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Deontologia del magistrato e uso dei social media. Limiti alla “socialità” del giudice amministrativo

dalla Redazione • feb 06, 2021

Deontologia è un termine filosofico coniato a cavallo tra il 1700 e il 1800, con cui si indica oggi lo studio empirico di determinati doveri in rapporto a particolari contesti sociali, e, ancora più comunemente, l’insieme delle norme “interne” riguardanti i diritti e i doveri di alcune delicate professioni (a cominciare da quella medica).

Più in generale, si usa il termine “deontologia” per indicare il complesso delle norme di comportamento che disciplinano l’esercizio di una professione.

Tali norme di comportamento possono a volte ricavarsi implicitamente dalle sanzioni previste dalla legge per determinati illeciti commessi nell’esercizio dell’attività professionale o che ledono, anche se realizzati in un contesto “esterno”, il prestigio degli appartenenti a quella collettività, ma più spesso appartengono, con sfumature diverse ma non sempre facilmente intuibili, a codici etici e deontologici di cui si dotano spontaneamente le categorie professionali che operano in un ambito in cui sono necessarie scelte di particolare valore morale e sociale.

Tra le categorie che necessitano di regole deontologiche chiare e mirate, ha sicuramente un’importanza strategica, per il rilievo e l’impatto che ha sull’opinione pubblica e sulla vita della collettività, quella dei magistrati.

Il magistrato – qualunque sia il suo campo di elezione (diritto civile, penale, amministrativo, contabile) – ha ricevuto dalla Costituzione repubblicana, allo stesso tempo, un grande onore e un gravoso onere.

L’onore è costituito dalla garanzia dell’indipendenza da ogni altro potere, l’onere è rappresentato dalla necessità di difendere l’investitura di indipendenza e la conseguente presunzione di imparzialità anche nella sua immagine quotidiana e per così dire privata.

Un giudice (o un pubblico ministero) che offre nella vita di tutti i giorni (anche se al di fuori dell’attività lavorativa) una immagine negativa di sé, o che manifesta in concreto assenza di equilibrio e carenza di equidistanza dai possibili attori della vicenda processuale, perde automaticamente agli occhi della collettività il suo prestigio, trascinando “sul fondo” anche la sua patente di imparzialità e la credibilità delle sue decisioni.

Se tuttavia, in passato, il cattivo magistrato era riconoscibile soltanto all’interno di una comunità limitata di persone, per la scarsa circolazione delle notizie e la minore pervasività dei mezzi di comunicazione – e fatta eccezione per il coinvolgimento in vicende particolarmente gravi e di rilievo nazionale -, oggi non è più così.

Oggi un magistrato può perdere la sua credibilità anche soltanto con un uso inappropriato dei social media

Il Presidente della Repubblica Mattarella, a margine dell’inaugurazione dei corsi di formazione per il 2019 della Scuola superiore della Magistratura, ha richiamato i magistrati a gestire con “prudenza e discrezione” questi strumenti di comunicazione, che, in caso contrario, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati, e offuscare la credibilità e il prestigio della stessa funzione giudiziaria.

Anche la Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa, con l’adozione della sua “Guida alla Comunicazione ai Media ed al Pubblico da parte dei Tribunali e delle procure”, dopo avere premesso che in un mondo a forte “trazione comunicativa” ogni presunto errore è suscettibile di ricevere un'ampia attenzione - con possibili conseguenze dannose per le istituzioni e coloro che le rappresentano -, ha messo in guardia il magistrato dai rischi dell’uso dei social media.

Tali strumenti di comunicazione, a fronte del vantaggio di raggiungere immediatamente il target di chi comunica, presentano degli innegabili svantaggi connessi alla loro modalità di interlocuzione “diretta e aperta”, quali l'impoverimento delle informazioni, l’innesco di una discussione che è poi difficile da seguire, messaggi banalizzati e la difficoltà di correggere eventuali errori originali, che verranno pubblicati senza limiti.

Occorre a questo punto distinguere tra comunicazione del mondo giustizia e comunicazione del singolo magistrato.

