivi previsti, tra cui è senz'altro da escludere, per motivi testuali e sistematici, una concessione di suolo pubblico.
03 mag, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La ricorrente società ALFA ha impugnato il silenzio serbato dal Comune di Zeta sulla domanda di accesso dalla stessa presentata per ottenere copia degli atti relativi al progetto di costruzione di un centro di servizi di utilità pubblica, presentato dalle Società BETA e DELTA. La richiesta è stata motivata con riferimento alla necessità della ricorrente di difendersi in un giudizio civile pendente ed avente ad oggetto l’inadempimento della stessa società BETA ad un contratto preliminare. La ricorrente, con riguardo alle vicende che hanno preceduto la presentazione della domanda di accesso, riferisce di avere stipulato un contratto preliminare con il quale si obbligava ad acquistare dalla società BETA, promissaria venditrice, un compendio immobiliare per la costruzione del predetto centro di servizi di utilità pubblica. Il contratto era sottoposto alla condizione dell’acquisizione delle abilitazioni e dei titoli urbanistici ed edilizi necessari. Il permesso di costruire che era stato rilasciato dal Comune di Zeta alla società BETA è stato nel frattempo dichiarato decaduto per il mancato tempestivo avvio dei lavori e conseguentemente è stata dichiarata la risoluzione della convenzione urbanistica attuativa dell’accordo di pianificazione stipulato tra la società ALFA, la società BETA e il Comune ai sensi della legge regionale applicabile al caso di specie. In questo contesto si è instaurato il giudizio civile nel quale la Società ALFA ha chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa dell’inadempimento della società BETA, la quale, secondo la prospettazione della parte attrice, avrebbe fatto di proposito decadere il permesso di costruire. La ricorrente afferma inoltre di aver appreso da notizie di stampa che la promittente venditrice BETA ha presentato al Comune, unitamente alla società DELTA, un nuovo progetto volto alla realizzazione dello stesso centro servizi di pubblica utilità, sul medesimo terreno che era stato promesso in vendita. Questa circostanza, ad avviso della ricorrente, induce a ritenere che la decadenza del titolo edilizio sia stata provocata proprio al fine di estrometterla dall’operazione economica, così risolvendo il contratto preliminare. La domanda di accesso presentata è pertanto volta ad ottenere dal Comune copia di tutti gli atti connessi alla nuova proposta urbanistica pubblico-privato presentata dalle società BETA e DELTA. La ricorrente afferma di ritenersi senz’altro titolare di un interesse concreto, diretto ed attuale all’accesso per poter acquisire la prova, da far valere nel giudizio civile, che vi è stata una premeditazione a suo danno nell’inerzia di BETA che ha comportato la decadenza del titolo edilizio. Inoltre, prosegue la ricorrente, la documentazione posta a corredo della nuova proposta di pianificazione presentata, di cui chiede l’ostensione, potrebbe contenere elementi utili a comprovare la sussistenza di condotte fraudolente o comunque illecite ai suoi danni. Nelle more della trattazione dell’udienza di merito, il Comune ha avviato in autotutela un procedimento volto al superamento del silenzio-rigetto precedentemente formatosi (impugnato con il ricorso introduttivo) e, dopo un contraddittorio procedimentale, ha respinto in modo esplicito la domanda di accesso ritenendo: - che non sussista un interesse concreto ed attuale, neppure indiretto, in capo alla richiedente per accedere alla nuova proposta di accordo, poiché le contestazioni su cui la stessa fonda la legittimazione e l’interesse sono relative ad eventi e situazioni passate, con la conseguenza che il futuro ed eventuale assetto urbanistico delle aree in questione non possa, neppure astrattamente, dispiegare effetti diretti o indiretti sul contenzioso civilistico in essere; - che la richiesta di accesso riguarda una proposta di accordo di pianificazione che è destinata a divenire parte integrante dello strumento urbanistico, ed è da considerarsi inscritta nell’ambito del processo di formazione dello strumento urbanistico generale; si tratta quindi di domanda che concerne documenti sui quali, per effetto del combinato disposto di cui agli articoli 13 e 24, della legge 7 agosto 1990, n. 241, è assolutamente escluso l’accesso nella forma richiesta, dato che trovano applicazione le altre e diverse norme che regolano la formazione, la pubblicità ed il contraddittorio nell’ambito delle attività di pianificazione. Con motivi aggiunti il diniego di accesso è stato impugnato per violazione degli articoli 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990 e dell’art. 8 del D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, oltre che per sviamento di potere, carenza di presupposti, illogicità manifesta, irragionevolezza e difetto di istruttoria. In particolare, la ricorrente, per dimostrare il proprio interesse all’accesso, si è richiamata alla complessa vicenda già esposta con il ricorso introduttivo, per sottolineare che solo accedendo agli atti e ai documenti richiesti potrebbe risultare confermata l’avvenuta presentazione di una nuova proposta di pianificazione urbanistica finalizzata alla costruzione dell’originario centro di servizi di pubblica utilità sul medesimo terreno oggetto del contratto preliminare intercorso con la società BETA, circostanza questa che smentirebbe le difese dispiegate da questa nella causa civile in corso, in ordine alla natura e alla gravità dell’inadempimento. Quanto al motivo di diniego fondato sulla circostanza che l’oggetto della richiesta di accesso riguarda una proposta di accordo di pianificazione destinata a divenire parte integrante dello strumento urbanistico, i cui contenuti non sarebbero accessibili in forza del combinato disposto di cui agli articoli 13 e 24 della legge n. 241 del 1990, la ricorrente osserva che la sottrazione all’accesso degli atti di pianificazione, compresi quelli in materia urbanistica, è prevista dal legislatore in considerazione del fatto che, trattandosi di procedimenti con destinatari non determinati e astrattamente illimitati, finalizzati ad incidere su intere collettività, per essi non può ammettersi un diritto di estrazione di copia che rischierebbe, attesa la potenziale moltitudine di richiedenti, di vanificare il correlato e paritario principio costituzionale di buon andamento, nei suoi contenuti precettivi dell’azione amministrativa di economicità, celerità ed efficacia. Secondo la ricorrente non vi è pertanto motivo di opporre un diniego alla propria domanda di accesso, che è supportata non da un generico interesse in materia urbanistica, ma dalla specifica necessità di conoscere, ai fini della tutela giurisdizionale dei propri diritti, gli atti e i provvedimenti relativi al nuovo procedimento che la società BETA ha avviato con il Comune di Zeta per costruire la medesima struttura originariamente prevista sul terreno promesso in vendita alla società ALFA per realizzare l’operazione. Inoltre, prosegue la ricorrente, quand’anche fossero ravvisabili delle ragioni di tutela della privacy, queste dovrebbero risultare recessive rispetto all’esigenza di ALFA di difendersi nel giudizio civile già incardinato. Infine, la ricorrente ha sottolineato che il diritto di accesso non sarebbe neppure impedito dalla pendenza di un giudizio nel corso del quale gli stessi documenti potrebbero essere richiesti, in quanto costituisce una situazione attiva meritevole di autonoma protezione. Si sono costituti in giudizio il Comune di Zeta, la società BETA e la società DELTA, chiedendo il rigetto del ricorso per infondatezza. La società DELTA ha altresì fatto rilevare di non essere ad alcun titolo coinvolta nelle vicende oggetto del contenzioso, contrariamente a quanto erroneamente indicato dalle notizie riportate da alcuni quotidiani ai quali si riferisce parte ricorrente, e ha dunque chiesto la propria estromissione dal giudizio. La ricorrente, nei motivi aggiunti, nel prendere atto di tali dichiarazioni, ha affermato di non aver nulla da opporre alla estromissione dal giudizio. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1. Il ricorso introduttivo, proposto avverso il silenzio opposto dal Comune alla domanda di accesso presentata dalla ricorrente, deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, in relazione al diniego successivamente intervenuto. 2. I motivi aggiunti, proposti avverso tale diniego, devono invece essere accolti, per quanto di ragione. 2.1. Il diniego di accesso concerne gli atti di una proposta di pianificazione urbanistica ed è motivato con richiamo all’art. 24, comma 1, lett. c), della legge n. 241 del 1990, ai sensi del quale l’accesso è escluso nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione. La ricorrente ritiene che - considerate le peculiarità dell’accordo urbanistico in via di formazione - l’interesse costituzionalmente garantito alla tutela giurisdizionale dei propri diritti debba prevalere sull’interesse tutelato dall’art. 24, comma 1, lett. c), della legge n. 241 del 1990. 2.2. La giurisprudenza si è posta il problema se l’accesso difensivo a certe condizioni possa prevalere anche sulle ipotesi di esclusione previste dal comma 1 del richiamato articolo 24 o solo su quella contemplata dalla lettera d) del comma 6 dello stesso articolo, determinata dalla necessità di tutelare la riservatezza di terzi (persone, gruppi, imprese e associazioni). E’ infine prevalsa l’interpretazione che ammette la possibilità di un bilanciamento in concreto, che tenga conto (analogamente a quanto previsto per i dati personali sensibilissimi), da un lato, della indispensabilità dell’accesso rispetto alla difesa e, dall’altro, del rango comparativo degli interessi contrapposti (quello tutelato con l’esclusione dell’accesso e quello alla cui tutela in giudizio mira l’istanza ostensiva). La recente sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 19 del 2020, che ha precisato la latitudine entro cui può essere esercitato l’accesso difensivo ai documenti contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari, presenti nell’anagrafe tributaria, ha ricostruito l’autonoma funzione dell’accesso difensivo sul dato testuale, contenuto nell’art. 24, comma 7 della L. n. 241 del 1990, secondo cui deve “comunque” essere garantito l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, ed ha osservato che l’utilizzo dell’avverbio comunque denota la volontà del legislatore di non appiattire l’istituto dell’accesso amministrativo sulla sola prospettiva della partecipazione, dell’imparzialità e della trasparenza, e corrobora la tesi che esistano, all’interno della fattispecie giuridica generale dell’accesso, due anime che vi convivono, dando luogo a due fattispecie particolari, di cui una (e cioè quella relativa all’accesso cd. difensivo) può addirittura operare quale eccezione al catalogo di esclusioni previste per l’altra (e cioè, l’accesso partecipativo), salvi gli opportuni temperamenti in sede di bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi. Ancora più recentemente, la stessa Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 4 del 2021, ha definito come solo “tendenziale” l’esclusione dall’accesso degli atti contemplati all’art. 24, comma 1, di modo che è possibile dire che l’esclusione dall’accesso degli atti contemplati dall’art. 24, comma 1 non è sempre assoluta quando lo stesso sia esercitato a fini difensivi, con la conseguenza che deve ritenersi insufficiente, per negare l’ostensione, la mera affermazione che l’atto oggetto dell’istanza è riconducibile ad una delle fattispecie contemplate da tale norma. 2.3. Quanto al caso in esame, va osservato che in linea generale il capo V della legge n. 241 del 1990 contiene le disposizioni che consentono a tutti e in ogni tempo, sia pure nel rispetto dei limiti previsti nella normativa, la “conoscibilità” dei documenti amministrativi, sia che attengano alla fase di formazione del provvedimento amministrativo, sia che risultino già formati o detenuti dall'Amministrazione, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale. Nell’ambito del medesimo capo è compreso anche l’art. 24, che, al comma 1, lett. c), tra gli atti esclusi dall’accesso, contempla quale eccezione al principio dell’accessibilità, gli atti preparatori di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, ma al comma 7 prevede a sua volta un’eccezione alla regola dell’esclusione, e ciò, come sopra evidenziato, alla luce del diritto vivente, impone all’interprete il compito di contemperare le ragioni di riservatezza che giustificano i casi di esclusione, con l’esigenza di consentire, ove possibile, l’accesso a quei documenti amministrativi la cui conoscenza è comunque necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. La ratio dell’esclusione dall’accesso degli atti preparatori di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione prevista all’art. 24, comma 1, lett. c), è individuabile nell’esigenza, meritevole di attenta tutela, di evitare possibili condizionamenti all'attività degli organi collegiali, soprattutto politici, ed evitare altresì la divulgazione di notizie non di pubblico dominio suscettibili di essere utilizzate al fine di ottenere indebiti vantaggi economici, attraverso l'anticipata conoscenza sia dei processi decisionali, sia dei supporti tecnici che ne sono alla base. Peraltro, la sottrazione dall’accesso degli atti in questi casi non è prevista come divieto assoluto, ma comporta solo il differimento ad un momento in cui l’attività preparatoria abbia dato eventualmente luogo alla formazione di un atto (secondo il principio dettato dall’art. 24, comma 5). Infatti, l’art. 13 della di legge n. 241 del 1990 sottrae tale tipologia di atti dalla disciplina generale sul procedimento e l’art. 24, comma 1, lett. c), afferma che per tali atti è escluso l’accesso, ma entrambe le disposizioni specificano che per essi “restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”, facendo chiaro riferimento alle specifiche forme di partecipazione e di pubblicità legale previste per questa tipologia di atti, se, e nella misura in cui, siano effettivamente adottati. Ciò significa che gli atti dei procedimenti amministrativi generali volti all'approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica sono accessibili agli interessati nelle particolari forme del deposito al pubblico del progetto di piano con i relativi elaborati, della pubblicazione dell'avvenuto deposito, della visione dello stesso da parte di ogni soggetto interessato: la disciplina dell'accesso a tali atti è quindi modellata sulle specificità di tali procedure amministrative, che - proprio perché interessano potenzialmente un numero indeterminato di soggetti titolari di situazioni soggettive che l’Amministrazione deve regolare in modo uniforme con efficacia generale - suggeriscono di prevedere per esse forme di conoscenza legale. Nella valutazione del legislatore gli atti preparatori di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione che non vengano assunti e formalizzati in un provvedimento amministrativo - i quali per la loro natura endoprocedimentale sono inidonei ad incidere su posizioni giuridiche altrui – sono, pertanto, di regola sottratti all’accesso. In ragione del necessario bilanciamento con il prevalente diritto di difesa sancito dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, deve ritenersi che le esigenze di riservatezza, che giustificano l’esclusione dall’accesso di tali atti, divengano recessive nelle ipotesi in cui l’istante dimostri l’attualità dell’interesse all’accesso difensivo con riguardo agli atti compresi nell’attività preparatoria, interesse che prescinde dall’effettiva adozione dell’atto finale, e non consiste nella mera pretesa di conoscere in via anticipata il contenuto di atti che diverrebbero potenzialmente lesivi solo nel momento in cui dovessero essere effettivamente adottati. 3. Occorre dunque distinguere tra i casi concreti. 3.1. Le istanze proposte per avere accesso alla documentazione preparatoria degli atti di pianificazione urbanistica, motivate con riferimento ad esigenze di carattere difensivo non attuali e di regola finalizzate a conoscere anticipatamente la destinazione urbanistica di un’area, rientrano nel generale divieto stabilito dall’art. 24, comma 1, lett. c), della legge n. 241 del 1990, proprio perché non sorrette da un interesse attuale. 3.2. Diversamente, qualora l’interessato – come avvenuto nell’odierno contenzioso - fornisca prova che la necessità di difendere i propri interessi non deriva da una lesione connessa alla possibile adozione dell’atto finale, e non è neppure connotata da profili di carattere pubblicistico connessi all’esercizio dei poteri di pianificazione, ma è collegata ad un giudizio civile nel quale il contegno attuale della società controinteressata (nella concreta fattispecie, la società BETA) ed i rapporti intercorrenti tra la stessa e l’amministrazione assumono un autonomo rilievo, l’accesso non può essere escluso. 3.3. Pertanto, nel caso di specie, l’astratta appartenenza degli atti di cui è chiesta l’ostensione alla categoria contemplata dall’art. 24, comma 1, lett. c), non giustifica il diniego all’accesso. 4. Parimenti inidoneo a supportare il diniego è l’altro capo di motivazione con il quale il Comune afferma che il nuovo atto di pianificazione pubblico privato "in fieri" non potrebbe fornire alla parte ricorrente elementi utili per la definizione del contenzioso civile pendente che ha ad oggetto eventi e situazioni passate. Infatti, come recentemente chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 4 del 2021, una volta che l’istante abbia motivato in modo sufficiente l’esistenza di un nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che intende tutelare, la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente ed assoluta mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive, che nella specie non sussiste. 5. La domanda di accesso deve pertanto essere accolta, perché in tale contesto le ragioni di riservatezza che giustificano l’esclusione dall’ostensibilità degli atti previsti dall’art. 24, comma 1, lett. c) recedono a fronte della necessità, già attuale per la ricorrente, di conoscere tali documenti al fine di difendere i propri interessi giuridici. 5.1. In definitiva, mentre la società DELTA deve essere estromessa dal giudizio perché estranea alle vicende che lo hanno originato, e il ricorso introduttivo è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, i motivi aggiunti devono essere accolti e, per l’effetto, deve essere annullato il diniego all’accesso ed accertato il diritto all’ostensione dei documenti oggetto dell’istanza, con conseguente obbligo per l’amministrazione comunale di renderli disponibili mediante estrazione di copia degli stessi, nel termine di cui in dispositivo. 6. La peculiarità e la novità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione delle spese di giudizio tra le parti. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti: - dichiara l’improcedibilità del ricorso introduttivo; - accoglie i motivi aggiunti e, per l’effetto, dichiara l’illegittimità del diniego impugnato; - accerta il diritto della società ricorrente di accedere agli atti sopra specificati e l’obbligo per il Comune di Zeta di rendere disponibili tali atti mediante estrazione di copia degli stessi, come indicato in motivazione, entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione a cura di parte della presente sentenza. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in _____ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati:
27 apr, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Zeta S.p.A., una società proprietaria di un comparto immobiliare nel Comune X, ha sottoscritto una convenzione per l’attuazione di un Piano di recupero, approvato preliminarmente dal Consiglio comunale. In base alla convenzione, la società si impegnava a: - cedere le aree a standard; - realizzare le opere di urbanizzazione primaria; - corrispondere il contributo di urbanizzazione secondaria, con la specificazione che il 50% di tale contributo (€ 300.000,00) era stato versato prima della sottoscrizione della stessa convenzione all’Amministrazione comunale; - realizzare, sulle aree oggetto di cessione gratuita, i c.d. standard qualitativi aggiuntivi consistenti nella costruzione di un nuovo Centro sportivo comunale e in un’opera di valorizzazione ambientale. La Società prestava polizze fidejussorie assicurative a garanzia dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria. A fronte della crisi del settore immobiliare, la Società non richiedeva i titoli edilizi, per cui chiedeva la risoluzione della convenzione, da attuare attraverso un accordo ex art 11 della L. 241/90. Non essendo stato raggiunto un accordo tra le parti, la Società dichiarava di rinunciare alla realizzazione del Piano e chiedeva, quale conseguenza della rinuncia, la restituzione della somma versata anticipatamente a titolo di quota parte degli oneri di urbanizzazione secondaria. L’Amministrazione respingeva la richiesta, prendendo atto che la Società aveva rinunciato ad addivenire ad un accordo di risoluzione consensuale e aveva unilateralmente deciso di precludervi definitivamente e irreversibilmente ogni possibilità di una qualsiasi soluzione stragiudiziale per comporre ed evitare l’insorgenda controversia. Imputando alla società Zeta l’inadempimento alle obbligazioni convenzionali, l’Amministrazione negava la restituzione della somma a suo tempo incamerata ed assumeva, anzi, di avere diritto al risarcimento del danno subito, secondo le voci e l’entità ivi indicate. La società proponeva ricorso chiedendo l’annullamento della nota del Comune e l’accertamento del diritto alla restituzione dell’importo di € 300.000,00 quale quota parte (50%) degli oneri di urbanizzazione secondaria relativi all’intervento edilizio del Piano di Recupero, e la condanna del Comune a corrispondere la predetta somma, da maggiorarsi con gli interessi legali dalla data di proposizione della domanda fino al saldo effettivo. La società Zeta ha articolato i seguenti motivi di diritto: 1) Violazione dell’art. 16 del DPR 380/2001 e dei principi in materia di contributo di costruzione e degli artt. 2033 e 2041 del codice civile. La società ricorrente richiama i principi giurisprudenziali in materia: il contributo in esame è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all’insieme dei benefici che le nuove costruzioni inducono nel contesto urbano, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata dalla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall’ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse. Si tratta di una obbligazione reale, di carattere ambulatorio passivo, connessa al rilascio del titolo edilizio. Pertanto, a fronte della rinuncia al titolo, sia per intervenuta decadenza del titolo edilizio, sia per fatti, giuridici o materiali, che rendano in tutto o in parte non più realizzabile l’assentito programma edilizio, sorge l’obbligo dell’Amministrazione concedente di restituire, a domanda, e in assenza di una benché minima trasformazione del territorio, le somme precedentemente corrisposte. In caso contrario, vi sarebbe un indebito arricchimento da parte dell’Amministrazione. 2) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90 per carenza di motivazione. Eccesso di potere sotto i profili dello sviamento di potere, dell'erroneità e del travisamento dei fatti, della contraddittorietà e dell'aggravamento del procedimento. La società lamenta anche il difetto di motivazione, in quanto l’Amministrazione, per giustificare la decisione di non restituire le somme, richiama fatti del tutto estranei, accusandola di una condotta inadeguata, al solo fine di prospettare una richiesta di risarcimento. La condotta dell’Amministrazione rivela anche un grave sviamento di potere, dal momento che alla richiesta della ricorrente l’Amministrazione risponde in modo elusivo, prospettando azioni di risarcimento del danno, addebitandole la responsabilità di non aver risolto in modo consensuale la convenzione. Si è costituito in giudizio il Comune X facendo presente che la Società non avrebbe impugnato le note successive con le quali il Comune stesso ha contestato l’inadempimento degli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione, quantificando le diverse voci di danno e riservandosi di agire a tutela dei propri interessi. Ha quindi sollevato l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione, non essendo stati impugnati gli atti successivi. Nel merito, ha chiesto il rigetto del ricorso. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1) Il presente giudizio ha quale petitum l’accertamento del diritto alla restituzione dell'importo di € 300.000,00, somma corrisposta dalla Società ricorrente al Comune quale quota parte (50%) degli oneri di urbanizzazione secondaria relativi agli interventi edilizi poi oggetto di rinuncia, oltre ad interessi legali dal giorno della domanda al saldo. 1.1 La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.), avendo ad oggetto un atto della pubblica amministrazione in materia urbanistica ed edilizia, e concerne, nello specifico, l'accertamento dell'esistenza di posizioni giuridiche soggettive di credito-debito, traenti origine direttamente da fonti normative. Ne consegue che la relativa domanda non soltanto non soggiace al regime di decadenza proprio del giudizio di annullamento, attesa la natura privatistica e paritetica degli atti con cui la p.a. determina il contributo di costruzione, ma può essere proposta, entro il termine di prescrizione ordinaria, indipendentemente e a prescindere dall'impugnazione di eventuali provvedimenti adottati dall'amministrazione. Il Collegio ritiene di evidenziare fin d’ora che è invece del tutto estraneo alla controversia ogni profilo di responsabilità della ricorrente per inadempimento degli obblighi convenzionali, ovvero ogni pretesa risarcitoria dell’Amministrazione comunale, che non ha tal fine proposto domanda riconvenzionale ex art. 42 c.p.a. 1.2 La difesa comunale ha sollevato l’eccezione di improcedibilità del ricorso per carenza di interesse, in quanto non sarebbero state impugnate le note successive, con le quali sono stati contestati, tra gli altri, gli inadempimenti relativi alla realizzazione del campo in erba sintetica e del campo polivalente coperto, con prospettazione dei danni subiti. L’eccezione non è fondata. La ricorrente chiede la restituzione di una somma non dovuta, non avendo realizzato gli interventi edilizi che ne costituirebbero esclusivo titolo. Con le note non impugnate, al contrario, l’Amministrazione fa valere un credito di natura risarcitoria, asseritamente maturato per l’inadempimento degli obblighi posti nella convenzione. Come si è detto, però, la pretesa risarcitoria non è stata fatta valere con domanda riconvenzionale ex art. 42 c.p.a., né la stessa – per le ragioni che saranno successivamente indicate – può assumere rilievo indiretto nella forma della c.d. “eccezione riconvenzionale”. Da tali note, quindi, si può prescindere, indipendentemente poi dal fatto che le stesse non appaiono rivestire carattere provvedimentale, e sembrano piuttosto da ricondurre alla categoria degli atti di tipo paritetico. 