Spigolature 34. Oltre Agamben: Stato e nichilismo

Sergio Conti • 10 luglio 2025

Come anticipato nel numero 33 di Spigolature, con la presente segnalazione si fissa l'obiettivo sulla parte finale del saggio di Giulio Pignatti intitolato “Agamben, homo sacer e l’emersione del «vincolo segreto» biopolitico nell’età contemporanea”.

Lo scritto, si rammenta, è pubblicato su “In Circolo rivista di filosofia e culture” n. 7 – Giugno 2019 ed è rinvenibile online all'indirizzo https://www.incircolorivistafilosofica.it/wp-content/uploads/2019/07/Pignatti-Agamben-Homo-sacer-n.7.pdf .

L'Autore – dopo avere esposto la genesi della nozione di biopolitica e il pensiero sviluppato al riguardo da Giorgio Agamben – prospetta uno sviluppo possibile delle tesi sulla biopolitica basato sul collegamento fra questa e l'affermarsi del nichilismo.


Pignatti così condensa la sua analisi:

“La tesi di fondo è che l’emersione e la normalizzazione del vincolo biopolitico sia frutto del fatto che, con il nichilismo, nel Novecento il concetto di uomo perda qualsiasi altra caratterizzazione (valoriale, culturale, naturale, religiosa, etc.) che non sia la semplice evidenza biologica – cioè il semplice fatto incontrovertibile della sua nascita e della sua morte. Il potere sovrano, d’altro canto, perde anch’esso qualsiasi giustificazione che lo possa ancorare in maniera necessaria all’individuo e alla sua natura, e quindi, spogliato di tutto, mantiene la sola forma, cioè la violenza coercitiva.”


Nel rinviare necessariamente al testo del saggio per una comprensione del percorso argomentativo seguito, si riportano di seguito alcuni passaggi significativi, utili a stimolare l'interesse del lettore della presente Spigolatura.

Parlare del significato del nichilismo e delle sue conseguenze sul sostrato culturale del nostro mondo vuol dire necessariamente riferirsi alla filosofia di Friedrich Nietzsche. Egli può essere considerato – e così si considerava lui stesso – il profeta della temperie culturale che stiamo vivendo: la sentenza «Dio è morto» non è frutto né di un una dimostrazione né di una volontà, bensì è un annuncio, che non fa altro che esplicitare e portare a consapevolezza un evento che già era maturato nel sottosuolo filosofico.

Ma che cosa resta dopo la morte di Dio, cioè dopo il crollo di ogni struttura interpretativa o teleologica che pretenda di costituirsi come definitiva, eterna ed immutabile? Scrive Franco Volpi nel suo libro sul nichilismo, rifacendosi espressamente a Nietzsche, che il nichilismo subentra di necessità come stato psicologico quando le grandi categorie con le quali si era introdotto nel mondo un principio organizzatore e si era dato un senso al divenire vengono erose dal sospetto che ad alimentarle fosse semplicemente l'inconscia autoillusione di cui la vita umana si serve per sopravvivere.

L’evidenza fondamentale del nichilismo – l’unica –, e quindi l’evidenza fondamentale del Novecento, che si presenta nella coscienza di tutti gli individui e di fronte alla quale al massimo si può mettere in atto un tentativo di autoillusione ma che di certo non si può confutare, è il divenire. È in forza del divenire stesso – caotico e insensato – che le grandi strutture della tradizione metafisica (morale, teologia, ontologia, etc.) vengono abbattute e trascinate via. Il significato della costruzione del gigantesco edificio della cultura occidentale risiedeva, almeno in parte, nel «predisporre un rimedio e una difesa contro la minaccia e il terrore del divenire».


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Ma qual è la specificità del divenire, che ora appare come elemento puro e originario, spogliato di qualsiasi maglia interpretativa? Severino, che a lungo si è soffermato sull’analisi del concetto di divenire, scrive che esso sostanzialmente è «l’uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo». Le cose, spogliate da qualsiasi interpretazione ulteriore, al massimo della loro nudità semplicemente vengono all’essere dal nulla e al nulla ritornano. È in questo che consiste il carattere tremendo e inquietante, su cui tanto insistono sia Severino che Nietzsche, del divenire e quindi del nichilismo.


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Agamben riporta l’opinione diffusa per la quale «la teoria dello stato di eccezione si risolve integralmente in quella dello status necessitatis, in modo che il giudizio sulla sussistenza di questo esaurisce il problema della legittimità di quello»: dal momento che necessitas legem non habet, allora nécessité fait loi. Sia nel Decretum di Graziano – il primo luogo in cui compare questa teoria – che in Tommaso d’Aquino l’idea è che la necessità non legittimi tanto il rendere lecito l’illecito (che è il principio dello stato di eccezione contemporaneo), quanto piuttosto che giustifichi un singolo caso eccezionale rispetto all’applicazione letterale della norma. Come mette in luce Agamben, il motivo di tale visione delle cose risiede nel fatto che il fondamento ultimo dell’eccezione non è qui la necessità, ma il principio secondo cui «ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini, e solo per questo ha forza e ragione di legge [vim et rationem legis]; se viene meno a ciò, non ha efficacia obbligatoria [virtutem obligandi non habet]». Nel caso di necessità, la vis obligandi della legge viene meno, perché il fine della salus hominum viene nella fattispecie a mancare. È evidente che non si tratta qui di uno status, di una situazione dell’ordine giuridico come tale (lo stato di eccezione o di necessità), ma ogni volta di un caso singolo, in cui vis e ratio della legge non trovano applicazione.


Il fine del diritto è sempre il bene comune, tanto che Dante, nel De monarchia, scrive che «chiunque si propone di raggiungere il fine del diritto, deve procedere con il diritto» (II, 5, 22). Il senso di questa frase apparentemente tautologica è che va respinta quell’idea – caratterizzante, invece, la nostra epoca contemporanea – per la quale una sospensione del diritto può giovare al bene comune. L’eccezione, in questo modello di legge sempre ancorata a un Bene saldo e vero, serve solamente a coprire la falla della non totale aderenza della legge a tale Bene e a risolvere il problema (antichissimo) dell’applicazione alla molteplicità e particolarità dei casi singoli.

Lo Stato, dunque, aveva, nell’epoca metafisica, una propria determinazione di contenuto, cioè si poggiava su una certa idea di Bene e di Verità. Il sistema politico era tutt’uno con la determinazione “metafisica” dell’uomo di cui parlavamo sopra: posta una certa idea della natura umana, allora anche lo Stato doveva essere costruito in un certo modo. Posta l’idea dell’uomo come essere razionale, a capo dello Stato ci devono essere i filosofi; posta l’idea dell’uomo come creatura di Dio, lo Stato deve essere sottoposto anche alle norme religiose. In tal senso la legge non appariva come violenta, in quanto era una espressione dell’armonia naturale del mondo e della comunità.


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Ciò che accade con l’avvento del nichilismo è che tramonta la possibilità di determinare un Bene saldo e vero a cui “agganciare” la legge e l’ordinamento, né vi è una definizione possibile della natura dell’uomo, se non quella che si appella al dato meramente biologico. Pertanto, così come gli edifici metafisici vengono sgretolati dalla forza del divenire, nell’idea che «il rimedio è stato peggio del male», così, in maniera perfettamente parallela, «lo Stato finisce per omologare nell’obbedienza forzata quegli stessi individui che intendeva liberare».


Lo Stato – e le istituzioni in generale – non hanno più una determinazione né del Bene né dell’umano su cui giustificarsi e alla quale ancorarsi, e pertanto perdono qualsiasi carattere positivo; abbiamo infatti detto che il divenire è ciò che trascina via e annichilisce qualsiasi positum che pretenda definitività e saldezza. Ciò che rimane è solamente il carattere negativo. Lo Stato postmoderno, nell’epoca del nichilismo, è uno Stato in cui sussiste solamente la vis obligandi, la violenza coercitiva, privata di qualsiasi ratio, cioè qualsiasi relazione al bene della comunità e al salus hominum, per usare il linguaggio di Tommaso.


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Lo stato di necessità legittima l’instaurazione di uno stato di eccezione che «si presenta come l’apertura nell’ordinamento di una lacuna fittizia allo scopo di salvaguardare l’esistenza della norma e la sua applicabilità nella situazione normale»98. L’aporia risiede però nel fatto che la situazione di necessità, soprattutto nell’epoca postmoderna, segnata dal prospettivismo (nella forma quanto mai attuale della “post-verità”) e dal relativismo, è tutt’altro che una situazione oggettiva. Fondamentale è comprendere che il ricorso alla necessità implica una valutazione morale o politica (o, comunque, extragiuridica) per la quale si giudica l’ordine giuridico e lo si ritiene degno di conservazione o di potenziamento anche a prezzo di una sua eventuale violazione. Il principio della necessità è, pertanto, sempre, in ogni caso, un principio rivoluzionario. Lo stato di necessità diventa pertanto – si capisce – una sorta di dispositivo di autoconservazione dell’ordinamento. Lo Stato postmoderno, infatti, non è legittimato da alcunché, perché una legittimazione presupporrebbe una giustificazione per natura, che è l’assolutamente impossibile dopo quel punto di non ritorno rappresentato dalla “morte di Dio”.


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Ciò che accade nello stato di eccezione è che si liberi la pura violenza, la forza-di legge, che – Agamben questo lo dice espressamente – non appartiene fin da subito al sovrano, ma «fluttua come un elemento indeterminato»; è la «posta in gioco».

L’autorità statale è semplicemente la struttura che se ne impadronisce più velocemente – ma è un gioco rischioso, come testimonia l’ascesa al potere di Hitler, avvenuta in un periodo in cui lo stato di eccezione era ripetutamente utilizzato dalla repubblica di Weimar. In ogni caso questo “gioco rischioso” è l’unico modo da parte dell’ordinamento di perpetrarsi senza una legittimazione “metafisica”. Via via che la forza dissolutiva del nichilismo si radicalizza, lo stato di eccezione deve essere normalizzato. La conseguenza prima, anche se collaterale, di questo processo è che l’uomo, esposto nella sua nuda vita alla nuda essenza dell’ordinamento, alla pura forma negativa priva di alcun contenuto positivo della coercizione, alla vis obligandi di una legge posta dall’arbitrarietà e autoperpetrantesi, vede stringersi al collo il cappio della «pura signoria di fatto» del biopotere.

Ma, allo stesso tempo, dal momento che la normalizzazione dello stato di eccezione costituisce il massimo rischio della dissoluzione dell’ordinamento, sempre più quella forza-di-legge fluttuante e indeterminata costituisce un’insidia per il potere costituito, un’arma a doppio taglio.