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Spigolature 5. Nichilismo e processo

Sergio Conti • dic 31, 2022

Continuando sul tema “nichilismo giuridico”, segnalo lo scritto – del 2015, ma che mi pare di permanente attualità- di P. Proto intitolato “Il nichilismo giuridico e sue implicazioni nel diritto processuale civile. Schizzi di ragionamenti“ pubblicato sulla rivista Judicium (rinvenibile all'indirizzo: https://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/612/P.%20Proto.pdf ) che disamina, in modo particolare, i risvolti di tipo processuale del nichilismo giuridico.

Come di consueto, al fine di attrarre l'attenzione e stimolare così alla lettura integrale del testo, estrapolo due passaggi del saggio: uno filosofico e l'altro processuale.


L’incipit è dato dalla perdita di centralità dell’uomo moderno e dell’Occidente europeo in particolare, consapevole della inesistenza di valori cosmologici, certi ed immutabili, provenienti e posti da un ente che sta al di sopra e al di fuori di lui.

Il processo di svalutazione dei valori non ha risparmiato il diritto, fenomeno umano per eccellenza.

La perdita di senso e del sé collide o compromette non poco la proposta concezione del diritto come fenomeno umano e sociale che preesiste alla legge che a sua volta lo presuppone. Un diritto incentrato sull’uomo e sui valori della persona viene negato e annullato proprio da quella perdita del sé nella sua unitarietà.

Alla prassi sociale ed al linguaggio, fenomeni evidenzianti dei valori giuridici si contrappongono i sistemi funzionali dei mercati e delle tecnoscienze e la condizione umana dell’essere ridotta a quella di un individuo privo di capacità relazionale e comunicativa.

Di conseguenza i processi di interazione e di interrelazione tra individui e tra questi ed i gruppi e tra i gruppi stessi che animano la prassi sociale ed il linguaggio perdono significato perché l’essere destrutturato è atomizzato in una serie di io privo di volontà ed assoggettato alla volontà di potenza sistemica dei mercati finanziari.


Lo scopo e la funzione del diritto si rivela massimamente nel processo.

L’interpretazione giudiziaria coglie il valore giuridico nel momento ultimo della realizzazione. Essa è chiamata ad adattare l’effetto giuridico astrattamente previsto dalla norma alla situazione fattuale oggetto concreto della controversia.

La sentenza è l’atto determinativo finale del procedimento. Essa è la norma. La domanda è: il tipo o la natura di sentenza che si vuole e quindi il tipo di giustizia che in essa deve riflettersi e che da essa si pretende.

La risposta implica la disamina di alcune fasi processuali perché è funzionale ad accertare il “come” ovvero il “quomodo” con cui si arriva alla sentenza e che a sua volta incide in modo determinante sul risultato della sentenza medesima, ovvero, il suo “perché”.

Secondo il modello giusformalistico Kelseniano la sentenza come la legge è un contenitore e il dispositivo o la statuizione un fenomeno secondario. Viene dato rilievo alla correttezza del procedimento dal quale origina la sentenza e dal quale essa trae la sua validità. Ma se il contenuto della sentenza diviene, anzi scade a fenomeno secondario, le qualificazioni di “giusto” e “non giusto”, “ragione o torto” – da sempre oggetto della statuizione giudiziale e scopo ultimo e determinante del processo – diventano anch’essi secondari, svuotati e sostituiti dal “legale” e “non legale”.

Di qui l’indifferenza del nichilismo giuridico sul senso della giustizia perché interessa il “come”, elemento misuratore di ottimizzazione delle funzioni e non il “perché” che evoca i concetti polari di “giusto/ingiusto”, “uguale/disuguale”.

I poli del “giusto” e “non-giusto” rinviano al sè-stesso nell’interezza della sua personalità ed imputabilità giuridica, quindi ad un io non ridotto ad oggetto di spiegazione scientifico-sperimentale che lo considera e lo segmenta in una serie frammentaria e frammentata di io, in relazione corrispondente alle diverse funzioni bio-macchinali dei vari sistemi sociali, dove si consuma l’io del mercato, l’io del tempo libero, l’io dei media, e così via.



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