2) Nel merito, il ricorso è fondato. 2.1 L’art. 16 del DPR 380/2001 (“Contributo per il rilascio del permesso di costruire”) stabilisce che il rilascio del titolo è subordinato alla corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. Nel caso in esame, il 50% del contributo di urbanizzazione secondaria è stato versato il giorno antecedente alla sottoscrizione della convenzione. 2.2 Sulla questione della restituzione del contributo ex art. 16 del DPR 380/2001 va fatta una premessa. Per costante giurisprudenza, sia la quota per costo di costruzione - che ha natura essenzialmente paratributaria ed è rapportata alle caratteristiche ed alla tipologia delle costruzioni afferendo alla mera attività costruttiva in sé valutata -, sia la quota per oneri di urbanizzazione - che compensa l'aggravio del carico urbanistico della zona indotto dalla nuova costruzione -, sono correlate, pur sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione. Nel caso in cui il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire, ovvero quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla Pubblica Amministrazione, anche ai sensi dell'art. 2033, o comunque dell'art. 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e, conseguentemente, il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il contributo concessorio, infatti, è strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e, quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito. Ciò posto, nel caso poi specifico in cui sia preventivamente intervenuta la stipulazione di una convenzione urbanistica, si registrano due orientamenti. Secondo il primo, la convenzione non costituisce autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di costruzione, trovando quest’ultimo la propria fonte direttamente nella legge, la quale, come detto, lo pone in stretta correlazione all’attività di trasformazione del territorio, in assenza della quale esso non è comunque dovuto. La convenzione svolgerebbe dunque il ruolo, non già di fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per quanto concerne il quantum e il quomodo ; sicché, come anticipato, una volta escluso che la trasformazione del territorio possa attuarsi, il pagamento del contributo di costruzione diviene privo di causa, quantunque esso sia previsto e disciplinato da una convenzione urbanistica. Un diverso orientamento giurisprudenziale, invece, ritiene che il principio per cui l’obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all’effettivo esercizio dello ius aedificandi non possa valere rispetto ai casi in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un’obbligazione non già imposta ex lege , ma assunta contrattualmente nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica correlato alla pianificazione territoriale. Gli impegni assunti in sede convenzionale – al contrario di quanto si verifica in caso rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l’edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio – non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell'operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l'equilibrio del sinallagma contrattuale e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti. La causa della convenzione urbanistica, e cioè l'interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare, quindi, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione. Questa tesi, dunque, individua la convenzione come la fonte degli oneri correlati alle opere di urbanizzazione, con la conseguenza che, una volta sottoscritta la convenzione, l’obbligazione di versamento degli oneri concessori è legata alla sorte complessiva o parziale delle prestazioni previste nell’accordo, perdendo quel nesso di indissolubilità con l’effettiva trasformazione del territorio. 2.3 Chiariti tali aspetti di portata preliminare, deve procedersi ad evidenziare alcuni profili peculiari della vicenda in esame. Come già detto, la Società ricorrente ha versato la somma corrispondente al 50% del contributo di urbanizzazione secondaria prima della sottoscrizione della convenzione. Tuttavia, la Società non ha mai chiesto il rilascio dei titoli edilizi; anzi, ha rinunciato all’esecuzione degli interventi oggetto del Piano di Recupero e a presentare la domanda di rilascio dei relativi titoli edilizi. 2.4 Il Collegio ritiene che anche nel caso in esame la convenzione urbanistica non costituisca autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di costruzione. L’obbligo trova la propria fonte direttamente nella legge la quale, come detto, lo pone in stretta correlazione all’attività di trasformazione del territorio, in assenza della quale esso non è comunque dovuto. La convenzione svolge dunque il ruolo, non già di fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per quanto concerne il quantum ed il quomodo. Nel caso in esame vanno poi evidenziati alcuni aspetti particolari. Non è stato attuato alcun intervento di trasformazione del territorio, tant’è che non sono mai neppure stati richiesti i titoli edilizi per realizzare gli immobili residenziali, per cui non vi è stato alcun aggravio del carico urbanistico della zona. Le opere di urbanizzazione indicate nella convenzione sono correlate alla realizzazione delle costruzioni private previste e che avrebbero dovuto essere oggetto di permessi di costruire. Anche alla luce di quanto regolato in sede negoziale tra le parti, il pagamento del contributo di costruzione trova titolo nell’effettiva trasformazione del territorio, per cui, in assenza di un intervento edilizio, diviene privo di causa. 2.5 Il rigetto della domanda di restituzione della somma di € 300.000,00 è quindi illegittimo. Né vi si oppone la pretesa della controparte ad un ristoro risarcitorio conseguente al presunto inadempimento di obblighi convenzionali da parte della ricorrente. E’ pur vero che la giurisprudenza civile ha da tempo elaborato, accanto alla domanda riconvenzionale, la c.d. “eccezione riconvenzionale”, con cui il convenuto avanza richieste che, pur rimanendo nell’ambito della difesa, ampliano il tema della controversia, senza tuttavia tendere ad altro fine che non sia quello della reiezione della domanda, opponendo al diritto fatto valere dall’attore un diritto idoneo a paralizzarlo. Come si è detto, però, una volta venuta meno la causa – di fonte legale – del versamento del contributo di urbanizzazione secondaria, le altre prestazioni negoziali eventualmente rimaste inadempiute si rivelano svincolate da quel rapporto di corrispettività che solo potrebbe assurgere a situazione giuridica idonea a privare di efficacia il diritto fatto valere in giudizio. In realtà, le questioni sollevate dall’Amministrazione comunale restano sottratte alla cognizione del giudice adito – perché estranee al thema decidendum –, sicché non è questa la sede per accertare, neppure in via incidentale, quali inadempimenti alle obbligazioni convenzionali possano essere imputati alla ricorrente, e se dunque sia fondata la pretesa risarcitoria prospettata dall’Amministrazione; rileva il solo fatto oggettivo del mancato rilascio dei titoli edilizi correlati agli oneri concessori versati dalla ricorrente, indipendentemente dalla sorte della convenzione urbanistica e delle relative prestazioni negoziali. 3) Il ricorso va quindi accolto, con conseguente condanna del Comune a restituire alla società ricorrente la somma di € 300.000,00. Trattandosi di azione di ripetizione di indebito, su quanto indebitamente riscosso dal Comune spettano gli interessi legali dalla data della domanda presentata all’Amministrazione, così come richiesto dalla società ricorrente; e, in effetti, è stato chiarito dalla giurisprudenza che, ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo, il termine “domanda” di cui all’art. 2033 c.c. non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell’art. 1219 c.c.. Le spese di giudizio possono essere compensate in considerazione della peculiarità della questione e della presenza di orientamenti non univoci. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, condanna il Comune convenuto alla restituzione della somma non dovuta, oltre a interessi legali nella misura illustrata in motivazione, entro 120 giorni dalla data di comunicazione della presente pronuncia. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in _____ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati: SPIEGAZIONE La spiegazione sarà resa disponibile su specifica richiesta inoltrata alla mail info@primogrado.com
23 apr, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA La società in accomandita semplice Sempronio&Soci gestisce da anni un chiosco autorizzato per la vendita di generi alimentari nel Comune di Zeta, in via Cinque, con licenza soggetta a rinnovo annuale tacito. Nel gennaio del 2016, il Comune di Zeta decide con regolamento di non procedere più al rinnovo automatico di tale tipo di autorizzazioni commerciali e rilascia alla società Sempronio&Soci una licenza provvisoria che sarebbe scaduta nel gennaio 2017, precisando nel contesto di tale atto che il successivo rinnovo delle autorizzazioni in questione avrebbe dovuto essere oggetto di espressa richiesta. Dopo un periodo di occupazione di fatto del suolo pubblico, la società Sempronio&Soci ha chiesto una nuova autorizzazione formale per riprendere la propria attività in via Cinque, che le è stata però negata dal Comune di Zeta, in relazione alla necessità di rispettare la delibera del Consiglio comunale che aveva deciso di liberare, per fini di rilevante interesse pubblico, alcuni snodi centrali di viabilità, tra cui la stessa via Cinque, dalla presenza di chioschi deputati alla vendita di generi alimentari. A seguito di trattative intercorse tra le parti, peraltro, il Comune di Zeta e la società Sempronio&Soci trovavano un accordo informale – accompagnato da un ordine di trasferimento nel maggio 2017 a firma del competente dirigente comunale – per spostare il chiosco in questione in Piazza Otto. L’amministrazione comunale rilasciava così una nuova autorizzazione, introducendo, però, in virtù del diverso posizionamento – posto in una zona a forte vocazione residenziale -, un limite di orario all’esercizio dell’attività commerciale, limite che peraltro era stato espressamente accettato dal privato interessato in sede di trattative. Gli atti posti alla base di tale nuovo intendimento del Comune venivano impugnati - per violazione del principio di affidamento - dalla società Sempronio&Soci, e, subito dopo il deposito del ricorso introduttivo, revocati in autotutela dall’amministrazione, in quanto la nuova ubicazione del chiosco era stata oggetto di forti contestazioni da parte della popolazione residente; contestualmente, il Comune di Zeta indicava tre siti alternativi, tra i quali l’interessata avrebbe potuto scegliere ai fini di prosecuzione della propria attività commerciale, e concedeva tempo fino al 31 dicembre 2017 per il nuovo spostamento del chiosco, autorizzando, nelle more, seppure con le limitazioni orarie già stabilite, l’esercizio dell'attività commerciale in Piazza Otto. La società ricorrente, che dal gennaio del 2017 non aveva più svolto attività commerciale e che nel frattempo aveva materialmente spostato il chiosco in Piazza Otto senza però mai aprirlo al pubblico, deduceva, con motivi aggiunti e contestuale proposta di domanda cautelare, l’illegittimità anche del nuovo provvedimento di revoca, allegando e provando documentalmente che i siti alternativi proposti dal Comune di Zeta sarebbero stati da considerare inidonei per l’inconsistente – e dunque senz’altro peggiorativo - contesto commerciale di riferimento, rispetto al precedente sito di Piazza Otto, in conseguenza, in particolare, dell’assenza di significativi flussi pedonali rilevati. Proponeva altresì richiesta di risarcimento del danno per tutto il periodo di inattività dell’attività commerciale, ovvero a decorrere dal gennaio 2017, facendo riferimento, per il lucro cessante, ad una liquidazione degli introiti mancati in via equitativa, sulla base degli studi di settore dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui il valore minimo di utile annuo di imprese dello stesso settore sarebbe stato pari ad € 30.000,00, e, per il danno emergente, ai costi, ammontanti ad € 5.000,00, collegati al trasferimento materiale del chiosco da Via Cinque a Piazza Otto. Si costituiva in resistenza il Comune di Zeta, chiedendo la dichiarazione di improcedibilità del ricorso introduttivo e il rigetto nel merito dei motivi aggiunti, e il Tribunale amministrativo regionale concedeva a gennaio 2018 la sospensiva richiesta, in forma di remand ; il Comune di Zeta, in sede di riesame, e nelle more della decisione di merito, dopo ulteriori trattative non andate a buon fine, nel gennaio del 2019, su specifica istanza della ricorrente, rilasciava l'autorizzazione al trasferimento del chiosco in Corso Dieci, dove la società ricorrente finalmente riprendeva la propria attività. Nella memoria ex art. 73 c.p.a., il Comune di Zeta chiede dunque che sia dichiarata la cessata materia del contendere, in virtù dell’asserita soddisfazione dell’interesse dedotto in giudizio da parte ricorrente, e conclude in ogni caso per il rigetto della domanda di risarcimento del danno proposta, in quanto non sussisterebbe l’illiceità della condotta tenuta dall’amministrazione né sotto il profilo oggettivo – stante l’amplissima discrezionalità del potere esercitato -, né sotto il profilo soggettivo, in relazione all’assenza di colpa riscontrabile in capo all’ente comunale nella vicenda de qua . La società ricorrente non ha ulteriormente replicato, limitandosi ad insistere per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno introdotta con i motivi aggiunti. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Preliminarmente, il Collegio rileva che risulta dagli atti, oltre che dal comportamento processuale della ricorrente, che non sussiste più interesse, da parte della ricorrente stessa, ad ottenere l’annullamento dei provvedimenti impugnati. 1.1.In effetti, il Comune di Zeta ha rilasciato, su apposita richiesta del privato, l'autorizzazione al trasferimento del chiosco in Corso Dieci. Un eventuale annullamento degli atti impugnati, dunque, essendo sopravvenuta una nuova e definitiva assegnazione dello spazio pubblico riservato alla società ricorrente per il suo esercizio commerciale, non produrrebbe oggi alcun effetto utile. In particolare, il primo atto comunale impugnato (ordine di trasferimento del chiosco da via Cinque a piazza Otto) è stato revocato dalla stessa amministrazione. Gli effetti del secondo atto impugnato (revoca della precedente autorizzazione) sono invece stati incisi dalla nuova ubicazione del chiosco, richiesta, disposta e accettata. Tale nuova ubicazione – dove è finalmente ripresa l’attività commerciale della ricorrente - ha determinato nella ricorrente stessa una sopravvenuta carenza di interesse a vedere eliminato dal mondo giuridico un atto che ha ormai esaurito i suoi effetti, per via della modificazione della situazione di fatto e di diritto nel frattempo intervenuta. 1.2. Pur non potendosi dichiarare la cessazione della materia del contendere – che presuppone che la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, circostanza non risultante dagli atti -, vi sono dunque gli estremi per dichiarare l’improcedibilità delle domande di annullamento svolte con il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti. 2. Persiste invece un interesse all’accertamento della legittimità dei provvedimenti oggetto di contestazione, e della liceità del complessivo comportamento tenuto nel caso di specie dal Comune convenuto, a fini risarcitori, secondo il disposto di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a.. 2.1. Al riguardo, è opportuno preliminarmente riepilogare le seguenti circostanze di fatto e/o allegazioni di parte essenziali ai fini della valutazione complessiva della domanda risarcitoria: - l’attività imprenditoriale della società ricorrente è cessata a decorrere dal mese di gennaio del 2017, ovvero in coincidenza con la scadenza della licenza provvisoria non rinnovata; - l’ordinanza cautelare che ha stabilito l’obbligo di riesame a carico del Comune resistente è del gennaio 2018; - la domanda di trasferimento del chiosco dalle precedenti destinazioni autorizzate (Via Cinque e piazza Otto) alla nuova ubicazione indicata dal Comune (corso Dieci) è stata infine accolta nel gennaio 2019, data dalla quale è ripresa l’attività commerciale della ricorrente. La società Sempronio&Soci è dunque rimasta inattiva da gennaio 2017 a gennaio 2019; occorre adesso accertare se tale inattività – e i costi collegati all’inutile trasferimento del chiosco in piazza Otto – siano riconducibili causalmente ad una condotta illecita della pubblica amministrazione. 2.2. Il Collegio ritiene necessario distinguere tra il periodo che va da gennaio 2017 a gennaio 2018 e il periodo successivo. 3. Fino al 31 dicembre del 2017 non sussiste il nesso di causalità tra inattività della società ricorrente e condotta dell’amministrazione comunale, né l’elemento soggettivo della colpa – necessario per un’attribuzione di responsabilità – in capo a quest’ultima. Con provvedimento adottato nel gennaio 2016 – che non risulta né impugnato né tanto meno annullato -, il Comune di Zeta, preso atto delle nuove disposizioni regolamentari, che inibivano il rinnovo automatico della licenza detenuta dalla ricorrente, le ha rilasciato un’autorizzazione provvisoria fino al gennaio dell’anno successivo. Nel contenuto di tale provvedimento, l’amministrazione aveva precisato che il rinnovo delle autorizzazioni in questione non sarebbe più stato automatico. Successivamente, dunque, dal gennaio 2017 (data di scadenza dell’autorizzazione provvisoria), la società ricorrente era rimasta priva, in modo del tutto legittimo – stante la mancata impugnazione degli atti che avevano inciso sulla pregressa autorizzazione e il diniego di rinnovo nel frattempo intervenuto –, di un titolo valido per esercitare attività commerciale tramite il chiosco in via Cinque. 3.1. Si può dunque tranquillamente sostenere che alla data del primo provvedimento impugnato con l’atto introduttivo del presente giudizio la ricorrente, non avendo impugnato nessuno degli atti pregressi, era in una situazione di mera aspettativa di fatto, connessa alle trattative nel frattempo avviate con il Comune resistente per una nuova ubicazione del chiosco, ma non sostenuta più da alcun titolo legale. In tal senso, pertanto, l’amministrazione conservava amplissima discrezionalità nella scelta del luogo e delle modalità cui asservire la eventuale nuova autorizzazione. 3.2. Tanto premesso, il provvedimento impugnato (ordine di trasferimento) con il ricorso introduttivo è da considerarsi legittimo o comunque non causalmente rilevante sul mancato esercizio dell’attività commerciale da parte della società ricorrente. Invero, da un lato, la discrezionalità esercitata non è stata oggetto di alcuno sviamento di potere o di travisamento dei presupposti di fatto, in relazione alla necessità di rispettare la delibera del Consiglio comunale che aveva deciso di liberare, per fini di rilevante interesse pubblico, alcuni snodi centrali di viabilità dalla presenza di chioschi come quello gestito dalla ricorrente; d’altro canto, gli eventuali effetti lesivi della decisione di non rinnovare automaticamente le pregresse autorizzazioni si erano consolidati in virtù della mancata impugnazione del provvedimento del gennaio 2016 (e del regolamento di cui tale provvedimento costituiva applicazione), e, dunque, una eventuale illegittimità di tale scelta non avrebbe potuto comportare, per fatto colposo “assorbente” del danneggiato, un ristoro dei danni subiti. In tal senso, dunque, a fronte di una concessione di cui era stato legittimamente negato il rinnovo, la scelta dell’amministrazione di indicare all’interessato un sito alternativo – per quanto non ritenuto idoneo dal privato, per le limitazioni di orario connesse, che pure risultano, dagli atti versati nel fascicolo di causa, accettate in sede di trattative - non poteva integrare, in relazione all’interesse di fatto contrapposto (volontà di esercitare l’attività commerciale in un luogo piuttosto che in un altro in assenza di titolo presupposto a ciò legittimante) un danno ingiusto. Mancava, infatti, in quel frangente, in contrapposizione al potere amministrativo esercitato dal Comune di Zeta, una posizione soggettiva avente la consistenza di diritto soggettivo o interesse legittimo tutelabile, in ragione dell’intervenuto diniego al rinnovo della concessione in via Cinque e della mancata impugnazione di tale diniego. L’ordine di trasferimento del chiosco andava dunque ad innestarsi in una situazione fattuale rimasta priva del necessario riconoscimento giuridico, e la limitazione oraria dell’attività – imposta per ragioni di ordine pubblico connesse alla vocazione residenziale della nuova zona di ubicazione del chiosco – costituiva condizione per il trasferimento dell’attività nel sito di piazza Otto piuttosto che in un altro sito. A fronte dunque di un’autorizzazione ormai definitivamente negata, il privato non poteva opporre legittimamente alcuna pretesa rispetto alle condizioni imposte dal Comune di Zeta per la prosecuzione dell’attività commerciale, in assenza di un titolo formale, tanto è vero che la stessa ricorrente aveva acconsentito ad accettare la limitazione oraria pur di vedere ricollocato il proprio chiosco in piazza Otto, salvo poi insorgere in giudizio contro la limitazione imposta. 3.3. Sotto altro, concorrente profilo, sono state le scelte dell’interessata (mancata impugnazione degli atti lesivi e mancato riavvio dell’attività anche quando ciò sarebbe stato possibile, in virtù dell’autorizzazione temporanea per continuare l’attività in piazza Otto fino al 31 dicembre del 2017) a determinare in modo esclusivo il danno economico subito. 3.4. Per quanto infine concerne i costi sostenuti per l’inutile trasferimento materiale del chiosco da via Cinque (costi di competenza del periodo 1 gennaio 2017 – 31 dicembre 2017), gli stessi sono diretta conseguenza del primo ordine (legittimo) di trasferimento e dunque sono anch'essi non risarcibili. 4. Discorso diverso occorre invece fare per il periodo che va dal gennaio del 2018 al gennaio del 2019. Infatti, a decorrere dal 31 dicembre 2017 (termine finale dell’autorizzazione provvisoria rilasciata con riferimento all’esercizio dell’attività in piazza Otto), la società ricorrente non ha potuto riprendere la propria attività economica a causa di una condotta illegittima dell’amministrazione comunale. 4.1. Risulta dagli atti versati nel fascicolo di causa, così come confermato seppure interinalmente e ai fini di un remand dalla stessa pronuncia di accoglimento della domanda cautelare emessa dal TAR, che la revoca dell’autorizzazione ad esercitare in piazza Otto sia stata illegittima, nella parte in cui non ha previsto idonea ed equivalente alternativa, in termini di flussi pedonali, così ledendo la legittima aspettativa del privato. Invero, in tale segmento temporale la posizione soggettiva della ricorrente era da qualificarsi, a seguito dell’accettazione dell’ordine di trasferimento in piazza Otto, come di aspettativa legittima, poiché il Comune di Zeta, con tale ordine di trasferimento, nonostante avesse formalmente negato il rinnovo della concessione originaria, aveva dato atto di riconoscere nuova tutela giuridica alla iniziativa commerciale della ricorrente. Non vi è dubbio, infatti, che imporre il trasferimento in altro sito implicava anche un’autorizzazione ad esercitarvi l’attività commerciale di interesse. Ne consegue che la successiva revoca di tale nuova autorizzazione avrebbe dovuto accompagnarsi, in relazione alla posizione di aspettativa legittima creata nel privato, oltre che ad una adeguata istruttoria, alla individuazione di siti alternativi idonei, secondo il cosiddetto criterio dell’ “equivalenza”, diretta espressione, nel caso di specie, del principio di proporzionalità. In questo caso, però, i tre siti individuati dall’amministrazione nel provvedimento di revoca erano da considerarsi inidonei – nel senso anzidetto specificato – in relazione all’allegata, e dalla difesa del Comune non contestata, inconsistenza dei flussi pedonali ivi rilevati. 4.2. La condotta tenuta in tale frangente dall’amministrazione deve dunque considerarsi illecita, in quanto illegittima e colposa; non sussiste infatti alcun elemento di scusabilità, in relazione alla evidente superficialità e carenza di istruttoria che ha caratterizzato, a seguito dell’individuazione di un sito poi rivelatosi strutturalmente non idoneo (piazza Otto), la nuova individuazione di tre siti alternativi che non erano pacificamente equiparabili nemmeno al flusso pedonale che avrebbe garantito il primo, seppure con le limitazioni orarie contestate. 4.3. A fronte di tale condotta, il danno subito dalla ricorrente a seguito dell’inattività protrattasi da gennaio a dicembre deve considerarsi “ingiusto”, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza seguita alla storica sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per lesione dell’aspettativa legittima che si era creata nel privato a seguito del primo ordine di trasferimento. La ricorrente era infatti titolare “di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva", e in questo caso il giudizio prognostico di cui parlano le Sezioni unite del 1999 sulla fondatezza della aspettativa coltivata dal privato, ovvero sulla spettanza del bene della vita, è stato “certificato” in senso favorevole all’istante dalla stessa amministrazione, che ha infine rilasciato, nel gennaio del 2019, l'autorizzazione (su indicazione del privato stesso) al trasferimento del chiosco in corso Dieci. Il danno subito – consistente nella privazione degli introiti economici che sarebbero senz’altro derivati dallo svolgimento dell’attività commerciale - deve dunque qualificarsi come ingiusto, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., ed è da porsi in termini di causalità oggettiva, come prima evidenziato, con la condotta tenuta dall’amministrazione a decorrere dal gennaio 2018 (produzione integrale degli effetti dell’atto di revoca illegittimo, con il cessare dell’autorizzazione provvisoria a svolgere attività in piazza Otto) e fino al gennaio 2019 (ripresa senza ulteriori contestazioni dell’attività del privato). 