Gli ultimi articoli pubblicati


Autore: Alma Chiettini 26 giugno 2025
Cass. civ., sez. V, 4.6.2025, n. 14915; 3.6.2025, n. 14881; 7.3.2025, n. 6172 La definizione di “ coltivatore diretto ” è dettata da disposizioni legislative di carattere speciale previste per il settore agricolo, quali: - a) l’ art. 48 della l. n. 454 del 1961 , che definisce coltivatori diretti “ coloro che direttamente e abitualmente si dedicano alla coltivazione dei fondi ed all’allevamento ed al governo del bestiame, sempre che la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore a un terzo di quella occorrente per le normali necessità della coltivazione del fondo e per l’allevamento e il governo del bestiame ”; - b) l’ art. 6 della l. n. 203 del 1982 , secondo cui “ sono affittuari coltivatori diretti coloro che coltivano il fondo con il lavoro proprio e della propria famiglia, sempreché tale forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, tenuto conto, agli effetti del computo delle giornate necessarie per la coltivazione del fondo stesso, anche dell’impiego delle macchine agricole ”; - c) l’ art. 2 della l. n. 1047 del 1957 ai sensi del quale “ sono considerati coltivatori diretti i proprietari, gli affittuari, gli enfiteuti e gli usufruttuari, i miglioratori, gli assegnatari, i pastori e gli altri comunque denominati che direttamente e abitualmente si dedicano alla manuale coltivazione dei fondi o all’allevamento ed al governo del bestiame ”. La figura dell’ imprenditore agricolo professionale (IAP) - che ha sostituito la previgente figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale (IATP) – è stata invece introdotta col d.lgs. n. 99 del 2004 , che all’art. 1 definisce tale colui che, “ in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro ”. Con le pronunce odiernamente segnalate, la Corte di legittimità ha chiarito alcune questioni in materia. Innanzitutto, le differenze tra la figura del coltivatore diretto e dell’imprenditore agricolo professionale (IAP). Sul punto, è stato evidenziato che “ai fini della qualifica di coltivatore diretto, il legislatore richiede che lo stesso si dedichi direttamente ed abitualmente alla coltivazione del fondo, con lavoro proprio o della sua famiglia, mentre per il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo professionale è necessario che il soggetto dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”. Ne consegue che un “IAP non è tenuto direttamente a provvedere alla coltivazione del fondo, ma è sufficiente che lo stesso ‘conduca’ direttamente il terreno agricolo, anche a mezzo di maestranze, trattandosi di un imprenditore che provvede, svolgendo attività di direzione e controllo, alla coltivazione del fondo”; pertanto, per un coltivatore diretto rimane forte il legame con il fondo agricolo, ma così non è per un IAP, in quanto è evidente l’assenza di un collegamento diretto con l’esercizio di un’attività sul campo, che può esprimersi con modalità direzionali e organizzative dell’attività agricola e di allevamento del bestiame, rappresentando una figura moderna di imprenditore del settore agricolo, che riveste un ruolo dirigenziale e non meramente esecutivo e manuale. In definitiva, le due figure del coltivatore diretto e dell’imprenditore agricolo professionale individuano soggetti distinti che coesistono nell’ordinamento (così la sentenza n. 14915 del 2025 ). A fini dell’ imposta comunale sugli immobili , i requisiti necessari per avere accesso al regime agevolato previsto, per i coltivatori diretti e per gli imprenditori agricoli a titolo principale, dall’ art. 9 del d.lgs. n. 504 del 1992 (azzeramento o riduzione dell’imposta) sono: - a) iscrizione negli appositi elenchi comunali; - b) assoggettamento agli obblighi assicurativi per invalidità, malattia e vecchiaia; - c) possesso e conduzione diretta di terreni agricoli e/o aree edificabili; - d) carattere principale di tali attività rispetto ad altre fonti di reddito. Su questo tema è stato precisato che “ l’iscrizione è idonea a provare la sussistenza dei primi due requisiti, atteso che chi viene iscritto in quell’elenco svolge normalmente a titolo principale quell’attività, di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo, legata all’agricoltura; all’opposto, il terzo - ma anche il quarto - requisito, relativo alla conduzione diretta dei terreni e al reddito, vanno provati in via autonoma, potendo ben accadere che un soggetto iscritto nel detto elenco poi non conduca direttamente il fondo per il quale chiede l’agevolazione, la quale, pertanto, non compete ” (vedasi anche Cort. Cost. n. 87 del 2005 ). E, con riferimento alla figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale, sostituita dall’imprenditore agricolo professionale (IAP), la Corte ha ricordato che l’attribuzione della qualifica di IAP è di competenza delle Regioni , che accertano ad ogni effetto il possesso dei requisiti previsti dal d.lgs. n. 99 del 2004; che ogni Regione regolamenta le condizioni per ottenere il riconoscimento della qualifica di IAP e i criteri per la verifica del requisito del tempo dedicato oltre che per le modalità di computo del requisito del reddito ricavato; che IAP, diversamente dal coltivatore diretto, non è tenuto direttamente a provvedere alla coltivazione del fondo, ma è sufficiente che lo stesso conduca direttamente il terreno agricolo, anche a mezzo di maestranze, trattandosi di un imprenditore che provvede, svolgendo attività di direzione e controllo, alla coltivazione del fondo. E ha quindi precisato che “il venir meno della figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale e la sua sostituzione con quella dell’IAP ha ridefinito le condizioni per il riconoscimento dell’agevolazione ICI, rendendo esigibile non più l’iscrizione nell’elenco comunale ma l’iscrizione negli elenchi o albi regionali, essendo stato demandato alle regioni il compito di verificare, in capo all’imprenditore agricolo richiedente, il possesso dei requisiti soggettivi per l’attribuzione della qualifica di professionalità, da cui derivano, tra l’altro, le agevolazioni in oggetto” (così la sentenza n. 14881 del 2025 ). Infine, la qualifica di IAP può essere posseduta anche da società , sia di persone, sia cooperative sia di capitali, anche a scopo consortile, qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile e siano in possesso dei seguenti requisiti: - a) nel caso di società di persone qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale; per le società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari; - b) nel caso di società cooperative, ivi comprese quelle di conduzione di aziende agricole, qualora almeno un quinto dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale; - c) nel caso di società di capitali o cooperative, quando almeno un amministratore che sia anche socio per le società cooperative, sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale ( art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 99 del 2004 ). Con una modifica del 2005 il legislatore ha soggiunto, col comma 3 bis , che “ la qualifica di imprenditore agricolo professionale può essere apportata da parte dell’amministratore a una sola società ”. La ratio legis di tale precisazione normativa ha un intento