Blog Layout

L'ultimo miglio: dal piano al passaporto vaccinale

a cura di Roberto Lombardi • apr 10, 2021

Siamo all’ultimo miglio. O forse no.

Tutto è cominciato il 27 dicembre 2020 con il V-Day. Avrebbe dovuto essere il “vaccine day” in Italia e in Europa, da non confondere con l’altro V-day di Grillo. Ma poi la cronaca di quello che è accaduto in seguito ha accostato beffardamente i due diversi eventi. Come avremmo dovuto forse capire subito dalla vaccinazione “pubblica” del Presidente della Regione Campania. 

Il 2 gennaio 2021 il Ministero della Salute ha approvato con decreto il primo piano vaccinale anticovid, quello che era stato predisposto e poi aggiornato il 12 dicembre 2020.

Si tratta di una “sintesi delle linee di indirizzo” in tema di target, attori e operatività della campagna vaccinale nazionale.

Con l’approvazione della legge di bilancio per il 2021, dal comma 457 in poi dell’art. 1 della L. n. 178 del 2020, sono state contemporaneamente descritte le regole fondamentali in materia di vaccinazione anti-Covid.

Lo Stato ha lasciato alle Regioni l’attuazione della campagna vaccinale, con potere sostitutivo del Commissario all’Emergenza, che all’epoca era ancora Arcuri. 

Il primo piano strategico dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 adottato con D.M. del 2 gennaio 2021 era molto generico, fatta eccezione per le categorie che sicuramente si sarebbero dovute vaccinare nella prima fase (anche se ancora volontariamente e non obbligatoriamente): operatori sanitari e sociosanitari, personale e ospiti delle RSA, ultraottantenni.

Si è cominciato con gli operatori sanitari e sociosanitari, tutti gli operatori sanitari e sociosanitari, anche quelli che lavoravano allo sportello di un ente privato accreditato, anche quelli senza alcun contatto diretto con i pazienti. Eppure nel piano vi era scritto operatori “in prima linea”.

E intanto i “meno giovani” continuavano ad ammalarsi e morire, perché estromessi per motivi di “comodità” dalla prima, effettiva fase di somministrazione (era molto più facile e immediato vaccinare direttamente i soggetti già presenti in ospedale e nelle Aziende sanitarie piuttosto che convocare prioritariamente i soggetti più fragili).

Ma tanto avremmo dovuto essere “inondati da centinaia di milioni di vaccini” (così l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte a ottobre 2020).

Abbiamo però scoperto nel frattempo due cose.

Le dosi fornite sono state di gran lunga inferiori a quelle promesse e molti soggetti non appartenenti a nessuna delle categorie prioritarie (giuste e sbagliate che siano state, nella loro individuazione) si sono vaccinati tramite una corsia preferenziale. Siamo pur sempre in Italia, d’altra parte.

Ad esempio, il giorno dell’Epifania, la cronaca giudiziaria ci ha svelato che in Sicilia alcune persone non rientranti in nessuna delle categorie prioritarie si sono trovate “inaspettatamente” a ricevere il vaccino pfizer mentre passavano dinanzi a un ospedale.

Poi la Direzione sanitaria regionale è corsa ai ripari e ha disposto che non avrebbero ricevuto la seconda dose.

Il 6 febbraio 2021 sono arrivate le prime dosi di Astrazeneca a Pratica di Mare. Sembrava fatta. E invece no. AIFA lo riserva originariamente ai soggetti con età inferiore ai 55 anni, per la asserita mancanza di dati clinici sperimentali adeguati nella popolazione più anziana.

Quindi si apre una doppia corsia nel piano vaccinale, Pfizer e Moderna agli ultraottantenni e Astrazeneca agli under 55.

Ma tra gli under 55 le Regioni sono libere di scegliere chi vaccinare. Si va allora per categorie, secondo il fumoso disposto del piano vaccinale dell’epoca, aggiornato alla singolare nota con cui il Ministro della Salute, in data 8 febbraio 2021, ha stabilito le “priorità” per la seconda fase.

Tra le categorie prioritarie, non meglio specificata, spunta il “personale di altri servizi essenziali”.

Il diavolo si annida nei dettagli, e in questo caso l’elemento debole della catena ministeriale era tutto nelle categorie prioritarie individuate dall’aggiornamento del piano vaccinale effettuato l’8 febbraio 2021, con particolare riferimento alla sesta fascia.