4.4. Con riferimento al quantum di tale danno, da valutare ex art. 1226 c.c. - dal momento che non può essere provato nel suo preciso ammontare -, occorre fare riferimento al lucro cessante allegato dalla difesa della ricorrente, commisurandolo alla frazione temporale in cui sussiste il nesso di causalità con la condotta illecita dell’amministrazione, e decurtandolo sia in ragione della mancata dimostrazione dell’assenza di aliunde perceptum , nel periodo di inattività, sia in ragione del concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c., il quale avrebbe comunque potuto accettare con riserva uno dei tre siti alternativi proposti, al momento della revoca, dall’amministrazione comunale, seppure “non equivalenti”. In particolare, il mancato esercizio dell’attività di impresa può essere adeguatamente commisurato, secondo una valutazione equitativa che faccia riferimento agli studi di settore dell’Agenzia delle Entrate prodotti in giudizio dalla ricorrente, ad un valore minimo di utile annuo già rivalutato, pari ad € 30.000,00. La somma in tal modo ricavata, trattandosi di un anno esatto di mancati utili (€ 30.000,00), deve poi essere così ulteriormente decurtata: - 50% dell’importo, in ragione della mancata prova fornita dalla ricorrente, anche tramite semplici allegazioni o l’indicazione di elementi presuntivi, di non avere svolto alcuna ulteriore attività lavorativa, nel periodo temporale afferente alla condotta illecita del Comune; - ulteriore 20% dell’importo finale di € 15.000,00, in ragione del volontario rifiuto opposto dalla società ricorrente all’amministrazione rispetto a tutti i tre siti alternativi individuati all’atto della revoca, malgrado l’accettazione di uno di questi siti le avrebbe comunque consentito il conseguimento di un utile, seppure presumibilmente modesto. 4.5. L’importo finale del danno subito dalla società ricorrente a causa della condotta illecita del Comune di Zeta deve dunque quantificarsi nella somma già rivalutata di € 12.000,00 (€ 15.000 - 3.000), oltre interessi fino al soddisfo. 5. In definitiva, ferma l’improcedibilità delle domande di annullamento proposte con il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti, il Comune di Zeta deve essere condannato al risarcimento dei danni subiti dalla ricorrente, nei limiti e per la somma sopra evindenziati. 5.1. Le spese di lite possono peraltro essere compensate tra le parti, in ragione della reciproca soccombenza, oltre che della peculiarità, complessità e parziale novità della questione esaminata. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti: - dichiara l’improcedibilità delle domande di annullamento; - accoglie la domanda di risarcimento del danno, nei limiti di cui in motivazione, e, per l’effetto, condanna il Comune di Zeta a corrispondere alla società ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, la somma già rivalutata di € 12.000,00, oltre interessi fino al soddisfo. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in _____ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati: SPIEGAZIONE Il rilascio dell'autorizzazione commerciale per la gestione di un chiosco finalizzato alla vendita di generi alimentari (o altro) sulla via pubblica, è di competenza del Comune dove deve essere svolta l'attività. Può trattarsi di una semplice licenza per venditori ambulanti o di un'autorizzazione accompagnata dalla concessione di occupazione del suolo pubblico, in caso di struttura fissa. In quest'ultima ipotesi, la scelta del luogo su cui "installare" il chiosco non è ovviamente libera, ma subordinata ad una serie di valutazioni urbanistiche e di "contesto" dell'amministrazione locale. Non vi devono essere inoltre ostacoli regolamentari pregressi o sopravvenuti, come accaduto nella vicenda posta alla base della traccia assegnata. Il punto di partenza dal quale partire per "costruire" un corretto svolgimento della motivazione in oggetto sta dunque nel riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo al Comune nell'attribuzione dello spazio pubblico di assegnazione, i cui limiti si restringono, in virtù del principio dell'affidamento del privato e della razionalità della decisione, nel caso in cui vi sia stato il rilascio pregresso della licenza (magari reiterato per svariati anni) e sopravvenga la necessità, per l'amministrazione, di non consentire più l'occupazione pubblica in determinati contesti abitativi. L'insidia della traccia assegnata, una volta capito il ragionamento da portare avanti per valutare la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio dalla ricorrente, sta allora nel verificare innanzitutto, sotto un profilo processuale, se la domanda di annullamento degli atti impugnati sia ancora fonte di interesse per la parte che ne ha contestato la legittimità. In particolare, occorre chiedersi se residui, al momento della decisione, una sia pur minima utilità pratica per il ricorrente ad ottenere la caducazione degli atti considerati lesivi. Nel caso di specie, l'annullamento richiesto non produrrebbe più alcun beneficio, perché il gestore del chiosco ha ormai trasferito, di comune accordo con l'amministrazione, la sua attività in luogo ritenuto idoneo e ne sta traendo profitto. Tale luogo non è tuttavia né quello di origine né quello inizialmente valutato dal privato come "equivalente", e dunque non vi sono i presupposti per dichiarare la cessata materia del contendere (che è una pronuncia di merito e non di rito), implicando la suddetta dichiarazione una totale soddisfazione della pretesa dedotta in giudizio. La motivazione si deve a questo punto spostare sull'esame della domanda di risarcimento del danno - connessa al previo accertamento della legittimità/illegittimità degli atti impugnati -, partendo dal dato di fatto del tempo trascorso tra la prima interruzione dell'attività e la successiva definitiva ripresa. Non tutto il tempo e le occasioni perduti sono peraltro risarcibili, ma soltanto gli elementi di danno che siano in un nesso di causalità giuridica rispetto all'eventuale attività illecita tenuta dall'amministrazione. Occorre inoltre verificare, trattandosi di interesse legittimo pretensivo al rilascio di una nuova autorizzazione (essendo ormai la vecchia formalmente scaduta), se il bene della vita rispetto al quale viene denunciata la lesione spettava o meno alla parte ricorrente. E' una valutazione che nel caso di specie non comporta particolari problemi, perché è stato infine lo stesso Comune ad attestare tale spettanza del bene della vita, tramite il rilascio di una nuova autorizzazione associata ad un luogo da considerarsi astrattamente remunerativo per l'attività dell'interessato. Con riferimento infine alla quantificazione del danno, una volta riconosciuta una frazione di condotta illecita (costituita da un provvedimento illegittimo non accompagnato da un errore scusabile) da addebitare al Comune, occorre valorizzare, assieme alle allegazioni fornite dal ricorrente anche l'eventuale concorso colposo e il cosiddetto aliunde perceptum vel percipiendum , per ottenere un valore congruo e attendibile del danno effettivamente subito (che nel caso di specie è costituito da un lucro cessante non esattamente quantificabile a priori, dato il tipo di attività normalmente svvolta). Mentre il concorso di colpa è direttamente ricavabile dalle concrete azioni poste in essere dal danneggiato nell'ambito della complessiva vicenda, qualora convergano, seppure in modo minimo, a causare anch'esse il danno subito, o comunque non abbiano evitato il suo aggravamento, pur in presenza di un contegno esigibile, per l'aliunde perceptum si pone un problema di prova. Normalmente, nelle cause per licenziamento ingiusto, è il datore di lavoro a dovere provare che il lavoratore dipendente ha tratto dall'inattività "forzata" l'occasione per trarre altri guadagni, ma è anche possibile sostenere che, nel caso di soggetti che svolgono invece attività imprenditoriale, e che subiscono un'interruzione del guadagno a causa di un provvedimento illegittimo dell'amministrazione, l'onere di questa prova ricada sul danneggiato, seppure in forma attenuata. E' infatti presumibile, secondo quanto ordinariamente accade, che l'inattività connessa alla perdita di una fonte "certa" di guadagno abbia comportato la ricerca e il conseguimento di altre occasioni di lucro altrove, tramite l'utilizzo delle intatte risorse imprenditoriali, con necessità dunque che sia il creditore ad allegare circostanze utili a deporre per una totale (incolpevole) assenza di guadagno nelle more della vicenda giudiziaria.
23 apr, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA L’associazione sportiva Tizio&Caio impugna dinanzi al competente Tribunale amministrativo regionale, chiedendone l’annullamento, il provvedimento con cui il Comune di Zeta ha disposto la decadenza della concessione d’uso di un impianto sportivo di proprietà comunale sito in tale Comune, e in precedenza affidato in gestione, a seguito di gara ad evidenza pubblica, all’associazione ricorrente. Chiede altresì la condanna dell’amministrazione comunale convenuta al risarcimento del danno subito, nel corso del rapporto contrattuale, dalla asserita condotta illecita della P.A., congiuntamente alla condanna dell’ente locale all’adempimento della convenzione di concessione o, in subordine, alla dichiarazione di risoluzione del contratto per inadempimento imputabile alla controparte. Con successivi motivi aggiunti, l’associazione ricorrente chiede l’annullamento anche dei provvedimenti con i quali il Comune di Zeta ha affidato, nelle more, in via diretta e temporanea (per dieci mesi) l’impianto sportivo in discorso alla Federazione italiana sportiva competente – federazione sportiva affiliata al Coni -, confermando le domande e i motivi già svolti con il ricorso introduttivo e chiedendo, in estremo subordine, nel caso di rigetto della richiesta di risarcimento del danno, la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento di € 500.000,00 a titolo di ingiustificato arricchimento, in relazione all’incremento patrimoniale conseguito dal Comune resistente con l’acquisizione delle strutture realizzate dall’associazione ricorrente, in esecuzione degli obblighi contratti in sede di offerta. In particolare, l’associazione sportiva TIzio&Caio ha dedotto l’illegittimità dell’affidamento diretto di un impianto comunale in concessione, anche per violazione delle norme a tutela della concorrenza in materia di contratti pubblici. Con riferimento al ricorso introduttivo, parte ricorrente ha articolato le seguenti censure: - violazione degli artt. 2 e 2-bis della L. n. 241/1990, in quanto sarebbe stato superato il termine di legge previsto tra l’avvio del procedimento di decadenza e l’adozione del provvedimento finale; - difetto di istruttoria e di motivazione, errata applicazione della convenzione stipulata con l’ente pubblico e violazione di legge oltre che dei principi di buon andamento, legalità e imparzialità, in quanto il Comune di Zeta non avrebbe dato completa, corretta e tempestiva esecuzione alle obbligazioni direttamente assunte con la convenzione de qua , non avendo, in tesi, l’associazione ricorrente potuto liberamente e compiutamente adoperarsi per il completamento delle opere mancanti rispetto alla completa realizzazione del progetto, a causa delle gravi situazioni impeditive addebitabili alla controparte, neppure nel periodo dei venti mesi di proroga concessi. Si costituisce in resistenza il Comune di Zeta, che chiede il rigetto nel merito del ricorso introduttivo, evidenziando le seguenti circostanze: - a seguito di procedura concorsuale ad evidenza pubblica "vinta" dall’associazione ricorrente, l’amministrazione comunale aveva stipulato con la stessa una convenzione di concessione d’uso del centro sportivo in questione per una durata di anni quindici; - l’originaria convenzione aveva stabilito l’obbligo del concessionario di provvedere all’esecuzione di tutti gli interventi così come identificati e pianificati nel progetto-offerta presentato in sede di gara, entro trenta mesi dalla stipula del contratto, a pena di decadenza espressa della suddetta concessione; - successivamente, peraltro, in considerazione delle cause che avevano reso difficoltosa la regolare esecuzione della convenzione, le parti avevano convenuto una proroga di venti mesi per il termine ultimo dei su citati lavori, modificando lo specifico articolo della convenzione, nel senso che gli stessi avrebbero dovuto essere ultimati entro una diversa data; - in relazione al suddetto accordo, l’associazione ricorrente aveva consegnato il cronoprogramma relativo all’esecuzione dei lavori in tempo utile, ma non aveva poi rispettato il nuovo termine stabilito, nonostante alcune contestazioni formali operate dal Comune di Zeta e una diffida scritta a rispettare l’accordo entro un ulteriore termine perentorio, successivo alla scadenza della proroga; - ne era conseguita, così, la pronuncia di decadenza della concessione d’uso ai sensi della convenzione in parola, che prevedeva, quale causa appunto di decadenza, la mancata esecuzione entro un tempo prestabilito degli interventi identificati e pianificati nel progetto-offerta presentato in sede di gara. Sul punto, l’associazione ricorrente ha replicato, nella sua memoria ex art. 73 c.p.a., che il mancato rispetto del termine ultimo previsto per l’esecuzione dei lavori sarebbe conseguito innanzitutto ad una serie di inadempimenti decisivi dell’amministrazione, realizzatisi in data precedente alla modifica della convenzione per la concessione d’uso del centro sportivo e di cui la ricorrente stessa, al momento della modifica, era tuttavia consapevole. Non ha contestato, per il resto, la ricostruzione dei fatti operati dal Comune di Zeta, limitandosi a evidenziare che l'ulteriore ritardo accumulato nella esecuzione dei lavori sarebbe dipeso: - dal mancato adempimento da parte dell’associazione sportiva (sua) mandante nell'ATI, degli obblighi derivanti dagli accordi interni sottoscritti in occasione della costituzione, ai fini di partecipazione alla gara per la concessione in uso del bene comunale, dell’associazione temporanea di impresa di cui parte ricorrente aveva fatto parte come mandataria; - dai danni alle strutture procurati dal precedente gestore al centro sportivo e non segnalati dal Comune nel bando di gara. Quanto ai motivi aggiunti, la difesa comunale ha ulteriormente eccepito: - l’inammissibilità per difetto di legittimazione o di interesse, trattandosi di soggetto decaduto dalla concessione, della domanda di annullamento della nuova convenzione stipulata dall’amministrazione locale con la Federazione sportiva competente; - in rito, il difetto di giurisdizione del Giudice adito sulla domanda di ingiustificato arricchimento; - nel merito, l’incompatibilità della suddetta domanda indennitaria con l’istituto della concessione, documentando altresì l’esistenza di una clausola nella convenzione stipulata tra le parti, in cui era stata esplicitamente esclusa qualsiasi forma di indennizzo o di corrispettivo a carico del Comune di Zeta al cessare a qualsiasi titolo della concessione. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Occorre innanzitutto esaminare il ricorso introduttivo. 1.1. Con i primi due motivi l’associazione sportiva Tizio&Caio ha chiesto l’annullamento della disposta decadenza, in quanto: - da un lato, sarebbe stato superato il termine di legge previsto tra l’avvio del procedimento di decadenza e l’adozione del provvedimento finale; - dall’altro, il superamento dell’ulteriore termine di proroga concesso per il completamento delle opere da eseguire per adempiere compiutamente agli obblighi contrattuali, sarebbe stato causato dalle gravi situazioni impeditive addebitabili alla controparte. 1.2. Il primo motivo è infondato, in quanto la L. n. 241/1990 non fa derivare dal ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo alcuna conseguenza, se non eventualmente di natura risarcitoria, rispetto alla legittimità del provvedimento conclusivo. 1.3. Anche il secondo motivo è infondato, per le ragioni che si vanno ad esporre. La tesi della ricorrente è che il mancato rispetto del termine ultimo previsto per l’esecuzione dei lavori sarebbe conseguito ad una serie di inadempimenti decisivi dell’amministrazione. Il Collegio osserva, peraltro, che, sulla base di quanto risultante dagli atti di causa, tutti gli episodi precedenti alla determinazione con la quale è stata modificata la convenzione accessoria alla concessione d’uso del centro sportivo sono irrilevanti al fine di stabilire la legittimità della pronuncia di decadenza. La modifica suddetta è stata infatti formalmente inserita nella convenzione e sottoscritta da entrambe le parti in data successiva agli adempimenti denunciati, ed è pacifico che la concessionaria abbia inviato il cronoprogramma dei lavori da eseguire entro il nuovo termine ultimo previsto dalla modifica della convenzione, e che alla scadenza di tale termine i lavori non erano stati ancora completati. Resta pertanto da stabilire se l’esecuzione dei lavori di cui al nuovo cronoprogramma sia stata ostacolata in modo decisivo dalla controparte pubblica. Ritiene il Collegio che l’imputabilità al Comune di Zeta dell’inadempimento da parte dell’associazione degli obblighi contratti non sia stata accertata in giudizio. Innanzitutto, quanto al mancato adempimento da parte della mandante dell’ATI aggiudicataria degli obblighi derivanti dagli accordi sottoscritti in occasione della costituzione di tale associazione temporanea, nessuna rilevanza può essere riconosciuta alla circostanza che tale comportamento possa avere a sua volta causato l’inadempimento degli obblighi assunti in convenzione, potendo tali comportamenti incidere solo nei rapporti interni fra i componenti del raggruppamento. In secondo luogo, quanto ai danni alle strutture procurati dal precedente gestore al centro sportivo e non segnalati dal Comune nel bando di gara, si tratta di circostanze evidentemente conosciute (o che avrebbero dovuto essere conosciute) dal concessionario fin dall’immissione in possesso nel bene, con la conseguenza che, ancora una volta, nel concordare la proroga del termine originario stabilito in convenzione, l’associazione ricorrente aveva prestato acquiescenza rispetto a tali possibili fonti di inadempimento. In definitiva, dunque, non avendo parte ricorrente rispettato il nuovo termine accordato per cause non imputabili a controparte, l’intervenuta decorrenza di tale termine, ai sensi di quanto disposto in convenzione, non avrebbe potuto che determinare la decadenza della concessione. 2. Quanto alle altre domande proposte con il ricorso introduttivo, l’accertamento della legittimità dell’atto di decadenza impugnato, facendo venire meno il rapporto contrattuale tra le parti, si pone in termini di incompatibilità sia rispetto alla domanda di condanna del Comune di Zeta all’adempimento della convenzione di concessione, che rispetto alla richiesta di risoluzione della convenzione stessa per fatto imputabile all’amministrazione. Entrambe le su esposte domande vanno dunque respinte. 3. Con riferimento infine alla richiesta di risarcimento dei danni subiti, la legittimità del provvedimento dichiarativo di decadenza dalla concessione d’uso esclude l’ingiustizia dei pregiudizi economici subiti in conseguenza di tale provvedimento. 4. Passando adesso all’esame dei motivi aggiunti, occorre innanzitutto esaminare l’eccezione di difetto di legittimazione o comunque di carenza di interesse rispetto alla domanda di annullamento della convenzione diretta e temporanea nelle more stipulata tra il Comune resistente e la competente Federazione sportiva. 4.1. L’eccezione è fondata. L’odierno accertamento della legittimità della decadenza impugnata priva, infatti, l’associazione ricorrente di qualsiasi interesse rispetto ad una nuova assegnazione della gestione dell’impianto, in relazione all’impossibilità di conseguirne, quale soggetto decaduto, un nuovo affidamento. Qualora pure dovesse risultare la sussistenza di un interesse astratto alla legalità dell’affidamento della struttura pubblica da parte di un operatore del settore, risulta in ogni caso evidente la legittimità del provvedimento comunale impugnato con i motivi aggiunti. Si tratta infatti di affidamento diretto (e per giunta temporaneo) consentito implicitamente, in relazione alla riconosciuta valenza pubblicistica dell’attività di utilizzazione e gestione degli impianti sportivi pubblici, dall’art. 15, comma 1 del d.lgs. n. 242/1999 e dallo Statuto del CONI, di cui l’affidataria diretta è una delle Federazioni sportive nazionali affiliate. 4.2. Da ultimo, l’associazione ricorrente ha proposto, con i motivi aggiunti, e in via subordinata, azione di ingiustificato arricchimento, in quanto la restituzione dell’impianto sportivo al concedente implicherebbe anche l’acquisizione delle strutture nel frattempo realizzate dall’associazione ricorrente stessa, in (parziale) esecuzione degli obblighi contratti in sede di offerta. 4.3. Quanto all’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., il Collegio osserva che la stessa, afferendo a profili indennitari, è da ritenersi senz’altro riservata alla cognizione del Giudice ordinario, secondo il comune disposto dell’art. 133 comma 1, lett. b) e c) del c.p.a., in materia di concessioni di beni e servizi pubblici. Va in ogni caso segnalato che nel caso di specie non può ontologicamente ricorrere il presupposto della mancanza di giusta causa, in relazione all’arricchimento conseguito dal Comune resistente con l’acquisizione delle strutture realizzate dall’associazione ricorrente (peraltro, in esecuzione degli obblighi contratti in sede di offerta), poiché trattasi di rapporto concessorio – in cui l’operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio – e poiché nella convenzione stipulata tra le parti era stata esplicitamente esclusa, come da documentazione versata nel fascicolo di causa, qualsiasi forma di indennizzo o di corrispettivo a carico del Comune resistente al cessare “a qualsiasi titolo” della concessione. 5. Il ricorso e i motivi aggiunti devono dunque essere integralmente respinti, secondo le motivazioni sopra evidenziate. 5.1. Le spese del giudizio seguono la soccombenza, e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, li respinge, nei sensi di cui in motivazione. Condanna l’associazione ricorrente a rifondere le spese processuali sostenute dall’amministrazione resistente, che liquida in complessivi € ______, oltre accessori di legge e rifusione del contributo unificato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ______ nella camera di consiglio del giorno _______ con l'intervento dei magistrati: SPIEGAZIONE DI ALCUNE QUESTIONI PROCESSUALI I provvedimenti del Comune che si succedono cronologicamente sono la decadenza della concessione e il nuovo affidamento in uso dell'impianto sportivo. Il primo genera l'interesse principale del ricorrente - corrispondente al mantenimento del bene della vita "concessione" -, il secondo deve essere necessariamente impugnato per impedire, con il suo consolidamento per decorso dei termini di legge previsti per la notificazione del ricorso, che dall'eventuale annullamento della decadenza non sia più possibile trarre alcuna utilità pratica. In effetti, se il ricorrente avesse impugnato il solo provvedimento di decadenza, ma poi non avesse impugnato nei termini l'atto che ha disposto l'affidamento dell'impianto, il Comune avrebbe potuto fondatamente eccepire l'improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso, in quanto il privato non avrebbe più potuto comunque disporre del bene controverso, trattandosi, nel caso di specie, di due atti (quello di decadenza e quello di nuovo affidamento) che non si pongono tra di loro in termini di stretta conseguenzialità, sia perché il secondo non deriva necessariamente dal primo, sia perché coinvolgono soggetti diversi. Non essendo atti consequenziali, devono dunque essere entrambi impugnati e annullati, perché dal venire meno di uno non deriva necessariamente il venir meno anche dell'altro. Allo stesso modo, il Giudice avrebbe dovuto sollevare d'ufficio, in mancanza dell'eccezione di parte, la relativa questione, facendo discutere sul punto le parti, prima di decidere (cfr. art. 73, comma 3 c.p.a.). Diversa ancora è invece l'eccezione sollevata nel caso di specie dal Comune resistente. L'amministrazione sostiene che i motivi aggiunti siano inammissibili perché proposti da un soggetto decaduto. L'eccezione de qua presuppone l'esame nel merito del ricorso introduttivo, perché se tale ricorso fosse stato in ipotesi considerato fondato, la decadenza sarebbe stata annullata e il ricorrente avrebbe avuto piena legittimazione - in quanto soggetto ancora titolare della concessione - a interloquire processualmente anche sul successivo affidamento. Di più. Se il ricorso introduttivo fosse stato accolto, il Giudice avrebbe dovuto annullare anche il nuovo affidamento per illegittimità derivata, sempre che il relativo motivo di ricorso fosse stato proposto. Occorre infatti che la parte che abbia interesse a far valere i vizi di un atto anche nei confronti dell''atto successivo (non consequenziale, nei termini sopra evidenziati, ma che da quello tragga il suo presupposto), formuli lo specifico motivo di ricorso. Un'ulteriore doverosa annotazione deve essere fatta con riferimento ai motivi aggiunti. Dalla traccia non emerge che tali motivi siano stati notificati anche alla Federazione sportiva competente, che è il controinteressato necessario, e come tale avrebbe dovuto essere coinvolto nel processo, a pena di inammissibilità/decadenza, ex art. 41, comma 2 c.p.a.. Sussisteva dunque per il candidato anche la possibilità di dichiarare di ufficio, dando atto in sentenza del rilievo della relativa questione a verbale, l'inammissibilità dei motivi aggiunti per difetto di contraddittorio, ferma restando la necessità, discendente dalla formulazione dalla traccia, di affrontare comunque nel merito il motivo. Non è da considerarsi invece corretta una soluzione con la quale il candidato esamini per primi i motivi aggiunti, al fine di fare derivare un esito di improcedibilità del ricorso introduttivo, perché in questo caso deve essere rispettato l'ordine processuale "stabilito", tramite le due distinte e successive impugnazioni, dalla parte interessata.
09 apr, 2021
* SI CONSIGLIA DI PROVARE A SVOLGERE LA MOTIVAZIONE E IL DISPOSITIVO IN AUTONOMIA PRIMA DI ESAMINARE LA SOLUZIONE OFFERTA TRACCIA Tizio impugna dinanzi al competente Tribunale amministrativo regionale il provvedimento con cui il Comune di Zeta, con stima non ancora definitiva, ha determinato, con atto conosciuto dall’interessato 100 giorni prima della notificazione del ricorso, l’indennità per l’espropriazione di una parte di un suo terreno, opponendosi alla stima effettuata. Contestualmente, chiede il risarcimento del danno consequenziale ad occupazione d’urgenza di altra porzione dello stesso terreno, sempre di sua proprietà, e sempre da parte del Comune di Zeta, per la realizzazione di un impianto sportivo e ricreativo polivalente, non seguita da regolare espropriazione. In particolare, le due richieste sono state formulate relativamente alle seguenti aree: - una prima area di complessivi mq. 4.000, la cui occupazione è avvenuta il 24 settembre 2010; - una seconda area di complessivi mq. 6.000, la cui occupazione è avvenuta il 26 giugno 2012. Tutte e due le occupazioni sono state effettuate a seguito di unitaria dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da eseguire, avvenuta nel corso del 2009. Relativamente alla prima occupazione, il decreto di esproprio è intervenuto entro la scadenza dei termini, nel 2016, e l’interessato si oppone adesso in giudizio alla determinazione provvisoria dell’indennità di esproprio. Relativamente alla seconda occupazione, non risulta che l’amministrazione abbia mai adottato un decreto di espropriazione. L’irreversibile trasformazione (o comunque la modificazione) di tali terreni si è ad ogni modo nel frattempo perfezionata. Tizio chiede dunque una correzione in aumento del valore liquidato a titolo di indennità di espropriazione, senza peraltro documentare per quali motivi la stima sia erronea, e il risarcimento del danno per il terreno occupato ma mai espropriato, con rivalutazione e interessi del valore venale di tale area a decorrere dal momento dell’immissione in possesso da parte dell’amministrazione. Si costituisce in resistenza il Comune di Zeta, che eccepisce: - pregiudizialmente, il difetto di giurisdizione del giudice adito rispetto a tutte le domande proposte; - in caso di mancata dichiarazione del difetto di giurisdizione, l’inammissibilità dell’opposizione alla stima, per intervenuto decorso dei trenta giorni dalla notifica della stima peritale; - la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, essendo decorsi oltre cinque anni dall’occupazione dei terreni; Nel merito, il Comune oppone l’infondatezza o comunque l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno, evidenziando che Tizio avrebbe potuto chiedere soltanto la restituzione del terreno, e che comunque l’individuazione del dies a quo di commissione dell’illecito era da riferirsi alla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno e non al momento dell’immissione in possesso da parte dell’amministrazione. Il Comune di Zeta propone altresì domanda riconvenzionale per vedere dichiarata l’intervenuta usucapione dei terreni occupati, facendo decorrere gli effetti dell’immissione in possesso da fatti e atti risalenti a 25 anni orsono, senza peraltro documentare in alcun modo tali circostanze. Nelle more del giudizio, l’amministrazione locale adotta decreto di acquisizione ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 del terreno non espropriato, in ragione dell’attualità dell’interesse all’utilizzo del complesso sportivo nel frattempo realizzato. Tizio impugna anche tale decreto con motivi aggiunti, chiedendone l’annullamento, ma limitandosi a contestare i criteri di liquidazione della indennità di acquisizione e non la legittimità dell’atto in sé. Il Comune di Zeta eccepisce a sua volta la sopravvenuta improcedibilità del ricorso introduttivo e il difetto di giurisdizione sulla nuova domanda svolta con i motivi aggiunti. ********** Il candidato/la candidata rediga la sentenza nella parte in diritto e nel dispositivo. Il ricorso va risolto seguendo l’ordine logico di trattazione in tutti i profili di rito, anche sollevabili d’ufficio dal giudice adito, e nel merito, pure se uno dei profili in rito fosse assorbente. MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DIRITTO 1.Con il ricorso introduttivo in esame Tizio ha svolto due distinte domande contro il Comune di Zeta: - impugnazione degli atti di determinazione dell’indennità di esproprio conseguente all’avvenuta espropriazione di un bene di sua proprietà, ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001; - richiesta di risarcimento dei danni subiti a seguito della illegittima occupazione ed irreversibile trasformazione di altra parte dello stesso bene parzialmente espropriato. 2. Con riferimento alla prima domanda – connessa soggettivamente e oggettivamente alla seconda, in relazione all’appartenenza del terreno allo stesso proprietario, alla sua ubicazione nella stessa area comunale e alla realizzazione su tale terreno di un’opera di interesse pubblico – il Collegio deve accogliere l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall’amministrazione resistente. 2.1. Invero, l’opposizione alla stima di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 costituisce una controversia disciplinata dall'articolo 29 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, rispetto alla quale “E' competente la corte di appello nel cui distretto si trova il bene espropriato” (art. 29, comma 2 del d.lgs. n. 150/2011). 2.2. Ne deriva che il Tribunale adito deve declinare in favore del Giudice ordinario la giurisdizione sulla prima domanda svolta. 3. Passando all’esame della domanda di risarcimento dei danni, che afferisce all’occupazione illegittima della seconda area di complessivi mq. 6.000, la cui prima immissione è avvenuta il 26 giugno 2012, occorre preliminarmente verificare, anche in questo caso, se sussiste o meno la giurisdizione del Tribunale amministrativo regionale; il difetto di giurisdizione è stato peraltro anche in questo caso formalmente eccepito dal Comune di Zeta. 3.1. Si osserva, a questo riguardo, che, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza, è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la domanda di risarcimento dei danni proposta dal proprietario ogni volta che gli atti del procedimento ablativo intrapreso dall’ente siano venuti comunque meno o perché siano stati annullati o per la decorrenza dei termini dell’occupazione o di quelli fissati per la conclusione del procedimento; mentre rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le domande risarcitorie e restitutorie relative a fattispecie di occupazione c.d. usurpativa, intese come occupazione di un fondo di proprietà privata in assenza di provvedimenti, fermo restando che oggi tale distinzione (tra occupazione appropriativa ed usurpativa) ha perso di significato con riferimento alla giurisdizione, nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Nel caso di specie, tale dichiarazione di pubblica utilità era sussistente, e quindi la domanda di risarcimento del danno per occupazione illegittima (sopravvenuta scadenza dei termini entro i quali occorre adottare il decreto di esproprio) radica la giurisdizione del Giudice amministrativo. 3.2. L’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune di Zeta deve dunque essere respinta, con riferimento a questo specifico profilo. 4. Sempre preliminarmente, occorre innanzitutto verificare se, come dedotto dall’amministrazione resistente, il diritto al risarcimento del danno si sia nel frattempo prescritto. 4.1. La giurisprudenza ha definitivamente chiarito che l’occupazione illegittima di un bene non espropriato nei termini costituisce un illecito permanente, con la conseguenza che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno non decorre fin tanto che non cessi l’occupazione stessa. Nel caso in esame, la domanda di risarcimento del danno è stata proposta in costanza di occupazione illegittima e dunque in tempo utile ad evitare la prescrizione del diritto. 5. Tornando all’esame della domanda di opposizione alla determinazione dell’indennità di esproprio, posto che il difetto di giurisdizione sembra insuperabile – in relazione all’espresso disposto normativo –, deve essere innanzitutto respinta l’eccezione di inammissibilità di tale opposizione per decorso del termine dei trenta giorni dalla notificazione della stima peritale. 5.1. Invero, secondo la corretta interpretazione di tale norma che prevale nella giurisprudenza nomofilattica, il decorso del termine di decadenza previsto dall’art. 29 comma 3 d.lgs. 150/2011 presuppone che vi sia stata, in sede amministrativa, la stima definitiva dell’indennità di espropriazione e non può dunque operare per la ipotesi di azione giudiziale per la determinazione dell’indennità per la quale non sia intervenuta alcuna stima definitiva, come avvenuto nel caso di specie; l’azione di determinazione giudiziale dell’indennità azionata resta dunque proponibile finché non decorra il termine di prescrizione decennale, a far tempo dall’emanazione del provvedimento ablatorio, ed è stata dunque tempestivamente proposta, con riferimento all’odierna controversia. 5.2. Ad ogni modo, il ricorrente non ha provato in alcun modo la sua pretesa, volta ad ottenere una maggiorazione dell’indennità di esproprio proposta, per cui la domanda deve essere respinta per infondatezza, risultando onere di chi vuole dimostrare l’esistenza di un diritto provarne gli elementi costitutivi. 6. Nel merito della domanda di risarcimento del danno da occupazione illegittima, occorre innanzitutto esaminare la domanda riconvenzionale proposta dal Comune di Zeta, in quanto astrattamente idonea a paralizzare la pretesa di Tizio. L’amministrazione, infatti, chiede l’accertamento dell’intervenuta usucapione dei terreni occupati. 6.1. La domanda riconvenzionale proposta dalla difesa del Comune di Zeta sarebbe preliminarmente inammissibile, per difetto di giurisdizione del Giudice adito, considerando che l’amministrazione allega una data di inizio del possesso qualificato di gran lunga precedente a quella dell’occupazione conseguente alla dichiarazione di pubblica utilità. Ad ogni modo, il Comune non ha dato la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva: il corpus, ossia l’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, l’animus rem sibi habendi, vale a dire la volontà di comportarsi e farsi considerare come proprietario della res ed i requisiti del possesso necessari per l’usucapione, tra i quali anche la durata del possesso medesimo per il periodo prescritto dalla legge, tanto in applicazione della regola generale sull’onere probatorio fissata dall’art 2697 c.c. e dall’art. 64 del codice del processo amministrativo, in base alla quale chi intende far valere un diritto in giudizio ha l’onere di provare i fatti costitutivi di esso. Sussisterebbe infine, a volere rivendicare l’intervenuta usucapione al di fuori dei limitati casi in cui se ne può ipotizzare la sussistenza, un contrasto diretto con l’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). 7. Sotto altro profilo, la domanda di risarcimento del danno non può ritenersi di per sé infondata (rectius: inammissibile), come pure allegato dall’amministrazione resistente, in quanto erroneamente proposta. Secondo la tesi del Comune di Zeta, infatti, Tizio avrebbe dovuto chiedere direttamente la restituzione del bene e non la domanda di risarcimento del danno per equivalente, valendo tale domanda come implicita e inammissibile rinuncia al bene stesso. 7.1. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente escluso qualsivoglia forma di acquisizione della proprietà pubblica per mero decorso del tempo, ovvero per rinuncia abdicativa (o traslativa) dei proprietari che abbiano agito esclusivamente in via risarcitoria, individuando nel provvedimento di cui all’art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni il rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente. Ne deriva che anche se un soggetto non chiede la restituzione del bene, ciò non implica rinuncia abdicativa al bene stesso, ma nemmeno determina l’inammissibilità della proposta domanda di risarcimento del danno, che trae comunque fondamento dal necessario accertamento giudiziale dell’illiceità della condotta dell’ente pubblico e può essere riqualificata autonomamente dal Giudice ex art. 32, comma 2 c.p.a., ferma restando la facoltà discrezionale dell’amministrazione, successivamente all’intervenuto accertamento della perdurante illegittimità dell’occupazione del bene, di restituire l’immobile occupato illegittimamente o di procedere all’adozione di un provvedimento di acquisizione ex post di tale immobile, con corresponsione dell’indennizzo di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001. 7.2. Sotto altro profilo, peraltro, è corretta - anche se non più rilevante, per i motivi che vedremo -, l’affermazione del Comune di Zeta secondo cui il dies a quo di commissione dell’illecito, ai fini dell’individuazione del momento in cui misurare il valore venale del bene per la quantificazione del risarcimento del danno, decorre dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno, posto che soltanto in caso di occupazione sine titulo esso va fatto decorrere dal momento dell’immissione in possesso da parte dell’amministrazione; ne deriva che Tizio non può chiedere gli interessi sulla somma rivalutata fin dal 2012. 