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Violenza di genere, vittimizzazione secondaria e crimini sessuali

di Roberto Lombardi • lug 10, 2021

Una notte di fine luglio, a Firenze, una ragazza di ventidue anni consuma alcol e rapporti sessuali con numerosi suoi coetanei maschi. Secondo la versione di lei, si tratta di violenza sessuale di gruppo, secondo la versione dei ragazzi, si tratta di plurimi e contestuali rapporti consenzienti e consapevoli.

Una sentenza della Corte di appello ricostruisce i dettagli del fatto storico.

La sera prima, lasciato da solo a casa il suo convivente - un collega di studi universitari conosciuto all’Accademia dell’arte –, la ragazza si era recata con la sua bicicletta in zona Fortezza da Basso, alla manifestazione Firenze in fiera, e si era unita ad altre persone per fare baldoria, su invito di un amico con cui nel recente passato aveva avuto un rapporto sessuale occasionale.

L’atmosfera si “riscalda” quando la ragazza partecipa al gioco del toro meccanico, e tutti possono scorgere il paio di slip rossi che aveva indossato sotto la sua minigonna.

Beve alcol, nonostante la consapevolezza di non poterlo “reggere”, e flirta anche tramite contatto fisico (nella sentenza si parla di “strusciamenti”) con il gruppo di maschi di cui faceva parte anche l’amico che l’aveva invitata.

Poi tutti insieme escono dalla Fortezza.

I ragazzi del gruppo, tuttavia, non accompagnano cavallerescamente la loro compagna di “giochi” - che non si reggeva in piedi - alla sua bicicletta, bensì la palpeggiano per strada, la sospingono in situazione di minoranza (sette contro uno) contro un muro, e infine hanno rapporti a turno con lei sul sedile posteriore dell’auto di uno di loro.

La Corte di appello di Firenze non crede però alla versione della violenza sessuale di gruppo.

La documentazione sanitaria del Centro antiviolenza – al quale la ragazza si era rivolta a breve distanza dai fatti –, è troppo blanda (sintomi e lesioni ritenuti non compatibili con l’entità della violenza fisica che ci si sarebbe aspettati in una situazione del genere, così come descritta dalla ragazza); la condizione di inferiorità psichica e fisica, insussistente (il comportamento complessivo e lo stile di vita, disinibito e consapevole, della ragazza, oltre alla mancata prova di uno stato di vera e propria ubriachezza, testimonierebbero una costante "presenza a se stessa" anche nella notte della presunta violenza); il consenso alle “attenzioni” sessuali dei ragazzi non sarebbe mai stato revocato fino alla fine degli amplessi in auto (come “desunto” dal rapporto orale già consumato con altro soggetto quella stessa sera e dal comportamento disinibito sopra accennato, senza alcuna interruzione apprezzabile neanche nel corso dell’accompagnamento in auto, e con conclusione della vicenda tramite un semplice atto di volontà liberatorio); l’induzione a subire atti sessuali, non plausibile (in considerazione del fatto che il gruppo di maschi avrebbe soltanto “orientato” la ragazza ad un rapporto contestuale con tutti loro, male interpretando “la sua disponibilità precedente”, e senza abusare di uno stato fisico di inferiorità che, a detta della Corte di appello, non sarebbe stato provato).

Il tutto, condito da un “contorno” motivazionale sulla bisessualità dell’interessata, sulla sua difficile situazione familiare, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso - dedotto, tra l’altro, dal particolare interesse in materia artistica dimostrato con la scelta di prendere parte ad un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza -, sulla decisione di denunciare i fatti accaduti alla Fortezza da Basso come espressione di una presa di coscienza e di una energica reazione, “per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere”.

Questi i fatti. Questa la motivazione della sentenza, che ha chiuso con un’assoluzione collettiva la vicenda penale.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, però, ha recentemente condannato l’Italia (caso 5671/16, sentenza del 27 maggio 2021) per violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU, per mancata protezione dalla vittimizzazione secondaria di una donna che aveva denunciato uno stupro di gruppo.

Il caso è proprio quello descritto dalla sentenza della Corte di Appello di Firenze, la notte “brava” della Fortezza da Basso.

Secondo l’art. 8 della Convenzione EDU, ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Nel caso di reati a sfondo sessuale (cosiddetti atti sessuali “senza consenso”), l’articolo 8 della Convenzione, secondo la Corte, impone innanzitutto agli Stati contraenti l’obbligo positivo di adottare disposizioni penali sostanziali e processuali efficaci ed effettive, ivi comprese misure in grado di proteggere l’integrità fisica e morale delle persone.

Ovviamente, l’esigenza di effettività della tutela penale non impone che tutti i processi di questo tipo devono concludersi con una condanna, o con l’inflizione di una pena determinata, ma è necessario, secondo la Corte, che la procedura interna non lasci “impuniti” attentati all’integrità fisica e morale delle persone coinvolte.

E questo perché occorre preservare la fiducia dell’opinione pubblica nel rispetto della legalità, ed evitare qualsivoglia apparenza di complicità o di tolleranza dello Stato rispetto ad atti criminali.

Per rispettare l’art. 8 della Convenzione sotto il profilo dell’effettività della tutela penale, sono dunque ugualmente necessari velocità di “reazione” dell’ordinamento e accurato accertamento dei fatti.

D’altra parte, anche i diritti delle presunte vittime di reati coinvolte nel successivo processo penale sono protetti dall’articolo 8 della Convenzione, in quanto tale disposizione si pone l’obiettivo essenziale di proteggere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non accontentandosi di obbligare lo Stato  ad astenersi da tali ingerenze, ma anche costringendolo ad ottemperare ad obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata o familiare.

