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Tentativo, desistenza, giudicato progressivo e divieto di reformatio in peius

dic 18, 2023

Tribunale di Roma, Sezione GUP, sentenza n. 1430/17 – Corte di Cassazione, sentenza n. 1443 pubblicata il 16 ottobre 2023


IL CASO E E IL GIUDIZIO DI ULTIMA ISTANZA

Un soggetto contatta sotto falsa identità tutta una serie di ragazze minorenni per intrattenersi sessualmente con loro, promettendo loro, come corrispettivo, utilità di vario tipo, soldi, cene eleganti, locali esclusivi e pernottamenti lussuosi.

Il Giudice di primo grado, a seguito di rito abbreviato, ritiene provate due fattispecie tentate del delitto di cui all'art. 600-bis, comma II, e una fattispecie consumata relativamente alla stessa tipologia di condotta.

In particolare, se in un caso era stata ritenuta provata la consumazione di atti sessuali con una minorenne in cambio di utilità, con riferimento ad altre contestazioni era stata reputata raggiunta la sola soglia di punibilità del tentativo del delitto di cui all’art. 600-bis, II comma c.p..

Invero, con riferimento a tali ultime condotte, la dinamica del complessivo comportamento posto in essere dall’imputato, secondo un identico modulo strategico (previo invio di mail standardizzata, corredata da esplicita offerta di denaro, agli indirizzi delle modelle estratti da siti internet, con successiva acquisizione del numero di telefono della “vittima” e pressanti richieste di appuntamenti), è risultata congrua ad esporre a pericolo l’integrità delle minori “compulsate”, ed avrebbe potuto conseguire il compimento con queste di atti sessuali a pagamento, se la relativa condotta non fosse rimasta incompiuta per l’intervento di fattori estranei alla volontà dell’accusato.

Purtuttavia, la Corte di Appello di Roma, a seguito di rinvio operato sul punto dalla Corte di Cassazione, è dovuta ritornare sull’accertamento della fattispecie consumata – così come ritenuta dal GUP in primo grado – giungendo stavolta a conclusioni favorevoli all’imputato.

In particolare, è stata censurata, pur in un contesto di spiccata dedizione dell’accusato ad incontrare giovani donne per soddisfare i propri desideri sessuali a pagamento, la presunzione assoluta in ordine alla traduzione, ogni volta, degli incontri realizzati o anche solo programmati in conseguenti rapporti sessuali.

Tale presunzione è stata ritenuta logicamente inaccettabile, in quanto non fondata su dati univocamente convergenti verso la concreta consumazione di rapporti sessuali, così da restringere ed eliminare ragionevolmente il novero delle alternative a tali esiti; invero, non erano stati individuati, accanto al dato di partenza costituito dalla bramosia sessuale dell’imputato, altre circostanze capaci di delineare i passaggi comportamentali dei soggetti coinvolti, oppure elementi probatori alternativi idonei ad avvicinare in maniera indiscutibile le condotte accertate al momento sessuale finale.

In altri termini, l’assoluta assenza di prove circa l’evoluzione degli incontri programmati ha precluso anche qualunque valutazione in ordine a possibili esiti alternativi al raggiungimento dello scopo inizialmente programmato dall’imputato, ivi inclusa la rinuncia volontaria alla consumazione del rapporto sessuale o altri comportamenti inquadrabili nella nozione di desistenza, a differenza delle altre condotte (tentate), rispetto alle quali era stato invece accertato che la mancata consumazione del reato era dipesa dalla volontà delle vittime.

Interpellata infine nuovamente sulla vicenda, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la questione, declinando alcuni interessati principi in materia di formazione progressiva del giudicato e divieto di reformatio in peius delle sentenze appellate, dal momento che per alcune fattispecie di reato, contenuti in capi di imputazione autonomi, era già stata definitivamente accertata, nel corso del complessivo processo (caratterizzato da cassazione con rinvio e nuova decisione del giudice di merito), e al momento della definitiva pronuncia del Giudice di ultimo grado,  la responsabilità penale dell'imputato.

In particolare, i Giudici di legittimità sono partiti dall’assunto secondo cui al giudicato progressivo – che può riguardare sia le ipotesi in cui la pronuncia di annullamento ha ad oggetto uno o più capi d'imputazione, sia l'ipotesi in cui la stessa decisione interviene in relazione ad uno o più punti concernenti una singola accusa, perché sia nell'uno che nell'altro caso l'irrevocabilità della decisione rappresenta l'effetto conseguente all'esaurimento di quella parte del giudizio - è associata una definitività decisoria relativa all'accertamento della responsabilità dell'autore del fatto criminoso e alla conclusione dell'iter processuale su tale parte, benché la cosa giudicata possa non essere ancora connotata dall'esaustività per il permanere del residuo potere cognitivo del giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena a lui devoluta.

