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Rifiuto di atti di ufficio e mera inerzia

feb 22, 2024

Tribunale di Cassino, Sezione penale, sentenza n. 158 depositata il 24 aprile 2023


IL CASO E LA DECISIONE

Nel corso di un giudizio civile era stata disposta una consulenza tecnica di ufficio, con termine per il deposito della relazione peritale fissato in 90 giorni.

L'elaborato veniva tuttavia acquisito agli atti del processo con vari mesi di ritardo, dopo rinvii di udienza e solleciti al perito da parte del giudice.

A seguito di una richiesta di chiarimenti proveniente dalle parti, veniva disposto un accesso ai luoghi e richiesta una relazione integrativa al perito. Tale relazione integrativa non è però mai stata depositata agli atti del giudizio.

Da tali fatti è partita una denuncia contro il consulente tecnico di ufficio e una successiva imputazione nei suoi confronti per il reato di cui all'art. 328, comma 1 c.p. (rifiuto di atti di ufficio), per avere il presunto reo omesso di depositare la relazione peritale relativa all'incarico conferitogli dal Tribunale civile nell'ambito di un contenzioso giudiziale.

Il Giudice penale di primo grado non ha però ritenuto la sussistenza del fatto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

Innanzitutto, è stato osservato che la prima relazione di cui all'incarico peritale era stata concretamente depositata, seppure con vari mesi di ritardo, per cui non si era formato neanche implicitamente il rifiuto necessario per la configurazione della fattispecie penale, posto che secondo il Giudice adito la mera inerzia non era di per sé rilevante ai fini della sussistenza del rifiuto di atti di ufficio.

D'altra parte, nemmeno si era realizzata, secondo il Tribunale penale, quell'inerzia "reiterata" che secondo la giurisprudenza maggioritaria sarebbe sufficiente a integrare il rifiuto penalmente rilevante, in considerazione del fatto che la relazione originaria era stata depositata due mesi dopo il primo sollecito del giudice.

Sotto altro, decisivo profilo, l'imputato era da assolvere dal reato a lui contestato anche con riferimento alla relazione integrativa mai depositata, e ciò in virtù della patologia da cui era stato colpito nel frangente finale del suo incarico di perito.

Tale patologia, secondo quanto emerso in sede dibattimentale, avrebbe inficiato la capacità del perito di ricordare e gestire i suoi impegni lavorativi, così escludendo il carattere doloso della condotta omissiva, requisito peraltro necessario per la realizzazione della fattispecie contestata, che il legislatore ha inteso punire soltanto se volontaria e non anche se colposa.


DIFFERENZE TRA RIFIUTO E OMISSIONE. RILEVANZA IN AMBITO GIUDIZIARIO

Tra i delitti contro la pubblica amministrazione commessi sul versante di chi lavora nell’apparato pubblico una fattispecie di chiusura particolare, volta a sanzionare l’inerzia “qualificata”, è costituita dall’art. 328 del codice penale.

Già dalla sua rubrica (“Rifiuti di atti di ufficio. Omissione”), il legislatore lascia intendere che ha voluto, in realtà, disciplinare due distinte ipotesi criminose.

Il primo comma punisce con la reclusione da sei mesi a due anni la condotta di indebito “rifiuto” di un atto dell’ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo.

Il secondo comma sanziona con una pena leggermente più blanda (reclusione o multa) la condotta di inerzia (omissione) tenuta allo scadere dei trenta giorni decorrenti da una richiesta formale di provvedere a un atto di ufficio; per evitare la realizzazione di tale fattispecie il soggetto obbligato può o compiere l’atto o esporre le ragioni del ritardo.

In questo caso, d’altra parte, concorre alla tipicità della fattispecie anche l’espressa menzione del necessario interesse in capo a chi fa la richiesta e della forma (scritta) della richiesta medesima.

In entrambe le ipotesi a “potere” commettere il delitto sono soltanto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio (reato proprio), nell’ambito di una condotta omissiva di pericolo concreto per il corretto funzionamento, anche in termini di efficienza e tempestività delle prestazioni, della “macchina” pubblica.

Si discute se il rifiuto di cui al primo comma debba essere necessariamente preceduto da una “richiesta”, come invece senz’altro necessario nel caso di cui al secondo comma, in cui l’istanza “esterna” – nel senso che deve provenire da un ambiente (lavorativo o privato) diverso da quello degli uffici di appartenenza del pubblico ufficiale – è espressamente prevista dalla norma.

La giurisprudenza maggioritaria adotta la formula dell’ “urgenza qualificata” per indicare il presupposto in base al quale il destinatario dell’obbligo di legge – laddove sono le disposizioni ordinamentali di riferimento a definire compiutamente tale obbligo e lo stretto nesso di appartenenza con l’ufficio di riferimento – deve agire.

Secondo questo orientamento, dunque, nel caso del rifiuto di atti di ufficio si può pure prescindere da una istanza formale del soggetto “bisognoso” (o di altri attestanti la sua necessità) e può essere sufficiente, ai fini di configurazione del reato, anche solo un’inerzia o un’omissione consapevoli e volontarie.

D’altra parte, resta astrattamente controverso se il termine rifiuto abbracci anche l'inerzia priva di qualsiasi giustificazione, in quanto, qualora si intendesse la nozione di rifiuto come volontà esplicita od implicita di negare l'atto precedentemente richiesto, l'inerzia potrebbe integrare solo le ipotesi dell'omissione o del ritardo.

Ad ogni modo, secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente è senz’altro configurabile il reato di rifiuto di atti d'ufficio in caso di persistente inerzia omissiva del pubblico ufficiale che si risolva in un rifiuto implicito.

Si portano come esempi – per quanto di interesse con riferimento alla controversia oggetto della sentenza in commento - la fattispecie relativa all'omesso deposito della relazione da parte di un consulente tecnico nominato in una causa civile, nonostante ripetute sollecitazioni formali, per svariati anni dall'affidamento dell'incarico di eseguire un supplemento di perizia, o il caso relativo al curatore di un fallimento che, dopo aver omesso di depositare per anni la relazione e di compiere atti della procedura, una volta ricevuta dal giudice delegato una diffida a relazionare, si era limitato a presentare una richiesta di proroga motivata in termini generici, e, poi, una volta rigettata questa istanza, non aveva dato alcun riscontro a successivi solleciti e richieste di informazioni fino alla sua sostituzione.

Quanto all’elemento soggettivo del reato, ai fini della configurabilità del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento “contra ius”, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.

Nel caso esaminato dal Tribunale penale di Cassino, il Giudice di prime cure ha individuato nella patologia da cui era stato colpito il perito l’elemento indicativo di un’assenza di volontà dolosa, posto che tale patologia si era innestata temporalmente nel frangente finale del suo incarico.

Restando nell’ambito dei doveri “processual-giurisdizionali”, meritano certamente un cenno i risvolti penali dei ritardi o addirittura delle omissioni da parte degli organi giudicanti.

Occorre innanzitutto osservare che l’inosservanza, anche ripetuta e grave, da parte del magistrato, dei termini di deposito delle sentenze non integra, di per sé sola, il reato di rifiuto di atti d'ufficio per ragioni di giustizia ex art. 328, comma primo, cod. pen., se non sussista una indifferibilità dell’atto omesso, la quale non può essere desunta dall’esigenza di regolare andamento dell’attività giudiziaria, ma presuppone che il ritardo determini un pericolo concreto di pregiudizio per le parti interessate, derivante dalla mancata definizione dell’assetto regolativo degli interessi coinvolti nel procedimento.

In questa prospettiva, il ritardo, in specie quando consistente, non costituisce un dato irrilevante e neutro, ma deve essere valutato nella concretezza della situazione, in modo da verificare se in rapporto ad essa lo stesso, per il suo protrarsi, possa influire sull’attuazione del diritto oggettivo nel caso concreto e se dunque l’ulteriore ritardo possa assumere il significato di vero e proprio rifiuto di un atto divenuto indifferibile.

In tale quadro possono assumere concreta rilevanza le specifiche sollecitazioni rivolte al giudice, affinché provveda al deposito del provvedimento, posto che tali sollecitazioni possono provenire anche da organi sovraordinati o preposti al controllo e al coordinamento dell’attività giudiziaria ovvero direttamente da soggetti coinvolti nell’attività giudiziaria.

D’altra parte, la manifestazione di un legittimo interesse, ove ulteriormente qualificata dalla richiesta del provvedimento, può dare luogo alla figura del diniego di giustizia e, in presenza di una diffida, al reato di cui all’art. 328, secondo comma del codice penale, sempre che la sollecitazione non sia specificamente qualificata dalla rappresentazione dell’urgenza - come correlata all’esigenza di compiuta attuazione del diritto positivo e di evitare pregiudizi dipendenti dalla mancata definizione dell’assetto degli interessi coinvolti nel procedimento -, con possibile valutazione della protratta inerzia come elemento rappresentativo del rifiuto, e integrazione ancora una volta, in tal caso, dell'ipotesi delittuosa più grave di cui al primo comma del citato art. 328.

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