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Spigolature 22. Il pensiero giuridico di San Tommaso, tra ragione e giusnaturalismo

Sergio Conti • mar 31, 2024

* A 750 anni dalla morte di San Tommaso d'Aquino (7 marzo 1274).


In occasione dell'anniversario segnalo i seguenti scritti sul pensiero giuridico di San Tommaso:


1) “Tommaso d’Aquino, Il Diritto fra ragione e relazione” del prof. Aldo Rocco Vitale -pubblicato il 27.3.2021 sul sito del Centro studi Livatino - 

 (reperibile online all'indirizzo www.centrostudilivatino.it/tommaso-daquino-il-diritto-fra-ragione-e-relazione/ )

2) "Il giusnaturalismo di Tommaso d'Aquino” del dr. Francesco M. Civili -pubblicato il 8.7.2023 sul sito del Centro studi Livatino - 

 (reperibile online all'indirizzo www.centrostudilivatino.it/il-giusnaturalismo-di-tommaso-daquino/ ).


Dal primo scritto riporto integralmente la parte centrale e finale:


Tommaso ha contribuito ad analizzare la fenomenologia giuridica nel suo complesso così come nel suo dettaglio, interrogandosi intorno alla natura del diritto, alla sua funzione, ai suoi limiti, come sulla natura dello Stato, sulla portata della legislazione umana, sui compiti della politica e sulla dimensione etica del tutto. Per coglierne realmente il pensiero occorre accertarne i due fondamenti prodromici, da un lato la natura cognitivista, quella per cui nella realtà esiste una verità che può essere conosciuta, e dall’altro lato la natura razionale, caratteristica strutturale dell’uomo, il quale con la forza della ragione naturale giunge alla verità fondativa della realtà, in accordo con le verità della rivelazione cristiana[6].


4. Tommaso intende allontanare la dottrina cristiana dal platonismo agostiniano, per rifondare aristotelicamente l’intera sapienza cristiana e la visione cristiana del mondo[7], e dunque del diritto, poiché per Tommaso “l’ente non può essere pensato senza il vero”[8], anche l’uomo e il diritto hanno ciascuno una propria verità, cioè l’uomo la ragione[9], e il diritto la giustizia[10].

 

Uno dei grandi meriti del pensiero tomista consiste nel metodo e nel merito con cui intendere il diritto e la legge. Diversamente dai suoi colleghi musulmani[11], o dal pensiero di Lutero che si sarebbe diffuso alcuni secoli dopo[12], San Tommaso non soltanto riconosce l’esistenza e la vigenza della legge divina, ma evidenzia come la legge divina non possa escludere quella naturale e quella umana[13], ponendo così le basi per l’autonomia della legislazione umana, della fondazione giuridica del concetto di laicità, del radicamento filosofico della dimensione politica indipendente dall’autorità teologica[14]. Secondo l’Aquinate la legge umana non è che “rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata”[15].


La sostanza del diritto è dunque razionale, e presuppone la relazionalità, poiché il fine della legge e del diritto è quello di assicurare il bene comune. In questa prospettiva onto-assiologica, alla luce dell’umana ragione, “una norma ha vigore di legge nella misura in cui è giusta. Ora, tra le cose umane un fatto si denomina giusto quando è secondo la regola della ragione. Ma la prima regola della ragione è la legge naturale[…]. Quindi una legge umana positiva in tanto ha natura di legge, in quanto deriva dalla legge naturale”[16].


5. Il Dottore Angelico non si contenta di affermare l’esistenza della legge umana, ma si spinge oltre e ne specifica la natura, cioè l’essere razionale. Difatti, prosegue, “la legge umana in tanto ha natura di legge, in quanto si uniforma alla retta ragione, in tal senso deriva evidentemente dalla legge eterna”[17]. La legge umana, dunque, non è (con)fusa con quella divina, poiché altrimenti non sarebbe umana, ma del resto non è nemmeno auto-referenziale poiché partecipa della razionalità, cioè del logos, ovvero della ragione divina[18].


Questa prospettiva si riflette chiaramente sul versante più strettamente politico, poiché se il diritto, sebbene sia distinto dalla legge divina, non può essere auto-referenziale, altrettanto sarà il potere temporale. Lo Stato, quindi, è indipendente dalla Chiesa, ma non può auto-idolatrarsi. Kaiser e Kyrios sono naturalmente ed irrimediabilmente diversi. San Tommaso d’Aquino, così, elabora in modo compiuto l’idea che non vi possano essere sovrani legibus soluti, poiché il sovrano non può essere al di sopra della giustizia e della legge naturale le quali richiedono sempre la difesa del bene comune: “I re mirino anzitutto al bene comune[…], perché se agiscono diversamente, curando il proprio vantaggio, non sono re, ma tiranni”[19].