Inizialmente, solo tale fascia, tra cui rientravano i soggetti in buone condizioni tra i 18 e i 54 anni, concorreva alla vaccinazione insieme agli ultraottantenni, proprio perché la limitazione di età stabilita per l’iniezione del medicinale prodotto da Astrazeneca aveva riservato di fatto la disponibilità immediata del suddetto medicinale alla categoria di popolazione considerata meno a rischio dallo stesso Ministero della Salute.

E’ restata così nella disponibilità delle Regioni la decisione di individuare chi fosse all'interno delle categorie prioritarie della sesta fascia prevista dall'aggiornamento del piano vaccinale, e in particolare quali fossero i soggetti appartenenti al “personale di altri servizi essenziali”, da immunizzare subito dopo (o subito prima, a seconda dei gusti) “il personale scolastico e universitario docente e non docente, le forze armate e di polizia”, e i “setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità”.

Si trattava dunque di un insieme generico e non facilmente individuabile, che lasciava un grande e paradossale spazio di libertà alle Regioni, ai limiti dell’arbitrio.

Scopriamo così, tra l’altro, che in Toscana sono stati vaccinati, con questo sistema, anche praticanti avvocati di 26 anni.

Il target di età di somministrazione del vaccino Astrazeneca viene intanto rivisto dall’AIFA (prima spostando l’età dai 65 anni in giù e poi eliminando del tutto il limite di età), ma la frittata ormai è fatta e le “categorie professionali” si sono mobilitate.

Soltanto con le raccomandazioni ad interim sui gruppi target del 10 marzo 2021 si rielaborano le categorie prioritarie e viene eliminato il “mostro giuridico” creato dall’evanescente categoria del personale dei servizi essenziali.

Resta comunque altamente discutibile avere continuato a mettere sullo stesso piano gli ultrasessantenni e il personale non docente scolastico e universitario, a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche di tale personale.

Per la serie: un anno di morti da covid-19 non è servito quasi a nulla, dal punto di vista dell’individuazione dei soggetti fragili. 

Le case farmaceutiche continuano intanto a fornire molte meno dosi di quelle promesse.

Si scopre allora anche che l’Europa ha contrattato male, pur avendo finanziato salatamente, tramite acconti sulle future forniture, la produzione dei vaccini, e che non vi sono strumenti contrattuali per “costringere” i produttori a rispettare gli impegni presi.

Il nuovo Governo Draghi prova allora con il blocco delle esportazioni di vaccini all’Australia. Ma si tratta di poche dosi.

Nel frattempo, Gran Bretagna, Stati Uniti e Israele – che hanno avuto accesso ai medesimi vaccini dell’Unione europea – implementano con forza la campagna vaccinale e ottengono risultati straordinari di calo dei contagi e dei morti.

Comincia a questo punto il dramma Astrazeneca.

Dopo che in Italia è stato finalmente aperto a tutti (e quindi anche dai 55 e 65 anni in su), il 15 marzo la Germania “impone” di fatto agli altri Paesi lo stop per casi di sospetta correlazione tra la somministrazione di quel vaccino ed episodi di trombosi venose cerebrali.

Lo sospendiamo, senza alcuna base scientifica “interna” – e su pressioni chiaramente politiche –, anche noi.

Qualche giorno di sospensione, prima del parere nuovamente favorevole alla somministrazione da parte di EMA, e crollo di immagine del vaccino Astrazeneca, che comincia ad incontrare formidabili resistenze tra i potenziali fruitori.

Passa qualche altra settimana, ed è notizia di pochi giorni fa che Astrazeneca – che nel frattempo ha cambiato nome e la cui fornitura continua ad essere largamente inferiore alle attese – viene “raccomandato” soltanto per gli ultrasessantenni, nonostante l’EMA avesse detto che l’introduzione di eventuali limitazioni anagrafiche avrebbe dovuto essere subordinata ad un’ampia disponibilità di vaccini (disponibilità che allo stato noi non abbiamo). 

Con questa ulteriore paradossale conseguenza: gli insegnanti “giovani” (under sessanta) che hanno fatto il vaccino Astrazeneca dovranno fare la seconda dose di questo stesso vaccino, nonostante per loro non sia più “indicato”.

I non più giovanissimi (over sessanta) dovranno invece fare Astrazeneca al posto di Pfizer e Moderna, nonostante gli effetti collaterali ordinari del primo siano per comune esperienza molto più pesanti (febbre alta e forti dolori).

Nel frattempo, le dosi continuano a non arrivare.

Il nuovo commissario all’Emergenza, il Generale Figliuolo, annuncia con cadenza regolare numeri di somministrazione che poi non corrispondono alla realtà.