antielusivo , ossia è volta a evitare che un soggetto in possesso della qualifica di IAP assuma il ruolo di amministratore in più società con conseguente sfruttamento di tale tipologia societaria, dando così luogo al fenomeno abusivo del c.d. “ IAP itinerante ”. La giurisprudenza non si era peraltro trovata concorde sull’ interpretazione della novella legislativa di cui al riportato comma 3 bis e si è chiesta se il limite (di una società) previsto in relazione all’apporto della qualifica (di IAP) da parte dell’amministratore si riferisce alle sole società di capitali o anche alle società di persone . Su questo punto, la Corte di legittimità ha recentemente chiarito che il citato comma 3 bis costituisce “ una deroga al principio generale che importa la rilevanza delle attività dell’amministratore (di società di capitali) ai fini del conseguimento (e della stessa conservazione) della qualifica di imprenditore agricolo professionale; e detta deroga - che sicuramente non opera nei confronti del socio (imprenditore agricolo a titolo professionale) - non preclude all’amministratore di società di rivestire un siffatto incarico in più società agricole solo rimanendo escluso che la società di capitali possa qualificarsi alla stregua di un imprenditore agricolo professionale in ragione del conferimento di un incarico amministrativo a chi quella qualifica abbia già apportato ad altra società di capitali ”. Pertanto, laddove “l’apporto consegua dalla partecipazione del socio di società di persone, la disposizione del comma 3 bis rimane inapplicabile - identificandosi l’apporto con la partecipazione societaria del socio imprenditore agricolo professionale - in quanto la cennata deroga è destinata ad operare solo laddove l’apporto consegua (nelle società di capitali) dall’amministratore imprenditore agricolo professionale (che, però, può legittimamente utilizzare lo svolgimento dell’attività gestoria ai fini del mantenimento della ridetta qualifica di IAP)”. E, in conclusione, ha pronunciato il seguente principio di diritto: “ le agevolazioni tributarie previste dal d.lgs. n. 99 del 2004 in favore dell’imprenditore agricolo professionale (IAP) si estendono alle società agricole a condizione che, oltre a qualificarsi come tali e ad avere ad oggetto esclusivo l’esercizio delle attività di cui all’art. 2135 c.c., almeno uno dei soci nel caso di società di persone, almeno un amministratore nel caso di società di capitali, e almeno un amministratore che sia anche socio nel caso di cooperative, possiedano detta qualifica di IAP. Conseguentemente, la limitazione dell’art. 1, comma 3 bis, secondo cui la qualificazione di IAP può essere apportata dall’amministratore a una sola società, integrando una deroga al principio generale che importa la rilevanza delle attività dell’amministratore ai fini del conseguimento (e della stessa conservazione) della qualifica di imprenditore agricolo professionale, deroga volta a contrastare il fenomeno abusivo del cd. IAP itinerante (ove un soggetto IAP assume il ruolo di amministratore di più società), si applica solo alle società di capitali e non anche alle società di persone, rispetto alle quali la responsabilità solidale ed illimitata per le obbligazioni sociali gravante sul socio IAP è idonea ad arginare tale abuso ” (così la sentenza n. 6172 del 2025 ).
Autore: dalla Redazione 20 giugno 2025
TAR per il Lazio, sede di Roma, sent. n. 5395 pubblicata il 17 marzo 2025 IL CASO E LA DECISIONE Una studentessa universitaria aveva partecipato, nel 2016, alla prova selettiva per l’ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia e/o odontoiatria e protesi dentaria, conseguendo un punteggio non utile ai fini della collocazione in graduatoria. A seguito del proposto ricorso (collettivo), il Giudice di primo grado aveva respinto la domanda cautelare di iscrizione con riserva al corso di laurea, mentre il Consiglio di Stato aveva accolto tale domanda. In particolare, posto che il TAR per il Lazio aveva ritenuto non superata, prima facie , la cosiddetta prova di resistenza (impatto utile sul punteggio finale dell’accoglimento delle censure principali), il Giudice di appello aveva ritenuto il contrario. In esecuzione della disposta misura cautelare , dunque, la studentessa si era iscritta al corso di laurea in medicina e chirurgia presso l’Università degli Studi di Milano, frequentando per sei anni le lezioni previste dal relativo corso di studio e sostenendo gli esami di profitto. Tuttavia, nelle more, il TAR per il Lazio, con sentenza n. 10276 del 23 ottobre 2018 , aveva definito il giudizio instaurato con la proposizione del ricorso collettivo nell’ambito del quale era stata resa la citata ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, respingendo tale ricorso e precisando che “ per quanto riguarda le posizioni degli originari ricorrenti, attualmente immatricolati, l’Amministrazione non potrà prescindere da una puntuale disamina in rapporto ai voti di ciascuno, al fine di valutare se l’ammissione possa considerarsi avvenuta per scorrimento naturale della graduatoria, con conseguente obbligo di convalida, ferma restando la possibilità che – tenuto conto degli indirizzi giurisprudenziali non univoci, espressi al riguardo – l’Amministrazione stessa possa rimettere all’autonomia universitaria la scelta di considerare validi gli esami comunque sostenuti, con ulteriore possibilità, sempre in via di autotutela, di tenere ferme le posizioni di ricorrenti che, nel periodo trascorso, abbiano dimostrato particolare capacità di studio nella Facoltà prescelta, ove sussista la capacità formativa dell’Ateneo interessato ”. Successivamente, il Consiglio di Stato ha a sua volta respinto l’appello proposto avverso la sentenza n. 10276/2018 sopra citata, escludendo l’applicabilità dell’ istituto del c.d. assorbimento , per essere esso ammesso “ soltanto per le varie ipotesi di procedimenti finalizzati alla verifica della idoneità dei partecipanti allo svolgimento di una professione il cui esercizio risulti regolamentato nell’ordinamento interno ma non riservato ad un numero chiuso di professionisti ” e non per le selezioni di stampo concorsuale per il conferimento di posti a numero limitato. Di conseguenza, l’Università degli Studi di Milano comunicava alla ricorrente il “blocco carriera” in applicazione della citata sentenza del Consiglio di Stato, e il Ministero dell’Università e della ricerca decideva di doversi disporre nei confronti della studentessa in questione la caducazione dell’iscrizione dal relativo corso di laurea , con invito a valutare la “ possibilità (per gli istanti che ne facciano richiesta) di garantire le carriere pregresse e gli esami sostenuti attraverso un trasferimento ad un corso affine con conseguente valutazione e convalida, ad opera degli stessi Atenei, dei CFU ottenuti ”. Avverso tali ulteriori determinazioni, l’interessata ha proposto nuovo ricorso, evidenziando, da un lato, che l’avvenuta immatricolazione e, soprattutto, il superamento degli esami di profitto, costituirebbero la dimostrazione dell’assenza di qualsivoglia pregiudizio a carico dell’Università e del Ministero competente, stante l’ormai consolidato inserimento della ricorrente nel percorso accademico. Sotto altro profilo, la studentessa ha ritenuto “improvvida” l’adozione da parte dell’Amministrazione del provvedimento di caducazione dell’iscrizione al corso di laurea in medicina e chirurgia, in ragione della pendenza del giudizio di revocazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato. Il Giudice adito ha peraltro dichiarato il ricorso inammissibile, facendo rilevare che gli atti impugnati dalla ricorrente risultavano adottati in pedissequa esecuzione della sentenza di appello e che gli stessi “ non esprimono nuove manifestazioni di esercizio del potere suscettibili di radicare un rinnovato giudizio sulla relativa correttezza, trattandosi, nel primo caso, di un atto meramente esecutivo del dictum giudiziale e, nel secondo caso, di un atto meramente soprassessorio ”. D’altra parte, neanche era più possibile sovvertire l’esito del giudizio in cui la ricorrente era rimasta soccombente (giudizio nato dal ricorso collettivo avverso i provvedimenti attestanti il non superamento della prova preselettiva), posto che nel frattempo era intervenuta anche la perenzione del giudizio di revocazione, con l’effetto che la sentenza contestata aveva acquisito l’autorità di cosa giudicata e, pertanto, avrebbe fatto stato a ogni effetto tra le parti ai sensi dell’articolo 2909 c.c.. IL PRINCIPIO DELL’ASSORBIMENTO E I LIMITI DI APPLICAZIONE Il cosiddetto principio dell’assorbimento è stato positivizzato con riguardo ad una classe di ipotesi circoscritte dall’ art. 4, comma 2-bis, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito nella l. 17 agosto 2005, n. 168 , secondo cui « conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela ». Il principio de quo è volto ad evitare che il superamento delle prove di un esame di abilitazione venga reso inutile dalle vicende processuali successive al provvedimento con il quale un giudice o la stessa amministrazione, in via di autotutela, abbiano disposto l’ammissione alle prove di esame o la ripetizione della valutazione. Tale disposizione ha così esteso agli esami di abilitazione professionale un orientamento già elaborato dalla giurisprudenza amministrativa per gli esami di maturità , laddove il giudizio di maturità finale, per la sua prevalenza assoluta, consentiva di ritenere assorbito un giudizio di non ammissione, superato da un provvedimento interinale di ammissione con riserva e da un giudizio finale, per l'appunto, di acquisita maturità. D’altra parte, la Corte Costituzionale, con la sentenza 1 aprile 2009, n. 108 , nel disattendere la sollevata questione di legittimità costituzionale, aveva convenuto con l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui tale disposizione non avrebbe potuto applicarsi ai concorsi pubblici, ma solo agli esami di abilitazione, atteso che questi ultimi sono volti ad accertare l’idoneità dei candidati a svolgere una determinata attività professionale , e, una volta accertata questa idoneità, tale attività deve potersi liberamente esplicare. Successivamente, anche l’ Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 28 gennaio 2015 n. 1 , ha avuto modo di ribadire il principio della inapplicabilità ai concorsi pubblici della « sanatoria introdotta dall’art. 4, comma 2-bis, della legge n. 168/2005, […] perché essa deve ritenersi ammessa soltanto per le varie ipotesi di procedimenti finalizzati alla verifica della idoneità dei partecipanti allo svolgimento di una professione il cui esercizio risulti regolamentato nell'ordinamento interno ma non riservato ad un numero chiuso di professionisti mentre va esclusa per le selezioni di stampo concorsuale per il conferimento di posti a numero limitato ”. Nel caso in commento, risulta che il Consiglio di Stato, quando si è pronunciato sul pregresso ricorso per l’annullamento della “bocciatura” nella prova preselettiva, consapevole di tale orientamento “restrittivo” sull’applicabilità specifica del principio dell’assorbimento, ma contemporaneamente consapevole anche degli effetti drastici derivanti dal respingere il ricorso nel merito a distanza di anni sulle carriere universitarie nel frattempo intraprese (nel caso di specie, la studentessa era divenuta, nelle more, dottoressa in medicina), aveva provato a chiedere al Ministero competente se, in considerazione della singolarità della vicenda, del tempo trascorso e dell’evoluzione degli accadimenti originata dai provvedimenti giudiziari di ammissione con riserva, ragioni di opportunità, buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa non avrebbero consigliato di confermare l’immatricolazione e lo scioglimento in senso favorevole della riserva della relativa iscrizione. In assenza peraltro di una “volontaria” presa di posizione in senso favorevole all’interessata da parte dell’amministrazione, e non sussistendo i presupposti per accogliere il ricorso della studentessa contro il mancato inserimento utile nella graduatoria prodromica all’iscrizione al corso di laurea, né per applicare nel caso in esame il cosiddetto principio dell’assorbimento, era conseguito il travolgimento di ogni effetto utile connesso alla frequenza del corso di laurea stessa, in quanto non dipendente da un accesso legittimo al corso universitario, alla luce della prova preselettiva non superata. Questo orientamento sull’ambito di applicabilità del principio di assorbimento è stato peraltro messo in discussione da altra giurisprudenza del Consiglio di Stato, richiamata a titolo paradigmatico nella sentenza n. 7071 del 2024 emessa dal medesimo Giudice di secondo grado . Nella questione affrontata nell'ambito del contenzioso definito con tale sentenza, si trattava del mancato superamento della prova preselettiva “eventuale” stabilita in un concorso per titoli ed esami , indetto da un’Azienda Ospedaliera Universitaria, per il reclutamento di n. 10 posti a tempo indeterminato nel profilo di collaboratore amministrativo. La prova preselettiva, da tenersi soltanto nel caso di numero elevato di domande, consisteva nella risoluzione di un test basato su una serie di quesiti a risposta multipla, estratti da apposito database pubblicato sul sito web dell’Azienda, con la precisazione che il punteggio conseguito alla preselezione non avrebbe concorso a determinare il punteggio complessivo assegnato all’esito delle prove concorsuali. In quel caso, pur essendo stato respinto il ricorso di primo grado e la domanda di misure cautelari monocratiche avverso la relativa sentenza, l’Azienda Ospedaliera interessata aveva sua sponte ammesso con riserva la candidata a sostenere la prova scritta del concorso, e la medesima candidata aveva poi superato tutte gli step previsti dalla procedura, fino alla stipula del relativo contratto di lavoro. Secondo il Consiglio di Stato, la questione attinente alla possibile applicazione del principio di assorbimento ad un caso del genere era stata posta in termini generali con l’ordinanza della Quarta Sezione del Consiglio stesso ( ordinanza 7 novembre 2002, n. 6102 ), che aveva chiesto all’Adunanza plenaria di precisare se il c.d. principio di assorbimento, determinando eventualmente l’improcedibilità del gravame, potesse essere esteso anche ad altri esami o a concorsi che prevedano una prova scritta ed una prova orale, e il Giudice amministrativo di appello, con decisione del 