7.3. Nel caso di specie, tuttavia, l’intervenuta adozione ad opera del Comune di Zeta, nelle more del giudizio, del decreto di acquisizione al suo patrimonio indisponibile dell’immobile ormai modificato e utilizzato per scopi di interesse pubblico (centro sportivo comunale), da un lato, ha costituito causa di cessazione di quella illiceità, sulla quale si fondava l’originaria istanza risarcitoria, dall’altro, ha fatto convergere su un diverso provvedimento l’interesse alla decisione della questione controversa. 7.4. Ne deriva che il ricorso introduttivo è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, in relazione alla circostanza dirimente secondo cui tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si sono ormai canalizzate nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione ex nunc intervenuto nel corso del giudizio, e, sulla base di tale provvedimento, la p.a. ha ormai acquisito il diritto di proprietà dell'area di cui già aveva il possesso. 8. Occorre dunque esaminare la nuova domanda proposta con i motivi aggiunti. Tizio ha impugnato il decreto di acquisizione ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 medio tempore intervenuto, limitandosi a contestare l’importo stabilito a titolo di indennizzo e non la legittimità dell’atto in sé. 8.1. La domanda di annullamento è in parte infondata e in parte inammissibile. 8.2. E’ infondata con riferimento alla legittimità dell’atto di acquisizione in sé, in quanto la difesa di Tizio non ha in alcun modo allegato quali sarebbero i vizi di incompetenza, violazione di legge e/o eccesso di potere che renderebbero illegittima la decisione del Comune di Zeta, fermo restando l’amministrazione gode di ampia discrezionalità nello stabilire che un bene immobile “modificato” e utilizzato per scopi di interesse pubblico debba essere acquisito al suo patrimonio indisponibile, sussistendo la sola necessità di valutazione “degli interessi in conflitto”. Nel caso di specie, peraltro, il bene in questione è stato trasformato in modo rilevante, con la costruzione di un impianto sportivo, per cui la riduzione in pristino e la restituzione sarebbero stati oggettivamente e gravemente onerosi per l’amministrazione comunale. 8.3. Per altro verso, la domanda di annullamento del decreto di acquisizione, introdotta con motivi aggiunti, è da considerarsi inammissibile per difetto di giurisdizione, come ritualmente eccepito dal Comune di Zeta, in quanto le controversie concernenti non la legittimità dell’atto ex se, ma gli importi in esso contenuti, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327/2001 e dell’art. 133, comma 1, lett. g), ultimo periodo, c.p.a. e risultano devolute alla Corte d’appello, in unico grado, secondo la regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità desumibile dalla interpretazione estensiva dell’art. 29 d.lgs. 150/2011. La natura indennitaria (di pregiudizi conseguenti ad un atto lecito) e non risarcitoria (di danni cagionati da un fatto illecito) delle somme che la PA è tenuta a liquidare e a pagare (o, in mancanza di accettazione, a depositare) per pervenire alla acquisizione del bene al proprio patrimonio indisponibile è stata affermata e confermata dalla giurisprudenza nomofilattica non solo in relazione alle somme qualificate dallo stesso legislatore come “indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale” per la perdita della proprietà del bene immobile, ma anche in relazione all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’immobile, menzionato al comma 3 dell’art. 42 bis, che ne prevede il pagamento “a titolo risarcitorio”, giacché si tratta di una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale previsto dal comma 1 il diritto al quale (nella sua integralità, comprensiva delle voci valore venale, pregiudizio non patrimoniale e interesse del cinque per cento annuo per il periodo di occupazione) sorge solo a seguito dell’adozione del provvedimento di espropriazione c.d. sanante, sicché l’uso dell’espressione “a titolo risarcitorio” costituisce mera imprecisione lessicale, che non altera la natura della corrispondente voce dell’indennizzo, il quale essendo unitario non può che avere natura unitaria. 9. In definitiva, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, con riferimento alla domanda di rideterminazione dell’indennità provvisoria di esproprio, o comunque respinto in quanto infondata, e improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, con riferimento alla domanda di risarcimento del danno, stante il rigetto della domanda riconvenzionale proposta dall’amministrazione resistente; i motivi aggiunti devono invece essere dichiarati in parte inammissibili e in parte infondati, secondo quanto sopra evidenziato. 10. Le spese del giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti, in relazione alla soccombenza reciproca determinatasi sulle domande svolte. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per ____ (Sezione _____), definitivamente pronunciando sul ricorso introduttivo e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti: -dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione la domanda di opposizione alla determinazione dell’indennità di esproprio e indica quale giudice nazionale fornito di giurisdizione su tale domanda il Giudice ordinario, innanzi al quale il giudizio deve essere riproposto entro i termini di legge, ai fini di cui all’art. 11 c.p.a.; -respinge ad ogni modo la citata domanda; -dichiara l’improcedibilità della domanda di risarcimento del danno; -respinge la domanda riconvenzionale proposta dall’amministrazione resistente, nei termini di cui in motivazione; -dichiara in parte infondati e in parti inammissibili per difetto di giurisdizione i motivi aggiunti, nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione. Indica quale giudice nazionale fornito di giurisdizione sulla domanda di rideterminazione giudiziale delle indennità di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 il Giudice ordinario, innanzi al quale il giudizio deve essere riproposto entro i termini di legge, ai fini di cui all’art. 11 c.p.a.; -compensa tra le parti le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in ____ nella camera di consiglio del giorno ____ con l'intervento dei magistrati: SPIEGAZIONE MOTIVAZIONE La traccia nasconde alcune insidie che devono subito essere individuate. Innanzitutto, Tizio ha svolto prima un ricorso introduttivo con due domande, e successivamente dei motivi aggiunti con una sola domanda. Occorre ovviamente andare in ordine ed esaminare il ricorso introduttivo, individuando e riepilogando innanzitutto quali siano le due domande (1). E’ opportuno poi fare un rapido riferimento alla circostanza che le due domande sono tra di loro connesse, per cui è possibile trattarle insieme (2). Si comincia dunque ad esaminare la prima domanda, prestando attenzione al fatto che il Comune di Zeta ha eccepito il difetto di giurisdizione con riferimento ad entrambe le domande (2 e 2.1.) Nel verificare la questione di giurisdizione sulla prima domanda svolta ci soccorre la normativa speciale, che non lascia spazio a dubbi (2.1. e 2.2.). Nel verificare invece la questione di giurisdizione sulla seconda domanda svolta – risarcimento del danno – è opportuno fare un sintetico ma chiaro passaggio sulla ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di occupazione preliminare (o di urgenza) all’espropriazione, e sull’evoluzione dei confini di tale ripartizione (3.1 e 3.2.). Trattenuta la giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno, conviene per comodità esaminare subito l’ulteriore eccezione formulata dal Comune di Zeta rispetto a questa specifica domanda, ovvero l’eccezione di prescrizione (4). Anche qui, ci soccorre nella soluzione la conoscenza degli ultimi approdi della giurisprudenza sulla questione (4.1.). Superate le eccezioni pregiudiziali e preliminari fondamentali, e assodato che la traccia ci chiede di esaminare i profili di merito pure se un profilo di rito fosse da ritenersi assorbente, occorre tornare all’esame della prima domanda svolta (opposizione all’indennità). Qui in realtà pende anche un’eccezione di inammissibilità connessa al presunto decorso dei termini di legge per l’opposizione, che deve essere subito affrontata. Si tratta più propriamente, per ciò che concerne il processo amministrativo, di una questione di irricevibilità ex art. 35, comma 1 lett. a) del c.p.a., che, pur conducendo comunque ad una pronuncia di rito, in caso di suo accoglimento, deve essere esaminata pur sempre dopo la questione di giurisdizione e l’individuazione della posizione soggettiva azionata, anche perché l’accertamento di un diritto non è normalmente sottoposto a termini decadenziali di impugnativa. Nel nostro caso, l’eccezione non coglie nel segno (5 e 5.1.) ma nel merito la domanda di opposizione risulta comunque infondata, perché sprovvista, come riferito in traccia, di qualsiasi elemento probatorio a supporto (5.2.). Occorre a questo punto esaminare nel merito la domanda di risarcimento del danno. Tale domanda può essere astrattamente paralizzata dalla domanda riconvenzionale proposta dall’amministrazione e dunque è necessario innanzitutto verificare l’ammissibilità e la fondatezza della domanda riconvenzionale stessa (6). In questo caso, trattandosi dell’esame unitario di un’unica domanda – e dopo avere velocemente “rinfrescato” le idee dando un’occhiata a codice civile, codice di procedura civile e codice del processo amministrativo su struttura, presupposti e fondamento sostanziale di tale domanda -, si possono approfondire in modo sintetico, uno dopo l’altro, sia i profili di rito che i profili di merito (6.1.). Il Comune di Zeta non si difende nel merito della domanda di risarcimento del danno ma prova a chiederne il rigetto sulla base di un argomento per certi versi capzioso: se l’amministrazione non può più appropriarsi del bene con il vecchio istituto dell’occupazione appropriativa, il privato non ha mai perso la proprietà e quindi deve chiedere la restituzione e non il valore venale del bene perduto (7). L’argomento va affrontato e “smontato” con lucidità, e sotto due profili tra di loro concorrenti, posto che il ragionamento che è alla base dell’eccezione del Comune è comunque corretto (7.1.). Innanzitutto, non vi è inammissibilità della domanda di risarcimento del danno soltanto perché la domanda corretta sarebbe un’altra, anche perché resta comunque la necessità di accertare, sia per l’una che per l’altra domanda, l’illiceità del comportamento della p.a.; in ogni caso, vi è la possibilità di conversione dell’azione proposta, secondo quanto previsto dal codice del processo amministrativo. In secondo luogo, non è detto che il Giudice non possa pronunciare una condanna generica lasciando all’amministrazione la possibilità di scegliere tra la restituzione del bene e l’acquisizione ex art. 42-bis del t.u. espropriazioni, con corresponsione della relativa indennità (7.1.). In questo caso, peraltro – e ciò ci toglie definitivamente le castagne dal fuoco -, il decreto di acquisizione ex nunc è intervenuto prima ancora della conclusione del giudizio, determinando la sopravvenuta carenza di interesse alla originaria domanda di risarcimento del danno e determinando una nuova impugnazione, proposta con i motivi aggiunti di cui all’art. 43 c.p.a.. ( 7.3. e 7.4.). E’ bene in ogni caso fare un rapido passaggio motivazionale anche sull’altra questione lasciata aperta dalla traccia (sulla quali le parti non concordano), vale a dire la corretta individuazione della data di commissione dell’illecito perpetrato dall’amministrazione. Ciò, sempre nell’ottica dell’esame di tutte le questioni, anche se ormai non più rilevanti in conseguenza di una pronuncia di rito (pronuncia che in questo caso è costituita dalla dichiarazione di improcedibilità della domanda di risarcimento del danno) (7.2.) Nell’esame della domanda di annullamento proposta con i motivi aggiunti non deve sfuggire il fatto (essenziale) che Tizio non ha allegato vizi di legittimità del nuovo provvedimento impugnato ma soltanto l’inadeguatezza della indennità stabilita da esso. Da ciò consegue la doppia pronuncia di infondatezza e inammissibilità per difetto di giurisdizione, di per sé idonea a chiudere la motivazione della sentenza (8.1., 8.2. e 8.3.). Esauriti tutti i motivi e tutte le questioni proposti/e dalla traccia, è bene riepilogare unitariamente - soprattutto quando ci sono più domande, ricorso introduttivo e motivi aggiunti, come nel caso in esame – l’esito dell’esame svolto (9). L’ultimo paragrafetto va infine dedicato alla liquidazione delle spese di giudizio, verificando se sussiste una delle ipotesi previste dall’art. 92 c.p.c., così come riformulato a seguito della pronuncia additiva della Corte costituzionale del 2018. La reciproca soccombenza, valutata in autonomia dal Giudice (tutte le domande, ivi compresa la domanda riconvenzionale, sono state formalmente respinte o dichiarate inammissibili o improcedibili, ma la pretesa di fondo del ricorrente era parzialmente fondata), è una di queste ipotesi (10). DISPOSITIVO Il dispositivo deve essere ordinato ed esaustivo, oltre che, ovviamente, coerente con la motivazione. Se una domanda è stata respinta sia per motivi di rito che per infondatezza nel merito, o comunque attraverso un ragionamento articolato e non sintetizzabile ulteriormente in dispositivo, si può usare la formula unitaria “nei termini di cui in motivazione” o “nei sensi e con gli effetti di cui in motivazione”. Se si dichiara il difetto di giurisdizione è bene ricordarsi di riportare in dispositivo la formula usata dall’art. 11 c.p.a.. Non dimenticare la pronuncia sulle spese di lite.
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