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Vittimizzazione secondaria e obblighi di protezione dello Stato

lug 14, 2021

Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 27 maggio 2021 (caso 5671/16)


La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza in commento, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU, per mancata protezione dalla vittimizzazione secondaria di una donna che aveva denunciato uno stupro di gruppo.

L'atto di accusa dei Giudici europei riguarda la sentenza con cui nel giugno del 2015 la Corte di Appello di Firenze ha assolto alcuni giovani imputati dall'imputazione per il reato di cui all'art. 609-octies c.p..

Sotto la lente di ingrandimento della Corte europea dei diritti dell'uomo sono finite alcune frasi contenute in sentenza sulla bisessualità della denunciante, sulla sua difficile situazione familiare, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso - dedotto, tra l’altro, dal particolare interesse in materia artistica dimostrato con la scelta di prendere parte ad un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza -, sulla decisione di denunciare i fatti accaduti come espressione di una presa di coscienza e di una energica reazione, “per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere”.

Secondo l’art. 8 della Convenzione EDU, ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Nel caso di reati a sfondo sessuale (cosiddetti atti sessuali “senza consenso”), l’articolo 8 della Convenzione, secondo la Corte, impone innanzitutto agli Stati contraenti l’obbligo positivo di adottare disposizioni penali sostanziali e processuali efficaci ed effettive, ivi comprese misure in grado di proteggere l’integrità fisica e morale delle persone.

Ovviamente, l’esigenza di effettività della tutela penale non impone che tutti i processi di questo tipo devono concludersi con una condanna, o con l’inflizione di una pena determinata, ma è necessario, secondo la Corte, che la procedura interna non lasci “impuniti” attentati all’integrità fisica e morale delle persone coinvolte.

E questo perché occorre preservare la fiducia dell’opinione pubblica nel rispetto della legalità, ed evitare qualsivoglia apparenza di complicità o di tolleranza dello Stato rispetto ad atti criminali.

Per rispettare l’art. 8 della Convenzione sotto il profilo dell’effettività della tutela penale, sono dunque ugualmente necessari velocità di “reazione” dell’ordinamento e accurato accertamento dei fatti.

D’altra parte, anche i diritti delle presunte vittime di reati coinvolte nel successivo processo penale sono protetti dall’articolo 8 della Convenzione, in quanto tale disposizione si pone l’obiettivo essenziale di proteggere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non accontentandosi di obbligare lo Stato ad astenersi da tali ingerenze, ma anche costringendolo ad ottemperare ad obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata o familiare.

A tali fini, gli Stati contraenti devono organizzare le regole procedurali in campo penale in modo tale da non mettere indebitamente in pericolo la vita, la libertà o la sicurezza dei testimoni, e in particolare delle presunte vittime chiamate a deporre.

Gli interessi degli imputati/indagati devono pertanto essere sempre bilanciati con quelli del denunciante/testimone, e i procedimenti penali relativi a reati a sfondo sessuale – per l’interesse particolarmente sensibile connesso alla gravità del crimine commesso, se accertato – non devono trasformarsi in una nuova “prova” per la vittima.

Ne consegue che in tali procedimenti penali lo Stato deve stabilire e fare rispettare regole che proteggano in modo adeguato le presunte vittime, per evitare che le stesse divengano oggetto di una vittimizzazione secondaria.

In particolare, e nello stesso senso, la violenza contro le donne (così come la violenza domestica) è al centro di una complessiva tutela convenzionale molto importante (si veda ad esempio la Convenzione del Consiglio di Europa avente lo stesso oggetto), che obbliga le parti contraenti a prendere le misure legislative necessarie per proteggere i diritti e gli interessi delle vittime, e in particolare per mettere le persone offese al riparo dai rischi di intimidazione e di nuova vittimizzazione, permettendo loro di essere ascoltate con le dovute cautele e di mettere al centro del processo il loro punto di vista e la loro sensibilità, senza paura di subire intimidazioni, ritorsioni o comunque ulteriori “aggressioni” veicolate dall’autorità pubblica che nel processo deve proteggerle.

Nel caso della sentenza della Corte di Appello di Firenze, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel verificare se il contenuto delle motivazioni addotte in sentenza dal Giudice nazionale abbia “minato” il diritto al rispetto della vita privata e della libertà sessuale della giovane donna coinvolta nella vicenda giudiziaria, ha espresso un deciso giudizio negativo nei confronti dell'autorità pubblica procedente.

Secondo la Corte, vi sono numerosi passaggi motivazionali, nella sentenza oggetto di indagine, che alludono impropriamente alla vita personale e intima della persona offesa.

In particolare, la Corte reputa “deplorevole e irrilevante” il “contorno” motivazionale sulla bisessualità dell’interessata, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, dedotto, tra l’altro, dall’interesse in materia artistica; deplorevoli e irrilevanti sono stati considerati, altresì, il riferimento in sentenza alla scelta di prendere parte a un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza, l’interpretazione della decisione di denunciare i fatti a lei accaduti come “risposta ad un momento di debolezza e fragilità da censurare”, e l’accenno ad una “vita non lineare”.

Così come pare alla Corte europea ingiustificata la rievocazione della lingerie rossa “mostrata” dalla giovane donna durante la serata, ritenendo che il richiamo in sentenza a tali particolari non fosse per nulla utile alla valutazione della credibilità della denunciante.

In altri termini, si chiedono i Giudici, quale interesse vi era, ai fini dell’apprezzamento della genuinità del racconto dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati, a diffondersi in sentenza sulla condizione familiare della denunciante, sulle sue relazioni sentimentali, sui suoi orientamenti sessuali o ancora sulle sue scelte di abbigliamento e sull’oggetto delle sue attività artistiche e culturali?

L’obbligo positivo di proteggere le vittime presunte di violenze di genere impone un corrispondente dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di costoro, ivi compresa la non divulgazione di informazioni e di dati personali non aventi relazione diretta con i fatti.

Quest’obbligo è d’altra parte inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale e da varie convenzioni internazionali, comportando la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni – che sono una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia – ma entro i limiti dell’obbligo primario di proteggere sempre l’immagine e la vita privata dei soggetti coinvolti nelle relative vicende giudiziarie da qualsiasi violazione ingiustificata.

Secondo i Giudici europei, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte di Appello di Firenze hanno veicolato nel singolo caso i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che sono potenzialmente idonei ad ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere, in linea con quanto risultato dal settimo rapporto sull’Italia redatto dal comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne.

Persisterebbero nella società italiana, secondo questo rapporto, stereotipi sul ruolo delle donne e una resistenza a favorire l’eguaglianza tra i sessi, favorita dalla eventuale riproduzione di pregiudizi sessisti nelle decisioni giudiziarie, quando invece le autorità pubbliche – tutte, nessuna escluse – dovrebbero ridurre al minimo le violenze di genere ed evitare di esporre le donna a una vittimizzazione secondaria tramite l’utilizzo di argomenti ed espressioni colpevolizzanti e moralizzatori che rischiano, infine, di scoraggiare la fiducia che le reali vittime di abusi devono avere nella giustizia . 

La motivazione della sentenza che ha assolto gli imputati dal reato di violenza sessuale di gruppo può essere di per sé giusta o sbagliata nel merito dei fatti loro contestati, e deve essere sempre e comunque rispettata perché sostituisce alla verità storica una verità processuale divenuta ormai incontestabile. 

Tuttavia, parte del contenuto di quella stessa motivazione, per le espressioni utilizzate, costituisce violazione degli obblighi positivi che si impongono sullo Stato nazionale ai sensi dell’art. 8 della Convenzione sui diritti dell’uomo, perché la denunciante è stata esposta ad una vittimizzazione secondaria amplificata dalla natura pubblica della sentenza di assoluzione.

Interessante rilevare che la decisione della Corte europea non è stata presa all'unanimità, in quanto in calce alla motivazione vi è il "rapporto di minoranza" (opinion dissidente) di uno dei Giudici, il quale, in parole povere, ha evidenziato che l'affermazione secondo cui l'Autorità giudiziaria non ha protetto dalla vittimizzazione secondaria la denunciante durante l'iter del procedimento penale sarebbe in contraddizione logica con il riconosciuto rispetto da parte della stessa Autorità delle garanzie processuali e di riservatezza dovute alle parti in causa (imputati e testimoni).

In particolare, il Giudice dissenziente ha evidenziato che per esaminare un caso giudiziario che tocca una sfera molto intima della denunciante (la libertà sessuale) e per valutarne la credibilità fino in fondo, in una vicenda in cui è decisivo stabilire se vi sia stato o meno consenso e autodeterminazione, è necessario, per il Giudice penale, soffermarsi su circostanze fattuali che ineriscono alla vita privata, ivi compresi avvenimenti che hanno preceduto o hanno seguito i fatti oggetto dei capi di imputazione.

Le frasi considerate colpevolizzanti e moralizzatrici dalla Corte, di conseguenza, e in questa prospettiva, sarebbero soltanto una "fotografia" di fatti e circostanze oggettive, e non dei giudizi di valore.

E l'uso del diritto penale, pur restando uno strumento essenziale per la lotta alla violenza, non dovrebbe essere sovrastimato per conseguire il diverso obiettivo di ridurre le disuguaglianze esistenti nella società.


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