Blog Layout

Mondo di mezzo, mondo di sopra e nuove associazioni per delinquere

feb 05, 2021

Tribunale di Roma, X Sezione, 20/07/2017, n. 11730/ Cassazione, sentenza n. 18125 del 2020 (22 ottobre 2019 – 12 giugno 2020) 


LA VICENDA

A Roma, due soggetti – uno in posizione di comando e l’altro in posizione subordinata al primo – si occupano della riscossione dei crediti che un terzo concede presso il suo distributore e che poi, non disponendo di capacità operative pari alla sua prodiga disponibilità, non è in grado di far rientrare.

I due, di cui il capo è noto per le sue passate vicende criminali nella Banda della Magliana, aggiungono all'attività in favore del collettore di crediti (gestita con indubbio successo, per specifica capacità di “convinzione delle vittime”), anche alcune attività in proprio, di prestito e di recupero, e un interesse spiccato per il settore dell'acquisizione di appalti pubblici.

Il titolare del distributore di benzina, oltre che gestore del recupero dei crediti presso un certo numero di creditori riottosi, non entra però mai in contatto, a differenza dei primi due, con un altro personaggio di rilievo nel settore degli appalti pubblici – né con la lunga sequela di soggetti al medesimo collegati in tale settore – e neppure nutre un qualche interesse economico nella esecuzione delle opere oggetto degli appalti ottenuti o ne consegue un qualche profitto.

In altri termini, i due mondi – quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici – nascono separatamente e separati restano, quanto a condotte poste in essere e a consapevolezza soggettiva dell'agire comune.

E la stessa diversità delle cautele adottate dagli imputati – a basso livello, attraverso le utenze di normale utilizzo, per i fatti di criminalità comune e per i collegamenti di base con il mondo imprenditoriale; a livello di massima cautela, attraverso l'utilizzo di utenze dedicate, per i rapporti politico-istituzionali ed attraverso l'impiego del jammer “anti-intercettazioni” per le conversazioni che si svolgevano presso la sede della Cooperativa coinvolta – conferma la separazione e la diversità strutturale ed organizzativa tra i due gruppi.

Le due realtà sono dunque accomunate tra di loro dalla presenza in entrambe dei due riscossori dei crediti per conto del benzinaio, senza, tuttavia, che questa sia sufficiente a determinarne la fusione ed a generare un unicum operativo nel quale ciascuno fosse consapevole e partecipe del complesso delle attività compiute e programmate dagli altri.

Ciò rileva sia in relazione all'elemento oggettivo del reato associativo (la costituzione di un gruppo destinato alla commissione di un numero indeterminato di un certo tipo di delitti) sia, soprattutto, con riferimento al profilo soggettivo, che è integrato dal dolo specifico quale volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla realizzazione del programma dell'associazione, programma che deve essere conosciuto almeno nelle sue linee generali e del quale l'associato accetti il rischio.

Le associazioni criminose sono dunque due e non una soltanto (una costituita presso il distributore di benzina e l’altra operante nel settore degli appalti pubblici).

Si tratta anche di associazioni mafiose o di semplici associazioni per delinquere?

Secondo i Giudici di primo grado, non è possibile individuare per i due gruppi criminali alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose.

Le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità “autonoma”.

L'associazione operante presso il distributore, utilizzato come base logistica, è di palese carattere criminale, essendo dedita alla commissione di una serie indeterminata di delitti di usura ed estorsione o nei confronti di soggetti già debitori del gestore del distributore o di soggetti che erano in rapporti diretti con gli altri due “riscossori”.

Detta associazione, tuttavia, non presenta i connotati della mafiosità, in quanto si tratta di una compagine ristretta, che ha operato in un contesto limitato ed è intervenuta soltanto in poche occasioni per recuperare alcuni crediti (“mondo di mezzo”); non ha inoltre alcuna derivazione dalla famigerata banda della Magliana né dai nuclei rivoluzionari armati (NAR) e non ha prodotto in concreto quella capacità di intimidazione necessaria per la configurazione della fattispecie “mafiosa” nel contesto territoriale ristretto in cui ha operato.

In particolare, gli atti di intimidazione che hanno integrato la coazione della altrui volontà – determinando i singoli debitori a pagare o ad accettare rinegoziazioni dei debiti ancora più svantaggiose rispetto al prestito iniziale – non hanno provocato, nella collettività, un perdurante stato di timore grave, così noto e diffuso da produrre, con l'esplicarsi della forza intimidatrice dell'associazione ed a prescindere dalle singole vicende, una generalizzata situazione di assoggettamento ed omertà nel contesto territoriale: né sull'intero territorio urbano né nel quartiere ove il gruppo operava.

