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Spigolature 20. Diritto e filosofia del diritto in Croce e Gentile

Sergio Conti • feb 17, 2024

L'esame delle dottrine giusfilosofiche elaborate dai due filosofi di scuola idealistica consente di verificare gli esiti così divaricati delle rispettive elaborazioni anche sulla natura e funzione del diritto.

Segnalo l'articolo di Marina Lalatta Costerbosa del 2016 intitolato “Diritto e filosofia del diritto in Croce e Gentile” pubblicato sull'Enciclopedia treccani (2016) – rinvenibile online all'indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-filosofia-del-diritto-in-croce-e-gentile_%28Croce-e-Gentile%29/ - che analizza il pensiero dei due filosofi che hanno dominato la scena culturale italiana da fine Ottocento sino alla metà del Novecento.


In preambolo, la professoressa Lalatta Costerbosa – ordinario di Filosofia del diritto nell'Università di Bologna – osserva:

All’aprirsi del 20° sec. lo scenario giusfilosofico europeo annovera tra i suoi protagonisti la corrente tradizionale del giusnaturalismo e quel giuspositivismo avalutativo che aveva rappresentato lo sguardo dominante sul diritto per tutto l’Ottocento. Come pure visioni del diritto riconducibili a istanze antiformalistiche che evidenziano la maturata insoddisfazione verso visioni del diritto rigide, incapaci di raffigurare la natura del fenomeno giuridico.

Nel contesto italiano però qualcosa arriva ben presto a sparigliare l’ordine delle cose, sebbene senza la forza per sovvertirlo. È una voce dissonante che riuscirà a influenzare, nonostante tutto, la scienza giuridica italiana della prima metà del Novecento. È una voce che muove dalla rielaborazione della lezione hegeliana e approda a una reinterpretazione della dialettica della ragione, a un rinnovato idealismo. Lo storicismo incarnato da Benedetto Croce, per il quale la vita e la realtà non sono null’altro che storia (La Storia come pensiero e come azione, 1938, 2002, p. 59), diverrà uno snodo cruciale.

Come sempre, però, la storia è un po’ più complicata. Più complicata perché nell’alveo del nostrano neoidealismo, accanto alla figura di Croce, enorme rilievo avrà quella di Giovanni Gentile; più complicata anche perché, per la propria affermazione, lo storicismo idealistico dovrà fronteggiare su diversi scacchieri lo scientismo: una prospettiva culturale contraria a ogni valorizzazione del diritto che non si risolva in un riduzionismo tecnicistico.

Propugnare un ideale scientista per il diritto vuole dire squalificare la filosofia, nella sua vocazione alla problematizzazione e pure nel suo ruolo accademico. Emblematico l’intreccio di questi profili nella prolusione di Pietro Bonfante all’Università di Roma nel 1917, nella quale la filosofia del diritto viene ritenuta il «simbolo di una fase prescientifica nello studio del diritto» (Il metodo naturalistico nella storia del diritto, «Rivista italiana di sociologia», 1917, 21, p. 67). Si tratta di un dissidio concettuale ed epistemico, ma non da ultimo di una battaglia per l’egemonia culturale, tanto che non solo Gentile, ma persino Croce reagirà con veemenza rivendicando la credibilità della filosofia, intesa come storia e metodologia della storia, non certo come astrazione metafisica e interrogazione sulla presunta dimensione noumenica del mondo (cfr. Filosofia e metodologia, «La Critica», 1916, 14, p. 309).


Nel rinviare per ogni approfondimento alla lettura del saggio, si riportano alcuni passaggi che consentono di intuire l'importanza dei temi trattati.