Dovevamo arrivare a 300.000 dosi il 23 marzo (ma non è accaduto), dovremmo adesso arrivare a 500.000 dosi al giorno per il 15 aprile, ma la verità è che il giorno 8 eravamo ancora a 200.000 somministrazioni giornaliere, mentre Spagna, Francia e Germania superavano le 400.000 dosi (la Germania toccava addirittura una “punta” di somministrazioni di quasi 650.000 dosi).

Sorge spontanea però una domanda a questo punto: ma gli altri Paesi hanno anche più dosi di noi o sono soltanto più veloci? 

Scopriamo in ogni caso che il Presidente del Consiglio stima molto il suo Ministro della Salute. E meno male.

L’obiettivo della campagna di vaccinazione di massa sarebbe quello del raggiungimento dell’immunità di gregge, ma gli strumenti per il raggiungimento di tale obiettivo sono due, l’efficacia dei singoli vaccini e la velocità della campagna vaccinale.

Al momento ci siamo “incasinati” con il vaccino di cui abbiamo e avremo maggiore disponibilità (Astrazeneca), e corriamo contro vento nella somministrazione.

Abbiamo inoltre probabilmente sbagliato il target di popolazione da vaccinare con priorità e continuiamo a pagare dazio con tante, troppe morti. Mentre metà del Paese produttivo continua a restare fermo.

Ma allora si potrebbe investire un po’ di denaro per comprare sul mercato altri vaccini ed aumentare la capacità di somministrazione, se il problema è la disponibilità di vaccini.

Neanche questo si può.

Secondo la Commissione europea, Stati e Regioni membri dell’Unione europea non possono procedere con acquisti che vadano a ridurre gli stock già promessi dai produttori di vaccini tramite “accordi di acquisto preliminare”.

Nell’ambito dell’Unione è stato statuito, infatti, che la Commissione contratta unitariamente (cioè per tutti), con relativa impossibilità di contrattazione parallela da parte dei singoli Paesi, fatto salvo l’esercizio del diritto di “opt out” (una sorta di rinuncia all’accordo, con riespansione del potere statale “solitario” di contrattazione).

Sembra dunque paralizzato, al momento – con riferimento a questa specifica problematica – l’esercizio del potere-dovere che pure l’art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con L. n. 27 del 2020, ha conferito al Commissario all’Emergenza, ovvero di adottare ogni misura idonea a fronteggiare la pandemia, ivi compresa l’individuazione di risorse umane e, per quel che più interessa in questo momento storico, “l’acquisizione di farmaci”.

Il Governo non può in definitiva comprare altri vaccini e non riesce ad imporsi sulle Regioni per una corretta attuazione del piano vaccinale - anche se adesso Figliuolo ci riprova con una nuova, freschissima “direttiva” -, ma colpisce “duro” i medici no vax e impone loro la vaccinazione obbligatoria, salvo poi stigmatizzare in conferenza-stampa, per mezzo del Presidente del Consiglio dei Ministri, il fatto che un giovane soggetto “obbligato” non abbia lasciato la sua dose di vaccino a chi ne ha più bisogno. 

Nel frattempo, tuttavia, l’operosa Unione Europea non sta a guardare.

La Commissione, dopo il mezzo disastro nell’approvvigionamento di vaccini, comincia a pensare al dopo, alle vacanze estive. Al “passaporto vaccinale”.

E lo fa con una proposta di regolamento che paradossalmente ha l’obiettivo di ripristinare la libera circolazione delle persone in uno spazio fisico dove la libera circolazione delle persone è stata forse la prima e più importante conquista.

Stavolta, però, la libera circolazione delle persone, maltrattata in vario modo dai singoli Stati membri (emblematici sono stati al riguardo i due interventi del Governo e del Ministero della Salute italiani volti a “punire” chi andava a sciare o a fare vacanza pasquale nell’ambito dello “spazio Schengen”), è condizionata a un presupposto di natura sanitaria.

Il 25 marzo scorso il Parlamento europeo ha favorito l’accelerazione dell’adozione del “Certificato verde digitale” (così dovrebbe chiamarsi), applicando la procedura di urgenza di cui all’articolo 163 del suo Regolamento, che consente un esame parlamentare più rapido delle proposte delle Commissione.

La proposta di regolamento in questione è volta a stabilire una cornice ordinamentale per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione dalla COVID-19 - ai fini di agevolare l'esercizio del diritto di libera circolazione durante la pandemia di COVID-19 da parte dei loro titolari -, e vuole fornire la base giuridica per il trattamento dei dati personali necessari per rilasciare tali certificati e per il trattamento delle informazioni necessarie per comprovare e verificare l'autenticità e la validità di tali certificati.

Il certificato verde digitale non è altro, dunque, che un contenitore “centralizzato” – ai fini della interoperabilità fra le diverse soluzioni tecniche sviluppate dagli Stati membri – che stabilisce condizioni uniformi per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione dalla COVID-19.

I certificati sottostanti veri e propri, considerati tra di loro equivalenti, che dovrebbero consentire la libera circolazione, restano pertanto i seguenti:

a) un certificato comprovante che al titolare è stato somministrato un vaccino anti COVID-19 nello Stato membro di rilascio del certificato ("certificato di vaccinazione");

b) un certificato indicante il risultato per il titolare e la data di un test NAAT o di un test antigenico rapido, figurante nell'elenco comune e aggiornato dei test antigenici rapidi per la COVID-19 stabilito sulla base della raccomandazione 2021/C 24/01 del Consiglio21 ("certificato di test");

c) un certificato comprovante che il titolare risulta guarito da un'infezione da SARS-CoV-2 successivamente a un test NAAT positivo o un test antigenico rapido positivo, figurante nell'elenco comune e aggiornato dei test antigenici rapidi per la COVID-19 stabilito sulla base della raccomandazione 2021/C 24/01 ("certificato di guarigione").

Il regolamento non viene peraltro né inteso né rappresentato come un'agevolazione o un incentivo all'adozione di restrizioni alla libera circolazione durante la pandemia. Esso cerca piuttosto di fornire un quadro armonizzato per il riconoscimento dei certificati sanitari COVID-19 nel caso in cui uno Stato membro applichi tali restrizioni. Qualsiasi limitazione alla libera circolazione all'interno dell'UE, giustificata da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica, dovrebbe essere infatti necessaria, proporzionata e basata su criteri obiettivi e non discriminatori, anche se di competenza degli Stati membri.

Questi devono agire in conformità al diritto dell'UE, e mantengono in ogni caso “la flessibilità” di non introdurre restrizioni alla libera circolazione.

Per garantire l'interoperabilità e la parità di accesso, la Commissione ritiene necessario che gli Stati membri rilascino i certificati che costituiscono il certificato verde digitale in formato digitale o cartaceo, o in entrambi i formati. Ciò dovrebbe consentire al potenziale titolare di richiedere e ricevere una copia cartacea del certificato o di conservare e visualizzare il certificato su un dispositivo mobile. I certificati dovrebbero contenere un codice a barre interoperabile a lettura digitale, contenente i dati pertinenti relativi ai certificati stessi, mentre la loro l'autenticità, validità e integrità, anche a mezzo sigilli elettronici, dovrebbe essere garantita dai singoli Stati membri.

La proposta di regolamento si propone infine di evitare la discriminazione di persone che non sono vaccinate, ad esempio per motivi medici, o perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino è attualmente raccomandato, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate, stabilendo che il possesso di un certificato di vaccinazione, o di un certificato di vaccinazione che attesti l'uso di uno specifico medicinale vaccinale, non dovrebbe costituire una condizione preliminare per esercitare i diritti di libera circolazione.

In particolare, se le persone in questione sono in grado di dimostrare con altri mezzi il rispetto degli obblighi di legge relativi alla salute pubblica, il possesso del “passaporto vaccinale” non può essere una condizione preliminare per usare servizi di trasporto passeggeri transfrontalieri quali linee aeree, treni, pullman o traghetti.

Secondo la Commissione, il nuovo regolamento non può essere interpretato nel senso di istituire un obbligo o un diritto ad essere vaccinati.

Tutti devono potere continuare ad esercitare il diritto fondamentale alla libera circolazione, ove necessario assoggettandosi a restrizioni come un test obbligatorio e un periodo di quarantena/autoisolamento.

Il presupposto di questo ragionamento, però, è che si dà per scontato che le restrizioni alla libera circolazione dureranno e saranno tollerate ancora a lungo, e che su questo l’Unione europea ha fatto marcia indietro, piegandosi, più ancora che al virus, alla “improvvisazione” normativa dei singoli Governi.

Ne deriva che probabilmente vincerà anche questa estate, e chissà per quanto tempo ancora, il cosiddetto turismo di prossimità.

La vacanza nella casa isolata con piscina a pochi km di distanza, per chi se lo può permettere (milionari a parte).

Siamo tutti molto stanchi, ormai.

Siamo tutti un po’ come Carlito Brigante nella curva finale della sua formidabile avventura.

Ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo, il sole se ne va... Dove andiamo per colazione? Non troppo lontano.


Share by: