La protezione speciale e gli obblighi sovranazionali
Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, sentenza n. 6494 pubblicata il 9 agosto 2025
IL CASO E LA DECISIONE
Un cittadino albanese, giunto in Italia da quasi venti anni per ricongiungersi alla sorella, unico suo punto di riferimento in vita, veniva a sua volta raggiunto dalla moglie nel corso dell'anno 2011.
D’altra parte, tra il 2010 e il 2013 erano nati i due figli della coppia, uno dei quali aveva fin da subito manifestato problemi respiratori ed era stato sottoposto a molteplici accertamenti medici, con diagnosi di disturbo evolutivo specifico misto e un disturbo del funzionamento sociale con esordio specifico nell'infanzia.
Conseguito il permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti, nel febbraio del 2021, alla richiesta di aggiornamento di tale permesso, la Questura procedente si opponeva all’aggiornamento medesimo e revocava contestualmente il permesso UE, a causa di due precedenti penali dell’interessato per il reato di detenzione illecita di sostanze stupefacenti.
Impugnata la revoca dinanzi al Tar, il Giudice amministrativo accoglieva parzialmente la domanda cautelare, nella parte in cui era stato negato al cittadino straniero altro titolo di soggiorno ai sensi del comma 9 dell’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, e la Questura di Milano convocava l'interessato per la formalizzazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale di cui all'articolo 19 comma 1.2 del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto fondata sull'esigenza di tutelare il rispetto della vita familiare del ricorrente.
Tuttavia, a distanza di oltre un anno, l’amministrazione notificava al ricorrente il provvedimento di diniego della domanda di protezione speciale e il contestuale decreto di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera, sulla base del parere negativo della Commissione territoriale competente al rilascio del permesso richiesto.
In particolare, la Commissione aveva richiamato in via analogica la sentenza della Corte Edu, in cui era stata esclusa la sussistenza di una violazione dell'articolo 8 della Convenzione nel caso di rimpatrio di un trentanovenne cittadino marocchino pluripregiudicato che pure aveva vissuto in Italia per vent'anni e aveva in Italia madre, sorella e fratello, in considerazione della preminenza dell'interesse alla salvaguardia dell'ordine pubblico.
In senso contrario a tale riferimento giurisprudenziale, tuttavia, il Tribunale di Milano ha ravvisato, nel caso dallo stesso esaminato, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, evidenziando che dalla documentazione prodotta risultava che l’interessato si fosse radicato in Italia insieme al nucleo familiare e avesse raggiunto un buon livello di integrazione sotto tutti i profili (sociale, lavorativo e linguistico).
A fronte di tale apprezzabile livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia, il rimpatrio, secondo il Giudice adito, avrebbe violato il suo diritto alla vita privata e familiare, che egli aveva progressivamente sviluppato e poi radicato nel nostro Paese insieme al nucleo familiare. Inoltre, in punto di effettivo inserimento sociale nel Paese ospitante, l’interessato risultava avere acquisito conoscenze professionali nonché una propria autonomia abitativa e una stabile vita di relazione. Infine, la situazione medica del figlio minore rendeva ancora più pregnante la necessità di tutelare la vita privata e familiare del padre.
D’altra parte, sempre secondo il Giudice adito, le ragioni in forza delle quali la Commissione territoriale aveva emesso parere negativo al riconoscimento del permesso per protezione speciale non avrebbero potuto considerarsi rilevanti, in quanto le condanne penali alle quali l’amministrazione aveva fatto riferimento dovevano necessariamente essere bilanciate con la vita vissuta dal ricorrente nel corso dei lunghi anni di permanenza sul territorio dello Stato italiano.
In particolare, le valutazioni della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo valorizzate dalla Commissione territoriale sarebbero più pregnanti nel diverso contesto del bilanciamento tra il diritto dello Stato di espellere persone ritenute effettivamente pericolose per l’ordine pubblico e diritto dell’espellendo di tutelare la propria vita privata e/o familiare, mentre nel più specifico ambito della
protezione internazionale, nel cui alveo si collocano le
domande di protezione speciale, ex art. 10 della Costituzione, deve senz’altro prevalere, a dire del Tribunale di Milano, il diritto alla tutela della vita privata e familiare di un soggetto condannato nel tempo
soltanto per due reati “lievi”, nell’arco di una permanenza ventennale nel Paese ospitante, permanenza nel corso della quale, a fronte dello scarso profilo di pericolosità sociale derivante dalle condotte illecite accertate, era stato accertato che l’interessato avesse sostenuto un
apprezzabile sforzo di
integrazione sociale.
LA SOLUZIONE IN DIRITTO
L’art. 7 comma 1 del D.L. 20/23 (conv. dalla l. 50/23), entrato in vigore l’11 marzo 2023, ha tra l’altro abrogato la seconda parte (terzo e quarto periodo) dell’art. 19 comma 1.1 del Testo Unico Immigrazione.
I periodi abrogati prevedevano un espresso divieto di respingimento o di espulsione tutte le volte in cui l’allontanamento potesse comportare una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del richiedente, salvo che l’allontanamento stesso non fosse necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, o di protezione della salute (da qui la definizione di questa forma di protezione speciale come “relativa”, in quanto il diritto in questione era bilanciabile con tali ragioni). La norma indicava poi, con elencazione da ritenersi non tassativa, ma solo esemplificativa, i quattro indici alla cui presenza sorgeva il diritto alla tutela della vita privata e familiare: natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato, suo effettivo inserimento sociale in Italia, durata del suo soggiorno nel territorio nazionale ed esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.
Prima della modifica normativa, tra l’altro, si riteneva che, nella particolare fattispecie della protezione speciale per integrazione sociale, non fosse più necessaria la valutazione comparativa con la condizione del richiedente nel Paese di origine, secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità per il riconoscimento della protezione umanitaria, nemmeno nella forma della comparazione attenuata con proporzionalità inversa.
La comparazione attenuata con proporzionalità inversa, a sua volta, presupponeva che la condizione di vulnerabilità venisse verificata di volta in volta all’esito di una valutazione individuale della vita privata e familiare del richiedente, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza alla stregua di un più generale principio di comparazione attenuata, concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, nel senso che quanto più fosse risultata accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità, se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficiassero la motivazione, conducendola al di sotto del minimo costituzionale), una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più era consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri rappresentati dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.
D’altra parte, l’art. 19 comma 1.1 sopra citato non ha subito alcuna modifica nel suo primo periodo; dunque, resta fermo il divieto di respingimento o di espulsione o di estradizione “di una persona verso uno Stato […] qualora ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5 co. 6. […]”. A sua volta, resta immutato il sesto comma dell’art. 5 cui tale norma fa rinvio, che dispone che nell’adottare una decisione di rifiuto o revoca del permesso di soggiorno allo straniero occorre fare “salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Pertanto, continuerebbero a trovare tutela nell’alveo della prima parte dell’art. 19 comma 1.1. TUI tutte le situazioni di vulnerabilità ed i diritti che trovavano tutela in precedenza, in quanto rientranti o nel divieto di refoulement (pericolo di tortura, di trattamenti inumani o degradanti, violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di origine), ovvero più in generale nel rispetto degli obblighi costituzionali (diritto di asilo, art. 10; alla salute art. 32; alla parità, art. 3; alle relazioni familiari, artt. 29-31, ecc.) ed internazionali, con particolare riferimento al necessario rispetto dei diritti alla vita privata ed alla vita familiare, che trovano ampia tutela non solo nell’art. 8 CEDU ma altresì nell’art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ed è questa la posizione assunta dal Giudice adito nel caso di specie.
In particolare, il Tribunale di Milano ha tenuto conto, nel decidere, dei principi elaborati, anche in materia di protezione umanitaria, dalla giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione, che hanno aperto non solo a una concezione allargata della vulnerabilità del cittadino straniero, ma hanno, altresì, introdotto la necessità di una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.
Sotto questo profilo, pertanto, i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un'effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa.
Sempre sulla base dei principi costituzionali o di diritto unionale o internazionale, è stato ritenuto che ai fini della verifica dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria deve tenersi conto: delle violenze subite nel Paese di transito, degli eventi calamitosi, causa dell’emigrazione, verificatisi nel paese di origine, del rischio di una lesione del diritto alla salute, ivi compreso un accertato disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite, della situazione oggettiva del Paese di origine (ai fini del giudizio di ‘comparazione attenuata’), del diritto alla vita privata e familiare e, a tali fini, dell'esistenza e della consistenza dei legami familiari e affettivi del richiedente in Italia e del suo percorso di integrazione in Italia, non solo sotto il profilo lavorativo, ma anche culturale e sociale (ad es., con riferimento alla conoscenza della lingua italiana ed alle attività di volontariato svolte con continuità) e valutando il livello di integrazione raggiunto non come necessità di un pieno, irreversibile eradicale inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma come ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale di riferimento.
Quanto poi alla tutela dei legami famigliari instaurati nel Paese di accoglienza, il Giudice che ha esaminato il caso in commento, decidendolo favorevolmente al ricorrente, ha ricordato che “la situazione di radicamento familiare, ove sussistente, […], deve essere esaminata e valutata in modo autonomo come fattore di per sé espressivo e sintomatico del diritto al riconoscimento della vita familiare ex art. 8 CEDU, al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio del richiedente nel Paese d’origine renda probabile un significativo peggioramento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare tale da pregiudicare il diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU."