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Autore: a cura di Paolo Nasini 3 maggio 2025
Trib. Ascoli Piceno, 14 ottobre 2024, n. 627, est. Sirianni IL CASO E LA DECISIONE La decisione del Tribunale marchigiano consegue all’atto di citazione con il quale la società qualificatasi come cessionaria dei crediti vantati nei confronti del Comune di Acquasanta Terme da altre due società a titolo di corrispettivo di prestazioni di servizi e di forniture erogate in favore dell’Ente territoriale medesimo, ha chiesto la condanna di quest’ultimo al pagamento di Euro 5.107,44 per sorte capitale, interessi moratori ai sensi degli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 maturati e maturandi sulla predetta sorte capitale, interessi anatocistici ex art. 128 3 c.c. prodotti dagli interessi moratori, nonché Euro 720,00 ai sensi dell' art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 231/02 (Euro 40,00 per ciascuna delle fatture insolute). Il Comune, costituendosi in giudizio, ha sollevato una serie di eccezioni in via preliminare: a) improcedibilità della domanda per mancato esperimento della procedura di negoziazione assistita ex art. 3 D.L. n.132/14 ; b) incompetenza per valore del Tribunale adito, tenuto conto che il pagamento della sorte capitale era avvenuto prima della notifica dell'atto di citazione; 3) carenza di legittimazione attiva della società cessionaria dei crediti per non aver provato e documentato con l'atto di cessione originario la titolarità dei crediti; Nel merito, ha eccepito l'intervenuto pagamento della sorte capitale in data precedente alla citazione e l'inammissibilità della richiesta di pagamento degli interessi moratori, maturati e maturandi, sulla sorte capitale, nonché degli interessi anatocistici sui predetti interessi moratori ed il riconoscimento dell'importo di Euro 720,00, essendo il pagamento delle fatture intervenuto in epoca antecedente al maturare dei predetti interessi. All’esito del giudizio il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, ha condannato il Comune al pagamento, in favore della società ricorrente, degli interessi moratori sulla sorte capitale di Euro 5.107,44, nella misura di cui agli artt. 2 e 5, d.lgs. n. 231 del 2002, con decorrenza dal giorno successivo alla data di scadenza di ciascuna fattura al saldo; degli ulteriori interessi anatocistici prodotti dagli interessi moratori maturati sulle sole fatture emesse da una delle società cedenti nella misura di cui agli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/2002 con decorrenza dalla data di notifica dell'atto di citazione fino al saldo; del rimborso forfettario di Euro 720,00 ai sensi dell'art. 6, comma 2, del D.Lgs. 231/02 (pari a 40 Euro per ogni fattura azionata); Superata la questione di improcedibilità per mancato esperimento della negoziazione assistita, tale procedura essendo stata poi celebrata nel corso del giudizio, il Tribunale ha respinto l’ eccezione di incompetenza , in quanto, venendo in rilievo una controversia avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, da un lato, non è applicabile l’art. 14 c.p.c. [1] , sì che non è fondata la correlata contestazione del valore [2] , dall’altro lato, la competenza per valore deve ritenersi validamente radicata in base al valore specificamente dichiarato in citazione. Sull' eccezione di difetto di legittimazione attiva , poi, il Tribunale correttamente rammenta la distinzione concettuale tra legittimazione attiva e titolarità attiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio: il Comune, infatti, ha eccepito che parte attrice, depositando semplicemente il "contratto quadro", non già il contratto di cessione con le società cedenti, non avrebbe dimostrato di essere legittimata a riscuotere i crediti oggetto di causa. Al riguardo, come ricordato in giurisprudenza, l'istituto della legittimazione ad agire si iscrive nella cornice del diritto all'azione, ovvero il diritto di agire in giudizio . Oggetto di analisi, ai fini di valutare la sussistenza della legittimazione ad agire, è la domanda, nella quale l'attore deve affermare di essere titolare del diritto dedotto in giudizio. Ciò che rileva è la prospettazione (discorso analogo vale per la simmetrica legittimazione a contraddire, che attiene alla titolarità passiva dell'azione e che, anch'essa, dipende dalla prospettazione nella domanda di un soggetto come titolare dell'obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio). Nel caso in cui l'atto introduttivo del giudizio non indichi, quanto meno implicitamente, l'attore come titolare del diritto di cui si chiede l'affermazione e il convenuto come titolare della relativa posizione passiva, l'azione sarà inammissibile. Naturalmente ben potrà accadere che poi, all'esito del processo, si accerti che la parte non era titolare del diritto che aveva prospettato come suo (o che la controparte non era titolare del relativo obbligo), ma ciò attiene al merito della causa, non esclude la legittimazione a promuovere un processo. L'attore perderà la causa, con le relative conseguenze, ma aveva diritto di intentarla [3 ] . Nel caso specifico, il Tribunale ha accertato la titolarità, in capo alla società attrice, del diritto azionato, alla luce dei contratti di cessione dei crediti presenti e futuri da parte delle due società creditrici "dirette" del Comune. Nel merito, il Tribunale pur avendo accertato che la somma capitale richiesta da parte ricorrente era già stata corrisposta dal Comune, ha verificato che, in ogni caso, le fatture di entrambe le società cedenti erano state pagate oltre la rispettiva scadenza, sì che secondo il Giudice parte convenuta era tenuta al pagamento degli interessi di mora, maturati e maturandi sulla sorte capitale, determinati nella misura degli interessi legali di mora ex artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 , come novellato dal D.Lgs. n. 192/12 . Secondo il Tribunale, infatti, si versa in materia di crediti derivanti da transazioni commerciali : l' art. 2 del D.Lgs. 231/2002 definisce le "transazioni commerciali" come "i contratti comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano in via esclusiva o prevalente la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo". Ai sensi dell'art. 4 del medesimo d.lgs., la decorrenza parte dal giorno successivo a quello di scadenza dei termini di pagamento delle fatture costituenti la predetta sorte capitale. Secondo il Tribunale, poi, sussistono i presupposti per l'accoglimento della domanda di condanna al pagamento degli interessi anatocistici prodotti dagli interessi moratori maturati sulla predetta sorte capitale che, alla data di notifica della citazione, siano scaduti da oltre sei mesi, ai sensi del l' art. 1283 c.c. . Ai sensi degli artt. 2 e 5 del D.Lgs. n. 231/02 , in virtù del richiamo operato a tale normativa dall' art. 1284, comma 4, c.c. , riconosciuto il diritto agli interessi di mora, secondo il Tribunale, va di conseguenza riconosciuto il diritto agli interessi sugli interessi scaduti da oltre sei mesi al momento dell'introduzione del giudizio , nella misura degli interessi legali di mora con decorrenza dalla data di notifica della citazione. Infine, il Tribunale ha accolto la domanda relativa al risarcimento forfettario del danno per costi di recupero dei crediti azionati da parte attrice in virtù del disposto dell' art. 6, comma 2, D.Lgs. 231/2002 . Tale disposizione (recante "risarcimento delle spese di recupero"), stabilisce che " al creditore spetta, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 Euro a titolo di risarcimento del danno. È fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito ". Come rilevato dal Tribunale, la ratio della previsione in questione può cogliersi, da un lato, nell'intento punitivo-dissuasivo rispetto al ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali che ispira tutta la disciplina recata dal D.Lgs. citato (attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa proprio alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali) e, dall'altro, nell'esigenza di garantire, anche in assenza di specifica prova, un indennizzo per i costi ordinariamente sostenuti dal creditore. Trattasi, invero, di costi "interni" o "amministrativi" diversi da quelli eventualmente sostenuti in ragione del conferimento di incarichi di recupero crediti a soggetti esterni. Tale importo forfettario spetta all'odierno attore a fronte del tardivo pagamento di tutte le fatture oggetto del giudizio [4] . [1] Ai sensi del quale ‹‹ nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito. Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e senza apposita istruzione ››. [2] Per pacifica giurisprudenza, tale contestazione del valore ai fini della competenza è ammissibile solo in relazione a cause aventi ad oggetto cose mobili diverse dal denaro, mentre nessuna contestazione utile è ammessa relativamente alle cause aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro: si vedano, ex plurimis , Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2003, n. 9658; id., 04 novembre 2002, n.15442; id., 13 novembre 2009, n. 24030. [3] Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951. [4] CGCE, sez 3, del 20 ottobre 2022.
Autore: a cura di Oscar Marongiu 3 maggio 2025
Tar Lombardia, sez. III, sentenza n. 745/2025, pubblicata il 5 marzo 2025 IL CASO E LA DECISIONE Un cittadino straniero, dopo essere entrato sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità, essere stato allontanato da un centro di accoglienza e avere contratto matrimonio con una cittadina italiana (dalla quale peraltro si era successivamente separato, con strascichi penali a suo carico), prova ad accedere alla “sanatoria” di cui al d.l. n. 34 del 2020 . Il beneficio gli viene peraltro negato in relazione all’insussistenza delle condizioni stabilite dalla norma in questione. In particolare, l’amministrazione compulsata aveva rilevato che l’interessato era stato condannato nel giugno del 2022 a quattro mesi di reclusione per una condotta di atti persecutori nei confronti della coniuge separata, condotta da lui tenuta tra il 2018 e il 2019. La pena finale applicata dal Giudice era stata peraltro lieve, in quanto commisurata alla contenuta offensività dei fatti, all’incensuratezza dell’imputato e alla concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, ma in ogni caso la condanna, rientrando tra le fattispecie elencate alla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 , era da considerarsi automaticamente preclusiva dell’esito positivo dell’istanza di emersione dal lavoro irregolare. Presentato ricorso avanti al Giudice amministrativo di primo grado, la difesa del cittadino straniero, consapevole dell’esistenza di una causa ostativa prevista direttamente dalla legge, rispetto alla quale l’amministrazione era vincolata e si è dunque mantenuta nei binari di un compito meramente esecutivo, ha chiesto di sollevare questione di costituzionalità per arrivare a una dichiarazione di illegittimità della norma dichiaratamente ostativa rispetto al beneficio richiesto. Il TAR Milano ha tuttavia respinto il ricorso, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità dedotta dalla parte. In particolare, il Giudice meneghino, nell’evidenziare le differenze tra la fattispecie oggetto del suo esame e quella scrutinata dalla Corte costituzionale nel procedimento a seguito del quale è stata emessa la sentenza di accoglimento n. 43 del 2024 , ha affermato che le questioni non erano sovrapponibili per due diversi motivi. Innanzitutto, il reato ostativo preso in considerazione dalla Corte costituzionale era quello di detenzione illecita o spaccio di lieve entità ( art. 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990 ), da considerarsi fattispecie autonoma rispetto al reato di detenzione e spaccio di stupefacenti di cui all’art. 73, comma 1 del d.P.R. n. 309 del 1990: da ciò consegue che il giudizio non è andato a sindacare la pena in concreto emessa in sede penale o la tipologia di condotta effettivamente tenuta all’interno di una fattispecie unitaria. In secondo luogo, il delitto di atti persecutori, a differenza di quello autonomo previsto e punito dal comma 5 dell’art. 73 del testo unico in materia di stupefacenti, comporta sempre l’ obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato . Conseguentemente, trattandosi di due differenti fattispecie penali – così come unitariamente considerate dalla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 – mentre è da considerarsi irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per il reato di “spaccio lieve”, è al contrario da considerarsi razionale e proporzionata la scelta di far derivare conseguenze ostative automatiche alla condanna per il reato di stalking , anche perché tale delitto “ è di per sé suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello... ”. Sotto altro aspetto, il TAR Milano ha respinto anche la censura di violazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo del d.lgs. n. 286 del 1998 , nella disciplina vigente ratione temporis , in quanto “ l’intrusione nella vita privata dell’interessato conseguente automaticamente alla fattispecie normativa in questione risulta giustificata sulla base delle circostanze di diritto e di fatto esistenti nel caso di specie ”. PROFILI DI CRITICITA’ DELLA NORMATIVA SUI REATI OSTATIVI IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE La normativa in materia di procedimenti inerenti all ’immigrazione contempla due particolari discipline sulle condotte penali (e non) “interferenti” in senso negativo con la possibilità di accedere ai benefici di legge previsti in vista del soggiorno legale sul territorio italiano. Viene in primo luogo in considerazione il combinato disposto di cui all’ art. 5, comma 5, e 4, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 . Invero, “ il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato ”; tra i requisiti richiesti c’è anche il fatto di non essere considerati “una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”, o comunque di non risultare “ condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, per i reati di cui all'articolo 582, nel caso di cui al secondo comma, secondo periodo, e agli articoli 583-bis e 583-quinquies del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna con sentenza irrevocabile per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. Se per lo straniero in questione è stato richiesto il ricongiungimento familiare , poi, lo stesso non è ammesso in Italia “ quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone ”. Sotto altro fronte, ai sensi del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 77 del 2020 , non sono ammessi alle procedure di emersione di rapporti di lavoro irregolari svolti con riferimento ad alcune specifiche attività – rispetto ai quali cioè lo straniero non aveva conseguito permesso di soggiorno per lavoro subordinato – coloro “ che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite ”. Stessa preclusione per coloro che siano comunque considerati una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. Le due discipline normative sopra citate sono state oggetto di incisivi interventi della Corte costituzionale, la quale ha dovuto affrontare, nella sostanza, il tema dell’ automatismo introdotto dal legislatore tra l'applicazione di determinate condanne penali e il diniego del titolo di soggiorno. Con una prima pronuncia di carattere generale, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 5, del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), nella parte in cui prevedeva che la valutazione discrezionale in esso stabilita (tenere conto, nella decisione finale sulla posizione del richiedente, anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio) si applicasse solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato » ( sentenza 3 - 18 luglio 2013, n. 202 ). Successivamente, la Corte costituzionale ha dichiarato, più nello specifico, l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo sopra citato, nella parte in cui ricomprendeva, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 e quelle definitive per il reato di cui all'art. 474, secondo comma, del codice penale , senza prevedere che l'autorità competente verificasse in concreto la pericolosità sociale del richiedente ( sentenza 9 marzo - 8 maggio 2023, n. 88 ). Quanto poi al d.l. n. 34 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la recente sentenza n. 43 del 2024 , l'illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 10, lettera c) di tale decreto nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti» come ostativi al buon esito della procedura di regolarizzazione, non escludeva il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 ( fatto di lieve entità di cessione o detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope ). In sostanza, con le due ultime pronunce, il Giudice delle leggi ha denunciato l’irragionevolezza e la mancanza di proporzionalità di una scelta legislativa che faccia conseguire alla mera condanna per un delitto di modesta entità – a cui non segue neppure un’ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato – la preclusione automatica ai benefici di legge in materia di titoli di soggiorno sul territorio nazionale. Sulla scia di tali sentenze, si è posto allora il problema se altri automatismi connessi alla commissione di fattispecie penali lievi ma considerate ostative non debbano seguire la stessa sorte del reato di spaccio di lieve entità. L’attenzione si è in particolare appuntata sulla modalità concreta della condotta tenuta dal soggetto condannato, posto che ci sono alcuni reati (tra cui i maltrattamenti e lo stalking) in cui le situazioni possono essere tra di loro diversissime e conseguentemente portare a pene molto differenti. Nel caso affrontato dal TAR Milano e che qui si commenta, la difesa dello straniero ha messo in discussione la scelta del legislatore di sancire il diniego all’istanza di emersione del lavoro irregolare sulla sola base di una condanna per un fatto lieve di stalking . Il Giudice adito ha però respinto questa impostazione – che avrebbe dovuto condurre, in teoria, ad un nuovo giudizio dinanzi alla Corte costituzionale –, in quanto il reato normativamente considerato, nel caso di specie, come automaticamente ostativo ad un esito favorevole della procedura di “sanatoria” (reato di cui all’art. 612-bis c.p.) è stato oggetto, nell’ordinamento penale, di valutazione astratta unitaria , anche se in concreto può portare, in relazione alla oggettiva gravità della condotta, all’applicazione di pene finali tra di loro molto differenti. D’altra parte, non è stata ritenuta di per sé irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per un reato suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello, quali la libertà e l’incolumità personale. Inoltre, afferma sempre il Giudice meneghino, “ il delitto di atti persecutori, a differenza della “spaccio lieve”, comporta sempre l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato ”. Si tratta, in altri termini, di una fattispecie e di una soluzione legislativa diversa da quella già scrutinata e “bocciata” in due distinte occasioni dalla Corte costituzionale. Resta peraltro sullo sfondo, in quanto non specificamente affrontata dal TAR (che pure ha tenuto implicitamente distinte, quanto ad effetti concreti, le fattispecie di rinnovo di permesso di soggiorno da quello di domanda in sanatoria), l’ulteriore questione dell’eventuale contrasto della norma nazionale primaria con il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU , sotto il profilo della “protezione della vita privata”. D’altra parte, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità si è sviluppata proprio e in particolare con riguardo all’art. 8 CEDU, e la Corte costituzionale, nel superare la precedente pronuncia del 2008, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, in connessione con la preclusione derivante dal reato di spaccio di lieve entità, ha evidenziato che “ l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio dalla sola circostanza che l’autorità amministrativa operi, in presenza di una condanna per il reato di cui si tratta, un apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato, a sua volta soggetto all’eventuale sindacato di legittimità operato dal giudice ”.
Autore: dalla Redazione ("pillole" di diritto europeo) 30 aprile 2025
Corte giust. Ue 3^, 25.1.24, causa C-474-22/ Corte giust. Ue 9^, 16.5.24, causa C-405/23/ Corte giust. Ue 8^, 16.1.25, causa C-516/23/ Corte giust. Ue 7^, 6.3.25, causa C-20/24 Il regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004 , istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato. Alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che equipara la situazione dei passeggeri di voli che hanno subito un ritardo prolungato , vale a dire un ritardo di tre ore o più all'arrivo alla loro destinazione finale, a quella dei passeggeri di voli cancellati, il Giudice tedesco di appello competente ha interpretato l'articolo 3, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento, nel senso che un passeggero che sia stato informato di un ritardo di tre ore o più prima della sua partenza può beneficiare della compensazione pecuniaria prevista agli articoli 5 e 7 del regolamento, anche se non si è presentato in aeroporto. Nel caso di specie, in effetti, un passeggero disponeva di una prenotazione confermata presso un vettore aereo per un volo da Düsseldorf a Palma di Maiorca, ma, ritenendo che il ritardo annunciato di tale volo gli avrebbe fatto perdere un appuntamento di lavoro, decideva di non imbarcarsi. Il volo era poi effettivamente giunto a destinazione con 3 ore e 32 minuti di ritardo. Investita della questione, la Corte federale di Giustizia tedesca ha chiesto in via pregiudiziale al Giudice eurounitario se, per ottenere il diritto a compensazione pecuniaria per un ritardo del volo superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo previsto, il passeggero debba presentarsi all'accettazione, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, lettera a), del regolamento sopra citato, all'ora indicata dal vettore aereo, operatore turistico o agente di viaggio autorizzato, e al più tardi quarantacinque minuti prima dell'ora di partenza pubblicata, oppure se, nel caso di un ritardo prolungato – così come nel caso della cancellazione del volo -, tale requisito venga meno. La Corte di Giustizia ha chiarito che l'elemento cruciale che l’ha indotta ad assimilare il ritardo prolungato di un volo all'arrivo alla cancellazione di un volo, attiene al fatto che i passeggeri di un volo con ritardo prolungato subiscono, al pari dei passeggeri di un volo cancellato, un danno che si concretizza in una perdita di tempo irreversibile , pari o superiore a tre ore, che può essere risarcito unicamente con una compensazione pecuniaria. Pertanto, in caso di cancellazione di un volo o di ritardo prolungato di un volo all'arrivo alla sua destinazione finale, il diritto alla compensazione pecuniaria previsto all'articolo 7, paragrafo 1, del regolamento n. 261/2004 è intrinsecamente connesso all'esistenza di tale perdita di tempo pari o superiore a tre ore. Orbene, un passeggero che non si è recato all'aeroporto, in quanto disponeva di elementi sufficienti per concludere che il volo sarebbe arrivato alla sua destinazione finale solo con un ritardo prolungato, non ha, con tutta probabilità, subito una siffatta perdita di tempo. La perdita di tempo non è infatti un danno generato da un ritardo, ma costituisce un disagio , al pari di altri disagi inerenti alle situazioni di negato imbarco, di cancellazione del volo e di ritardo prolungato e che accompagnano tali situazioni, come la mancanza di comfort , la temporanea privazione di mezzi di comunicazione normalmente disponibili o il fatto di non poter condurre in modo continuativo i propri affari personali, familiari, sociali o professionali. Ne deriva che l’ art. 3, par. 2, lett. a), del regolamento 261/2004 va interpretato nel senso che, per beneficiare della compensazione pecuniaria di cui all’art. 5, par. 1, e all’art. 7, par. 1, di tale regolamento, in caso di ritardo prolungato del volo, ossia un ritardo di tre ore o più rispetto all’orario di arrivo originariamente previsto dal vettore aereo, un passeggero del trasporto aereo deve essersi presentato in tempo utile all’accettazione o, se si è già registrato online , deve essersi presentato in tempo utile all’aeroporto presso un rappresentante del vettore aereo operativo. Il danno individuale può essere peraltro compensato con il “ risarcimento supplementare ” disciplinato dall’art. 12 del regolamento n. 261/2004, il quale presuppone che la domanda sia fondata sul diritto nazionale o sul diritto internazionale. Un volo in partenza dall'aeroporto di Colonia-Bonn, e con destinazione Kos, subiva un ritardo di 3 ore e 49 minuti all'arrivo, a causa principalmente del fatto che, da un lato, il volo precedente aveva già subito un ritardo di 1 ora e 17 minuti per via di una carenza del personale addetto alla registrazione dei passeggeri, e, dall’altro, il carico dei bagagli nell'aereo era stato rallentato in quanto anche il personale del gestore del secondo aeroporto, responsabile del servizio, era in numero insufficiente. Secondo la società ricorrente, che aveva acquisito i diritti di alcuni passeggeri ad ottenere la compensazione pecuniaria, il ritardo del volo in questione non avrebbe potuto essere giustificato alla luce di circostanze eccezionali , ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. D’altra parte, per il Giudice del Land tedesco investito della questione, risultava risolutivo della causa proprio lo stabilire se la carenza di personale del gestore dell'aeroporto di Colonia-Bonn, addotta dal vettore aereo come causa del ritardo prolungato del volo, configurasse o meno una «circostanza eccezionale» ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. Infatti, in caso di risposta affermativa a tale questione, il vettore aereo medesimo non avrebbe dovuto essere tenuto a offrire alcuna compensazione pecuniaria alla ricorrente, in quanto la parte del ritardo del volo di cui trattasi che le sarebbe stata imputabile non avrebbe raggiunto le 3 ore. Investita della relativa questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha innanzitutto premesso che, in forza dell' articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento n. 261/2004 , i passeggeri interessati da un volo che abbia subito un ritardo di almeno 3 ore all'arrivo alla sua destinazione finale non hanno diritto a una compensazione pecuniaria se il vettore aereo operativo è in grado di dimostrare che il ritardo prolungato è dovuto a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004. Sotto questo profilo, la nozione di «circostanze eccezionali», ai sensi dell'articolo sopra richiamato, designa eventi che, per la loro natura o per la loro origine, non sono inerenti al normale esercizio dell'attività del vettore aereo interessato e sfuggono all'effettivo controllo di quest'ultimo, condizioni che sono cumulative e il cui rispetto deve essere oggetto di una valutazione caso per caso. D’altra parte, dice la Corte, “ occorre ricordare che gli eventi la cui origine è «interna» devono essere distinti da quelli la cui origine è «esterna» a tale vettore aereo. Rientrano così in tale nozione, nell'ambito del verificarsi degli eventi cosiddetti «esterni», quelli che derivano dall'attività del vettore aereo e da circostanze esterne, più o meno frequenti nella pratica, ma che un vettore aereo non controlla in quanto trovano origine in un fatto naturale o in quello di un terzo, come un altro vettore aereo o un soggetto pubblico o privato che interferisca nell'attività aerea o aeroportuale ”. In conclusione, sono queste le coordinate in base alle quali il giudice del rinvio deve decidere se il ritardo prolungato del volo di cui trattasi fosse effettivamente dovuto a circostanze eccezionali, posta la necessità ulteriore di valutare, alla luce degli elementi di prova forniti dal vettore aereo interessato, se quest'ultimo abbia dimostrato che tali circostanze non avrebbero potuto essere evitate anche se fossero state adottate tutte le misure del caso e che esso ha adottato le misure adeguate alla situazione in grado di ovviare alle conseguenze di quest'ultima, “ salvo acconsentire a sacrifici insopportabili per le capacità della sua impresa nel momento pertinente ”. Alcuni soggetti avevano effettuato una prenotazione presso un vettore aereo per voli andata e ritorno da Francoforte sul Meno a Denpasar (Indonesia), con scalo a Doha, nell’ambito di una campagna promozionale di detto vettore aereo operativo, volta a consentire ai professionisti del settore sanitario di effettuare prenotazioni di voli, pagando soltanto le tasse e i diritti relativi a tali prenotazioni. I voli oggetto della prenotazione venivano peraltro cancellati e il vettore aereo interessato non garantiva il riavvio successivo dei passeggeri alle stesse condizioni e per la stessa destinazione. Gli interessati chiedevano pertanto al Giudice nazionale competente un risarcimento per la violazione, da parte di tale vettore aereo operativo, del suo obbligo di assistenza risultante dall’ articolo 8, paragrafo 1, lettera c), del regolamento n. 261/2004 . Nell’ambito di tale causa, il giudice del rinvio si è interrogato, in primo luogo, sull’applicabilità, nel caso di specie, del predetto regolamento, qualora si debba ritenere che un passeggero viaggia gratuitamente, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, quando deve pagare unicamente le tasse sul trasporto aereo e i diritti aeroportuali. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha risposto al quesito pregiudiziale affermando che l' art. 3, par. 3, del regolamento n. 261/2004 va interpretato nel senso che un passeggero non viaggia gratuitamente quando, per effettuare la propria prenotazione, abbia dovuto pagare esclusivamente tasse sul trasporto aereo e diritti. Inoltre, secondo i Giudici eurounitari, l'art. 8, par. 1, lett. c), va interpretato nel senso che esso non richiede, ai fini della sua applicazione, l'esistenza di un nesso temporale tra il volo cancellato e il volo di riavviamento desiderato da un passeggero, potendo tale riavviamento verso la destinazione finale essere richiesto in condizioni di trasporto comparabili a una data successiva, a seconda delle disponibilità di posti. Un vettore aereo che propone voli charter aveva concluso con un operatore turistico un contratto, nell'ambito del quale il vettore aereo ha fornito all'operatore voli specifici in date particolari, per i quali l'operatore stesso ha poi venduto biglietti ai passeggeri interessati, dopo averne pagato preventivamente i prezzi Alcuni di questi passeggeri hanno partecipato a un viaggio «tutto compreso», che includeva un volo in partenza da Tenerife, con destinazione Varsavia; il contratto relativo al viaggio «tutto compreso» era stato concluso tra altra società, a nome di tali passeggeri, e l'operatore turistico che aveva acquistato preventivamente i biglietti. Tale volo aveva accusato un ritardo all'arrivo di più di 22 ore. Per dimostrare la propria legittimazione ad agire per ottenere un risarcimento dei danni connessi al ritardo del volo in questione, i passeggeri in questione avevano presentato copie delle carte d'imbarco per tale volo. Tuttavia, il vettore aereo aveva negato la compensazione pecuniaria a tali passeggeri, in quanti gli stessi non avrebbero dimostrato di essere in possesso di una prenotazione confermata e pagata per il volo suddetto. Infatti, secondo il vettore de quo , il viaggio «tutto compreso» di detti passeggeri sarebbe stato pagato dall'operatore turistico a condizioni preferenziali , cosicché i medesimi passeggeri avrebbero viaggiato gratuitamente o a tariffa ridotta, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 3, del regolamento n. 261/2004, il che escluderebbe il diritto a una compensazione a norma di tale regolamento. Investita della questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha stabilito che l’art. 2, lett. g), e l’art. 3, par.2, lett. a), del regolamento n. 261/2004 vanno interpretati nel senso che la carta d’imbarco può costituire un titolo che attesta che la prenotazione è stata accettata e registrata dal vettore aereo o dall’operatore turistico, cosicché si può ritenere che il passeggero in possesso di tale carta possieda una “prenotazione confermata” per il volo di cui trattasi, in una situazione in cui non venga dimostrata alcuna particolare circostanza anomala. In particolare, l’art. 3, par. 3, del regolamento va interpretato nel senso che non si può ritenere che il passeggero viaggi gratuitamente o a una tariffa ridotta non accessibile, direttamente o indirettamente, al pubblico, ai sensi di tale disposizione, quando, da una parte, l’operatore turistico paga il prezzo del volo al vettore aereo operativo conformemente alle condizioni di mercato e, dall’altra, il prezzo del viaggio “tutto compreso” è pagato a tale operatore non da detto passeggero, ma da un terzo. Spetta a tale vettore aereo dimostrare, secondo le modalità previste dal diritto nazionale, che detto passeggero ha viaggiato gratuitamente o ad una tariffa ridotta.