Non è un caso, forse, che il XX secolo, di tutti quello più anti-cristiano, sia stato il secolo delle idee assassine[20]. Come ha giustamente osservato Sergio Cotta, ciò “comporta due conseguenze molto importanti: primo che la legge naturale, rivolgendosi ad un essere razionale, è ad esso comprensibile, cioè la sua razionalità appare non già a Dio solo, ma anche all’uomo. Secondo, che la legge naturale non è legge necessaria, poiché il suo destinatario, l’uomo, è per sua natura libero”[21].


Il lascito del pensiero di San Tommaso d’Aquino, che dovrebbe nuovamente essere riscoperto dai giuristi, è fondamentale quanto l’uso della ragione nel mondo del diritto, per evitare che il diritto diventi autoreferenziale e quindi incomprensibile e ingiusto. E soprattutto per ricordare al giurista e alla di lui coscienza che un diritto che non tenda alla giustizia non è realmente diritto, ma perversione del diritto [22].



[6] “Una duplice condizione domina lo sviluppo della filosofia tomista: la distinzione tra ragione e fede e la necessità del loro accordo. L’intero campo della filosofia dipende esclusivamente dalla ragione: significa che la filosofia non deve ammettere che ciò che è accessibile alla luce naturale e dimostrabile con le sue sole risorse”, Etienne Gilson, La filosofia nel medioevo, Sansoni, Milano, 2005, pag. 603.


[7] “Il tomismo sarebbe dunque nato in quanto filosofia, da una decisione filosofica pura. Optare contro la dottrina di Platone per quella di Aristotele, era obbligarsi a ricostruire la filosofia cristiana su altre basi che quelle di sant’Agostino”, Etienne Gilson, Tommaso contro Agostino, Medusa, Milano, 2010, pag. 108.


[8] San Tommaso d’Aquino, Sulla verità, q. 1, art. 1, resp. ad 3.


[9] “Dire che l’uomo deve agire secondo ragione, secondo le esigenze della ragione, o secondo virtù, è lo stesso che dire agire secondo il suo fine o agire secondo le leggi dell’essere che dominano e regolano sia il mondo della vita-pensiero che quello della vita-azione”, Reginaldo Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna, 1999, pag. 67.


[10] “L’istanza della giustizia è rivolta all’uomo nel suo centro spirituale: in tanto egli è il soggetto della giustizia, in quanto è spirituale”, Joseph Pieper, Sulla giustizia, Morcelliana, Brescia, 1975, pag. 47.


[11] Interrogando le autorità del pensiero islamico ciò viene in risalto autonomamente. Così, infatti, precisa nel XII secolo Abu Hamid al-Ghazali: “I livelli del giurista e del teologo sono pressoché identici tra loro, sebbene il ruolo del giurista sia comunemente più necessario e quello del teologo più complesso e difficile”, Abu Hamid Al-Ghazali, Le perle del Corano, Bur, Milano, 2000, p. 113.


[12] “Il regno del diritto civile non si regge sui libri, ma sull’autorità divina[…]. I giuristi sanno acchiappare solo le mosche[…]. Perciò gl’imperi non si reggono sulle leggi”, Martin Lutero, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino, 1969, pag. 3-5.


[13] “Era necessario stabilire delle leggi per la pace e la virtù degli uomini”, San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 1.


[14] “Vi è in Tommaso la preoccupazione di mantenere consistente anche il lato giuridico oggettivo, l’esigenza normativa”, Giovanni Ambrosetti, Diritto naturale cristiano, Studium, Roma, 1964, pag. 107


[15] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 90, a. 4, ad dem.


[16] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2.


[17] San Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 93, a. 3.


[18] “E’ compito di qualsiasi legislatore stabilire per legge quelle norme, senza le quali la legge non può essere osservata. Ora, siccome la legge viene proposta alla ragione, l’uomo non potrebbe osservarla, qualora non fossero assoggettate alla ragione tutte le altre cose che gli appartengono”, San Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, CXXI, ad 4.


[19] San Tommaso d’Aquino, La politica dei principi cristiani, Cantagalli, Siena, 1997, pag. 159.


[20] Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2002.


[21] Sergio Cotta, Il concetto di legge nella Summa Theologiae di S. Tommaso d’Aquino, Giappichelli, Torino, 1955, pag. 66-67.