Il carattere mafioso è da escludersi anche per l’altra associazione, volta al conseguimento di appalti pubblici, in quanto il gruppo è stato finalizzato a realizzare corruzioni secondo un sistema che aveva coinvolto anche le sfere politiche e imprenditoriali (“mondo di sopra”), senza ricorrere sistematicamente alla forza di intimidazione, ma con un ricorso sistematico alla corruzione.

Sarebbero in altri termini difettati i requisiti della forza di intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà, dal momento che, da un lato, la c.d. riserva di violenza - intesa come fama criminale che l’associazione sfrutta senza porre in essere ulteriori atti di violenza – è tipica delle mafie derivate da quelle tradizionali, dall’altro, non ci si sarebbe trovati al cospetto di mafie delocalizzate; infine, la presenza di un soggetto che aveva collaborato tempo addietro con la banda della Magliana non sarebbe stata sufficiente ad attribuire la qualità mafiosa all’associazione, anche perché i collegamenti di tali soggetto con appartenenti ad altri gruppi mafiosi si sarebbero rivelati occasionali. 

Esisteva sì, con riferimento al reato associativo, un nucleo interno alle cooperative, necessario per operare in funzione del conseguimento di commesse pubbliche, ed un nucleo politico-amministrativo, che, asservito da sistematiche attività corruttive, garantiva alle cooperative sociali il raggiungimento dei propri obiettivi illeciti e dei conseguenti, rilevanti profitti; a tale nucleo si aggregava il capo dei riscossori operante presso il benzinaio, che alla fine del 2011 diveniva uno stretto collaboratore ed un sodale del capo del “settore cooperative”, coinvolgendo negli affari anche il suo braccio destro.

Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto accertata non già una conventio ad excludendum imposta dal capo del “settore cooperative” grazie alla costituzione di una associazione mafiosa, ma l'esistenza di un diffuso sistema di assegnazione delle gare pubbliche secondo criteri di spartizione politica, realizzati attraverso il sistematico ricorso a gare truccate destinate a garantire la spartizione; ed in tale sistema il nucleo aggregato cooperative-politico-amministrativo si inseriva al pari degli altri “imprenditori” operanti nel settore.

Ma questo nucleo aveva messo in conto la possibilità di utilizzare, all'occorrenza, la carica di intimidazione derivante dal gruppo operante presso il distributore?

Secondo i Giudici, non vi è stata alcuna evidenza dell’intenzione da parte dell’associazione finalizzata al conseguimento di appalti pubblici di avvalersi dei metodi e dei comportamenti utilizzati dal gruppo costituitosi presso il benzinaio.

L’ex sodale della Banda della Magliana conferiva nell'accordo economico con il capo del “settore cooperative” soltanto le sue caratteristiche soggettive, anche perché l’altro non aveva alcuna necessità, per pregressa esperienza criminale e tipologia di collaboratori (ex detenuti), di avvalersi della carica di violenza riferibile al gruppo operante presso il distributore di benzina.


IL REATO

L’associazione di tipo mafioso ha dei requisiti ulteriori rispetto alla semplice associazione per delinquere.

Se la differenza è chiara con riguardo alle associazioni mafiose di tipo “tradizionale”, occorre verificare se ed a quali condizioni sia configurabile il reato di associazione di tipo mafioso in realtà territoriali sempre più distanti da quelle che hanno storicamente ispirato l'introduzione della fattispecie criminosa.

La fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. ha una duplice "forza espressiva”: in essa, da un lato, viene descritta una tipicità già nota, perché derivante da contesti criminali conosciuti - la mafia siciliana -, dall'altro, è tratteggiato un modello fluido a cui è possibile attingere ogni qual volta si sia in presenza di una criminalità organizzata che, per caratteristiche strutturali e per il metodo impiegato nel suo agire, sia in grado di sprigionare qualitativamente una carica offensiva del tipo di quella caratterizzante i contesti già noti.

In particolare, l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p. consente di applicare le disposizioni contenute nei commi precedenti, oltre che alla camorra ed alla ‘ndrangheta, anche "alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso".

L'associazione mafiosa non è un reato associativo "puro", che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma.

Occorre qualcosa in più. Occorre avvalersi “della forza d'intimidazione del vincolo associativo".

Il gruppo dovrebbe cioè fare un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso; occorre che il sodalizio "dimostri" di possedere detta forza e di essersene avvalso.

Non è in discussione la natura di reato di pericolo del delitto in esame, ma tale natura non comporta neanche che per l'integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso risulti sufficiente che il gruppo criminale sia potenzialmente capace di esercitare intimidazione, non essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento e omertà.

Il reato di associazione di tipo mafioso è un reato di pericolo perché l’esistenza dell'associazione pone in pericolo l'ordine pubblico, l'ordine economico, la libera partecipazione dei cittadini alla vita politica ed altri interessi ancora ma, come è stato rilevato, ciò non consente affatto di ritenere che gli elementi costitutivi della fattispecie possano anche eventualmente manifestarsi in futuro.

La capacità intimidatrice del metodo mafioso deve essere attuale, effettiva, e avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve, piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano consentire all'interprete di affermare che l'azione riferibile ad un determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia anche effettivamente in grado di permeare - per l'assoggettamento e l'omertà provocate e correlate alle concrete iniziative illecite poste in essere - l'ambiente territoriale economico, sociale, politico di riferimento, deviandone le dinamiche e piegandone ai propri scopi l'ordinato assetto.

Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua "esteriorizzazione" quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine "avvalersi"; esteriorizzazione che può avere le più diverse manifestazioni, purché si materializzi in atti concreti, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell'affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell'esistenza della prova del metodo mafioso.

Allo stesso modo, la condizione di assoggettamento e di omertà correlata in rapporto di causa a effetto alla forza di intimidazione dell'associazione di tipo mafioso deve essere sufficientemente diffusa, anche se non generale, e può derivare non solo dalla paura di danni alla propria persona, ma anche dall'attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti, di modo che sia comune la convinzione che la collaborazione con l'autorità giudiziaria non impedirà ritorsioni dannose per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell'organizzazione, della sua efficienza, e della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi.

La necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione e dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono solo un modo, uno strumento - eventuale, possibile, come altri - con cui quella forza di intimidazione può manifestarsi, ben potendo quest'ultima esternarsi anche con il compimento di atti non violenti, ma pur sempre espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo.


MAFIE STRANIERE

La giurisprudenza sulle c.d. mafie straniere ha chiarito che l'associazione mafiosa non deve necessariamente avere un'organizzazione tentacolare, in grado di controllare un determinato territorio, inteso nella sua dimensione spaziale totalitaria, nella dimensione soggettiva sistemica.

Essa può sussistere anche se si è in presenza di realtà strutturalmente modeste (le "mafie piccole"), che esercitano la propria forza di intimidazione in modo oggettivamente limitato, cioè in zone territorialmente circoscritte, e in ambiti di quote di attività, e soggettivamente parziale, cioè solo su alcune categorie di soggetti (come, ad esempio, la “mafia cinese”).

Ciò che conta non è la dimensione del radicamento, la sua estensione, ma il fatto che il gruppo abbia comunque raggiunto una evoluzione e una reputazione criminale, propria o per derivazione; è importante non tanto il numero delle persone assoggettate, quanto, piuttosto, la "diffusività" del fenomeno, cioè la capacità dell'associazione di condizionare, attraverso il metodo, un numero non determinato di soggetti, pur nei limiti in cui il sodalizio si muove.


MAFIE DELOCALIZZATE 

In relazione al tema delle c.d. mafie delocalizzate, cioè di quelle organizzazioni criminali formate da soggetti, emigrati nelle regioni settentrionali o in altri Stati, ma comunque "legate" alle associazioni mafiose tradizionali, nulla questio in tutti i casi in cui il nuovo aggregato costituisca una struttura autonoma ed originale che si proponga di adottare la medesima metodica delinquenziale delle "mafie storiche", atteso che, in tali casi, è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all'art. 416 bis c.p., e, dunque, l'esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell'ambiente esterno in termini di assoggettamento e di omertà.

Più controverso è invece il caso in cui il sodalizio costituisca una mera articolazione territoriale di una tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza da essa o, comunque, in collegamento funzionale con la "casa madre".

Si discute se la "cellula", cioè il gruppo derivato, debba esplicitare in concreto e in termini di attualità nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione ovvero sia sufficiente accertare il solo collegamento tra la "cellula" delocalizzata e la "casa madre", nonché la mutuazione da parte della prima delle caratteristiche di quest'ultima per ritenere sussistente il pericolo presunto per l'ordine pubblico, che connota una associazione di tipo mafioso, anche in ragione della c.d. "riserva di violenza".

Secondo una impostazione giurisprudenziale, infatti, il reato sarebbe configurabile anche nel caso in cui la c.d. cellula non manifesti sul territorio "nuovo" di insediamento il metodo mafioso e la fama criminale della casa madre da cui essa deriva; il reato sussisterebbe in presenza della sola prova "dell'essere cellula", cioè con la sola prova di essere la cellula una diramazione di una consorteria mafiosa tradizionale, perché ciò espliciterebbe di per sé l'esistenza di una capacità potenziale di sprigionare una forza intimidatrice, idonea a porre in condizioni di assoggettamento ed omertà quanti vengano a contatto con essa.

Questa impostazione trarrebbe forza anche da un’interpretazione letterale dell’ultimo comma dell’art. 416 bis c.p., che, con riferimento a camorra, ‘ndrangheta ed altre associazioni che perseguono scopi corrispondenti a quelli indicati dalla norma, richiama l'uso della forza intimidatrice del vincolo, ma senza menzionarne gli effetti in termini di assoggettamento e omertà. L'assenza di riferimenti alle ricadute in termini di stringente condizionamento delle aree di insediamento non può ritenersi, secondo questa tesi, casuale e ascrivibile a un impreciso richiamo degli elementi strutturali del comma 3, giacché la portata estensiva della disposizione non solo alla camorra, alla ‘ndrangheta ma anche alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, indurrebbe ad optare per un consapevole affrancamento da un elemento di fattispecie ritagliato sulla specificità della mafia siciliana, paradigma del precipitato storico della norma

Dunque, secondo questa tesi, ai sensi dell'art. 416 bis c.p., u.c., per le c.d. locali (ma lo stesso discorso varrebbe anche per le "nuove mafie"), non sarebbe richiesta una concreta manifestazione della capacità di intimidazione del sodalizio - cioè del metodo mafioso - tale da produrre assoggettamento omertoso.

L’altra impostazione, accolta anche dalla Cassazione pronunciatasi sul processo “mafia capitale”, ritiene invece che non è sufficiente che la c.d. locale abbia moduli organizzativi, regole e rituali uguali a quelli della associazione da cui deriva (ad esempio la ‘ndrangheta), ma è necessario che il "nuovo territorio", ovvero i soggetti del nuovo territorio che con il gruppo si relazionano, capiscano che il proprio "interlocutore" è l'associazione mafiosa; è necessario che la cellula spenda, con qualunque forma, la fama criminale del gruppo di derivazione, faccia cioè capire, in qualunque modo, di essere l'associazione mafiosa, non essendo sufficiente che "possa farlo capire" e che ciò possa, se necessario, essere avvertito.

Sotto altro profilo, l'opzione interpretativa recepita da parte della giurisprudenza, che, come detto, valorizza sul piano giuridico - direttamente o implicitamente - il dato testuale dell'art. 416 bis c.p., ultimo comma, non sarebbe condivisibile, perché il delitto di associazione di tipo mafioso diventerebbe così un delitto a geometria variabile, a struttura mobile, con una tipicità mutevole a seconda che si tratti di un'associazione "storica", ovvero una diramazione di essa che operi in un'altra parte del territorio, ovvero, ancora, una delle "altre associazioni" di cui all'art. 416 bis c.p., comma 8, con la conseguenza che in tali ultime due ipotesi, sostanzialmente, non sarebbe necessario – il che pare in effetti bizzarro - che la capacità di intimidazione, manifestandosi in concreto, generi assoggettamento e omertà.


NUOVE MAFIE

Considerazioni simili valgono anche per le nuove "altre" associazioni, per le quali pure è necessario, ai fini della esistenza del delitto, che il gruppo manifesti la propria capacita di intimidazione, la propria fama criminale - non quella di un singolo associato - e che detta capacità produca assoggettamento omertoso, seppur nel senso in precedenza indicato.

Diversamente ragionando, non sarebbero chiari innanzitutto i criteri con cui dovrebbero essere individuate le "altre" associazioni, in relazione alle quali sarebbe sufficiente una tipicità diversa e minore.

Prescindere dalla necessità che tutte le associazioni mafiose manifestino la propria capacità di intimidazione e determinino assoggettamento omertoso, significherebbe costruire in modo dicotomico la tipicità della stessa fattispecie incriminatrice: un'opzione interpretativa che non pare esente da dubbi di legittimità costituzionale, sotto il profilo del principio di tassatività e determinatezza.

Sotto ulteriore profilo, si è notato che, ove si accogliesse l'opzione interpretativa di cui si è detto, ci si troverebbe in presenza di un'associazione mafiosa che, pur essendo "minore" - in quanto depurata da alcuni elementi di struttura - e, dunque, caratterizzata da una minore offensività, sarebbe tuttavia sanzionata con la medesima pena riservata alle mafie tradizionali.

Soggetti partecipi ad associazioni mafiose diversamente tipiche e diversamente caratterizzate dovrebbero essere sottoposti sempre allo stesso trattamento sanzionatorio.

Né sarebbe chiaro come dovrebbe accertarsi sul piano probatorio la volontà di una delle "altre" associazioni mafiose di infiltrarsi un determinato settore, ove si dovesse prescindere dagli elementi caratterizzanti l'associazione di tipo mafioso, e, dunque, dalla verifica dell'assoggettamento omertoso e dall'impatto dell'agire mafioso sui soggetti che in quel settore operano.



Share by: