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Spigolature 14. Il fondamento del diritto e il rapporto con la forza

Sergio Conti • lug 17, 2023

Una delle domande fondamentali alla quale deve rispondere la filosofia del diritto è quella del fondamento su cui poggia il diritto.

Il tema è di ampio respiro e sarà oggetto anche di prossime segnalazioni.

Iniziamo ad affrontare l'argomento attraverso il pensiero di Emilio Betti, richiamando il contenuto in un articolo del prof. Massimo Brutti, già ordinario di diritto romano all'università la Sapienza di Roma: “Emilio Betti e l’incontro con il fascismo”, rinvenibile online all'indirizzo:

https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/05/Emilio-Betti-e-l%E2%80%99incontro-con-il-fascismo.pdf

Il prof. Brutti – che è stato anche un politico di rilievo (senatore del PDS per cinque legislature) – ha dedicato una serie di studi alla figura di Emilio Betti, giurista di fama mondiale non solo come romanista ma come teorico dell'interpretazione giuridica .


Nell'articolo che qui si propone all'attenzione dei lettori si affronta, con equilibrio e completezza, il tema scottante del rapporto fra il Betti e il fascismo, di cui fu sempre convinto sostenitore.

L'aspetto del complesso articolo (di cui consiglio la lettura integrale per l'interesse giuridico ma anche storico politico che riveste), che sotto riporto si focalizza sul tema di quale sia il fondamento sul quale si costruisce il diritto nell'esperienza giuridica romana, evidenziando come per il Betti esso vada individuato nella violenza.


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Il rapporto tra forza e diritto è trattato in un saggio del 1915: La ‘vindicatio’ romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo. Qui esplicitamente egli afferma che l’origine del diritto è nella violenza. Cita un testo assai letto in Italia, prima della guerra e dopo: le

Reflections sur la violence di Georges Sorel. Il libro verrà usato secondo versioni di sinistra e di destra. Molti, nel movimento fascista, a cominciare da Mussolini, si ispireranno a quelle pagine: alla loro intonazione attivistica, all’idea proteiforme del mito, motore dell’azione.

Quel che Betti ha in comune con l’ideologo francese è una rappresentazione della forza (la violenza che vince) quale base autentica ed immediata delle relazioni giuridiche. Come nell’imperium, che dura intatto a partire dal suo più antico manifestarsi, anche nel processo egli individua un dato originario, espresso con termini che evocano l’affermarsi di un potere di fatto sulle cose e sugli uomini. Prima dello ius.

Il processo romano e i congegni privatistici della proprietà e delle obbligazioni sono ricondotti alla vindicatio primitiva. Non una nozione certa, concettualmente definita nelle fonti, ma uno schema teorico col quale esse vengono interpretate. Vim dicare significa esercitare violenza:

designa un atto unilaterale, arbitrario, autoritario, mediante il quale si esercita la potestà su un oggetto. Le cose vengono strappate ed afferrate.

Le persone sono assoggettate. In entrambi i casi si realizza una immediata padronanza. Da qui nasce il diritto. E con questo le regole del contenzioso.

Ma sta di fatto che prima di ogni regola vi è soltanto la forza. La testimonianza delle fonti su questo dato originario è debole. Betti esclude dalla vis, in base ad alcune tracce linguistiche, ogni significato negativo. La forza è affermazione del potere di una parte. Diventa diritto oggettivo se prevale, se supera la propria relatività. Non si può dire che sia come tale qualcosa di antigiuridico. Bisogna vedere se è dominante o se soccombe di fronte a qualcosa che le si oppone.

Siamo di fronte – come Betti riconosce – ad una raffigurazione ipotetica, che non ha alcun elemento razionale di verifica, ma viene proposta per dare unità e senso alle vicende del diritto e del processo.

È una congettura che nasce dal nulla. Precede l’indagine storica e l’interpretazione dei testi. L’autore definisce «metodo sintetico» la via adottata nell’indagine: «si procede da ipotesi sull’ignoto alla deduzione del noto».

Per spiegare questo pensiero dell’ignoto, da cui fa discendere la narrazione, egli immagina, seguendo Croce, una gerarchia nella quale la forza precede necessariamente il diritto. Secondo Betti, lo instaura e gli è necessaria. È chiaro che qui si è al di fuori della storiografia. Piuttosto, si afferma la corrispondenza delle nozioni romane a valori essenziali e sovrastorici: da un lato la forza che si organizza nello Stato; dall’altro la stessa forza che si dispiega libera nella vita internazionale.

Il saggio traccia insomma una teoria generale (impiego l’espressione che sarà tante volte usata da Betti nei suoi studi), mettendo insieme esempi, riflessioni, richiami alle fonti romane, con una forte connotazione ideologica. La stessa di cui si servirà per interpretare gli accadimenti contemporanei.

«[…] La guerra – scrive – (o la rivoluzione) è il processo ove si constata la forza, si prova il diritto; dopo la guerra (o la rivoluzione) il diritto o resta a chi lo ha saputo difendere e mantenere, o passa a chi con la propria forza ha dimostrato più valide ragioni di averlo nel momento storico attuale; la

guerra (rivoluzione) insomma ristabilisce l’equilibrio tra la pretesa storica fondata su la forza presente e il diritto posseduto, nel caso che questo – come passato – non vi corrisponda più, non le sia più adeguato […]». Ed ancora: «[...] non esiste una volontà coattiva superiore agli Stati singoli»:

ciò rende revocabile ogni trattato internazionale. E conclude: «[…] ben pochi tra i moderni (per esempio Machiavelli e Bismarck) hanno avuto la perspicacia di riconoscere e la franchezza di professare verità così evidenti: la maggioranza opera ancora oggi con vieti concetti di legalità formale, di moralità, di giustizia; ma il tribunale competente per certi giudizi non è

quello della morale o del diritto privato, bensì quello della storia mondiate al lume della quale vengono vagliate le forze contrastanti degli Stato o delle classi».



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