Invero, da un lato l'affermazione di responsabilità è coperta dal giudicato, dall'altro difetta il solo titolo esecutivo, la cui formazione segue all’irrevocabilità delle parti della sentenza non ancora "esaurite", relative all'accertamento della responsabilità del fatto-reato e della responsabilità dell'accusato per tutti i capi di imputazione o per tutti i punti dell'unico capo di imputazione, oltre che alla determinazione della pena.

Conseguentemente, qualora il giudicato progressivo abbia sancito l'irrevocabilità dell'accertamento della sussistenza del reato oggetto del medesimo capo (e, a maggior ragione, di un capo diverso) e della sua attribuzione all'accusato, l'annullamento parziale con rinvio relativo a un capo diverso non esclude gli effetti tipici dello stesso giudicato progressivo (quali la definizione dell'ambito cognitivo e decisorio del giudizio di rinvio e la non rilevabilità della prescrizione e di altre cause estintive del reato).

D’altra parte, nel giudizio di rinvio scaturito dall'annullamento della condanna per il solo reato più grave, il giudice del rinvio (come avvenuto nel caso di specie , essendo stata annullata con rinvio solo la condanna per la fattispecie consumata ma non quella per le fattispecie tentate), nel determinare la pena per il reato residuo, meno grave, non è vincolato alla quantità di pena individuata quale aumento ai sensi dell'art. 81, comma secondo, cod. pen. ma, per la regola del divieto di "reformatio in peius", non può irrogare una pena che, per specie e quantità, costituisca un aggravamento di quella individuata, nel giudizio precedente all'annullamento parziale, quale base per il computo degli aumenti a titolo di continuazione.


IL REATO E IL TENTATIVO

Il delitto previsto dall'art. 600-bis, comma secondo, del codice penale, punisce chiunque consuma rapporti sessuali “a pagamento” con soggetti minori di età compresa tra i 14 e i 18 anni, anche se l’utilità costituente corrispettivo della prestazione sessuale sia stata soltanto promessa.

Si distingue dalla fattispecie prevista dal comma primo dello stesso articolo, con cui viene punita con pena decisamente più grave (da sei a dodici anni più multa) il reclutamento e l’induzione alla prostituzione o comunque il favoreggiamento o lo sfruttamento della prostituzione stessa del minore, in quanto nel caso di mero compimento di atti sessuali con minore dietro retribuzione l'attività di "convincimento" è finalizzata ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente.

La ratio della più ampia tutela penalistica accordata a tale ulteriore condotta è da ravvisarsi nella protezione del libero sviluppo psico-fisico del minore, sviluppo che può essere messo a repentaglio da qualsiasi tipo di mercificazione del suo corpo.

La norma si innesta all'interno di un complessivo disegno normativo volto a tutelare l'integrità anche sessuale di soggetti ritenuti più vulnerabili e perciò incapaci di esprimere un pieno consenso sugli atti sessuali tout court (con un limite stabilito, a seconda dei casi, in 14 e 16 anni) o sulla messa a disposizione a pagamento del proprio corpo a fini sessuali (limite dei 18 anni).

Tanto, all'interno di un ordinamento che in linea generale considera la prostituzione del maggiorenne come un atto illecito ma punito soltanto in via amministrativa, mentre nel caso di prostituzione del minorenne avente età compresa tra i 14 e i 18 anni vi è una valutazione “assoluta” del legislatore nel senso di ritenere chi pone in essere tale attività (anche per un'unica volta) in termini di vittima e persona offesa dal reato.

Il delitto di prostituzione minorile pone alcuni delicato problemi probatori per ciò che concerne la fattispecie tentata.

In linea generale, con riferimento alla struttura normativa del reato tentato, il requisito della idoneità indica la capacità causale della condotta a produrre il risultato del perfezionamento del delitto, con apprezzamento da condurre avendo riguardo ad una idoneità relativa (o concreta), incentrata cioè sulla potenziale capacità degli atti stessi a causare o favorire la realizzazione di un delitto, alla luce di una valutazione prognostica effettuata in base a tutti i dati presenti al momento della condotta.

Quanto invece al requisito della univocità, tale requisito deve essere inteso non in senso soggettivo, come attinente cioè al proposito dell’agente soggettivamente diretto alla realizzazione del delitto, ma anch’esso in senso oggettivo, in quanto indica la necessità che la condotta abbia raggiunto un grado di sviluppo tale da renderla sufficientemente prossima al momento perfezionativo del delitto.

L’esigenza di configurare l’univocità come caratteristica dell’azione non esclude peraltro che la prova del fine delittuoso possa essere desunta in qualsiasi modo, facendo applicazione dei consueti canoni probatori in tema di elemento soggettivo del reato, ad eccezione del fatto che, una volta raggiunta anche aliunde la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda verifica.

Tale ulteriore verifica consiste nell’accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, siano in grado di rivelare in maniera sufficientemente congrua l’intenzione e la direzione verso il fine criminoso già eventualmente accertato per altra via.

Il tentativo – ovvero, come detto, la commissione di atti idonei e non equivoci di perfezionare il reato - è da considerarsi sicuramente ammissibile, nel caso del delitto di prostituzione minorile di cui al secondo comma dell'art. 600-bis c.p..

Non si va infatti a punire il pericolo di un pericolo, dal momento che mentre con la consumazione del reato viene leso irrimediabilmente il bene giuridico protetto, la possibilità di frazionamento della condotta tipica fino a un momento immediatamente antecedente alla consumazione del reato rende effettivo e concreto il pericolo di compromissione dell'interesse protetto dalla norma penale.

Il problema è capire quando si raggiunge il livello di alert immaginato dal legislatore - in coerenza con il rispetto del principio di offensività - e quali interazioni con l'applicazione della norma di cui all'art. 56 possono avere, nel caso di specie, le condotte non andate a buon fine (in altri termini, la mancata consumazione dell'atto sessuale).

Si intreccia con questa problematica di natura generale il fatto che il reato di prostituzione minorile richiede inequivocabilmente il compimento di atti sessuali con la persona offesa dal reato per la sua realizzazione, di modo che per ritenere perfezionato il tentativo non basta l’accertamento dell’approccio a fini (anche) sessuali ma altresì la prova certa che la conclusione della condotta tipica non sia stata conseguenza di un ripensamento da parte dell’autore del reato.

Esistono in effetti diverse ragioni, anche di natura opportunistica, che possono “bloccare” sulla soglia del compimento dell’atto sessuale finale il protagonista dell’offerta mercenaria, riconducendo il comportamento complessivo nell’ambito dell’istituto della desistenza volontaria dall’azione, di cui 56, comma 3 c.p., con conseguente insussistenza del delitto tentato contestato.

Sul punto, occorre ricordare che la fattispecie della desistenza si distingue chiaramente rispetto alla contro-condotta di chi si invece si adopera per impedire l’evento (c.d. recesso attivo).

Nel rispetto del principio di offensività e della necessaria concreta pericolosità delle azioni inquadrabili quali tentativo, il Legislatore ha inteso punire più duramente quelle condotte che arrivano ad uno stadio tale da richiedere un intervento attivo (anche se effettuato dallo stesso responsabile)  per evitare la realizzazione "perfetta" del reato.

Nel caso della desistenza, invece, il potenziale reo arresta la propria condotta prima ancora che sia necessaria una azione “uguale e contraria” per porre nel nulla gli effetti della sua azione, ovvero in un momento in cui la modificazione della realtà è stata innocua e priva di conseguenze, non essendosi realizzato alcun iter causale diretto alla consumazione del crimine.

Al riguardo, risulta del tutto irrilevante dal punto di vista giuridico qualsiasi considerazione sui motivi che inducono il soggetto a desistere o a recedere, essendo sufficiente che la condotta non sia coartata da fatti ed evenienze (ad esempio l’arrivo della polizia o l’opposizione della vittima) che avrebbero in ogni caso implicato l’interruzione del processo criminoso.

Invero, la legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l'agente a desistere dall'azione criminosa ma richiede, invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile o gravemente rischiosa la prosecuzione dell'azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta deve, quindi, essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell'agente.

Ad esempio, l'atteggiamento risoluto della vittima, determinata a non cedere alle pressioni "economiche" del soggetto deciso a concludere sessualmente un incontro, può costituire un fattore che, rendendo gravemente rischiosa la prosecuzione dell'azione, sia di per sé idoneo ad escludere la volontarietà dell'ipotetica desistenza.



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