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Rifiuto di giurisdizione ed esercizio delle funzioni di magistrato

mar 30, 2021

Allorché la domanda giudiziaria non è conoscibile da alcun giudice, il Tribunale adito è tenuto ad "arretrare" rispetto ad una materia che non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale.

Si parla in questo caso di “rifiuto di giurisdizione”.

Secondo la Corte Costituzionale, il rifiuto di giurisdizione sindacabile è solo quello “in astratto”, e giammai “in concreto”, pena l’invasione nella nomofilachia del giudice di vertice della giurisdizione speciale, cui solo è rimessa la cognizione degli errores in iudicando o in procedendo.

Invero, a norma dell’art. 111 Cost., comma 8, quale supremo organo regolatore della giurisdizione, la Cassazione può soltanto vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione.

Con la pronuncia n. 6 del 2018, la Corte costituzionale ha affermato che l'”eccesso di potere giudiziario”, denunziabile con il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, “va riferito… alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (c.d. invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (c. d. arretramento); nonchè a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.

“Il concetto di controllo della giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri – ha aggiunto la Corte costituzionale -, non ammette soluzioni intermedie come quella… secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento””.

Ha infatti precisato il Giudice delle leggi che attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive.

La Consulta ha, quindi, affermato che, “alla stregua del così precisato ambito di controllo sui “limiti esterni” alla giurisdizione, non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti un’interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”.

L’ipotesi non ricorre, in particolare, quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa sia stata desunta non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico disvela. Tale operazione ermeneutica potrebbe dare luogo, eventualmente, ad un error in iudicando, ma non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale.

Sono casi in cui il Consiglio di Stato non “crea” alcuna norma, ma si limita a svolgere un’attività di interpretazione normativa che rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e che non può, dunque, integrare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo.

Una tale statuizione, basata sull’interpretazione della legge, potrebbe tutt’al più configurare un error in iudicando, escluso, tuttavia, dal sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, restando invece estraneo alla fattispecie de qua ogni profilo relativo ad un preteso eccesso di potere giurisdizionale.

Altra ipotesi di rifiuto di giurisdizione si ha in materia di responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, ipotesi che trova applicazione "a tutti gli appartenenti alle magistrature (...) che esercitano l'attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni" (art. 1, comma 1 della L. n. 117 del 1988).

Vi è, dunque, un duplice presupposto condizionante l'applicazione della citata L. n. 117: di status (appartenenza alla magistratura) ed oggettivo (esercizio di attività giudiziaria).

Nella compresenza dei presupposti anzidetti, la proposizione di azione per il risarcimento del danno cagionato "nell'esercizio delle funzioni giudiziarie" direttamente nei confronti del magistrato è consentita soltanto nell'ipotesi di cui alla stessa L. n. 117 del 1988, art. 13, ossia da "chi ha subito un danno in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni".

Diversamente, l'azione diretta di danno può essere proposta unicamente contro lo Stato.

Ne consegue che, al di fuori dell'ipotesi disciplinata dal citato art. 13, la proposizione, in sede civile, di azione diretta contro il magistrato configura una fattispecie di improponibilità assoluta e definitiva della domanda, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall'ordinamento.

Trattasi, dunque, di questione che, come tale, integra una deduzione di difetto assoluto di giurisdizione sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1), perchè attiene al perimetro, in astratto delimitato dall'ordinamento, della cognizione giurisdizionale, tale che nessun giudice può conoscere della domanda risarcitoria proposta in via diretta in sede civile per danni cagionati (con dolo o colpa grave) a seguito "di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni" (art. 6).

Si è posto, al riguardo, il problema della corretta interpretazione ed estensione della clausola “esercizio delle funzioni”.

La Cassazione sostiene che il concetto di cui all’art. 2 della L. n. 118 del 1988 non comprenda soltanto le attività che si esprimono nell'adozione di atti e provvedimenti giurisdizionali, nelle varie forme in cui la giurisdizione si estrinseca, ma comprende anche le attività che si esprimono con quegli atti che sono funzionali, in relazione al diverso ruolo ricoperto nell'organizzazione giudiziaria dal magistrato, al compimento dell'attività giurisdizionale. Si può trattare, dunque, anche di atti organizzatori inerenti l'esercizio dell'ufficio di cui il magistrato è investito e, quindi, di atti che non si collocano nell'ambito di un processo, cioè della sequenza procedimentale con cui si esercita la giurisdizione. Occorre, tuttavia, in ossequio al principio di legalità che deve contrassegnare l'esercizio delle funzioni giurisdizionali in questo senso, che l'atto in questione tragga origine o si collochi nell'ambito di un'attività normativamente prevista come giurisdizionale o come funzionale a quella giurisdizionale.