27 febbraio 2003, n. 3 , resa in Adunanza plenaria, aveva ritenuto applicabile il principio dell’assorbimento anche in questi casi. Era stato cioè chiarito “ che l’improcedibilità del ricorso o dell’appello potrebbe discendere dalla adozione di atti diversi e ulteriori (in sostanza un autonomo ripensamento in sede amministrativa sulla negata, in precedenza, ammissione) rispetto a quelli costituenti esecuzione della misura cautelare (o della sentenza) del giudice amministrativo. Tali nuovi atti determinano infatti l’assorbimento del precedente giudizio negativo espresso ”. Il Consiglio di Stato ha pertanto applicato il principio dell’assorbimento anche alla fattispecie esaminata nel caso ad esso sottoposto, pur trattandosi di prova inserita all’interno di una procedura concorsuale. D’altra parte, una parte della giurisprudenza ha ritenuto di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere in situazione similare a quella regolata dalla sentenza in commento (studentessa iscritta al corso di laurea a seguito di provvedimento cautelare e poi laureatasi nel corso del processo di merito), sul presupposto della constatazione che il superamento degli esami universitari comproverebbe la realizzazione della esigenza formativa cui era preordinata l’iniziativa giudiziale intrapresa e, quindi, il soddisfacimento dell’interesse sostanziale azionato in giudizio; inoltre, il permanere degli effetti giuridici del percorso accademico utilmente intrapreso dagli interessati si porrebbe in linea con il principio della conservazione degli atti giuridici e risulterebbe conforme all’interesse pubblico finalizzato al soddisfacimento del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo, posto che deve ritenersi meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico l’interesse a che gli esami non si svolgano inutilmente e che la lentezza dei processi non ne renda incerto l’esito, frustrando le legittime aspettative del privato , il quale abbia superato le prove di esame stesse. Al di fuori della cessata materia dichiarata in via giudiziale, peraltro, resterebbe soltanto un invito privo di vincolo conformativo, che riconosca il potere dell’Amministrazione di valutare, nell’esercizio del generale potere di autotutela , la sussistenza dei presupposti per l’eventuale convalida della carriera universitaria, anche considerando a tale fine l’ormai intervenuta e irreversibile consumazione di risorse pubbliche destinate alla formazione e la corrispondente e definitiva acquisizione da parte del ricorrente delle correlate competenze.
Autore: dalla Redazione 19 giugno 2025
Corte giust., Grande Sezione, 3.6.25, causa C‑460/23 La Corte di Giustizia si è trovata a dovere esaminare un rinvio pregiudiziale volto a chiarire la compatibilità di alcune norme unionali con i principi stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e teso, altresì, a definire, per quanto di interesse nel procedimento penale principale, la compatibilità di una norma incriminatrice interna con tali principi. Nella fattispecie concreta, così come trattata dinanzi al Giudice del rinvio, occorreva stabilire se una donna extracomunitaria, entrando con passaporti falsi sul territorio italiano, e portando con sé figlia e nipote minorenni, avesse per ciò solo commesso il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina . Il Tribunale resistente aveva in effetti chiesto chiarimenti su due possibili disallineamenti normativi: - l’eventuale contrasto tra il principio di proporzionalità di cui all’articolo 52 paragrafo 1 della Carta , letto congiuntamente al diritto alla libertà personale e al diritto al patrimonio di cui agli articoli 6 e 17, nonché ai diritti alla vita e all’integrità fisica di cui agli articoli 2 e 3, al diritto d’asilo di cui all’articolo 18 e al rispetto della vita familiare di cui all’articolo 7, e le previsioni della direttiva [2002/90] e della decisione quadro [2002/946] (attuate nell’ordinamento italiano con la disciplina di cui all’ articolo 12 T.U.I. ), nella parte in cui impongono agli Stati membri l’obbligo di prevedere sanzioni di natura penale a carico di chiunque intenzionalmente favorisca o compia atti diretti a favorire l’ingresso di stranieri irregolari nel territorio dell’Unione, anche laddove la condotta sia posta in essere senza scopo di lucro, senza prevedere al contempo l’obbligo per gli Stati membri di escludere la rilevanza penale di condotte di favoreggiamento dell’ingresso irregolare finalizzate a prestare assistenza umanitaria allo straniero; - l’eventuale contrasto tra il richiamato principio di proporzionalità e la previsione della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui sanziona la condotta di chi compie atti diretti a procurare l’ingresso illegale di uno straniero nel territorio dello Stato, anche laddove la condotta sia posta in essere senza scopo di lucro, senza escludere al contempo la rilevanza penale di ipotesi di favoreggiamento dell’ingresso irregolare finalizzate a prestare assistenza umanitaria allo straniero . In risposta a tali quesiti, la Corte di Giustizia ha innanzitutto riepilogato il quadro giuridico di riferimento, procedendo ad integrare, in quanto già implicitamente contenuti nell'essenza della motivazione del Giudice a quo , i parametri di riferimento utili per la verifica d'interesse. In particolare, il Giudice eurounitario ha evidenziato che a venire in rilievo per la soluzione dei quesiti posti dalla Corte nazionale, sono, nell’ambito della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non solo l' art. 7 , che garantisce ad ogni persona il diritto al rispetto della sua vita familiare, e l' art. 18 , relativo alla garanzia del diritto di asilo, ma anche l' art. 24 , che al paragrafo 1 dispone, in particolare, che i minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere, e, al paragrafo 2, prevede che l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private. Conseguentemente, se pure l' art. 1, par. 1, lett. a) della direttiva 2002/90 stabilisce che ciascuno Stato membro adotta sanzioni penali appropriate « nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri », tale articolo non può essere interpretato nel senso che rientri nei comportamenti illeciti da esso previsti la condotta di una persona che, in violazione del regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone, faccia entrare nel territorio di uno Stato membro minori cittadini di Paesi terzi di cui è effettivamente affidataria. A ciò osta innanzitutto l'esame degli obiettivi che la suddetta direttiva si propone, in quanto, anche se la formulazione aperta dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera a), sopra richiamato si presta a diverse interpretazioni, la condotta illegale di accompagnamento di minori di cui la straniera è affidataria costituisce non già un favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che la direttiva in questione mira a combattere, ma deriva dall’assunzione diretta, da parte di tale persona, della responsabilità che le incombe in quanto per l’appunto affidataria di detti minori. In altri termini, interpretare troppo estensivamente la norma eurounitaria in questione comporterebbe un’ingerenza particolarmente grave nel diritto al rispetto della vita familiare e dei diritti del minore , sanciti, rispettivamente, agli articoli 7 e 24 della Carta, al punto da pregiudicare il “contenuto essenziale” di tali diritti fondamentali, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. La lesione di tale contenuto essenziale deriverebbe dal fatto stesso di “criminalizzare” una condotta che non è altro che l’espressione particolare e concreta della responsabilità generale degli adulti sui minori ad essi affidati, in quanto, nel caso di specie, l’immigrato clandestino “ si limita, in linea di principio, ad assumere concretamente un obbligo inerente alla sua responsabilità personale, che si fonda sul suo rapporto familiare con detti minori, al fine di garantire loro la protezione e le cure necessarie al loro benessere nonché al loro sviluppo ”. D’altra parte, siffatta interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2002/90 si impone anche alla luce dell’articolo 18 della Carta, qualora la persona interessata, una volta entrata nel territorio dello Stato membro di cui si tratta, abbia presentato una domanda di protezione internazionale, così come avvenuto nel caso trattato dal Giudice a quo . Invero, il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra e conformemente al Trattato UE e al Trattato FUE, e l’applicazione della citata direttiva 2002/90 non pregiudica la protezione concessa ai rifugiati e ai richiedenti asilo e, in particolare, l’osservanza, da parte degli Stati membri, delle loro obbligazioni internazionali ai sensi, in particolare, dell’ articolo 31 della convenzione di Ginevra . Ed è anche in virtù di tali obblighi che deve essere riconosciuto il diritto di qualsiasi cittadino di un Paese terzo o di un apolide di presentare una domanda di protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro, comprese le sue frontiere o le zone di transito, anche qualora egli si trovi in una situazione di soggiorno irregolare in detto territorio, a prescindere dalle possibilità di successo della sua domanda. Sotto altro profilo, peraltro, l’interpretazione meno estensiva della disciplina eurounitaria sulla illiceità delle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è corroborata anche dal protocollo di Palermo sul traffico di migranti , protocollo che, all’articolo 2, si pone l’obiettivo di criminalizzare il traffico di migranti, proteggendo al contempo i diritti dei migranti stessi. Di certo, conclude la Corte di Giustizia, non si sottraggono, in tal modo, all’ambito di applicazione del diritto penale comportamenti che, sotto il pretesto di essere giustificati da legami familiari, perseguono, in realtà, altre finalità quali l’immigrazione clandestina, il lavoro illegale, la tratta degli esseri umani o lo sfruttamento sessuale dei minori, posto che esistono al riguardo altri strumenti complementari alla direttiva 2002/90 utilizzabili per contrastare le suddette finalità.
Autore: dalla Redazione 24 maggio 2025
Tribunale di Pescara, Sezione penale, sentenza n. 1555, depositata il 03/01/2025 IL CASO E LA DECISIONE Una signora veniva chiamata a rispondere del reato di cui all' art. 7 del d.l. n. 4/2019 , convertito in L. 26/2019, e di quello di cui all' art. 316-ter c.p. , perché, al fine di ottenere indebitamente il beneficio del c.d. reddito di cittadinanza , che poi effettivamente conseguiva, rendeva all'Inps dichiarazioni false o comunque ometteva la comunicazione di informazioni dovute. In particolare, non indicava nella apposita dichiarazione ISEE, per l'anno 2019, quattro immobili di proprietà, per un valore patrimoniale che, qualora dichiarato, avrebbe superato la soglia "fatidica" di € 30.000,00, oltre la quale il beneficio richiesto avrebbe dovuto essere negato. Il Giudice penale adito, all'esito del dibattimento di primo grado, ha ritenuto provata la responsabilità dell'imputata in ordine alle condotte a lei contestate, dal momento che l'accertata omissione aveva permesso all'interessata di lucrare indebitamente, nell'arco di tre anni, la somma complessiva di oltre novemila euro. Pur ritenendo che, sulla base della ratio delle fattispecie incriminatrici previste dall'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, la punibilità di tali condotte troverebbe applicazione indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio, il Tribunale procedente ha accertato che l'imputata non era in realtà legittimata in assoluto a percepire il reddito di cittadinanza, in quanto il valore dei quattro immobili sui quali aveva omesso qualsivoglia informazione le avrebbe impedito in concreto il riconoscimento del beneficio richiesto. D'altra parte, la tesi del diritto di proprietà acquisito in data successiva tramite pronuncia giudiziale era smentita, nei fatti, dall'esistenza di una scrittura privata di acquisto in favore della ricorrente di molto anteriore e dall'utilizzazione ininterrotta degli immobili in questione come '"casa vacanza". Quanto poi alla condotta di cui all'art. 316 ter c.p., il Giudice di primo grado ha ricordato che la stessa - punendo chiunque mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominati, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee - , non tiene conto della successiva destinazione delle somme indebitamente percepite , ed è dunque applicabile anche a erogazioni non condizionate da particolari vincoli funzionali, come sono i contributi assistenziali a cui è assimilabile il reddito di cittadinanza. D'altra parte, secondo il Tribunale penale di Pescara ci sono altre due considerazioni che fanno optare per l'interpretazione del termine " contributo " come riferibile anche alle erogazioni pubbliche assistenziali: ove escluse dall'ambito di applicazione della fattispecie di cui all'art. 316-ter c.p., le condotte illecite di indebita percezione di erogazioni assistenziali andrebbero sanzionate più gravemente, tramite l'applicazione congiunta del reato di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, e del falso ideologico in atto pubblico commesso dal privato (art. 483 c.p.); inoltre, la soglia minima di quattromila euro imposta dal comma 2 dell'art. 316-ter c.p. quale condizione di rilevanza penale del fatto non sarebbe giustificabile se la fattispecie si riferisse alle sole erogazioni di sostegno alle attività economico produttive. D'altra parte, per quanto attiene al calcolo del superamento della soglia quantitativa, il Giudice adito ha aderito all'orientamento secondo cui occorre tener conto della complessiva somma indebitamente percepita dal beneficiario , e non di quella allo stesso mensilmente corrisposta. L'imputata è stata infine condannata ad una pena finale (due anni e due mesi di reclusione) che ha tenuto conto della necessità di contestuale applicazione delle due norme oggetto di separata contestazione (art. 316 ter c.p. ed art. 7 D.L. 04/2019), trattandosi di un'ipotesi di concorso formale di reati e non di un concorso apparente di norme. In particolare, il Giudice adito ha ritenuto non coincidenti i beni giuridici tutelati dalle due norme, dal momento che l'art. 7 del d.l. 04/2019, è posto a tutela del dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico, mentre l'art. 316 ter c.p. presidia la libera formazione della volontà della P.A. , finalizzata alla corretta distribuzione delle