Reddito di cittadinanza, indebita percezione e violazione del patto di leale collaborazione tra cittadino e Stato

dalla Redazione • 24 maggio 2025

Tribunale di Pescara, Sezione penale, sentenza n. 1555, depositata il 03/01/2025


IL CASO E LA DECISIONE

Una signora veniva chiamata a rispondere del reato di cui all'art. 7 del d.l. n. 4/2019, convertito in L. 26/2019, e di quello di cui all'art. 316-ter c.p., perché, al fine di ottenere indebitamente il beneficio del c.d. reddito di cittadinanza, che poi effettivamente conseguiva, rendeva all'Inps dichiarazioni false o comunque ometteva la comunicazione di informazioni dovute.

In particolare, non indicava nella apposita dichiarazione ISEE, per l'anno 2019, quattro immobili di proprietà, per un valore patrimoniale che, qualora dichiarato, avrebbe superato la soglia "fatidica" di € 30.000,00, oltre la quale il beneficio richiesto avrebbe dovuto essere negato.

Il Giudice penale adito, all'esito del dibattimento di primo grado, ha ritenuto provata la responsabilità dell'imputata in ordine alle condotte a lei contestate, dal momento che l'accertata omissione aveva permesso all'interessata di lucrare indebitamente, nell'arco di tre anni, la somma complessiva di oltre novemila euro. 

Pur ritenendo che, sulla base della ratio delle fattispecie incriminatrici previste dall'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, la punibilità di tali condotte troverebbe applicazione indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio, il Tribunale procedente ha accertato che l'imputata non era in realtà legittimata in assoluto a percepire il reddito di cittadinanza, in quanto il valore dei quattro immobili sui quali aveva omesso qualsivoglia informazione le avrebbe impedito in concreto il riconoscimento del beneficio richiesto.

D'altra parte, la tesi del diritto di proprietà acquisito in data successiva tramite pronuncia giudiziale era smentita, nei fatti, dall'esistenza di una scrittura privata di acquisto in favore della ricorrente di molto anteriore e dall'utilizzazione ininterrotta degli immobili in questione come '"casa vacanza".

Quanto poi alla condotta di cui all'art. 316 ter c.p., il Giudice di primo grado ha ricordato che la stessa - punendo chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominati, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee - , non tiene conto della successiva destinazione delle somme indebitamente percepite, ed è dunque applicabile anche a erogazioni non condizionate da particolari vincoli funzionali, come sono i contributi assistenziali a cui è assimilabile il reddito di cittadinanza.

D'altra parte, secondo il Tribunale penale di Pescara ci sono altre due considerazioni che fanno optare per l'interpretazione del termine "contributo" come riferibile anche alle erogazioni pubbliche assistenziali: ove escluse dall'ambito di applicazione della fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p., le condotte illecite di indebita percezione di erogazioni assistenziali andrebbero sanzionate più gravemente, tramite l'applicazione congiunta del reato di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, e del falso ideologico in atto pubblico commesso dal privato (art. 483 c.p.); inoltre, la soglia minima di quattromila euro imposta dal comma 2 dell'art. 316-ter c.p. quale condizione di rilevanza penale del fatto non sarebbe giustificabile se la fattispecie si riferisse alle sole erogazioni di sostegno alle attività economico produttive.

D'altra parte, per quanto attiene al calcolo del superamento della soglia quantitativa, il Giudice adito ha aderito all'orientamento secondo cui occorre tener conto della complessiva somma indebitamente percepita dal beneficiario, e non di quella allo stesso mensilmente corrisposta.

L'imputata è stata infine condannata ad una pena finale (due anni e due mesi di reclusione) che ha tenuto conto della necessità di contestuale applicazione delle due norme oggetto di separata contestazione (art. 316 ter c.p. ed art. 7 D.L. 04/2019), trattandosi di un'ipotesi di concorso formale di reati e non di un concorso apparente di norme.

In particolare, il Giudice adito ha ritenuto non coincidenti i beni giuridici tutelati dalle due norme, dal momento che l'art. 7 del d.l. 04/2019, è posto a tutela del dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico, mentre l'art. 316 ter c.p. presidia la libera formazione della volontà della P.A., finalizzata alla corretta distribuzione delle risorse economiche.

D'altra parte, l'imputata ha commesso un'unica condotta, da intendersi in senso giuridico e non naturalistico, implicando tale definizione di condotta la sussistenza cumulativa dei due requisiti della contestualità degli atti e dell'unicità dello scopo

Nel caso esaminato dal Tribunale di Pescara l'unitaria condotta realizzata era disvelata dal medesimo processo attuativo posto alla base dei due reati: presentazione dell'istanza per il reddito di cittadinanza, con contestuale omissione delle informazioni dovute sulla mancanza dei requisiti previsti per l'ottenimento del beneficio.

Il Giudice adito ha inoltre escluso la concedibilità della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p., in virtù del principio giurisprudenziale, secondo cui, in presenza di un importo complessivo che superi di due volte la soglia di punibilità, la condotta penalmente rilevante non può configurare un'ipotesi di particolare tenuità del fatto.


I REATI E LA RATIO

Il reato di cui all'art. 7, comma 1 del d.l. n. 04/2019, conv. in L. 26/2019, puniva - salvo che il fatto costituisse più grave reato - chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'art. 3 del medesimo decreto, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che si tratta di un reato di condotta e di pericolo, a dolo specifico, diretto a tutelare l'amministrazione contro mendaci e omissioni circa l'effettiva situazione patrimoniale, reddituale e familiare da parte dei soggetti che intendono accedere al reddito di cittadinanza; è una disciplina correlata, nel suo complesso, al generale "principio antielusivo" che s'incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell'art. 53 Cost., la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Carta costituzionale.

In particolare, il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino e amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a caso, un'ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative, e la sanzione penale costituisce la reazione da parte dell'ordinamento ad una forma di violazione del predetto patto di leale cooperazione.

Occorre peraltro evidenziare che la fattispecie di reato in esame è stata abrogata, insieme alle altre norme sul reddito di cittadinanza, e a decorrere dal primo gennaio 2024, dal comma 318 dell'art. 1 della L. 29 dicembre 2022 n. 127.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, peraltro, non possono riconoscersi effetti, prima del termine di efficacia indicato, all'abrogazione della fattispecie incriminatrice. 

Invero, prima dell'indicata data, è stato emanato il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, recante "misure urgenti per l'inclusione e l'accesso al mondo del lavoro", convertito con modificazioni dalla L. 3 luglio 2023 n. 85, il quale, dopo aver riproposto, all'art. 8, co. 1 e 2, previsioni punitive di natura penale per le false od omesse comunicazioni concernenti l'ottenimento o il mantenimento dei nuovi benefici economici previsti dagli artt. 3 e 12 della legge - previsioni sostanzialmente identiche a quelle già contenute nell'art. 7, co. 1 e 2, D.L. 4 del 2019 con riguardo al reddito di cittadinanza -, ha previsto, all'art. 13, comma 3 che «al beneficio di cui all'articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023». 

In merito, la Corte di cassazione (sentenza n. 5999 del 9 gennaio 2024-12 febbraio 2024) ha precisato che, se è vero che la "salvezza" dell'applicazione delle sanzioni penali previste a corredo delle norme sul reddito di cittadinanza per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina deroga al principio di retroattività della lex mitior altrimenti conseguente, ex art. 2, comma 2, c.p., alla prevista abrogazione dell'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, questa deroga sarebbe in ogni caso sorretta da una ragionevole giustificazione, dal momento che assicura tutela penale all'erogazione del reddito di cittadinanza, in conformità ai presupposti previsti dalla legge, sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio.


Quanto invece al reato di cui all'art. 316 ter c.p., la ratio della norma consiste nella tutela della libera formazione della volontà della pubblica amministrazione o dell'Unione europea, con riferimento ai flussi di erogazione e distribuzione delle risorse economiche, e, ciò, al fine di impedirne la scorretta attribuzione e l'indebito conseguimento, con un meccanismo che sanziona l'obbligo di verità delle informazioni e delle notizie offerte dal soggetto che richiede il contributo: il tutto in un quadro di generale perseguimento dell'interesse collettivo nella collocazione finale del denaro pubblico, erogato (contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni) per i piani di realizzazione di singole politiche economiche e socio-culturali.

Tanto, come recentemente ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 11969 del 28.11.24-26.3.25), sia con riferimento alla materiale elargizione di denaro, sia in assenza di tale materiale elargizione, quando il richiedente ottiene comunque un vantaggio economico posto a carico della comunità, indebitamente ottenendo, ad esempio, l'esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta.

Il reato in questione è integrato dal dolo generico: l'agente deve essere consapevole della falsità del documento o della dichiarazione o dell'omissione di informazioni che sono dovute, della sua strumentalità rispetto all'erogazione e del carattere indebito della percezione. Tutti i suddetti elementi devono essere, del pari, oggetto di volizione da parte dell'agente, ivi compresa la soglia di cui all'art. 316 ter, comma 2, c.p., in quanto la stessa non è da considerarsi una condizione obiettiva di punibilità, ma un elemento costitutivo della fattispecie. 

Ove dunque l'agente non abbia la rappresentazione e la volizione di percepire una somma superiore a € 3.999,96 non è, quindi, integrato il dolo richiesto dalla norma incriminatrice e il fatto non costituisce reato.

Occorre infine evidenziare che l'art. 316 ter c.p. contiene una clausola di riserva in favore dell'art. 640 bis c.p., da cui si distingue non sulla base della natura delle erogazioni rilevanti ma in relazione alla sussistenza o meno del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale.

In altri termini, l’elemento distintivo tra i due reati consiste nel fatto che il citato art. 316-ter non presuppone che l’ente leso sia stato indotto in errore, essendo quest’ultimo chiamato solo a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati, e non a compiere un’autonoma attività di accertamento.

Sotto diverso, concorrente profilo, il delitto di cui all’art. 316-ter c.p. richiede una mera esposizione di dati non veritieri ovvero omesse informazioni che invece sono dovute, con esclusione, quindi, di quel quid pluris costituito da una vera e propria condotta fraudolenta.

Integra, ad esempio, la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che, percependo periodicamente l'indennità di disoccupazione prevista per legge, ometta di comunicare all'Istituto erogante (I.N.P.S.) l'avvenuta stipula di un contratto di lavoro subordinato e conseguente assunzione, così continuando a percepire, indebitamente, la suddetta indennità.