Immigrazione regolare e condotte ostative

a cura di Oscar Marongiu • 3 maggio 2025

Tar Lombardia, sez. III, sentenza n. 745/2025, pubblicata il 5 marzo 2025

IL CASO E LA DECISIONE

Un cittadino straniero, dopo essere entrato sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità, essere stato allontanato da un centro di accoglienza e avere contratto matrimonio con una cittadina italiana (dalla quale peraltro si era successivamente separato, con strascichi penali a suo carico), prova ad accedere alla “sanatoria” di cui al d.l. n. 34 del 2020.

Il beneficio gli viene peraltro negato in relazione all’insussistenza delle condizioni stabilite dalla norma in questione.

In particolare, l’amministrazione compulsata aveva rilevato che l’interessato era stato condannato nel giugno del 2022 a quattro mesi di reclusione per una condotta di atti persecutori nei confronti della coniuge separata, condotta da lui tenuta tra il 2018 e il 2019.

La pena finale applicata dal Giudice era stata peraltro lieve, in quanto commisurata alla contenuta offensività dei fatti, all’incensuratezza dell’imputato e alla concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, ma in ogni caso la condanna, rientrando tra le fattispecie elencate alla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, era da considerarsi automaticamente preclusiva dell’esito positivo dell’istanza di emersione dal lavoro irregolare.

Presentato ricorso avanti al Giudice amministrativo di primo grado, la difesa del cittadino straniero, consapevole dell’esistenza di una causa ostativa prevista direttamente dalla legge, rispetto alla quale l’amministrazione era vincolata e si è dunque mantenuta nei binari di un compito meramente esecutivo, ha chiesto di sollevare questione di costituzionalità per arrivare a una dichiarazione di illegittimità della norma dichiaratamente ostativa rispetto al beneficio richiesto.

Il TAR Milano ha tuttavia respinto il ricorso, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità dedotta dalla parte.

In particolare, il Giudice meneghino, nell’evidenziare le differenze tra la fattispecie oggetto del suo esame e quella scrutinata dalla Corte costituzionale nel procedimento a seguito del quale è stata emessa la sentenza di accoglimento n. 43 del 2024, ha affermato che le questioni non erano sovrapponibili per due diversi motivi.

Innanzitutto, il reato ostativo preso in considerazione dalla Corte costituzionale era quello di detenzione illecita o spaccio di lieve entità (art. 73, comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990), da considerarsi fattispecie autonoma rispetto al reato di detenzione e spaccio di stupefacenti di cui all’art. 73, comma 1 del d.P.R. n. 309 del 1990: da ciò consegue che il giudizio non è andato a sindacare la pena in concreto emessa in sede penale o la tipologia di condotta effettivamente tenuta all’interno di una fattispecie unitaria.

In secondo luogo, il delitto di atti persecutori, a differenza di quello autonomo previsto e punito dal comma 5 dell’art. 73 del testo unico in materia di stupefacenti, comporta sempre l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato.

Conseguentemente, trattandosi di due differenti fattispecie penali – così come unitariamente considerate dalla lett. c) del comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 – mentre è da considerarsi irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per il reato di “spaccio lieve”, è al contrario da considerarsi razionale e proporzionata la scelta di far derivare conseguenze ostative automatiche alla condanna per il reato di stalking, anche perché tale delitto “è di per sé suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello...”.

Sotto altro aspetto, il TAR Milano ha respinto anche la censura di violazione dell’art. 19, comma 1.1., terzo e quarto periodo del d.lgs. n. 286 del 1998, nella disciplina vigente ratione temporis, in quanto “l’intrusione nella vita privata dell’interessato conseguente automaticamente alla fattispecie normativa in questione risulta giustificata sulla base delle circostanze di diritto e di fatto esistenti nel caso di specie”.

PROFILI DI CRITICITA’ DELLA NORMATIVA SUI REATI OSTATIVI IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE
La normativa in materia di procedimenti inerenti all’immigrazione contempla due particolari discipline sulle condotte penali (e non) “interferenti” in senso negativo con la possibilità di accedere ai benefici di legge previsti in vista del soggiorno legale sul territorio italiano.

Viene in primo luogo in considerazione il combinato disposto di cui all’art. 5, comma 5, e 4, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Invero, “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato”; tra i  requisiti   richiesti c’è anche il fatto di non essere considerati “una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”, o comunque di non risultare “condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, per i reati di cui all'articolo 582, nel caso di cui al secondo comma, secondo periodo, e agli articoli 583-bis e 583-quinquies del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”. Impedisce l'ingresso dello straniero in Italia anche la condanna con sentenza irrevocabile per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall'articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773.

Se per lo straniero in questione è stato richiesto il  ricongiungimento familiare, poi, lo stesso non è ammesso in Italia “quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”.

Sotto altro fronte, ai sensi del  comma 10 dell’art. 103 del d.l. n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 77 del 2020, non sono ammessi alle procedure di  emersione di rapporti di lavoro irregolari svolti con riferimento ad alcune specifiche attività – rispetto ai quali cioè lo straniero non aveva conseguito permesso di soggiorno per lavoro subordinato – coloro “che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”.

Stessa preclusione per coloro che siano comunque considerati una  minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. 

Le due discipline normative sopra citate sono state oggetto di incisivi interventi della Corte costituzionale, la quale ha dovuto affrontare, nella sostanza, il tema dell’automatismo introdotto dal legislatore tra l'applicazione di determinate condanne penali e il diniego del titolo di soggiorno.

Con una prima pronuncia di carattere generale, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, comma 5, del testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), nella parte in cui prevedeva che la valutazione discrezionale in esso stabilita (tenere conto, nella decisione finale sulla posizione del richiedente, anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d'origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio) si applicasse solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia  legami familiari nel territorio dello Stato» (sentenza 3 - 18 luglio 2013, n. 202).

Successivamente, la Corte costituzionale ha dichiarato, più nello specifico, l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo sopra citato, nella parte in cui ricomprendeva, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il  reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 e quelle definitive per il  reato di cui all'art. 474, secondo comma, del codice penale, senza prevedere che l'autorità competente verificasse  in concreto la pericolosità sociale del richiedente (sentenza 9 marzo - 8 maggio 2023, n. 88).

Quanto poi al d.l. n. 34 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la recente  sentenza n. 43 del 2024, l'illegittimità costituzionale dell'art. 103, comma 10, lettera c) di tale decreto nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti» come ostativi al buon esito della procedura di regolarizzazione, non escludeva il reato di cui all'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (fatto di lieve entità di cessione o detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope).

In sostanza, con le due ultime pronunce, il Giudice delle leggi ha denunciato  l’irragionevolezza e la mancanza di proporzionalità  di una scelta legislativa che faccia conseguire alla mera condanna per un delitto di modesta entità – a cui non segue neppure un’ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato – la preclusione automatica ai benefici di legge in materia di titoli di soggiorno sul territorio nazionale.

Sulla scia di tali sentenze, si è posto allora il problema se altri automatismi connessi alla commissione di fattispecie penali lievi ma considerate ostative non debbano seguire la stessa sorte del reato di spaccio di lieve entità.

L’attenzione si è in particolare appuntata sulla modalità concreta della condotta tenuta dal soggetto condannato, posto che ci sono alcuni reati (tra cui i maltrattamenti e lo stalking) in cui le situazioni possono essere tra di loro diversissime e conseguentemente portare a pene molto differenti.

Nel caso affrontato dal TAR Milano e che qui si commenta, la difesa dello straniero ha messo in discussione la scelta del legislatore di sancire il diniego all’istanza di emersione del lavoro irregolare sulla sola base di una condanna per un fatto lieve di stalking.

Il Giudice adito ha però respinto questa impostazione – che avrebbe dovuto condurre, in teoria, ad un nuovo giudizio dinanzi alla Corte costituzionale –, in quanto il reato normativamente considerato, nel caso di specie, come automaticamente ostativo ad un esito favorevole della procedura di “sanatoria” (reato di cui all’art. 612-bis c.p.) è stato oggetto, nell’ordinamento penale, di  valutazione astratta unitaria, anche se in concreto può portare, in relazione alla oggettiva gravità della condotta, all’applicazione di pene finali tra di loro molto differenti.

D’altra parte, non è stata ritenuta di per sé irragionevole la scelta del legislatore di escludere automaticamente la sanabilità della posizione di irregolarità nel Paese di un soggetto che è stato condannato per un reato suscettibile, se portato alle estreme conseguenze, di ledere irrimediabilmente beni costituzionalmente protetti al massimo livello, quali la libertà e l’incolumità personale.

Inoltre, afferma sempre il Giudice meneghino, “il delitto di atti persecutori, a differenza della “spaccio lieve”, comporta sempre l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza di reato”.

Si tratta, in altri termini, di una fattispecie e di una soluzione legislativa diversa da quella già scrutinata e “bocciata” in due distinte occasioni dalla Corte costituzionale.

Resta peraltro sullo sfondo, in quanto non specificamente affrontata dal TAR (che pure ha tenuto implicitamente distinte, quanto ad effetti concreti, le fattispecie di rinnovo di permesso di soggiorno da quello di domanda in sanatoria), l’ulteriore questione dell’eventuale contrasto della norma nazionale primaria con il  parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, sotto il profilo della “protezione della vita privata”.

D’altra parte, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità si è sviluppata proprio e in particolare con riguardo all’art. 8 CEDU, e la Corte costituzionale, nel superare la precedente pronuncia del 2008, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 5, comma 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, in connessione con la preclusione derivante dal reato di spaccio di lieve entità, ha evidenziato che “l’interesse dello Stato alla sicurezza e all’ordine pubblico non subisce alcun pregiudizio dalla sola circostanza che l’autorità amministrativa operi, in presenza di una condanna per il reato di cui si tratta, un apprezzamento concreto della situazione personale dell’interessato, a sua volta soggetto all’eventuale sindacato di legittimità operato dal giudice”.