A tali fini, gli Stati contraenti devono organizzare le regole procedurali in campo penale in modo tale da non mettere indebitamente in pericolo la vita, la libertà o la sicurezza dei testimoni, e in particolare delle presunte vittime chiamate a deporre.

Gli interessi degli imputati/indagati devono pertanto essere sempre bilanciati con quelli del denunciante/testimone, e i procedimenti penali relativi a reati a sfondo sessuale – per l’interesse particolarmente sensibile connesso alla gravità del crimine commesso, se accertato – non devono trasformarsi in una nuova “prova” per la vittima.

Ne consegue che in tali procedimenti penali lo Stato deve stabilire e fare rispettare regole che proteggano in modo adeguato le presunte vittime, per evitare che le stesse divengano oggetto di una vittimizzazione secondaria.

In particolare, e nello stesso senso, la violenza contro le donne (così come la violenza domestica) è al centro di una complessiva tutela convenzionale molto importante (si veda ad esempio la Convenzione del Consiglio di Europa avente lo stesso oggetto), che obbliga le parti contraenti a prendere le misure legislative necessarie per proteggere i diritti e gli interessi delle vittime, e in particolare per mettere le persone offese al riparo dai rischi di intimidazione e di nuova vittimizzazione, permettendo loro di essere ascoltate con le dovute cautele e di mettere al centro del processo il loro punto di vista e la loro sensibilità, senza paura di subire intimidazioni, ritorsioni o comunque ulteriori “aggressioni” veicolate dall’autorità pubblica che nel processo deve proteggerle.

Nel caso della Fortezza da Basso, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel verificare se il contenuto delle motivazioni addotte in sentenza dal Giudice nazionale abbia “minato” il diritto al rispetto della vita privata e della libertà sessuale della giovane donna coinvolta nella vicenda giudiziaria, ha espresso un deciso giudizio negativo nei confronti dell'autorità pubblica procedente.

Secondo la Corte, vi sono numerosi passaggi motivazionali, nella sentenza della Corte di Appello di Firenze, che alludono impropriamente alla vita personale e intima della persona offesa.

In particolare, la Corte reputa “deplorevole e irrilevante” il “contorno” motivazionale sulla bisessualità dell’interessata, sulle sue relazioni sentimentali e sui suoi rapporti sessuali prima dei fatti, sull’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, dedotto, tra l’altro, dall’interesse in materia artistica; deplorevoli e irrilevanti sono stati considerati, altresì, il riferimento in sentenza alla scelta di prendere parte a un cortometraggio intriso di scene di sesso e di violenza, l’interpretazione della decisione di denunciare i fatti accaduti alla Fortezza da Basso come “risposta ad un momento di debolezza e fragilità da censurare”, e l’accenno ad una “vita non lineare”.

Così come pare alla Corte europea ingiustificata la rievocazione della lingerie rossa “mostrata” dalla giovane donna durante la serata, ritenendo che il richiamo in sentenza a tali particolari non fosse per nulla utile alla valutazione della credibilità della denunciante.

In altri termini, si chiedono i Giudici, quale interesse vi era, ai fini dell’apprezzamento della genuinità del racconto dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati, a diffondersi in sentenza sulla condizione familiare della denunciante, sulle sue relazioni sentimentali, sui suoi orientamenti sessuali o ancora sulle sue scelte di abbigliamento e sull’oggetto delle sue attività artistiche e culturali?

L’obbligo positivo di proteggere le vittime presunte di violenze di genere impone un corrispondente dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di costoro, ivi compresa la non divulgazione di informazioni e di dati personali non aventi relazione diretta con i fatti.

Quest’obbligo è d’altra parte inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale e da varie convenzioni internazionali, comportando la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni – che sono una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia – ma entro i limiti dell’obbligo primario di proteggere sempre l’immagine e la vita privata dei soggetti coinvolti nelle relative vicende giudiziarie da qualsiasi violazione ingiustificata.

Secondo i Giudici europei, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte di Appello di Firenze hanno veicolato nel singolo caso i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che sono potenzialmente idonei ad ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere, in linea con quanto risultato dal settimo rapporto sull’Italia redatto dal comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne.

Persisterebbero nella società italiana, secondo questo rapporto, stereotipi sul ruolo delle donne e una resistenza a favorire l’eguaglianza tra i sessi, favorita dalla eventuale riproduzione di pregiudizi sessisti nelle decisioni giudiziarie, quando invece le autorità pubbliche – tutte, nessuna escluse – dovrebbero ridurre al minimo le violenze di genere ed evitare di esporre le donna a una vittimizzazione secondaria tramite l’utilizzo di argomenti ed espressioni colpevolizzanti e moralizzatori che rischiano, infine, di scoraggiare la fiducia che le reali vittime di abusi devono avere nella giustizia . 

La motivazione della sentenza che ha assolto gli imputati dal reato di violenza sessuale di gruppo può essere di per sé giusta o sbagliata nel merito dei fatti loro contestati, e deve essere sempre e comunque rispettata perché sostituisce alla verità storica una verità processuale divenuta ormai incontestabile. 

Tuttavia, parte del contenuto di quella stessa motivazione, per le espressioni utilizzate, costituisce violazione degli obblighi positivi che si impongono sullo Stato nazionale ai sensi dell’art. 8 della Convenzione sui diritti dell’uomo, perché la denunciante è stata esposta ad una vittimizzazione secondaria amplificata dalla natura pubblica della sentenza di assoluzione.

Una piccola annotazione a margine. Si può banalmente dedurre che in una società maschilista le violenze di genere siano commesse soltanto da uomini.

Peccato, però, che la sentenza della Corte di Appello - a causa della quale siamo stati etichettati in Europa come figli di una società “retrograda” - sia stata scritta da una donna.



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