La L. n. 117 del 1988, art. 2, quando fa riferimento all'esercizio delle funzioni del magistrato, usa il termine "funzioni" in modo generico, di modo che tale termine si presta a comprendere sia la funzione in senso soggettivo (e, quindi, senza pretesa di rispondenza ad atti tipici), sia la funzione in senso oggettivo (e, quindi, relativa ad atti tipici).

Tuttavia, il generico riferimento va letto alla luce della precisazione fatta dalla L. n. 117 del 1988, art. 1 circa l'ambito di applicazione della legge stessa, che è limitato alla "attività giudiziaria"; tale concetto implica un contenuto oggettivo, dato che ci si riferisce all'attività, e questa non può che trovare legittimazione nelle norme. Ne deriva che il riferimento all’esercizio delle “funzioni” dev'essere inteso nel senso che si deve trattare di funzioni in senso oggettivo e, poiché tale oggettività, che giustifica che il cittadino agisca contro lo Stato e non contro il magistrato, non può che discendere, conformemente al principio di legalità, dal correlarsi del comportamento del magistrato ad un potere o ad una legittimazione previsti da una norma, occorre ritenere che l'art. 2, quando si riferisce alle funzioni, alluda ad un'attività prevista o consentita da una norma, con la sola particolarità che la norma può essere regolatrice dell'esercizio della giurisdizione od anche dell'attività organizzatoria strumentale all'esercizio della giurisdizione.

Al di fuori dell’esercizio delle funzioni di magistrato è stata recentemente collocata dalla Cassazione l’attività svolta dal magistrato amministrativo in qualità di componente della commissione della L. n. 186 del 1982, ex art. 33 (commissione istruttoria in funzione dell’adozione di provvedimenti disciplinari).

In questo caso, infatti, l’attività svolta dal magistrato (amministrativo) non costituisce esercizio di "attività giudiziaria", in virtù del carattere pacificamente amministrativo del relativo procedimento disciplinare, e non è tale, dunque, da integrare l'ulteriore, e imprescindibile, presupposto, di carattere oggettivo, che condiziona, nella specie, l'applicabilità della L. n. 117 del 1988.

Né la natura di procedimento giustiziale e contenzioso, in base ad un paradigma predeterminato dalla legge, consente di immutare la natura soggettiva del CPGA e di elidere il carattere amministrativo del procedimento disciplinare a carico dei magistrati amministrativi, così da poter qualificare il relativo svolgimento come "attività giudiziaria".

Il riferimento all' “attività giudiziaria", quale presupposto oggettivo di applicabilità della L. n. 117 del 1988, sebbene ampli lo spettro delle condotte del magistrato riconducibili nell'alveo della disciplina da essa recata, non recide il collegamento che deve comunque sussistere tra l'attività (comportamenti, atti e provvedimenti) del magistrato stesso e la funzione giurisdizionale, poiché la giustificazione di fondo di detta disciplina, speciale rispetto a quella comune, va pur sempre rinvenuta nelle disposizioni di cui agli artt. 101 Cost. e segg., che imprimono alla disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati un significato d'insieme univoco e coerente di difesa dei valori dell'autonomia ed indipendenza del giudice, i quali operano non già come privilegio personale del singolo appartenente all'ordine giudiziario o alle giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.), bensì come tassello indefettibile, al pari di altri, nella costruzione della forma repubblicana, che, ai sensi dell'art. 139 Cost., non può in nessun caso essere oggetto di revisione.

Pertanto, l'estensione dell'ambito applicativo della L. n. 117 del 1988, oltre quello segnato dallo svolgimento della funzione giurisdizionale in senso stretto (e, tanto più, di quella eminentemente decisoria), va delineata in coerenza con il collegamento anzidetto, certamente operando la disciplina legale in riferimento alle "attività che si esprimono nell'adozione di atti e provvedimenti giurisdizionali, nelle varie forme in cui la giurisdizione si estrinseca", ma essendo capace di comprendere anche "attività" ulteriori, siccome strumentali a quella giurisdizionale, ossia le attività che si esprimono con quegli atti che sono funzionali, in relazione al diverso ruolo ricoperto nell'organizzazione giudiziaria dal magistrato, al compimento dell'attività giurisdizionale.

In definitiva, dunque, ciò che caratterizza l’attività giudiziaria, ai sensi della L. n. 117 del 1988, è la sua inerenza all'esercizio dell'ufficio di cui l'appartenente alla magistratura è investito e che, pertanto, rientra, in base alla legge, nelle attribuzioni (giurisdizionali o non) dell'organo giudiziario in cui il magistrato stesso si immedesima.



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