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Spigolature 7. L'astrattismo ideologico dei diritti umani

Sergio Conti • gen 29, 2023

Si propone la lettura del “ritratto” del filosofo e storico del diritto francese Michel Villey, contenuto nell'articolo di Antonio Casciano che è pubblicato sul sito del Centro studi Livatino (reperibile all'indirizzo https://www.centrostudilivatino.it/30-michel-villey-per-un-ritorno-al-reale-contro-lastrattismo-ideologico-dei-diritti-umani/).


La decisa opposizione al riduzionismo, onto-teleologico, prima ancora che teoretico, operato dal positivismo giuridico, inidoneo a cogliere l’esistenza delle cause finali; il disconoscimento del primato della prassi, a discapito dell’orizzonte speculativo del pensiero teoretico; il richiamo alla conflittualità del reale, in vista dell’esatta definizione del ruolo del giurista pratico, la cui mediazione culturale attua la natura “politica” del diritto; la fiera avversione ai portati estremi del soggettivismo giuridico odierno; la critica alla montante retorica del pan-dirittismo sotteso della moderne dichiarazioni di “diritti umani”, collocano il Villey nell’orizzonte dei pensatori rimasti fedeli al realismo analitico-metafisico di matrice aristotelico-tomista, in antitesi al volontarismo di matrice agostiniana, per arginare lo sfaldamento in atto del pensiero giuridico classico.

Si riportano due stralci dell'articolo:


(...)

2. L’orizzonte teoretico entro cui si svolse la sua riflessione – volta alla riscoperta dei fondamenti, delle categorie e dei fini del diritto – postulava tre distinti assunti epistemologici, rappresentati, rispettivamente, dall’opera di osservazione e conoscenza di Aristotele, dalla giurisprudenza romana d’età repubblicana e dal realismo metafisico-analitico di Tommaso d’Aquino. Né il platonismo, né lo stoicismo assursero mai, agli occhi di Villey, a modelli epistemologici utili a fondare il sapere giuridico nella peculiare forma proposta dai giuristi romani, i quali, ne fossero o meno consapevoli, erano per il Nostro autentici aristotelici ante litteram: la funzione che per essi la iurisprudentia era chiamata ad assolvere era infatti in tutto e per tutto assimilabile a quella che Aristotele avrebbe attribuito alla giustizia, quella cioè di addivenire alla retta determinazione del giusto, naturalmente esistente nell’ordine stesso delle cose, attraverso l’attribuzione dei beni controversi tra i consociati.

Ecco allora che proprio nell’Etica a Nicomaco (libro V), così come nell’insegnamento giurisprudenziale romano tardo-repubblicano (rappresentato dallo ius civile casistico) e in alcuni passi della Summa dell’Aquinate (il Trattato sulle Leggi ed il Trattato sulla Giustizia nella Secunda Secundae), Villey individuerà i presupposti teorici necessari a conseguire un’esatta definizione di che cosa sia veramente giusto. Una definizione, questa, mai determinabile in astratto, ma rintracciabile a partire da un’attenta interrogazione del caso concreto, essendo la ragione giuridica non una ragione formale, ma pur dialettica, che muove dal constatare le antitesi e le contraddizioni presenti nella realtà, in vista, appunto, della determinazione, ad opera del giudice, del giusto per il caso specificamente vagliato.

3. In vista di ciò, tuttavia, le regole giuridiche rivestiranno un ruolo puramente accessorio, dovendo l’operatività della norma scritta essere pur sempre pensata in relazione al caso concreto. Realizzare il contrario, infatti, partire cioè da una formula giuridica astratta per giungere ad incasellare induttivamente la varietà del reale, non permetterebbe di pervenire al giusto, al diritto naturale oggettivamente inteso. Fondamentale, in tal senso, è allora la preliminare, attenta, giusta osservazione delle cose da parte dell’operatore pratico del diritto. La legge, infatti, è sempre interpretata, sempre discussa: “Se è vero che apparentemente il giudice d’oggi emette la sua sentenza sotto forma di sillogismo, di fatto il suo lavoro consiste, per la maggior parte, nella ricerca delle premesse di questo apparente sillogismo, nella scelta dei testi che serviranno a fondare la sua decisione e nella ricerca del senso da dare a questi testi, ciò che si chiama interpretazione”.

Eppure, l’operazione ermeneutica compiuta dall’operatore pratico del diritto, dato il carattere comunque limitato della conoscenza umana, sarà sempre incompleta, contingente, parziale: il giurista estrapolerà dalla natura delle cose alcuni elementi particolarmente evocativi, denotativi, significativi, senza tuttavia mai conoscere a fondo tutto ciò che costituisce l’ordine finalistico, che rimarrà per la sua gran parte ignoto. E lo farà attraverso l’ausilio della ragione.



7. Tra spirito classico e spirito romantico (o, se si preferisce, tra giusnaturalismo classico e volontarismo giuridico moderno), non esiste possibilità alcuna di mediazione. Anzi, proprio presagendo l’insuperabilità di tale antinomia, esacerbata dal solipsismo epistemologico di matrice cartesiana, consacrato dalla modernità, il Nostro sarà portato, in un testo poco noto, Le droit et les droits de l’homme (1983), a ribadire la sua convinzione di fondo circa la fragilità del fondamento volontaristico del pan-dirittismo multiculturalista odierno. La retorica montante delle “magnifiche sorti e progressive” dei diritti umani rinvierebbe, ad avviso del Nostro, a mere dichiarazioni di principio e non a veri diritti. Nella prospettiva villeyana, infatti, i diritti umani e il loro linguaggio, si costituirebbero, non solo strumentalmente, come la punta di diamante, il portato ultimo dell’elaborazione dottrinale del diritto soggettivo, la frontiera teorica più avanzata del soggettivismo giuridico moderno, radicalizzandosi in istanze di potere, facoltà e libertà che “naturalmente” scaturenti dall’individuo stesso, giungono a farsi sistema ed ideologia: “Purtroppo siamo a questo punto: tutti – i sindacati, le donne, i disabili – hanno preso l’abitudine di calcolare i loro diritti in base all’unica considerazione narcisistica di se stessi e di sé soltanto. Per questa via, a partire dal soggetto Uomo e senza riguardo per la natura politica e sociale “degli” uomini, nacquero i diritti dell’Uomo, infiniti: “felicità”, “salute”, diritto di possedere una cosa totalmente, a proprio esclusivo beneficio, libertà perfette. Ecco il punto di vista del soggetto! Ma sono false promesse, impossibili da mantenere, irreali, ideologiche”.

8. Se guardiamo, infatti, alla loro genesi storica, questi diritti, pur essendo un prodotto della tarda modernità, avrebbero ricevuto, a detta di Villey, un impulso determinante proprio ad opera della teologia cristiana, a dire che le ragioni profonde del trionfo del volontarismo giuridico, in voga nell’odierna società della giuridicizzazione dei desideri, non sarebbero teoretiche, bensì storiche. E oltre alla significativa dote apportata sul punto dalla riflessione teologico-cristiana, vi è stata un’eredità ben più pesante, risalente al XVII secolo, che ha contributo più direttamente alla nascita di questa tipologia di diritti: la dottrina giusrazionalistica di John Locke. Questo primo e piccolo nucleo di proto-diritti naturali, per lo più afferenti alla sfera della proprietà delle cose individuali e di quelle prodotte per mezzo del proprio lavoro, assurse ben presto a base teorica generale per la stesura, a distanza di circa un secolo, della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Sarebbe stato proprio il carattere mistificatorio, astratto, idealistico dei diritti inalienabili, formulato degli intellettuali rivoluzionari, a fungere da base teorica per le proclamazioni universali successive avutesi a livello planetario, tutte univocamente informate tanto ad un’idea falsata della giustizia e della sovranità popolare, quanto alla concezione dei diritti dell’uomo come frutto del paradigma progressivo ed evolutivo dell’umanità.



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