[22] “Una legge tirannica, essendo difforme dalla ragione, non è una legge in senso assoluto, ma è piuttosto una perversione della legge”, S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 92, a. 1, ad 4.



Dal secondo scritto riporto alcuni significativi passaggi.


Quando parliamo di giusnaturalismo, intendiamo una dottrina politico-filosofica che afferma l’esistenza di una legge morale su cui il diritto positivo deve fondarsi per essere considerato legittimo. Le radici di tale dottrina risalgono addirittura ai presocratici come Eraclito[1], però viene maggiormente elaborata da Platone, da Aristotele e dagli Stoici. Nel corso della storia, sono emerse diverse concezioni del diritto naturale, tant’è che gli studiosi propongono di distinguere ben tre tradizioni del diritto naturale. La prima è quella del cosiddetto “giusnaturalismo classico”, che include autori greci, latini e cristiani (dai Padri della Chiesa fino all’età umanistico-rinascimentale); la seconda è quella del “giusnaturalismo moderno”, che inizia con autori quali Ugo Grozio e Thomas Hobbes e termina circa agli inizi dell’Ottocento[2]; infine, potremmo definire la terza tradizione quella del “giusnaturalismo contemporaneo”: si tratta di un giusnaturalismo piuttosto singolare che vede come principale esponente il filosofo tedesco Jürgen Habermas, teorico della cosiddetta Diskursethik (o Etica del discorso).


Tutte queste tre tradizioni vengono convenzionalmente collocate in diverse fasi storiche, ma tutt’oggi sono oggetti di studio anche in termini teoretico-pratici: ad esempio, la prima tradizione interessa filosofi e giuristi di orientamento cattolico (e non solo)[3]; la seconda è oggetto di studio negli ambienti tendenzialmente di orientamento liberale[4]; infine, la terza attira studiosi appartenenti a scuole di pensiero differenti (hegelo-marxiani, cattolici etc.)[5]


[1] Cfr. A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Vol. I: Filosofia antica, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2012.


[2] Già durante il Settecento, il diritto naturale moderno comincia a mostrare le prime crisi con autori come Jean-Jacques Rousseau, il quale sviluppa una visione storico-evoluzionistica dello “stato di natura” e teorizza la dottrina della volonté générale. Tuttavia, è soprattutto agli inizi dell’Ottocento che il diritto naturale moderno viene messo fortemente in discussione, soprattutto per reazione ai “diritti dell’uomo” sostenuti dalla Rivoluzione francese: si pensi alla Scuola storica del diritto di Friedrich Carl von Savigny, che è emblema del cosiddetto giuspositivismo romantico.


[3] La letteratura a riguardo è sterminata, ma vale la pena menzionare qualche titolo. Cfr. La regola d’oro come etica universale, a cura di C. Vigna – S. Zanardo, Vita e Pensiero, Milano 2005; cfr. anche P. Pagani, Appunti per il corso di filosofia morale, Parte V: La norma dell’atto, pro manuscripto, Venezia 2011 e S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, a cura di M. C. Casezza, Ares, Milano 2018; per autori non-cattolici che si sono interessati del diritto naturale classico cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, a cura di N. Pierri, il melangolo, Genova 1990.


[4] Nel panorama italiano, possiamo ricordare Norberto Bobbio, che fu di orientamento liberalsocialista e sostenne la tesi secondo cui Thomas Hobbes era il giusnaturalista par excellence. Cfr. N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2011 e Id., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 2004.


[5] Cfr. L. Cortella, La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico, Laterza, Roma-Bari 2020 e Id., Etica del discorso ed etica del riconoscimento, in Libertà, giustizia e bene in una società plurale, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 225-248; cfr. anche P. Pagani, Studi di filosofia morale, Parte V: Studi su etica e universalità, cap. III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura, Aracne, Roma 2008, pp. 439-514.



Nel Libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele dedica poche righe al diritto naturale, distinguendo tra il “giusto naturale” e il “giusto legale”. Lo Stagirita sostiene che il diritto naturale trovi la piena manifestazione nella comunità civile, poiché l’essere umano è animale sociale. Un dettaglio interessante, però, è che Aristotele considera il diritto naturale mutevole: «presso di noi [mortali] ci sono cose che, pur avendo anche la caratteristica di essere per natura, ciononostante sono del tutto mutevoli»[11]. Essendo questo passaggio di Aristotele ambiguo, esso è stato oggetto di discussione nel corso del Medioevo, tant’è che Averroè, nei suoi Commentari aristotelici, si è proposto di offrire una spiegazione alla mutevolezza del diritto naturale. Secondo il filosofo ispanico, il diritto naturale sarebbe un insieme di regole convenzionali, che però sono universali e presenti in tutte le comunità civili: in sostanza, sono le regole che stanno alla base dell’umano associarsi e sono in qualche modo “naturali” grazie alla naturale socievolezza dell’uomo. Tuttavia, queste regole si adattano al contesto storico-geografico e al costume di un popolo. Tale lettura di Averroè è giunta anche in Europa Occidentale, grazie agli averroisti cristiani, ed è stata ripresa successivamente da autori come Marsilio da Padova.


Lo stesso passaggio di Aristotele viene commentato anche da Tommaso, il quale trova un’altra soluzione rispetto a quella suggerita da Averroè, conciliando la visione dello Stagirita con la patristica. Secondo l’Aquinate, le affermazioni di Aristotele andrebbero interpretate distinguendo i precetti primari e quelli secondari della legge naturale. I primi sono da considerare immutabili e universali, mentre i secondi sono regole naturali che vengono percepite in maniera diversa a seconda del contesto culturale e geografico. I precetti primari sono i doveri conosciuti immediatamente attraverso quella che i Padri della Chiesa chiamavano synderesis, ossia il sentimento morale della coscienza umana che permette di distinguere il bene dal male, e il primo precetto primario (“si deve fare il bene ed evitare il male”) è considerato alla stregua del principio di non-contraddizione della ragione speculativa[12]. Tuttavia, nel momento stesso in cui i precetti primari si applicano alla realtà diveniente, vengono generati i precetti secondari, che sono soggetti al mutamento. Per dimostrare questa seconda specie di doveri naturali, Tommaso riprende una testimonianza raccontata nel De bello Gallico di Giulio Cesare, secondo cui i popoli germanici consideravano il reato di furto tale soltanto quando quest’ultimo era praticato all’interno della propria tribù, ma si poteva derubare membri di altri clan senza ricevere punizioni dalla propria gente[13] – una concezione del furto che non era contemplata dal diritto romano.


[11] Cfr. Ivi, V, 1134 b 27 – 29.


[12] Cfr. «I precetti della legge naturale stanno alla ragione pratica come i primi princìpi dimostrativi stanno alla ragione speculativa: poiché gli uni e gli altri sono princìpi di per sé evidenti. […] Ora, tra le cose universalmente conosciute vi è un certo ordine. Infatti la prima cosa che si presenta alla conoscenza è l’ente, la cui nozione è inclusa in tutto ciò che viene appreso. Perciò il primo principio indimostrabile è che l’affermazione e la negazione sono incompatibili: poiché esso si fonda sulla nozione di ente e di non ente. E su questo principio si fondano tutti gli altri, come nota Aristotele. Ora, come l’ente è la cosa assolutamente prima nella conoscenza, così il bene è la prima nella conoscenza della ragione pratica, che è ordinata all’operazione: poiché ogni agente agisce per un fine, il quale ha sempre ragione di bene. Perciò il primo principio della ragione pratica si fonda sulla nozione di bene, essendo il bene ciò che tutte le cose desiderano. Si ha così il primo precetto della legge: Bisogna fare e cercare il bene e bisogna evitare il male. E su di esso sono fondati tutti gli altri precetti della legge naturale: per cui tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono ai precetti della legge di natura in quanto la ragione pratica le conosce naturalmente come beni umani» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014).


[13] Cfr. «Quindi si deve concludere che la legge naturale quanto ai primi princìpi universali è identica presso tutti gli uomini, sia quanto alla sua rettitudine oggettiva che quanto alla sua conoscenza. Rispetto però a certe sue applicazioni, che sono come delle conclusioni dei princìpi universali, essa è identica presso tutti sia per la bontà delle sue norme che per la sua conoscenza nella maggior parte dei casi, tuttavia in pochi casi ci possono essere delle eccezioni, sia quanto alla bontà delle norme che quanto alla conoscenza. Possono infatti intervenire ostacoli particolari (come avviene del resto anche nel caso degli esseri generabili e corruttibili, che talvolta per ostacoli particolari non raggiungono l’effetto). E quanto alla conoscenza va notato che ci sono alcuni i quali hanno la ragione sconvolta dalle passioni, o dalle cattive consuetudini, oppure dalle cattive disposizioni naturali. Giulio Cesare, p. es., racconta che una volta presso i popoli della Germania non si considerava delittuoso il latrocinio, che pure è espressamente contrario alla legge naturale» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 4, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014).




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