risorse economiche. D'altra parte, l'imputata ha commesso un'unica condotta, da intendersi in senso giuridico e non naturalistico, implicando tale definizione di condotta la sussistenza cumulativa dei due requisiti della contestualità degli atti e dell' unicità dello scopo . Nel caso esaminato dal Tribunale di Pescara l'unitaria condotta realizzata era disvelata dal medesimo processo attuativo posto alla base dei due reati: presentazione dell'istanza per il reddito di cittadinanza, con contestuale omissione delle informazioni dovute sulla mancanza dei requisiti previsti per l'ottenimento del beneficio. Il Giudice adito ha inoltre escluso la concedibilità della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. , in virtù del principio giurisprudenziale, secondo cui, in presenza di un importo complessivo che superi di due volte la soglia di punibilità, la condotta penalmente rilevante non può configurare un'ipotesi di particolare tenuità del fatto. I REATI E LA RATIO Il reato di cui all'art. 7, comma 1 del d.l. n. 04/2019, conv. in L. 26/2019 , puniva - salvo che il fatto costituisse più grave reato - chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all' art. 3 del medesimo decreto, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che si tratta di un reato di condotta e di pericolo, a dolo specifico , diretto a tutelare l'amministrazione contro mendaci e omissioni circa l'effettiva situazione patrimoniale, reddituale e familiare da parte dei soggetti che intendono accedere al reddito di cittadinanza; è una disciplina correlata, nel suo complesso, al generale "principio antielusivo" che s'incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell' art. 53 Cost. , la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Carta costituzionale. In particolare, il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino e amministrazione , che sia ispirata alla massima trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a caso, un'ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative, e la sanzione penale costituisce la reazione da parte dell'ordinamento ad una forma di violazione del predetto patto di leale cooperazione. Occorre peraltro evidenziare che la fattispecie di reato in esame è stata abrogata, insieme alle altre norme sul reddito di cittadinanza, e a decorrere dal primo gennaio 2024, dal comma 318 dell'art. 1 della L. 29 dicembre 2022 n. 127 . Secondo la giurisprudenza di legittimità, peraltro, non possono riconoscersi effetti, prima del termine di efficacia indicato, all'abrogazione della fattispecie incriminatrice. Invero, prima dell'indicata data, è stato emanato il d.l. 4 maggio 2023, n. 48 , recante "misure urgenti per l'inclusione e l'accesso al mondo del lavoro", convertito con modificazioni dalla L. 3 luglio 2023 n. 85, il quale, dopo aver riproposto, all'art. 8, co. 1 e 2, previsioni punitive di natura penale per le false od omesse comunicazioni concernenti l'ottenimento o il mantenimento dei nuovi benefici economici previsti dagli artt. 3 e 12 della legge - previsioni sostanzialmente identiche a quelle già contenute nell'art. 7, co. 1 e 2, D.L. 4 del 2019 con riguardo al reddito di cittadinanza -, ha previsto, all'art. 13, comma 3 che «al beneficio di cui all'articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023». In merito, la Corte di cassazione (sentenza n. 5999 del 9 gennaio 2024-12 febbraio 2024) ha precisato che, se è vero che la "salvezza" dell'applicazione delle sanzioni penali previste a corredo delle norme sul reddito di cittadinanza per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina deroga al principio di retroattività della lex mitior altrimenti conseguente, ex art. 2, comma 2, c.p. , alla prevista abrogazione dell'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, questa deroga sarebbe in ogni caso sorretta da una ragionevole giustificazione, dal momento che assicura tutela penale all'erogazione del reddito di cittadinanza, in conformità ai presupposti previsti dalla legge, sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio. Quanto invece al reato di cui all' art. 316 ter c.p. , la ratio della norma consiste nella tutela della libera formazione della volontà della pubblica amministrazione o dell'Unione europea, con riferimento ai flussi di erogazione e distribuzione delle risorse economiche, e, ciò, al fine di impedirne la scorretta attribuzione e l'indebito conseguimento, con un meccanismo che sanziona l'obbligo di verità delle informazioni e delle notizie offerte dal soggetto che richiede il contributo: il tutto in un quadro di generale perseguimento dell'interesse collettivo nella collocazione finale del denaro pubblico, erogato (contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni) per i piani di realizzazione di singole politiche economiche e socio-culturali. Tanto, come recentemente ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 11969 del 28.11.24-26.3.25 ), sia con riferimento alla materiale elargizione di denaro, sia in assenza di tale materiale elargizione, quando il richiedente ottiene comunque un vantaggio economico posto a carico della comunità, indebitamente ottenendo, ad esempio, l'esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta. Il reato in questione è integrato dal dolo generico : l'agente deve essere consapevole della falsità del documento o della dichiarazione o dell'omissione di informazioni che sono dovute, della sua strumentalità rispetto all'erogazione e del carattere indebito della percezione. Tutti i suddetti elementi devono essere, del pari, oggetto di volizione da parte dell'agente, ivi compresa la soglia di cui all'art. 316 ter, comma 2, c.p., in quanto la stessa non è da considerarsi una condizione obiettiva di punibilità, ma un elemento costitutivo della fattispecie. Ove dunque l'agente non abbia la rappresentazione e la volizione di percepire una somma superiore a € 3.999,96 non è, quindi, integrato il dolo richiesto dalla norma incriminatrice e il fatto non costituisce reato. Occorre infine evidenziare che l'art. 316 ter c.p. contiene una clausola di riserva in favore dell'art. 640 bis c.p., da cui si distingue non sulla base della natura delle erogazioni rilevanti ma in relazione alla sussistenza o meno del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale. In altri termini, l’elemento distintivo tra i due reati consiste nel fatto che il citato art. 316-ter non presuppone che l’ente leso sia stato indotto in errore, essendo quest’ultimo chiamato solo a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati, e non a compiere un’autonoma attività di accertamento. Sotto diverso, concorrente profilo, il delitto di cui all’art. 316-ter c.p. richiede una mera esposizione di dati non veritieri ovvero omesse informazioni che invece sono dovute, con esclusione, quindi, di quel quid pluris costituito da una vera e propria condotta fraudolenta . Integra, ad esempio, la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che, percependo periodicamente l'indennità di disoccupazione prevista per legge, ometta di comunicare all'Istituto erogante (I.N.P.S.) l'avvenuta stipula di un contratto di lavoro subordinato e conseguente assunzione, così continuando a percepire, indebitamente, la suddetta indennità.
Autore: a cura di Federico Smerchinich 22 maggio 2025
Il tema delle concessioni demaniali marittime è un leitmotiv che sta accompagnando il diritto amministrativo e la giurisprudenza nazionale ed eurounitaria nel corso degli ultimi anni. Difatti, la difficoltà di conciliare l’uso di beni pubblici in grado di garantire un guadagno, con la concorrenza sul mercato tra gli operatori interessati a gestire detti beni, sta portando a soluzioni interpretative non sempre allineate tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Tutto nasce dalla vicenda che ha visto coinvolta una società titolare di una concessione demaniale marittima, avente in gestione uno stabilimento balneare in Salento, la quale, dopo avere ottenuto, in un primo momento, la proroga della concessione in essere per la durata di 13 anni ai sensi dell’ art. 1 commi 682 e 683 della Legge 145/2018 (fino al 2033), aveva poi subito l’annullamento in autotutela di tale titolo. L’amministrazione comunale di pertinenza dello stabilimento balneare aveva infatti disposto l’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della Legge 241/90 del provvedimento di proroga sopra citato, in quanto ritenuto adottato in violazione del diritto eurounitario e della cosiddetta “direttiva servizi”. In particolare, il Comune interessato aveva ritenuto di dovere disapplicare la normativa nazionale che, in contrasto con il diritto cogente dell’Unione europea, aveva disposto un’ulteriore proroga ex lege delle concessioni demaniali in vigore, dal primo gennaio 2021 al 31 dicembre 2033. Tale provvedimento era stato impugnato dalla società interessata davanti al Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, e annullato ad esito del relativo giudizio dal tribunale salentino, per violazione della normativa nazionale vigente e per eccesso di potere; in particolare, secondo i Giudici in parola, sarebbe stato erroneo il convincimento di ritenere ormai consolidato il principio secondo cui la disapplicazione della norma nazionale confliggente con il diritto dell’unione europea - a maggior ragione se tale contrasto sia stato accertato dalla Corte di Giustizia UE -, costituirebbe un obbligo anche per l’apparato amministrativo dello Stato membro, qualora questo sia chiamato ad applicare una norma interna contrastante con il diritto comunitario. [1] Successivamente, il Presidente del Consiglio di Stato ha rimesso di ufficio all'Adunanza Plenaria la decisione in ordine alla questione della proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative . In particolare, essendo stato ritenuto che la fattispecie relativa alla doverosità o meno della disapplicazione, da parte dello Stato in tutte le sue articolazioni, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative configuri « una questione di massima di particolare importanza », il Presidente del Consiglio di Stato ha deferito all'Adunanza Plenaria l'appello pendente presso la Quinta Sezione del Giudice amministrativo di appello, con il numero di r.g. 1975/2021, proposto dal Comune di Lecce, per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, n. 73/2021 . La sentenza di primo grado oggetto della controversia deferita all'Adunanza Plenaria era stata peraltro emessa sulla scia della giurisprudenza inaugurata dal Tribunale amministrativo salentino proprio con la sentenza n. 1321 del 2020, sopra citata. Investita dunque della questione, l'Adunanza Plenaria ha ribadito il principio secondo cui il diritto dell'Unione europea impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all'esito di una procedura di evidenza pubblica , con conseguente incompatibilità, sia rispetto all' art. 49 del TFUE che rispetto all' art. 12 della cosiddetta "direttiva servizi" (anche nota come direttiva "Bolkestein" ) della disciplina nazionale che prevede(va) la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere. In particolare, l’Adunanza plenaria ha deciso di non disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE in merito alla questione esaminata, ricorrendo, nel caso di specie, una delle situazioni in presenza delle quali, in base alla c.d. “giurisprudenza Cilfit”, i giudici nazionali di ultima istanza non sono sottoposti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. La questione controversa era stata, infatti, già oggetto di interpretazione da parte della Corte di giustizia e gli argomenti invocati per superare l’interpretazione prcedentemente resa dal giudice europeo non erano in grado di sollevare ragionevoli dubbi, come confermato anche dal fatto che i principi espressi dalla sentenza Promoimpresa sono stati recepiti da tutta la giurisprudenza amministrativa nazionale sia di primo che di secondo grado, con l’unica isolata eccezione del T.a.r. Lecce, il quale, peraltro, più che mettere in discussione l’esistenza di un regime di evidenza pubblica comunitariamente imposto cui sottoporre il rilascio o il rinnovo della concessioni demaniali, aveva negato la sussistenza di un potere di non applicazione in capo agli organi della P.A., toccando, quindi, una questione sulla quale esistono orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) ancor più consolidati e granitici. In effetti, quanto alla doverosità o meno della disapplicazione , da parte della Repubblica Italiana, delle leggi statali o regionali che prevedano proroghe automatiche e generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (con particolare riferimento alla sussistenza dell’obbligo, per l’apparato amministrativo e per i funzionari dello Stato membro, di disapplicare la norma nazionale confliggente col diritto dell’Unione europea, e all'interrogativo se detto obbligo, qualora sussistente, si estenda a tutte le articolazioni dello Stato membro, compresi gli enti territoriali, gli enti pubblici in genere e i soggetti ad essi equiparati), l’Adunanza plenaria ha ribadito che l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing . Una previsione importante della sentenza riguardava poi la fissazione al 31.12.2023 del termine in cui sarebbero rimaste vigenti le concessioni demaniali marittime già efficaci. Secondo l'Adunanza plenaria, tale termine teneva conto del fatto che una dichiarazione immediata di illegittimità delle concessioni in atto avrebbe comportato effetti negativi sui concessionari. Scaduto il termine, tutte le concessioni demaniali sarebbero state prive di effetto, indipendentemente dal fatto se vi fosse stato o meno un subentrante nella relativa concessione. Successivamente, tuttavia, Il Parlamento ha introdotto, in sede di conversione del cosiddetto decreto milleproroghe per l’anno 2023 (“ Disposizioni urgenti in materia di termini legislativi ”), alcune norme che hanno di fatto sterilizzato il dictum del Consiglio di Stato (e di tutti gli altri Giudici che fino ad oggi si sono pronunciati), così come recepito nella legge annuale per il mercato e la concorrenza promulgata nell’agosto del 2022. Erano due, in particolare, le norme che apparivano direttamente e frontalmente in contrasto con il diritto dell’Unione europea, così come faticosamente compendiato nelle pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 17 e 18 del 2021. La L. n. 14 del 24 febbraio 2023 ha infatti disposto, da un lato, con l’ art. 10-quater, comma 3 , la proroga di un ulteriore anno del termine di scadenza delle concessioni in essere (che la legge n. 118 del 2022 aveva stabilito al 31 dicembre 2024, ma soltanto in caso di difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura selettiva di assegnazione della concessione), e, dall’altro, con l’introduzione del comma 4-bis nell’art. 4 della L. n. 118/2022, il divieto per gli enti concedenti di procedere all'emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive fino all'adozione dei decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia di tali concessioni. Anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, veniva peraltro disapplicata dal Consiglio di Stato, ponendosi in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva Bolkesten . [2] Quando poi l’art. 1 comma 1 lett. a) n.1.1 del d.l. n. 131/2024, convertito in legge n. 166/2024 interviene per differire al 30.09.2027 il termine finale di durata dei titoli concessori, ecco che il Tar Liguria, investito di una controversia nata dalla decisione della Giunta comunale di Zoagli di confermare la scadenza al 31.12.20023 delle concessioni "balneari" [3] , si produce in un’applicazione lineare e piana delle norme attualmente vigenti e degli orientamenti della Corte di Giustizia UE che sono diritto vivente e vincolante nel nostro ordinamento. Difatti, il TAR opta ancora una volta per la disapplicazione della norma che consente la proroga delle concessioni demaniali marittime, in quanto contrastante con il diritto unionale e non coperta da altre fonti normative in grado di darle legittimazione (né da presunti accordi tra Commissione europea e Stato italiano). Una disapplicazione che garantisce l’effettività dell’azione della pubblica amministrazione, semplificando la vicenda e consentendo al Comune di proseguire il suo iter. La scelta del TAR, che del resto è in linea con l’attuale andamento della giurisprudenza amministrativa in materia, risolve nella pratica uno dei problemi che affligge il diritto amministrativo italiano: la superfetazione normativa e il continuo proliferare di leggi che si sovrappongono nella medesima materia non dando certezza alle pubbliche amministrazioni e agli operatori del settore. Una sovraproduzione normativa che, perlomeno nel settore delle concessioni demaniali, è frutto di almeno due ordini di ragioni. Da una parte, la necessità dell’esecutivo di adeguarsi ai dictat della Corte di Giustizia UE e della Commissione europea, dall’altra, la difficoltà di adeguare le scelte politiche al sistema delle concessioni balneari e alle esigenze di operatori del settore che per decenni hanno agito in un certo modo e, ora, si ritrovano a doversi riorganizzare e a ripianificare la loro attività nel rispetto dei principi di concorrenza . Nel contesto appena descritto, un ruolo fondamentale è giocato dalle pubbliche amministrazioni che, sempre più spesso, si ritrovano a dover agire nel rispetto di una normativa poco chiara e che non sempre consente di attuare gli interessi pubblici. Non a caso, si sta assistendo in molti luoghi ad aree demaniali che vengono chiuse dalle amministrazioni locali per la stagione in corso, in quanto non si è stati in grado di portare a compimento le gare o di avere soggetti in grado di gestire il compendio concessorio conformemente alle condizioni richieste dagli Enti locali stessi. E ciò, anche in considerazione del fatto che la varietà della morfologia delle coste italiane rende difficile immaginare una disciplina unitaria ed effettivamente paritaria che riguarda criteri selettivi, indennizzi, gestione del bene. Ad ogni modo, la soluzione seguita nel recente arresto del Tar Liguria a favore della gara pubblica e della concorrenza è condivisibile, in quanto tali principi debbono sempre prevalere su norme che pongono deroghe o proroghe. Difatti, nell’attuale sistema del diritto amministrativo in materia di beni demaniali , deve accettarsi il cambiamento di paradigma del sistema, orientato non alla continuità dello stesso concessionario, ma al ricambio e alla ricerca della qualità attraverso la competizione concorrenziale. Leggendo in tali termini le norme di questa materia, i Giudici aditi non fanno altro che certificare questo mutamento di visuale e di approccio al mondo delle concessioni, con decisioni che valorizzano una lettura teleologica delle norme che consentono le proroghe, ritenendole eccezionali e applicabili solo in presenza di particolari e oggettive condizioni ostative all'organizzazione di una gara pubblica. D’altronde, se gli Enti locali sono stati virtuosi e hanno correttamente avviato le procedure di gara, non si rileva alcuna ragione per cui l’interesse a proseguire in proroga del privato concessionario uscente debba prevalere sull’interesse pubblico ad affidare la medesima concessione tramite procedure competitive e trasparenti. [1] Sentenza n. 1321 del 27/11/2020, commentata su questo sito al seguente link: https://www.primogrado.com/concessioni-demaniali-il-tar-puglia-lecce-mette-in-discussione-il-primato-e-lefficacia-diretta-delle-norme-del-diritto-dellunione-europea [2] Consiglio di Stato, sentenza n. 1192 del 1 marzo 2023 [3] Si tratta della sentenza n. 183 del 2025, commentata sul sito al seguente link: https://www.primogrado.com/concessioni-demaniali-e-proroga-al-2027-il-caso-liguria