Viene in particolare ricordato che Croce assunse una posizione critica sulla stessa filosofia del diritto “definita «un groviglio di difficoltà» (Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, 1907, 1926, p. 37; d’ora in poi RD), «un filosofico ircocervo» (recensione a G. del Vecchio, Diritto ed economia, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 378) – e da ogni riconoscimento della sua presunta indipendenza nello spettro dei saperi. E neppure far intendere che vi sia in lui una qualsivoglia edulcorazione della condizione in cui versa la filosofia del diritto italiana. Ma certo Croce deve intuire la portata di simili pubbliche prese di posizione, forse presagendo i rischi di scelte che possono revocare in dubbio elementi caratterizzanti il concetto positivistico del diritto, come la certezza del diritto e il principio di validità, i quali – nonostante per altri versi tradiscano un formalismo da legulei, prono ad accettare e cresimare gli istituti giuridici positivi, prodotto della storia (cfr. recensione a I. Petrone, Lo Stato mercantile chiuso di G. Am. Fichte e la premessa teorica del comunismo giuridico, 1904, «La Critica», 1905, 3, p. 149) – possono fungere da argine contro derive irrazionalistiche e autoritarie.

Rimane tuttavia chiaro ai suoi occhi come lo sforzo per ben intendere il valore della filosofia non possa essere disgiunto da quello volto alla comprensione della concretezza storica, e dunque come un’analisi storica legata a quella chiarificazione concettuale, che soltanto la filosofia può offrire, divenga un’impresa necessaria (Teoria e storia della storiografia [pubblicato nel 1915 in tedesco, nel 1917 in italiano], 2007, p. 136). Non solo. Pensando allo status della filosofia del diritto, Croce è convinto che la riunione armonica di filosofia, scienza del diritto e politica richieda «vigore e coraggio» e che, ora una sfumatura desolata in una severa immagine di singolare realismo,

i più dei professori e cultori del diritto guardano dall’alto tavolato delle loro astrazioni la sottostante acqua del mare, ma non vogliono gettarvisi dentro per aver da fare con le onde (recensione a P. Biondi, Metodo e scienza del diritto, 1935, «La Critica», 1936, 34, p. 145).

Per comprendere quale sia il concetto di diritto e di filosofia del diritto di Croce è preliminare l’indicazione che egli stesso ci offre allorquando rintraccia nella figura di Christianus Thomasius (1655-1728) il primo vero filosofo del diritto: colui che, alla fine del Seicento, ha il grande merito di aver posto al centro della riflessione filosofica il rapporto tra diritto e morale. Una distinzione che non esclude sovrapposizioni tra le diverse sfere della condotta umana, ma si affranca dai riduzionismi sino ad allora prevalenti: del diritto alla morale (da Platone a Ugo Grozio), come voleva il moralismo, o della morale al diritto (da Trasimaco a Thomas Hobbes), come prescriveva il positivismo.


E il diritto? Quale ruolo riserva Croce al diritto in questo scenario che non lo contempla in quanto momento autonomo dell’agire? Come già aveva chiaro alla mente negli anni che precedono il completamento della Filosofia della pratica (nella memoria dedicata alla filosofia del diritto, ma persino, prima, nelle Tesi di estetica del 1900), il diritto non può che dispiegarsi sul terreno economico, solo eventualmente intrecciando relazioni con quello etico,perché la vita economica e la vita morale non stanno tra loro come due sfere coordinate e indipendenti, ma come il perpetuo passaggio dall’una all’altra; e le virtù economiche o giuridiche sono il primo passo e il presupposto della virtù morale (Frammenti di etica, in Etica e politica, 1967, pp. 55-56).

Il diritto corrisponde alla declinazione economica dell’operare: l’attività giuridica è sinonimo di attività economica (FP, p. 358), senza che nulla vieti un suo possibile candidarsi alla promozione di un agire teso all’universalità, a emanciparsi dagli interessi particolari degli individui. Ma certo non dovrà mai necessariamente farlo per conservare o conseguire lo status della giuridicità. Netta è la distanza dall’etica, tanto che parlare di un diritto giusto e di un diritto ingiusto ha poco senso – ironizza Croce – quanto il classificare i cavalli in due specie, «cavalli vivi e cavalli morti!» (p. 362). La dimensione normativa del diritto non trova alcun riconoscimento, delegittimate sono quelle norme morali che si presentino come indispensabili per definire il diritto come tale. Lontanissimo è Croce da ogni formulazione giusnaturalistica, e prossimo alla sensibilità teorica dello storicismo giuridico che valorizza la lingua di un popolo e conferisce alla storia il primato nella determinazione del diritto. Le regole, le norme, le massime «non hanno valore assoluto» (p. 88). Esse sono un portato concreto delle situazioni realmente prodottesi nella storia e, se rettamente comprese, si rivelano addirittura ineludibili per orientarsi nell’azione; sebbene mai vadano intese come precedenti in grado di determinare l’azione. Anche per questo in ambito giuridico si impiegano solo pseudoconcetti, non concetti veri e propri, poiché sempre essi discendono da dati positivi, cioè presenti di fatto nella realtà.