Quanto alla comunicazione istituzionale, la tendenza alla sua implementazione è intrinsecamente collegata alla crescente necessità di trasparenza di tutte le attività pubbliche; ed è proprio tramite la trasparenza che il sistema giudiziario promuove di sé un’immagine positiva e acquisisce la fiducia e il rispetto dei cittadini, sentimenti che crescono con la comprensione dell'attività svolta nelle aule dei Tribunali.

Il tema, per i magistrati ordinari, è stato messo a fuoco dalle “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale” adottate dal CSM nel luglio del 2018, e volte specificamente ad orientare l’organizzazione degli uffici giudiziari verso un’informazione pubblica efficace e una corretta comunicazione istituzionale.

Di rilievo, l’espressa menzione, tra le modalità di comunicazione degli uffici requirenti di merito (procure della Repubblica e procure generali presso le corti d’appello) della possibilità di “ricorso a strumenti web e social”.

Il presupposto implicito di tale linee guida pare essere quello della gestione impersonale della comunicazione istituzionale, in relazione alla necessità, immanente al sistema, che il magistrato-persona, ad eccezione dei casi in cui l’uso dei servizi informatici e telematici sia autorizzato per ragioni di servizio, debba astenersi dall’utilizzare i social media per attività concernenti il proprio ufficio, evitando nel modo più assoluto di comunicare con le parti e con i loro rappresentanti o difensori.

Quanto invece alla libertà di espressione del singolo magistrato al di fuori del contesto di comunicazione istituzionale, l’uso, il luogo e i tempi del linguaggio sono connessi alla rilevanza o meno per l’attività giudiziaria in corso dell’oggetto della comunicazione.

Normalmente, i giudici si pronunciano con le sentenze e in udienza – con l’obiettivo ideale di esprimersi già in tali sedi in modo pertinente, corretto, chiaro e comprensibile -, ma, ovviamente, potrebbero essere stimolati a intervenire anche al di fuori del processo su questioni di cui si occupano o si possono in futuro occupare.

Il tema non desta però particolari complessità, sotto il profilo deontologico, perché risulta pacifica l’assoluta inopportunità, spesso peraltro formalmente sanzionata, di comunicazioni pubbliche in cui un giudice si “pronunci” su affari in corso che lo riguardano o che lo potranno riguardare.

Così come resta del tutto inopportuno che il magistrato esprima pareri personali sui protagonisti di vicende giudiziarie di cui si sta occupando o si è occupato, dal momento che, come ha giustamente sottolineato poco tempo fa Aldo Grasso sul Corriere on-line, commentando dichiarazioni estemporanee di un Giudice impegnato nel caso Gregoretti, “i cittadini davanti a un giudice non possono dire parliamo d’altro”, e così un giudice in pubblico dovrebbe “parlare con gli atti, non parlare d’altro”. 

Se invece la comunicazione del singolo magistrato sui social media non ha ad oggetto o non è collaterale ad attività giudiziaria in corso o di possibile futura competenza del magistrato stesso, o comunque si esplica in diversi ambiti sociali e personali, l’applicabilità di regole deontologiche che limitino la libertà di espressione diventa faccenda più delicata.

La questione si pone su due diversi livelli.

Sotto un primo profilo, più teorico, occorrerebbe verificare fino a quale punto le regole deontologiche possono comprimere l’esercizio del diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero, ivi compreso il diritto di critica; al riguardo, la Corte costituzionale e la giurisprudenza di legittimità insegnano che il magistrato ha un limite in più rispetto a tutti gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico: tale limite è costituito dal necessario rispetto anche dei valori costituzionalmente tutelati dell’indipendenza, dell’imparzialità e della credibilità della funzione giudiziaria.

Il sindacato derivante da questa diversa modulazione della libertà di espressione è normalmente volto a verificare l’esercizio anomalo e/o l’abuso dei social media, e ha come parametro di valutazione l’esigenza di un più pregnante senso di autodisciplina e di autocontrollo, rispetto alla generalità, da parte del singolo magistrato, per il delicato ruolo istituzionale svolto.

Sotto un profilo più concreto, la violazione delle regole deontologiche può comportare risvolti disciplinari.

Per il magistrato ordinario, l’individuazione di ipotesi tassative di illeciti disciplinari consente e ha consentito al CSM, dopo la riforma Castelli, di attingere, per le valutazioni disciplinari di competenza, agli obblighi di “condotta extra-funzionale” stabiliti dal d.lgs. n. 109 del 2006, con limitazione parziale delle negative conseguenze di rilievo disciplinare discendenti da manifestazioni private, quali commenti, critiche, post, apposizione di simboli di assenso o riferimenti a momenti di vita vissuta, pubblicate sui social media.

In altri termini, non tutti i comportamenti privi di equilibrio, dignità e misura - che astrattamente sono in grado di compromettere l’immagine del magistrato e della funzione giudiziaria, sia sotto il profilo della credibilità che sotto quello della imparzialità - integrano la commissione di un illecito disciplinare da parte del magistrato ordinario, in quanto la tipizzazione degli illeciti ha avuto l’effetto di selezionare la fattispecie sanzionabili.

Per il giudice amministrativo, invece, la questione dei risvolti disciplinari discendenti dalle violazione di regole deontologiche è resa più complessa dall’assenza di tipizzazione delle condotte punibili disciplinarmente.

Accanto al generico precetto di cui all’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, secondo cui è soggetto a sanzioni disciplinari “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario”, dovrebbe astrattamente essere attribuita una essenziale funzione di supporto alle disposizioni dei codici etici di autoregolamentazione, la cui redazione è ordinariamente di competenza delle associazioni di categoria.

Ma anche l’organo di autogoverno, nell’esplicazione legittima ed estensiva dei suoi poteri di intervento sullo stato giuridico e disciplinare dei magistrati, può delineare regole di condotta che, pur non rappresentando nuove fattispecie di illecito, vadano ad integrare e a dare sostanza alle clausole generiche di inosservanza dei “doveri”, lesione della “fiducia” nel singolo magistrato o compromissione del “prestigio dell'ordine giudiziario”.

Il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa ha già fatto uso di tali poteri, ad esempio, disponendo che “integra illecito disciplinare, da parte del magistrato amministrativo, il ritardo grave nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” (delibera del 15 gennaio 2016).

Lo stesso organo di autogoverno ha stabilito che la violazione reiterata da parte dei Presidenti, per due volte nell’arco dell’anno, dei criteri sui carichi di lavoro dei magistrati amministrativi “rileva sotto il profilo disciplinare” (delibera del 18 gennaio 2013).

D'altra parte, l'art. 54, comma 4 del d.lgs. n. 165 del 2001 (con cui è stato parzialmente riprodotto l’art. 58-bis, comma 4 del d.lgs. n. 29 del 1993), se pure esplicitamente prescrive alle associazioni di categoria l'adozione di un codice etico "a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata", prevede pure che, in caso di inerzia, il codice sia adottato dall'organo di autogoverno.

Per i magistrati amministrativi facenti parte del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali esistono due distinti codici etici, approvati nel 1994.

Al di là della singolare previsione di legge introdotta dal legislatore del 2001, secondo cui dovrebbero aderire ad un codice redatto da un'associazione di categoria tutti i magistrati appartenenti ad un determinato plesso, anche se non iscritti a quell'associazione (singolarità che diventa ancora più eccentrica se si pensa al fatto che, ad esempio, nella magistratura amministrativa non esiste un'unica associazione di categoria), i due testi del 1994 contengono entrambi una previsione che tiene conto della natura elastica di regole che devono adattarsi, più di altre, ai mutamenti della società: infatti, nei casi in cui sorgano dubbi interpretativi circa le disposizioni del codice etico, ovvero si verifichino situazioni nuove o si prospettino comunque situazioni di difficile soluzione, i magistrati devono rimettere la questione al Presidente del Consiglio di Stato, se sono consiglieri di Stato, o al Consiglio di Presidenza, se sono giudici di primo grado.

Come visto, la previsione di un codice etico non ha di per sé conseguenze irrilevanti sotto il profilo disciplinare, nel momento in cui la fattispecie di condotta passibile di punizione è talmente ampia (come nel caso dell'art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946) da renderne necessaria l'integrazione e specificazione con altre regole che, individuando in termini precisi una delle possibili realizzazioni in concreto della violazione di natura generale, aiutino l'interprete nella sua attività di valutazione del disvalore della condotta stessa.

Si crea così un meccanismo secondo cui la violazione di una norma del codice etico fa presumere una violazione della regola di condotta disciplinare, salvo dimostrazione del contrario.

Analizzando la giurisprudenza della Sezione disciplinare del CSM ante riforma del 2006, peraltro, si scopre - come forse intuibile già dalla diversa valenza delle due sfere applicative (ambito deontologico e ambito disciplinare) -, che non sempre la violazione di una norma etica costituisce di per sé violazione del principio di imparzialità, credibilità e indipendenza della funzione giudiziaria.

Si è detto, ad esempio, che la violazione degli obblighi di aggiornamento professionale e di oculata utilizzazione delle risorse - fatti salvi gli eventuali profili di rilievo penale o contabile - non è in grado di superare quel "minimo etico" oltre il quale la trasgressione etico-professionale diventa rilevante anche ai fini disciplinari.

Qui si coglie appieno il salto di "rilevanza" che un utilizzo inappropriato dei social media può fare realizzare a certi comportamenti che in passato avrebbero potuto risultare indifferenti, sul piano delle trasgressioni disciplinari contestabili ai magistrati.

Bisogna innanzitutto partire dal presupposto che i messaggi impliciti ed espliciti che provengono da un ben identificato e identificabile profilo pubblico - come può essere quello di elezione personale su un social network - costituiscono una formidabile cassa di risonanza, in ragione della potenziale percepibilità, da parte di una pluralità indefinita di utenti della rete, della lesione ai valori di imparzialità e credibilità del magistrato e, nei casi più gravi, della compromissione del prestigio di tutta la sua categoria professionale. 

Pensiamo ad esempio alla spinosa questione delle “amicizie” su Facebook. Fermo restando che l'esistenza di determinate, significative relazioni personali può far scattare il dovere di astensione del magistrato negli specifici episodi processuali in cui le sue amicizie sono coinvolte – con questione da valutare caso per caso -, quid iuris nell’ipotesi in cui l'avvocato o una potenziale parte di un processo si avvalgano preventivamente, per ottenere benefici extragiudiziali magari indebiti, della loro “conclamata” amicizia su Facebook con il magistrato che svolge le funzioni nella circoscrizione di interesse?

Quanta pressione può esercitare su controparte (avvocato o cliente poco importa) l'esistenza di legami consolidati sul territorio tra avvocati o esponenti di rilievo della società civile e magistrati?

Se il problema, da un lato - sotto il profilo della imparzialità del magistrato -, sembra astrattamente risolvibile con lo strumento della ricusazione (che anzi l'esistenza di un rapporto riconosciuto e riconoscibile in rete rende più semplice la prova della situazione di incompatibilità), dall'altro - sotto il profilo della credibilità e del prestigio dell'intera magistratura -, si complica e non poco.

La ramificazione e la pubblicità di intrecci personali minano alla base lo stesso valore dell'indipendenza e imparzialità dei magistrati.

Nel codice etico dei consiglieri di Stato (adottato, come visto, molto prima dell'avvento dei social network) c'è un espresso riferimento ai rapporti di amicizia con gli avvocati. Tale riferimento, che è stato peraltro introdotto nel 2007, quando Facebook già esisteva, sembra alludere alla necessità di un'attenta valutazione ad opera dei magistrati nella scelta preventiva delle “amicizie forensi”, e a una non illimitata possibilità di esercitare tale opzione: se infatti l'amico avvocato dovesse tradire la fiducia a lui accordata, utilizzando il suo credito affettivo con i potenziali clienti, al magistrato resterebbe come unica strada, se non vuole incorrere in una trasgressione di natura deontologica, quella di interrompere il rapporto di amicizia.

Nel codice etico dei magistrati amministrativi dei TAR vi è invece una clausola generale di buona condotta, secondo cui "i magistrati evitano manifestazioni di familiarità e confidenza con gli altri protagonisti del processo".

Risulta a questo riguardo senza dubbio attuale e quanto mai necessaria un’integrazione e un aggiornamento di questa clausola generale – poco importa se ad opera delle associazioni di categoria o dell’organo di autogoverno, nell’esercizio delle rispettive prerogative -, che tenga conto delle potenzialità diffusive dei social media e che concretizzi meglio i concetti 2.0 di “familiarità” e “confidenza”.

Vi è poi il problema dell'uso dei nuovi mezzi di comunicazione sul web ai fini di promozione della propria immagine o di svolgimento di attività economiche al di fuori delle finalità istituzionali.

Fino a che punto il giudice amministrativo - che spesso vive, più del magistrato ordinario, la gestione del proprio lavoro, da un lato, in condizioni di solitudine, dall’altro, in costante contatto con tematiche di attualità, giudicando sulla legittimità dell’esercizio dei pubblici poteri - può ergersi nel tempo libero a leader o fan incallito di discutibili comunità di internauti, o comunque ricavare profitto dalla valorizzazione della propria immagine sul web?

Il tema incontra, su quest’ultimo versante, dei limiti scontati, in connessione con i divieti e le specifiche restrizioni vigenti sull’esercizio di attività commerciali o sugli incarichi non compresi nei compiti e nei doveri di ufficio del magistrato stesso.

Tuttavia, sotto il diverso versante dei limiti di espressione di un giudice amministrativo che si trasforma in opinion leader o influencer, si torna ad identificare tali limiti con la generica necessità di tutela, da parte del singolo magistrato, della imparzialità e indipendenza proprie della sua funzione, con esclusione della liceità – quanto meno sotto un profilo disciplinare - di ogni manifestazione del pensiero che tenda a minare la credibilità del proprio particolare status e/o delle istituzioni che egli rappresenta.

In particolare, su temi di interesse pubblico che possono essere coinvolti nelle decisioni attuali o future di un Giudice amministrativo, la regola deontologica primaria da seguire dovrebbe essere quella di astenersi il più possibile dal manifestare “opinioni radicali”.

Vi è infine la problematica scottante del linguaggio da usare sui social media.

Se per un comune utente i limiti della continenza espressiva sono quelli ordinariamente connessi alla necessità di non incorrere in fattispecie diffamatorie, al magistrato (in qualunque ramo del diritto questi esplichi la sua attività istituzionale) si chiede un linguaggio ancora più cauto e misurato, specie in relazione al contenuto oggetto di diffusione.

E ciò, perché la veemenza espressiva nel difendere determinate tesi piuttosto che altre può indurre nella collettività di riferimento la convinzione (ma basta anche il solo sospetto) che possano mancare nel giudice i necessari requisiti di equilibrio e di assenza di faziosità, che costituiscono, secondo alcuni, e forse non a torto, le precondizioni dell'arte del giudicare.

E’ dunque indubbio che i social media costituiscano una potenziale e insidiosa “trappola” per un magistrato poco attento o troppo disinvolto; ma è altresì vero che, al contrario, un uso accorto e non egoistico o egocentrico di tali strumenti di comunicazione, per le loro indubbie potenzialità diffusive e di convincimento, può servire a spiegare il valore della giurisdizione nella società, a fornire opportuni elementi di comprensione che confermino o invalidino tesi giornalistiche, e infine a riaffermare il senso dell’indipendenza dei giudici, ricordando le implicazioni concrete del principio di separazione tra i poteri e rafforzando, con prese di posizione sobrie ma argomentate, l’immagine complessiva del sistema giustizia.



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