Autore: Alma chiettini 24 aprile 2025
Corte costituzionale, sent. n. 36 del 2025 e sent. n. 34 del 2025 A fine marzo di quest'anno, la Corte costituzionale ha adottato due pronunce di interesse per il diritto tributario. Quanto alla sentenza n. 36 del 2025 , occorre premettere che i l d.lgs. n. 220 del 2025, di modifica del d.lgs. n. 546 del 1992 , aveva introdotto due novità nel giudizio d’appello: - all’ art. 58, comma 1 , il divieto di “nuovi mezzi di prova”, divieto che letto in combinato disposto con l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220 comportava che la nuova regola si applicasse anche giudizi instaurati in secondo grado a far data dal giorno successivo all’entrata in vigore della nuova disposizione (ossia il 4 gennaio 2024); - all’ art. 58, comma 3 , il divieto di “deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo, 14 comma 6-bis”. Ebbene, con la sentenza n. 36, depositata il 27 marzo 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato: - l’illegittimità costituzionale per irragionevolezza della disciplina di cui al comma 1 dell’art. 58, in quanto la novella, sebbene formalmente prevista solo per il futuro, nella sostanza incideva sugli effetti giuridici di situazioni processuali instauratesi quando era in vigore la normativa precedente. Trattandosi di una disposizione intertemporale, vige “ il principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite ”. Per cui la Corte ha giudicato fondate le censure ex artt. 3 e 111 Cost. con cui si prospettava, da un lato, la “ palese ed ingiustificata violazione del principio del giusto processo sotto il profilo della prevedibilità delle regole processuali dell’intero percorso di tutela e, dall’altro, il pregiudizio recato alla scelta difensiva delle parti dei processi già instaurati in primo grado al momento dell’entrata in vigore della novella processuale ”; - l’illegittimità costituzionale della seconda disposizione censurata dell’art. 58 limitatamente alle parole “delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti”. Nella sentenza si legge che “l a novella del 2023 ha optato per un modello di gravame ad istruttoria chiusa, temperato, però, dal riconoscimento della facoltà per le parti di introdurre in secondo grado prove nuove indispensabili ai fini della decisione o incolpevolmente non dedotte in primo grado. Rispetto a tale regola generale, il divieto assoluto di produzione delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere non trova appiglio nelle caratteristiche oggettive dei suddetti documenti, non essendo rinvenibile in essi un elemento differenziale sul quale il legislatore possa costruire una disciplina diversificata ”. Inoltre - ha rilevato ancora la Corte - la nuova disciplina, dove inibisce il deposito delle deleghe, delle procure e degli atti di conferimento di potere, pur quando ne sia stata incolpevolmente impossibile la produzione in primo grado, comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova , posto che in tali ipotesi il processo di appello costituisce la prima e unica occasione per dedurre i mezzi istruttori che non siano stati introdotti in primo grado per causa non imputabile alla parte. Per quanto concerne, invece, il divieto di produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato , ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità, la Corte ne ha escluso sia la irragionevolezza sia la contrarietà ai parametri costituzionali dedotti, perché il legislatore ha inteso evitare che l’appello venga promosso al solo fine di effettuare un deposito documentale che, pur essendo da solo sufficiente per la definizione del giudizio, sia stato omesso in prime cure. La sentenza n. 34, depositata il 21 marzo 2025 , si segnala invece non tanto per il tema trattato (l’assoggettamento anche delle società di gestione del risparmio - c.d. SGR - all’imposta sui redditi delle società con un’addizionale dell’8,5 per cento), ma per i principi generali dettati (meglio: ricordati), in materia di imposizione tributaria : - la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; essa esige piuttosto un indefettibile raccordo con la capacità contributiva , in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale; - per “capacità contributiva”, ai sensi dell’ art. 53 Cost. , si intende l’idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico cui l’imposizione è collegata, presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di legittimità costituzionale sotto il profilo della loro arbitrarietà o irrazionalità; - in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica; - viste le peculiari caratteristiche del mercato finanziario, non è irragionevole individuare uno specifico e autonomo indice di capacità contributiva, idoneo a giustificare una regola differenziata di determinazione della base imponibile, nella “ appartenenza dei soggetti passivi al mercato finanziario, quale indice di capacità contributiva ”; - per cui l’ appartenenza al mercato finanziario , del quale le SGR fanno parte, può rappresentare, in ipotesi circoscritte temporalmente e dettate da una crisi economica generale, un non irragionevole e non arbitrario indice di capacità contributiva, anche alla luce dei principi di uguaglianza tributaria e di solidarietà.