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...non hanno alcuna consistenza i presunti valori universali: essi sono sempre idee particolari elevate a universali (La storia come pensiero, cit., p. 59). Inaccettabile è l’idea di «una legislazione limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale» che diviene un’arbitraria razionalizzazione di contingenze storiche oppure mera «tautologia» (FP, p. 334) e per di più «urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto» (p. 332). Si comprende così che, appena terminata la Seconda guerra mondiale, Croce ribadisca la propria distanza dal presupposto teorico dal quale scaturisce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo: un riabilitato giusnaturalismo universalistico, che «filosoficamente e storicamente è affatto insostenibile» (I diritti dell’uomo e il momento presente, in Dei diritti dell’uomo, 1952, p. 133). I diritti umani non sono per Croce «esigenze eterne», bensì «fatti storici, manifestazioni di bisogni di determinate epoche e preparazione a cercar di soddisfarli» (p. 133).



Gentile si differenzia da Croce innanzitutto per la convinta riabilitazione della filosofia del diritto. Egli non entra nella polemica sull’argomento se non per reciderne le ragioni alla base. Si pone in questione lo status della filosofia del diritto – a suo giudizio – solo perché si concede allo storicismo e alla sociologia partita vinta su quanto vi è di più significativo: il concetto di diritto; e si consegna alla teoria generale del diritto il ruolo formale di sostituto della filosofia. La questione va invece ripensata e posta su basi più adeguate. Il diritto non è un mero fatto o fenomeno, rispetto al quale ovviamente priva di senso sarebbe la prospettiva filosofica (I fondamenti della filosofia del diritto, 19613, p. 34; d’ora in poi FFD). Contro ogni rappresentazione riduzionistica, appagata da una visione fenomenica della realtà, «sta lo spirito (l’uomo appunto, che si contrappone ad essa e la giudica, osservandola, e quindi prevedendone il fatale andare)». Egli non è un fatto, «giacché stare di fronte a una realtà è pensarla; e pensare è un atto, non un fatto» (p. 43).



Il diritto rientra dunque nell’unità spirituale che si realizza come processo entro il quale si palesano sì differenze, ma mai tali da agire da moltiplicatori dell’unità. Esse sono intrinseche, immanenti all’unità, che per loro tramite «si instaura, e integra, e attua» (p. 55). È un processo dialettico, perché dialettica è la realtà dello spirito. In questa rappresentazione della storia come vita dello spirito, il bene corrisponde al «valore dello spirito nella sua attualità dialettica» (p. 67; cfr. anche Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 1994, p. 52, d’ora in poi GS) tanto che l’atto in quanto momento del processo di realizzazione dello spirito può dirsi morale. E il male – che neppure Kant nella sua grandezza era stato capace di spiegare (FFD, p. 22) – è un momento interno al bene, il «momento negativo della nostra effettiva realtà spirituale»; perché ogni vero nemico è sempre da ricercarsi all’interno (p. 68). Il male è dunque alimento per il bene: in sé non è nulla. Tanto che «tutta la realtà di un’ingiustizia non si manifesta (non vale per quella realtà che essa è, in quanto realtà morale) se non nella coscienza che la valuta» (p. 68). Finanche la guerra si trasfigura in qualcosa di positivo e indispensabile: la guerra è l’instaurazione della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel volere unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto, e ne rappresenta la vera ragion d’essere e il significato profondo (p. 72; cfr. anche GS, p. 104).



Il diritto implica comunque la comprensione dell’attività giuridica, «che non è più un fatto, bensì il principio produttivo del fatto»; la filosofia del diritto è pertanto inevitabile, anche per coloro che riducono la sfera del diritto alla sfera dei fatti, e coloro che non lo ammettono non possono che «fare della cattiva filosofia» (FFD, p. 45). Ecco allora che la filosofia del diritto – evidente la distanza da Croce – ha un compito essenziale, un compito che Gentile definisce «gnoseologico»: contribuire alla formazione di una coscienza critica della realtà per quanto concerne la comprensione del momento della vita dello spirito che costituisce la scaturigine del fenomeno giuridico (p. 46) e che si sofferma sul carattere sociale dello spirito umano.

La natura dell’uomo è sociale e vive entro le maglie di una «unità dialettica e dinamica d’ogni costruzione sociale». Non nel senso di un’unità organica, ove la concordia annulli inclinazioni e interessi anche opposti da parte degli individui, ma neppure di un’unità come aggregato di singolarità separate e confliggenti. La vera essenza della socialità dell’uomo sta non nel suo relazionarsi esteriore, in una società inter homines, bensì nella comprensione di sé in quanto membro di una società universale, di una società in interiore homine, perché il valore universale dello spirito si può affermare solo attraverso «l’immanente soppressione dell’elemento particolare» (p. 75), concependo gli uomini particolari, sotto il profilo spirituale, come fossero un sol uomo.



È la forza a rendere possibile questa unità: è la forza il principio del diritto. Con ‘forza’ occorre però intendere qualcosa di uguale eppure di diverso dal significato che Baruch Spinoza, da un lato, e Jean-Jacques Rousseau, dall’altro, hanno a essa attribuito. Coglieva nel segno Spinoza nel ritenere che la forza fosse fonte del diritto, ma sbagliava nel ridurre la forza a mera necessità meccanica, all’evidenza che il pesce grosso mangerà il piccolo. Aveva ragione Rousseau nel sostenere che dalla forza non potrà mai discendere il diritto, ma errava nel sottrarle ogni idealità: solo per questo poteva negare siffatta derivazione. La forza, rettamente intesa, non è perciò una forza naturale, determinata obbiettivamente e senza intrinseca razionalità, ma è libera forza spirituale, la quale può realizzarsi solo attraverso una legge universale, e negando costantemente ogni particolarità (FFD, p. 82). E così «la forza che è diritto è la forza interiore, l’attività o potenza dello spirito, nella sua intimità» (p. 83). Il diritto ha dunque un volto interno, una coattività interiormente percepita, alla quale corrisponde la coattività esteriore delle norme giuridiche.

Anche per Gentile però la dimensione della coazione esterna non è tratto essenziale del diritto, poiché il diritto si dà ogni qual volta il soggetto si trovi al cospetto di un «voluto» che non è il suo volere attuale (pp. 94-95). La sanzione che ha come sua finalità l’annullamento della volontà contraria a quanto stabilito dalla norma può fallire, ma il diritto resta tale in quanto noi lo percepiamo come coattivo, lo riconosciamo come vincolante, come legge che sovraintende alla nostra volontà. È questo lo snodo che rende evidente il fraintendimento di cui è vittima il giusnaturalismo nella sua «rivendicazione della libertà di coscienza dal potere politico» (p. 95).

Non vi è opposizione tra Stato e cittadino, lo Stato è una società sentita come tale dall’uomo nella sua interiorità. Non vi è una dimensione ideale contrapposta a una fattuale. Non vi è una sfera morale separata da una sfera giuridica. Non vi è un diritto soggettivo che rivendica il proprio riconoscimento in contrapposizione a un diritto oggettivo (p. 92)."


Come si vede, sono molti gli spunti di riflessione che ognuno dei brani sopra riportati - ed estratti in via meramente rapsodica dal complessivo contesto dell'articolo segnalato – possono fornire al giurista allora come oggi.




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