Autore: dott.ssa Elettra Papaccio 14 aprile 2025
[NDR: la dott.ssa Papaccio, che ha già collaborato con questo sito quando svolgeva l'attività di tirocinio presso il Tribunale amministrativo regionale, è in procinto di assumere adesso le funzioni di MOT presso la Corte di appello di Napoli, dopo avere superato brillantemente le prove (e per ben due volte gli scritti) del concorso in magistratura ordinaria] PREMESSA La riforma Cartabia ha introdotto nel corpo del codice di procedura civile un istituto inedito nel nostro ordinamento, ossia il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione, per la risoluzione di una questione di diritto nuova e controversa, prima della decisione del giudice del merito . Fino alla recente modifica, invero, la Suprema Corte quale giudice di legittimità interveniva sulle questioni di diritto, al fine di enunciare il principio da applicare da parte del giudice del merito al caso concreto, solo in via successiva in sede di impugnazione, avverso una pronuncia in grado unico o di appello, censurata dal ricorrente sulla base dei motivi tassativi di cui all’ art 360 c.p.c. . In disparte la ipotesi del regolamento preventivo di giurisdizione, in tutti gli altri casi, la Corte di cassazione si è sempre pronunciata su un provvedimento già adottato da parte del giudice del merito, in funzione di giudizio di pura legittimità ed in veste nomofilattica, come previsto dalla legge sull’ordinamento giudiziario. L’ art 65 del Regio decreto numero 12 del 1941 , in proposito, statuisce che la Corte di cassazione “ assicura l’esatta osservanza e la uniforme interpretazione ed applicazione della legge, garantisce la unità del diritto oggettivo, vigila sul rispetto dei limiti delle giurisdizioni e regola i conflitti di competenza ”, così indentificando i tratti caratteristici del giudice di legittimità, garante della corretta applicazione del diritto oggettivo e della uniformità della sua applicazione nell’ordinamento da parte dei giudici di merito. In tale ottica dispone anche l’ art 111 Costituzione , che proietta il singolo giudizio di legittimità verso una funzione più ampia della risoluzione del caso concreto in punto di diritto, e più precisamente nella dimensione di un processo avente come scopo l’unità del sistema giuridico e la osservanza della legge. In analoga ottica nomofilattica si inscrive anche la norma di recente introduzione di cui all’ art 363 bis c.p.c. , significativamente collocata subito dopo l’ articolo 363 c.p.c. che disciplina le ipotesi in cui, su richiesta del Procuratore generale, o di ufficio, viene enunciato il principio di diritto nell’interesse della legge. L’inedito istituto del rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di cassazione accentua la funzione di cui all’art 65 della legge sull’ordinamento giudiziario, e precisamente ciò si realizza mediante la sottoposizione della questione giuridica controversa alla Suprema Corte, prima che il giudice del merito si pronunci, al fine di fornire allo stesso il principio di diritto da applicare, vincolante nel caso in esame. Lo scopo dell’istituto è quello di fornire al giudice del merito, in via anticipata rispetto alla decisione, la corretta interpretazione della legge da applicare al caso concreto, su una questione di diritto nuova e controversa. In tal modo si consente di realizzare, da un lato, un risparmio di energie processuali , e dall’altro di potenziare la funzione nomofilattica, fornendo ex ante al giudice a quo una pronuncia della Corte di cassazione, che dirima una controversia, in punto di diritto, suscettibile di dar luogo a orientamenti differenti e non uniformi davanti a più giudici di merito. Infatti i presupposti e requisiti, per la attivazione della richiesta alla Suprema Corte, sono: 1-che la questione, “esclusivamente di diritto ”, sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio, ponendosi come passaggio logico indispensabile da compiere per addivenire alla decisione. 2-che la stessa non sia ancora stata risolta dalla Corte di cassazione, ovvero che sia inedita perché non si è ancora posta all’attenzione del giudice di legittimità. 3-che la questione presenti gravi difficoltà interpretative , richiedendo un impegno ermeneutico apprezzabile , per individuare la soluzione adeguata al caso concreto tra una pluralità di potenziali interpretazioni. 4-la serialità , ossia la circostanza che la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi, non predeterminati a priori e appunto molteplici. Ciò significa che, se non risolta una tantum in sede di rinvio pregiudiziale, la medesima questione potrebbe riproporsi davanti a giudici diversi, producendo una proliferazione di differenti interpretazioni e - come il delta di un fiume - moltiplicando le decisioni a scapito della armonia e uniformità tra i decisioni. La norma appena descritta, che ha già trovato applicazioni nel processo civile, sebbene in un numero limitato di casi, ha consentito alla Suprema Corte di risolvere questioni interpretative, prevenendo contrasti giurisprudenziali in materie che presentano oggettive difficoltà ermeneutiche, ovvero riguardanti questioni inedite. LA NORMA E LE SUE APPLICAZIONI “EXTRA VAGANTI” La disposizione sembrava posta per rimanere circoscritta al processo civile , considerata la sua funzione endoprocessuale e dunque focalizzata sulla risoluzione di questioni suscettibili di concretizzarsi, se non preventivamente risolte, in una impugnativa afferente al vizio ex art 360 numero 3), ovvero cd. error in iudicando . Tuttavia si è già riscontrata la prima richiesta di “esportazione” dell’istituto al processo tributario , con l’ordinanza di rinvio della Corte di Giustizia tributaria di Agrigento, che ha dato origine alle recenti Sezioni Unite del dicembre 2023. Con tale rinvio è stata sottoposta alla Suprema Corte una questione di giurisdizione, cui era sotteso il controverso inquadramento della fattispecie sostanziale oggetto di lite: in una controversia inerente al diniego di contributo a fondo perduto ex d.l. 34 del 2020, ha assunto carattere pregiudiziale ai fini della determinazione della giurisdizione, l’esatto inquadramento della natura giuridica della posizione soggettiva sottesa. Le Sezioni Unite – con sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851 -, in tale occasione, hanno ritenuto utilizzabile il nuovo strumento ermeneutico anche da parte del giudice tributario, rilevando che “ è proprio la funzione nomofilattico-deflattiva assegnata al rinvio pregiudiziale ad avvalorarne … l’utilità .. in una materia come quella tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti. ” La stessa relazione di accompagnamento alla riforma, osservano le Sezioni Unite, menziona la esigenza, particolarmente avvertita in materia tributaria, di « rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge, quale strumento di diretta attuazione dell’art. 3 della Costituzione, prevedibilità delle decisioni e deflazione del contenzioso ». Aggiunge la Suprema Corte che « una interpretazione autorevole e sistematica della Corte resa con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, può svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti territoriali ». Una volta ammessa - con la pronuncia del 2023 - la esportazione dell’istituto al di fuori dei confini del processo civile, il TAR Liguria, con la ordinanza del 28 febbraio 2025, n. 230 ha attivato per la prima volta il rinvio nel giudizio amministrativo . Anche in questa fattispecie il rinvio è stato operato al fine di risolvere una questione di giurisdizione. Il ricorso è originato dall’impugnativa degli atti di una procedura concorsuale per il conferimento dell’incarico quinquennale di Direzione della Struttura Complessa “Chirurgia Generale ad Alta Complessità” - disciplina di Chirurgia Generale - Area di Chirurgia e delle Specialità Chirurgiche, dell’Azienda Sociosanitaria Ligure 5. Si tratta di procedure di conferimento di incarichi direttivi di strutture caratterizzate da maggiore autonomia nella gestione, in base a quanto previsto dall’atto organizzativo adottato dalla ASL ( cfr. ex art 15, comma 6, del d.lgs. 502/1992 ). Sul conferimento di tali incarichi dirigenziali è divenuta controversa la giurisdizione , a seguito di una recente modifica normativa, che ha riformato l’art. 15, comma 7 bis del d.lgs 502/92, sostituito dall’ art. 20, comma 1, l. 5 agosto 2022 n. 118 . Per effetto della richiamata novella legislativa, l’art 15 sopra citato ora prevede una maggiore procedimentalizzazione della procedura di scelta del dirigente. Precedentemente, infatti, la procedura era basata su un’analisi comparativa dei titoli, posseduti dai candidati “ai fini della predisposizione di una terna di candidati idonei formata sulla base dei migliori punteggi attributi”; poi si passava alla “individuazione da parte del direttore generale, del candidato da nominare, tra i due che avessero ottenuto il punteggio più elevato”. In tale contesto la giurisdizione ordinaria era fondata – cfr. ex multis Cass., SU, n. 13491/2021- sulle stesse modalità della selezione, articolate in “uno schema che non prevede lo svolgimento di prove selettive, con la formazione di graduatoria finale e l’individuazione del candidato vincitore, ma soltanto la scelta, di carattere essenzialmente fiduciario”. Di qui, in applicazione dell’ art 63 del TU del pubblico impiego , le controversie si ritenevano devolute al giudice ordinario, escludendo la natura concorsuale della procedura e ritenendo la stessa integrata da atti adottati con i poteri del privato datore di lavoro. Infatti è pacifico ormai che , in tema di impiego pubblico privatizzato, il g.a. mantiene una riserva ex art 63 del TU pubblico impiego, solo per le procedure concorsuali finalizzate alla assunzione, o anche alla progressione in un’area o fascia superiore quella di appartenenza. Per contro, il conferimento di un incarico dirigenziale , ivi compresa la dirigenza sanitaria, non costituisce un concorso avendo come destinatari personale già in servizio ed in possesso della relativa qualifica, e rappresentando una scelta tra curricula e non una valutazione comparativa. Con la recente modifica normativa, gli incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa sono ora attribuiti sulla base dell’ analisi comparativa dei curricula e dei titoli professionali posseduti dai candidati “secondo criteri prefissati preventivamente”, in modo tale da far prescegliere il candidato con il punteggio migliore. Le interpretazioni di queste novità procedurali, in giurisprudenza, hanno dato origine a due opposte soluzioni in punto di giurisdizione. Secondo un primo orientamento sussiste tuttora la giurisdizione del giudice ordinario, anche dopo la modifica normativa. Infatti la procedura attiene al “conferimento degli incarichi di direzione” , le cui controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario per espressa previsione ex art. 63, comma 1, del d.lgs n. 165/01 ( come ha già affermato ex multis Cass., SU, nn. 13491/2021) e le modifiche del 2022 nulla mutano in ordine alla natura dell’incarico, essendo la procedura selettiva finalizzata all’attribuzione di un incarico dirigenziale e non avendo natura concorsuale. La giurisdizione del giudice amministrativo è per contro configurabile solo nelle ipotesi di concorsi finalizzati alla “assunzione” del dipendente, mentre l’incarico di direttore di struttura complessa è conferibile a chi sia già stato assunto nel ruolo della dirigenza medica mediante concorso pubblico ai sensi dell’art. 15, comma 7, primo periodo del d.lgs n. 502/92 e s.m.i.. In tali termini la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che “ la riserva stabilita in favore del giudice amministrativo concerne soltanto le procedure concorsuali strumentali all’assunzione o alla progressione in un’area o fascia superiore a quella di appartenenza, laddove gli atti di conferimento d’incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali ed hanno come destinatari persone già in servizio nonché in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro ” (Cass., SU, nn. 13491/2021). In sintesi, secondo tale tesi, la novella legislativa, pur incrementando la procedimentalizzazione della selezione, nulla innoverebbe sul riparto di giurisdizione. (Consiglio di Stato sezione III, 4 giugno 2024, n. 5017; C. S. III, 19 luglio 2024, n. 6534). Secondo un secondo orientamento , più recente, del Consiglio di Stato, tali controversie sarebbero attratte alla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto, per effetto della riforma, sarebbe venuto meno il carattere fiduciario del conferimento dell’incarico e la procedura sarebbe ora inscritta nel modello concorsuale. Ciò si desumerebbe dal fatto che la selezione non è limitata ai medici in servizio presso l’Asl interessata, ma “aperta e pubblica” e quindi assume i connotati di una procedura per l’immissione in servizio di un sanitario, in posto qualificato: la stessa sarebbe finalizzata all’assunzione del sanitario sub specie di “progressione in un'area o fascia superiore a quella di appartenenza” ovvero all’acquisizione di uno “status” professionale più elevato (Consiglio di Stato sentenza 18 ottobre 2024 n. 8344). In ordine alla questione così inquadrata, il TAR Liguria ha ravvisato la sussistenza di tutti i presupposti di cui all’art 363 bis c.p.c., ovvero la natura esclusivamente di diritto del quesito, la possibilità che la questione si ponga in molteplici giudizi, come dimostra la giurisprudenza in materia, la novità della questione e il contrasto giurisprudenziale ancora irrisolto, sia in seno alla giurisprudenza amministrativa sia da parte della Suprema Corte in sede di regolamento della giurisdizione. Trattandosi di una questione che indubbiamente condiziona la risoluzione della controversia, in particolare in quanto la scelta tra le diverse opzioni ermeneutiche viene a riflettersi sulla sussistenza in radice della potestas decidendi del g.a., il Collegio, ha operato il rinvio di interpretazione alla Corte di cassazione, rilevando che occorre in limine risolvere una questione da cui dipende la sussistenza della propria giurisdizione. OSSERVAZIONI FINALI La circostanza centrale nel caso in esame è proprio inerente alla utilizzabilità dello strumento del rinvio pregiudiziale da parte del giudice amministrativo , e quindi alla possibilità, anche in tali casi, di sua esportazione al di fuori del contesto del codice di procedura civile. Quanto alla possibilità di operare il rinvio ex art 363 bis c.p.c. da parte dei giudici speciali , occorre rifarsi alla sopra richiamata pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che ha risolto il problema favorevolmente, rispetto al rinvio operato dal giudice tributario ( SSUU sentenza 13 dicembre 2023 n. 34851). Nell’ottica della estensibilità dell’istituto anche al processo amministrativo, il Tar Liguria rileva come la questione che intende sottoporre alla Cassazione sia relativa alla giurisdizione sulla controversia, la quale ex art. 111, comma 7 Cost. e art. 110 c.p.a. è scrutinabile dalla Suprema Corte, quale organo regolatore della giurisdizione, anche rispetto alle decisioni dei giudici speciali. Ancora, argomenta il TAR Liguria come il rinvio esterno contenuto nell’ art. 39 comma 1, c.p.a. – secondo cui “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali”- consenta l’opzione ermeneutica prescelta. In ciò giova richiamare la similitudine con il processo tributario, ove è presente analogo rinvio esterno al codice di procedura civile, e precisamente all’ art. 1, comma 2, d.lgs. 546/92, norma che è stata adoperata per ritenere consentito il rinvio pregiudiziale da parte del giudice tributario, come affermato dalla Cassazione nel precedente sopra citato ( SSUU sentenza del 13 dicembre 2023 n. 34851). La circostanza che il Tribunale amministrativo regionale appartenga a una giurisdizione speciale non sarebbe ostativa ex se alla facoltà per i giudici amministrativi di sollevare rinvio pregiudiziale ex art 363 bis c.p.c., atteso che il rinvio è operato proprio ai fini della determinazione della giurisdizione, ambito in cui “la Cassazione costituisce l’organo di vertice, con il compito di assicurare l'esatta osservanza, l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo”. Inoltre tale istituto - “ essendo volto a sollecitare un responso anticipato della Corte in ordine ad una questione di diritto, non ancora risolta dalla giurisprudenza di legittimità ed avente carattere seriale, che presenti gravi difficoltà interpretative ed appaia rilevante ai fini della decisione della controversia ” - sembra specialmente adeguato laddove la questione di giurisdizione sottenda una delicata e complessa questione di diritto afferente l’inquadramento sistematico dell’istituto di diritto sostanziale su cui si fonda l’attribuzione della giurisdizione. A favore della possibilità di applicare l’istituto anche al processo amministrativo, va rilevato l’inquadramento dato allo stesso dalle Sezioni Unite nella richiamata pronuncia 34851/2023, e precisamente le rilevanti differenze che “lo strumento ex art 363 bis c.p.c. presenta” rispetto al regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto opera ad iniziativa del giudice, che può utilizzarlo non solo nel giudizio primo grado ma anche in quello di appello. In tal sede è significativa la definizione del rinvio pregiudiziale quale “strumento complementare” di definizione delle questioni di giurisdizione, rispetto a quelli già disciplinati dal c.p.c., il regolamento preventivo ad istanza di parte ex art 41 c.p.c. , e il regolamento di ufficio che è solo successivo. Questo inquadramento consente quindi di dare maggiore spazio ad un rinvio pregiudiziale anche in un’ottica di definizione della giurisdizione, proprio per evitare un inutile dispendio di energie processuali, deflazionando il contenzioso, mediante la enunciazione di un principio suscettibile di essere applicato in controversie seriali. Tuttavia le apprezzabili ragioni favorevoli alla ammissibilità dell’istituto vanno confrontate con le possibili obiezioni, specifiche per il processo amministrativo, che non sembrano essere state ancora vagliate nella fattispecie già esaminata dalla Cassazione, relativa al processo tributario. Può osservarsi che il rapporto tra giudice amministrativo e Corte di cassazione è delineato all’art 111 Costituzione , secondo cui le decisioni del Consiglio di Stato sono sindacabili dalla Suprema Corte solo per “motivi di giurisdizione”, con esclusione dei vizi costituenti errores in procedendo o in iudicando compiuti dal giudice speciale. Di qui occorre porre una particolare cautela alla estensibilità dell’istituto al processo amministrativo, onde evitare che venga piegato ad un surrettizio ampliamento delle cosiddette questioni di giurisdizione conoscibili dalla Cassazione. Il riferimento è alle posizioni espresse dalla Corte costituzionale, in riguardo alla diversa problematica del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale, che focalizzano la necessità di intendere in senso stretto le questioni di giurisdizione (Corte costituzionale n. 6 del 2018), preservando una autonomia di decisione e procedura del giudice speciale. In tal sede la Consulta ha quindi ridimensionato un'eccessiva dilatazione del concetto di eccesso di potere giurisdizionale , che avrebbe consentito un sindacato sugli errores in iudicando o in procedendo , con una torsione del vizio di cui all’art 360 numero 1 c.p.c. inerente ai motivi di giurisdizione. Nel caso del rinvio pregiudiziale per motivi di giurisdizione questa torsione sembra escludersi, dal momento che la Corte di cassazione è chiamata ad una sorta di actio finium regundorum , che ha lo stesso contenuto del sindacato svolto in sede di regolamento di giurisdizione, o ex post in sede di ricorso per motivi di giurisdizione; può dunque condividersi la tesi per cui l’istituto si pone in linea con l’esigenza del giusto processo , in quanto finalizzato ad ottenere pronunce orientate a garantire la certezza e prevedibilità del diritto. In ultima analisi va condivisa l’osservazione secondo cui il rinvio pregiudiziale, più che destabilizzare le garanzie di autonomia riconosciute ad ogni giudice dall’ art 101, secondo comma Costituzione , rappresenta un’opportunità in più offerta al giudice di merito per rivolgersi alla Corte regolatrice della giurisdizione. Non sembra di ostacolo la osservazione, formulata da una parte della dottrina, secondo cui il rinvio pregiudiziale, anche se limitato ai fini di una questione di giurisdizione, troverebbe una barriera nella circostanza che in tale questione i profili di diritto sono inscindibilmente connessi a quelli di fatto . Al riguardo la Suprema Corte, nella citata sentenza concernente il Giudice tributario, ha osservato che tale inscindibilità contraddistingue tutte le questioni di carattere processuale, ove la Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto. In ogni caso, in tali questioni è ben possibile distinguere l’aspetto riguardante la interpretazione della norma giuridica astrattamente applicabile, dalla ricostruzione della concreta vicenda processuale, che rimane “ affidata al giudice di merito, sia in via preventiva , ai fini della motivazione in ordine alla rilevanza della questione, che in via successiva, ai fini della applicazione del principio di diritto enunciato da questa Corte ”. In altri termini si è rilevato che, fermo che i profili fattuali sono riservati in via esclusiva al giudice di merito, a quello di legittimità può demandarsi il profilo giuridico consistente non già nell’individuare il giudice a cui spetta la giurisdizione, ma nella “interpretazione delle norme sostanziali e processuali dalle quali dipende il riparto di giurisdizione”(cfr. sempre Cassazione, Sezioni Unite numero 34851/2023). Vale sottolineare che in ogni caso la Suprema Corte ha già chiarito nella citata sentenza che la sua pronuncia non sarà mai nel senso di statuire in via diretta a chi spetti la giurisdizione, bensì di qualificare la posizione giuridica sottesa alla questione di giurisdizione , rimanendo nel campo del giudice del merito il compito di trarne le conseguenze, benché entro il vincolo del principio di diritto. In attesa di conoscere la decisione della Suprema Corte in ordine all’estensibilità del rinvio sollevato al processo amministrativo, si rileva come l'ordinanza del giudice di primo grado , nel solco della giurisprudenza di altri giudici speciali, abbia colto la possibilità, offerta dal codice di rito in virtù del rinvio esterno, di dialogo anticipato con la Corte regolatrice della giurisdizione. In tal modo, il giudice amministrativo contribuirebbe a realizzare lo scopo della norma di recente introduzione, ossia una previa risoluzione di questioni di diritto rispetto alla decisione di merito, nell’ottica di economia processuale, ragionevole durata del processo e dell’armonia tra decisioni di diversi giudizi, al fine di assicurare l’uniformità del diritto oggettivo.